Gallo nell’erudizione

Il fatto che il gallo fosse un elemento comune nella vita di un Ateniese del V secolo è forse una delle ragioni per cui esso è così presente nella Commedia Antica, sia in riferimento a pratiche sociali molto diffuse che a metafore e a giochi di parole: i commentari alle singole pièces, in effetti, dovevano essere ricchi di aneddoti o esegesi che riconducevano ai realia del​l’Atene di quel periodo, tanto che molto di questo materiale ha lasciato tracce negli scoli e nella tradizione erudita in genere. Sicuramente, una delle usanze più celebri e popolari fra gli Ateniesi doveva essere il combattimento fra galli, dato che esso è richiamato negli AcarnesiCavalieriUccelli Rane di Aristofane (sul combattimento dei galli, cfr. Dumont 1988). Lo scolio vetus 166a agli Acarnesi, ad esempio, allude al fatto che ai galli era dato da mangiare dell’aglio, in quanto si riteneva che tale alimento li rendesse più bellicosi: la notazione antica concerne il verbo σκοροδίζειν, usato da Teoro per indicare che i soldati Traci portati in assemblea, rubato l’aglio a Diceopoli, sono divenuti grazie a esso ancora più eccitati e pericolosi. Tale alimento ricompare nell’agone dei Cavalieri, quando, prima di affrontare lo scontro con Paflagone, il servo dà al Salsicciaio dell’aglio (v. 494) perché combatta meglio, consig​ liandolo di beccare l’avvers​ ario (δάκνειν), di divorarne la cresta e di mangiargli i bargigli (su κάλλαια, cf. schol. Tr. 497c, considerati una specie di barba dei galli): lo scolio vetus Tricli​nia​num spiega questa scena come una metafora fondata sui combattimenti fra galli. La stessa metafora è in atto nelle Rane, all’inizio dell’agone fra Euripide ed Eschilo, con il primo che dichiara di voler mordere il secondo: è lo scolio vetus 861 che riconduce il δάκνειν al morso del gallo (cf. Totaro 2006, 643 n. 133). Lo scolio vetus 71 agli Uccelli, invece, spiega δοῦλος, «servo», come una allusione all’esito della lotta fra galli, in cui lo sconfitto, che naturalmente seguiva il vincitore, veniva appunto così nominato: il gioco di parole, in Aristofane, verte sul fatto che un uccello si presenta a Pisetero ed Evelpide come «servo» dell’Upupa, per cui Evelpide domanda se sia stato sconfitto da un gallo (vv. 69-71).

I galli, nell’immaginario collettivo, erano dunque associati a un carattere decisamente bellicoso, quasi fuori dalla norma (si pensi alla scena già descritta degli Acarnesi, in cui soldati non greci ma traci sono associati ai galli): gli scholia vetera Tricliniana 1363aαβ agli Uccelli, tra le cui fonti è Simmaco, spiegano che Pisetero arma il parricida come un gallo, con un’ala come scudo, uno sprone (πλῆκτρον, cfr. anche schol. Ar. Av. vet. Tr. 759ab e Tz. 759) come spada e una cresta come pennacchio. L’immagine del gallo, in questo contesto, non è solo connessa alla bellicosità di questo animale, poiché, come emerge chiaramente nelle Nuvole (vv. 1427-1430), era risaputo che i galli più giovani tenessero testa ai loro padri, per cui, negli Uccelli, il confronto fra il parricida e il gallo è assai significativo.

Oltre alla bellicosità, i galli erano associati anche alla loro non selettiva voracità e al loro canto. Al v. 794 alle Vespe, Filocleone racconta al figlio come Lisistrato gli abbia dato tre squame di muggine invece di tre oboli: senza esserne accorto, Filocleone le ha messe in bocca, per poi sputarle (molti erano soliti usare la bocca per custodire il denaro, come informa lo schol. Ar. V. vet. 791a). Schifacleone, allora, chiede che cosa abbia detto Lisistrato al tal proposito, per cui il padre risponde: «cosa ha detto? Che ho uno stomaco di struzzo (scil. di gallo)». Lo scolio vetus Triclinianum 794 chiarisce che i galli mangiano di tutto e la ragione sarebbe che hanno lo stomaco caldo (cf. Suda α 1117). Per quanto riguarda il canto del gallo, la resa onomatopeica del suo verso in greco è κόκκυ: a tal proposito, nelle Rane Dioniso dice, per spiegare a Eschilo ed Euripide la celebre prova della pesatura dei versi, che essi non dovranno mollare il piatto della bilancia finché egli non avrà detto κόκκυ: il fatto che lo scolio recentius al v. 1380c assimili il verbo κοκκύειν al verso del gallo è forse significativo, se si pensa – come si è visto – che lo scontro fra i due poeti è rappresentato da Aristofane come uno scontro fra galli. Comunque sia, il termine corretto per indicare il verso del gallo era ᾄδειν, non κοκκύζειν, che, secondo Esichio (α 1763), era usato a mo’ di scherno per sbeffeggiare uno straniero (cf. Phot. α 549 e schol. Ar. V. vet. Tr. 817), con il verbo che sarebbe stato prettamente comico (cfr. Phryn. PS 35,14).

