Buffone nella commedia

Prima di Platone (si veda la Sezione 3), i termini legati al tema βωμολόχ- occorrono nella produzione letteraria greca di età classica esclusivamente in Aristofane, a eccezione di un frammento della Tirannide di Ferecrate (fr. 150 K.-A.; si veda la Sezione 2 per la ricezione del frammento in Arpocrazione). Solo qui si riflette il senso etimologico di «mendicante, straccione», fondato sui componenti βωμός, «altare», e λόχος, «agguato, imboscata», ma di recente la critica ritiene che tale accezione sia frutto di un gioco etimologico funzionale alla scena comica della Tirannide [cfr. Kidd (2012)]. In Aristofane, il campo semantico della bomolochia è orientato attorno a due poli di significato, entrambi di segno negativo: la trivialità dei poeti comici rivali e l’inganno. Il significato di «buffoneria, comicità volgare» è presente nella parabasi della Pace (v. 748) e nella parodo delle Rane (v. 358), con una chiara funzione in termini di poetica, mentre nei Cavalieri (vv. 902, 1194, 1358), nelle Nuvole (v. 969), nelle Tesmoforiazuse (v. 818) e ancora nelle Rane (vv. 1085, 1521) la qualifica di βωμολόχος esprime l’accusa di ingannare a proprio vantaggio tramite l’uso tendenzioso della parola.

Nella parabasi della Pace (vv. 739-753), il Corifeo loda il διδάσκαλος perché per primo ha indotto i comici rivali a desistere dalle facili battute sugli stracci e sui pidocchi, sugli Eracli affamati che impastano e gli schiavi ingannatori che fuggono e vengono picchiati, dileggiati da un secondo schiavo che chiede: «Disgraziato, cosa ti è capitato alla pelle? Una frusta ha invaso con grande dispiegamento di forze i tuoi fianchi e ha abbattuto la tua schiena, quasi fosse un albero?». Un altisonante linguaggio militare (εἰσβάλλειν, «invadere»; δενδροτομεῖν, «abbattere gli alberi»; cfr. e.g. Th. I 59,2; I 109,2) descrive la frusta che si abbatte sulla schiena dello schiavo per punirlo dei suoi inganni falliti [cfr. Mastromarco (1983, 619 n. 78); sulla particolare pregnanza del lessico militare legato ai danni all’agricoltura nel contesto della Pace, cfr. Olson (1998, 133)]. Aristofane ha eliminato queste volgarità triviali, κακὰ καὶ φόρτον καὶ βωμολοχεύματ’ ἀγεννῆ, per costruire una grande arte con grandi parole, pensieri e battute non volgari, ἐπόησε τέχνην μεγάλην ... ἔπεσιν μεγάλοις καὶ διανοίαις καὶ σκώμμασιν οὐκ ἀγοραίοις, un’arte che non dileggia uomini e donne comuni, ma con forza erculea assale i potenti della polis. Aristofane, nel descrivere la propria τ, la oppone quindi ai βωμολοχεύματ, dei quali offre una chiara esemplificazione: motti volgari rivolti a personaggi di rango infimo [in favore di un attacco indistinto al gruppo dei poeti comici rivali si esprime Sommerstein (1985, 167), seguito da Imperio (2004, 37 s.), mentre gli scoliasti scorgono qui una precisa polemica contro Eupoli e la sua rappresentazione di Eracle (e.g. Eup. test. xviii-xix K.-A.)]. Dalla parabasi della Pace emerge quindi per il βωμολόχος un profilo chiaro: il Buffone scherza su temi semplici, come la miseria, la fame, le percosse, che coinvolgono personaggi di poco conto come gli schiavi. Il profilo che Aristofane propone per sé è costruito quindi in contrasto polare con la figura del βωμολόχος.

