Nella commedia, la presenza della figura del gallo è costante, sia per la sua funzione di segnalare l’alba con il canto, sia per la sua attitudine al combattimento e al comando, spesso impiegata quale termine di paragone nei contesti agonali. Nei Cavalieri, il servo invita il Salsicciaio a inghiottire l’aglio, di norma impiegato nei combattimenti dei galli per aumentarne l’aggressività, e lo esorta a divorare la cresta e i bargigli di Paflagone-Cleone prima dello scontro in assemblea (493-497): il combattimento tra galli è metafora dello scontro politico. Nel monologo che apre le Nuvole, Strepsiade si lamenta per la lunghezza della notte (4): «Eppure, è un bel po’ che ho sentito il gallo» (καὶ μὴν πάλαι γ’ ἀλεκτρυόνος ἤκουσ’ ἐγώ). Ancora nelle Nuvole, attorno al gallo Aristofane costruisce una scena comica esemplare dei futili insegnamenti di Socrate: sulla scia dell’indagine di Protagora sulla correttezza dei nomi [cfr. Corradi (2012, 166-175)], Socrate insegna a Strepsiade che il gallo “femmina” deve essere chiamata ἀλεκτρύαινα, nuovo conio di Aristofane (661-667). Al ritorno a casa, Strepsiade, con al seguito un servo che mostra in scena un gallo e una gallina, insegna a sua volta al figlio Fidippide il modo corretto di nominare i due uccelli rispettandone il genere; ma per pagare l’inutile sapere appreso da Socrate, nota Fidippide, Strepsiade ha perso il mantello (847-858). Nella scena finale delle Nuvole, emerge anche la caratterizzazione del gallo come combattente. Fidippide, ora divenuto allievo di Socrate, giustifica la legittimità di picchiare Strepsiade con l’esempio del gallo, che batte il padre senza alcuno scrupolo: la sola distinzione tra galli e uomini sono gli ψηφίσματα, «decreti», che gli uomini hanno scelto, leggi che però, sostiene Fidippide, possono essere mutate (1427-1429). Nelle Vespe, nel prologo di Santia, il servo racconta che il padrone Filocleone si adira con il gallo, anche quando canta non appena scende la notte, perché ritiene che si sia fatto corrompere dai magistrati per farlo ritardare ai processi (100-102).
Ancora nelle Vespe, emerge un ulteriore tratto che era attribuito al gallo: la capacità di digerire ogni possibile cibo grazie ad uno stomaco caldissimo. Per questo, al gallo è paragonato Filocleone che sarà in grado, grazie al suo stomaco, di digerire gli oboli per il processo (785-795). Nella scena in cui è preda della follia, Filocleone sfida i ballerini tragici e paragona se stesso a Frinico, il tragediografo oppure l’attore tragico figlio di Corocle [cfr. Mastromarco (1983, 556 n. 234)], che come un gallo «s’acquatta […] e scalcia con la zampa sino al cielo»: il gallo, ritratto ora in combattimento, è simbolo di aggressività e sfida. Ancora il combattimento tra galli [per la cui popolarità ad Atene, cfr. Hoffmann (1974)] è al centro di un equivoco nella scena che apre gli Uccelli: i protagonisti giungono alla porta di Tereo-Upupa e incontrano l’uccello che custodisce la porta. Il servo si presenta come ὄρνις δοῦλος, «uccello schiavo» ed Evelpide equivoca pensando si tratti di un uccello che ha perso il combattimento, ad Atene denominato di norma δοῦλος (69-70). Negli Uccelli, Pisetero impiega il gallo quale ulteriore prova della superiorità del genos degli uccelli sugli dei e sugli uomini (481-492): il gallo era il tiranno dei Persiani, prima di Dario e Megabazo, ed è chiamato per questo, ad Atene, Περσικὸς ὄρνις, «uccello persiano» [sulla possibilità che il comune gallo da cortile fosse stato importato in Grecia dalla Persia, cfr. Mastromarco-Totaro (2006) 168 n. 101]. Per questo, prosegue Evelpide, anche ora il gallo «incede come il Gran Re, portando, unico tra gli uccelli, la tiara ritta sulla testa» e, segno del suo antico potere, al suo canto mattutino «fabbri, vasai, conciapelli, calzolai, bagnini, mercanti di farina, tornitori di cetre e fabbricanti di scudi» si alzano e, ancora a notte fonda, «balzano in piedi per andare al lavoro». Nelle Rane, Eschilo si profonde in una estesa monodia che, con ogni probabilità, non rielabora materiale propriamente euripideo ma realizza una parodia del tropos che Euripide adottava nelle sezioni monodiche. Un’eroina lamenta un profondo dolore che si rivela ridicolo: si tratta di una filatrice alla quale, una vicina, di nome Glice [il nome è diffuso in commedia; cfr. Mastromarco-Totaro (2006, 687 n. 216)] ha rubato il gallo. Il gallo crea il voluto contrasto comico fra la dizione tragica e la situazione di bassa quotidianità che la monodia descrive, in accordo con il ritratto di Euripide nelle Rane, il poeta nuovo deturpa la tragedia introducendovi gli οἰκεῖα πράγματα. Nelle Ecclesiazuse, il secondo gallo del canto è il segno dell’arrivo in ritardo all’assemblea (391). In un frammento di Eraclide comico (IV sec.; fr. 1. K.-A.), il generale ateniese Carete celebra con un pasto in comune la vittoria su Adeo, mercenario di Filippo, detto «il Gallo». Il soprannome del generale macedone permette ad Eraclide molteplici giochi verbali sulla sconfitta in battaglia rappresentata come una sconfitta nel combattimento tra galli: il riferimento al λόφος, «cresta» sia del gallo sia dell’elmo, il verbo κόπτω, «batto, taglio» impiegato di norma per la lotta tra galli, la qualifica di γενναῖος attribuita anche al gallo vincitore [cfr. Borthwick (1966)].
Mario Regali © 2016