Il verso di questo animale, comunque, era strettamente connesso nell’immaginario ateniese al sorgere del sole: il dato è esplicito nelle Nuvole al v. 4, come spiegano gli scoli Tr. 4b e rec. 4c. Ateneo (IX 374d), del resto, fa notare che il gallo si chiama ἀλέκτωρ, poiché «ci sveglia dal letto» (ἐκ τοῦ λέκτρου ἡμᾶς διεγείρει), per paretimologia con alpha privativo davanti a λέτρον, «letto». Si riteneva, poi, che il gallo cantasse tre volte (cfr. schol. Ar. Ec. 390αβ); ciò chiarisce la lamentela di Cremete nelle Ecclesiazuse: egli racconta a Blepiro come l’assemblea sia stata affollata di buon mattino da persone molto pallide (ossia dalle donne travestite da uomini), tanto che sarebbe stato impossibile prendere il tribolo, pur presentatisi alla Pnice appena al secondo canto del gallo. La stretta connessione che lega il giungere in ritardo e il canto del gallo è tematizzata nelle Vespe, come nota lo scolio vetus 101: i servi raccontano che, quando il gallo canta di sera, Filocleone arrivi addirittura ad accusare l’animale d’averlo svegliato tardi, tanta è la sua voglia di andare in tribunale; ciò è ovviamente un’iperbole, dato che è il canto del mattino che dovrebbe fungere da ‘sveglia’.

L’aspetto del canto mattutino e della bellicosità dei galli trova una sua spiegazione eziologica in una tradizione che vuole il gallo come l’esito di una metamorfosi. Al v. 835 degli Uccelli il Coro chiede a Pisetero chi potrebbe essere messo a guardia delle mura della città che si intende fondare: Pisetero indica subito l’uccello che è detto essere ovunque il più tremendo, un vero e proprio «pulcino d’Ares», ossia quello di razza persiana (cfr. schol. Ar. Av. vet. Tr. 835bc). Questo uccello, detto sia «persiano» che «medo», è senz’altro da identificare con il gallo, che era ritenuto un animale d’origine mesopotamica (cf. schol. Ar. Av. vet. 485, Tz. 707, Hsch. μ 1158, π 2006). A proposito del v. 835 degli Uccelli, lo scolio vetus 835d e, in modo più completo, il Triclinianum 835e raccontano che il gallo sarebbe stato, un tempo, un ὀπαδός («compagno») di Ares: egli fu posto dal dio come guardiano, quando Ares incontrò clandestinamente Afrodite, affinché controllasse al mattino il momento in cui il sole sorgeva. Era, questo, il tempo in cui Efesto rientrava a casa, avendo concluso il suo lavoro. Il futuro gallo, però, si addormentò e i due amanti furono scoperti: adiratosi, Ares lo trasformò in un uccello e costui, ricordandosi di quel fatidico momento, canta oggi al sorgere del sole. Dietro lo scolio vetus e Triclino vi è forse Libanio (Progymnasmata 2,26) o una fonte comune (la storia è narrata anche da Luciano nel Sogno ovvero il gallo al par. 3): alla luce di questa storia, si comprende allora bene perché il gallo sia così bellicoso, con una cresta, λόφος, speroni, κέντρα, e coraggio, θυμός (cfr., del resto, la scena già analizzata di Ar. Av. 1363-1367).

