Il gallo, citato più volte nella commedia come simbolo di aggressività (vd. sezione A), fornisce di fatto un’utile guida agli attori: beccare, scalciare, procedere con la cresta alzata (cf. soprattutto Cav. 493-497 e Vespe 493-497) sono attitudini fisiche che, una volta trasposte, offrono un’efficace connotazione del personaggio.
Non è raro che gli attori raccolgano la suggestione. Mauro Avogadro ne fa pilastro portante delle sue Vespe prodotte all’Inda di Siracusa (2014): Filocleone (Antonello Fassari) assume – proprio nel momento in cui si prepara per i paradossali scontri nel tribunale domestico strumentalmente allestito dal figlio – la riconoscibile postura del gallo (con particolare utilizzo della tipica oscillazione avanti- indietro del capo, sottolineato dal profilo offerto al pubblico).
La celebre scena delle Nuvole (661-667) dedicata ai bizzarri insegnamenti linguistici di Socrate – che ritiene indispensabile soffermarsi sul genere dei nomi – offre invece un esempio delle difficoltà traduttive poste dal testo comico antico. Il neologismo ἀλεκτρύαινα (667), conio aristofaneo, doveva sortire nel pubblico un effetto di comica sorpresa; e una traduzione efficace dovrebbe ottenere il medesimo risultato. Grilli (2001) traduce l’opposizione ἀλεκτυών / ἀλεκτρύαινα come “pollone /pollessa” (propendendo così per un allontanamento del lessico quotidiano anche per ἀλεκτυών), mentre Romagnoli (1923) e Mastromarco (1983) optano per “pollo / polla” (scegliendo di rendere l’hápax aristofaneo con un termine non del tutto inaudito nell’italiano colloquiale).
A questo si aggiunga che al pubblico ateniese non doveva sfuggire anche un chiaro intento parodico: la disquisizione sul genere dei nomi era viva nel dibattito sofistico del tempo (De Carli 1971). Oggi un simile humus, che contribuiva all’effetto comico, è inevitabilmente perduto, e la responsabilità della traduzione nel non perdere il potenziale comico del passo aumenta. Nell’adattamento di Federico Zingaro (2014), che ha curato anche la regia per il Teatro Arcobaleno di Roma, viene recuperata l’idea di un’allusione alle auctoritates linguistiche e culturali degli spettatori: “come dice la Crusca: uno si chiama pollo, l’altra Signorapolla”.