A parte il carattere specifico del gallo nell’immaginario ateniese del V secolo, tale animale è assoluto protagonista di una famosa scena delle Nuvole. Dopo che Socrate si è lamentato della rusticità di Strepsiade (vv. 627 f.), il primo comincia a interrogare il secondo su alcune questioni: alla domanda su chi siano «i quadrupedi propriamente maschili» (v. 658 s.), Strepsiade risponde «montone, capro, toro, cane, pollo (scil. ἀλεκτρυών)» (v. 661). Come nota lo scolio vetus 661a, è questo l’esordio dello scherzo su cui è incentrata la scena dei versi seguenti: sebbene Strepsiade sbagli in modo clamoroso ad annoverare fra i quadrupedi il gallo, sorprendentemente Socrate lo riprende su una questione grammaticale, ovvero sul fatto che egli ha chiamato il «gallo» con lo stesso termine con cui si indica anche la «gallina» (cfr. anche vv. 848-852, in cui vi è una ripresa di questo gioco di parole, con protagonisti, stavolta, Fidippide e Strepsiade; vd. schol. vet. 847, an. rec. 852a e Tz. 847). Gli scoli a questa scena (Tr. 661, vet. 663ab) mettono in luce come gli Ateniesi usassero ἀλεκτρυών per il maschile e il femminile, come dimostrerebbero anche altri passi, presi dall’Amfiarao di Aristofane (fr. 17 K.-A.), dal Dedalo di Platone Comico (in realtà, i primi due versi del passo citato dallo scoliasta sono riconducibili al Dedalo di Aristofane, fr. 194 K.-A., mentre il terzo proprio a Platone, fr. 293 K.- A., ma fra i dubia) e dalla Pace di Teopompo (fr. 10 K.-A.). Una simile informazione si ricava da Eustazio che, a proposito del v. 663, cita Libanio (33,1,24), che usa ἀλεκτρυών per la «gallina»; lo stesso dice Ateneo (IX 273e-274d), che cita a riprova Cratino (fr. 115 K-A.), Strattide (fr. 61 K.-A.), Anassandride (fr. 48 K.-A.), oltre ai passi di Teopompo (fr. 10 K.-A.) e di Aristofane (fr. 193-194 K.-A.) già menzionati dagli scoli. Quanto Socrate propone per la femmina, ossia ἀλεκτρύαινα (v. 666), pare un’invenzione aristofanea: se Esichio (α 2859) conferma che gli antichi usassero comunemente ἀλεκτρυών anche per il femminile, l’EM 49,25 e l’Et.Sim. I 260,15 indicano che, nel caso in cui si voglia distinguere il genere, si deve usare ἀλέκτωρ per il maschile e ἀλεκτορίς per il femminile. Ovviamente, Aristofane, con questa scena, mette alla berlina Socrate e, in generale, i filosofi che, come nota Tzetzes nello scolio 660a,17-22, «sono scrupolosi riguardo al significato delle parole, ma hanno disprezzo per le cose divine e sono frugali nel cibo» (cfr., per l’interesse grammaticale dei sofisti, ad es. Protag. 27A D.-K.: «bisogna distinguere, come Protagora, i generi dei nomi: maschili, femminili e neutri»).

Riguardo al personaggio di Socrate nelle Nuvole, può avere un certo interesse il fatto che egli faccia la prima sua comparsa in scena in un τάρρος (v. 226); Strepsiade, vistolo, esclama: «e così gli dèi li guardi dall’alto di una cesta (τάρρος) e non da terra: vero?». Se gli scoli vetera 226bαβ riconducono l’oggetto in cui si trova Socrate appunto a una cesta di vimini, lo scolio vetus 226a informa che il τάρρος è una specie di piattaforma elevata, su cui le galline sono solite dormire: lo stesso scolio aggiunge che una simile piattaforma sospesa doveve essere stata approntata per la rappresentazione. Una simile messa in scena, forse, avrebbe avuto un risvolto altamente comico, se si prestasse fede a quanto dice lo scolio vetus 247a: a proposito della domanda fatta da Socrate a Strepsiade su quali dèi egli intenda giurare, il commentatore antico afferma che vi potrebbe essere una allusione, qui, al fatto che Socrate fosse accusato d’essere empio, poiché dicevano che egli giurasse «sul gallo e sul platano».

Fra le occorrenze riconducibili al «gallo» nei commentari ad Aristofane due devono ancora suscitare interesse, l’una concernente un’espressione proverbiale e l’altra un’usanza tipica dei Greci arcaici e classici. Al v. 1490-1495 delle Vespe Filocleone danzando, come in preda alla follia, dice: «s’acquatta Frinico come un gallo … che scalcia con la zampa sino al cielo. Si spacca il culo; … ora nelle nostre articolazioni si torce agile il femore». Lo scolio vet. 1490a afferma che «s’acquatta Frinico come un gallo» è un proverbio che concerne chi non se la passa bene: gli Ateniesi, infatti, cacciarono Frinico, spaventato e fattosi piccolo per la paura, da teatro, dopo essere scoppiati in lacrime, poiché egli aveva rappresentato la presa di Mileto (cf. Ael. VH XIII 17, probabile fonte dello scolio e Phryn.Trag. TrGF T 14 Snell). Al v. 707 degli Uccelli, invece, si annovera il gallo, detto in questo contesto «uccello persiano», come uno dei doni che gli amanti davano ai bei ragazzi perché concedessero loro i propri favori: gli scholia vet. Tr. 704αβ, fra le cui fonti sono i commenti di Didimo e Simmaco, spiegano che il dono di un uccello all’amasio è adeguato ai rapporti amorosi (cfr., a tal proposito, Dover 1985, 97).

Stefano Caciagli © 2016