Nelle Rane, dopo l’antistrofe della parodo, il Corifeo degli Iniziati, invocato il silenzio rituale, elenca chi deve restare escluso dalla cerchia del Coro (vv. 354-358): chi è inesperto dei λόγοι del Coro, chi non ha una mente pura, chi non ha visto o danzato i misteri delle Muse o della lingua di Cratino. Tra gli attributi che qualificano i non iniziati, il Corifeo annovera anche il gradimento per le parole inopportune dei buffoni: ὅστις ... βωμολόχοις ἔπεσιν χαίρει μὴ ‘ν καιρῷ τοῦτο ποιοῦσιν, «chi [...] prova piacere per buffonerie dette a sproposito». Con la sequenza di tetrametri anapestici pronunciati dal Corifeo che seguono l’antistrofe del Coro, questa sezione presenta i tratti formali della parabasi, della quale richiama anche i temi. Il rifiuto per chi non conosce la commedia, dove si inserisce la condanna della bomolochia, si intreccia infatti con il motivo rituale dell’esclusione degli impuri e con il motivo politico della condanna per gli autori di comportamenti offensivi verso la città. Il Coro di Iniziati ha una funzione duplice, comica e rituale, dalla quale emerge, nella struttura del rito religioso, il consueto legame tra produzione letteraria propugnata da Aristofane, che si distingue per il rifiuto della bomolochia, e il bene della polis. La critica ha messo in luce come per il Coro degli Iniziati si profili il compito del παίζειν, declinato sia quale gioco della commedia per il Coro comico, sia quale gioco degli Iniziati nel fittizio aldilà delle Rane [cfr. Dover (1993, 57-61)]. Il ruolo benefico della commedia per la polis espresso dal παίζειν si oppone quindi alla bomolochia quale riso inutile e dannoso. La bomolochia come fonte di piacere incontrollato, che viola in questo caso il καιρός, è impiegata da Aristofane quale contraltare della propria arte comica che tramite il παίζειν corretto produce benefici per la polis [nel fr. 173 K.-A. del Γηρυτάδης, il βωμολοχεύεσθαι: non è possibile definire con certezza l’ambito nel quale è impiegato il termine, ma non si può escludere anche in questo caso il legame con la produzione letteraria perché l’argomento doveva richiamare le Rane; pur con cautela, Perusino (1968, 103) pensa infatti a un agone «sul tipo di quello fra Eschilo e Euripide»].

Nel secondo gruppo di occorrenze, βωμολόχος esprime un’accusa rivolta a personaggi dei quali si vuole mettere in luce la tendenza a ingannare tramite il riso buffonesco. Nell’antipnigo dell’agone delle Rane (vv. 1083-1088), Eschilo accusa Euripide di avere riempito la città di segretari buffoni che ingannano sempre il popolo facendo le scimmie. In questo passo la bomolochia, pur descritta quale conseguenza della tragedia di Euripide, non ha un’accezione in termini di poetica comica: prevale il significato-base di «buffoneria», impiegata dalle «scimmie del demos» per ingannare tramite il piacere che essa procura [come mostra Totaro (20002, 190-192), che sviluppa l’interpretazione offerta da Mastromarco (1993), nell’antepirrema delle Vespe l’allusione di Aristofane al proprio πιθηκίζειν (vv. 190-192) associa alla scimmia una comicità volgare, con la quale Aristofane si sarebbe occasionalmente prestato al gioco di chi diffuse la voce di un suo compromesso con Cleone dopo il fiasco delle Nuvole del 423; ma ora la messa in scena delle Vespe afferma un impegno anticleoniano che non ha conosciuto pause: alla comicità volgare della scimmia, che secondo le Rane appartiene ai bomolochoi, Aristofane oppone la propria nobile arte comica, che non teme di rivolgersi a chi governa la polis]. L’accusa è poi rivolta a Euripide stesso nella scena finale delle Rane (vv. 1520-1523): Eschilo acconsente alle consegne imposte da Plutone per l’imminente ritorno fra i vivi e affida il trono dell’aldilà a Sofocle perché lo conservi sino al suo ritorno, chiedendo al dio che Euripide, πανοῦργος ... καὶ ψευδολόγος καὶ βωμολόχος, non sieda mai sul trono. In questo caso, la bomolochia segnala l’attitudine all’inganno di Euripide, provata dal favore che la sua produzione tragica incontra tra i ladri e gli ingannatori, attitudine che preoccupa Eschilo in procinto di abbandonare il trono che potrebbe essere usurpato dall’infido Euripide.

Nelle Nuvole, il Discorso Migliore descrive l’antica παίδευσις: durante l’apprendimento a memoria della poesia, non è tollerato il βωμολοχεύεσθαι da parte degli allievi (vv. 969-972). Il βωμολοχεύεσθαι è associato all’innovazione musicale, punita con le percosse in quanto mancanza di rispetto nei confronti delle Muse, ἀφανίζειν τὰς Μούσας, ma non sembra giustificata la traduzione che propone LSJ: «play low tricks in music» [seguono questa interpretazione del passo anche Wilkins (2000, 88), Beta (2004, 250 s.) e Lauriola (2005, 106-108)]. Nel verso dove compare il termine, infatti, un ἤ disgiuntivo separa i due casi nei quali il παῖς viene punito dal maestro con le percosse: l’indulgere in scherzi da buffone, εἰ δέ τις αὐτῶν βωμολοχεύσαιτo, o il gorgheggiare seguendo gli arabeschi melodici alla moda di Frinide, ἢ κάμψειέν τινα καμπὴν οἵας οἱ νῦν, τὰς κατὰ Φρῦνιν ταύτας τὰς δυσκολοκάμπτους («e se qualcuno di loro faceva il buffone o eseguiva uno di quei complicati gorgheggi che fanno ai nostri giorni i discepoli di Frinide, le buscava di santa ragione»). Il verbo βωμολοχεύεσθαι ha il significato usuale di «fare il buffone» e descrive il comportamento negativo dell’allievo che il maestro punisce. La bomolochia presso il maestro citarista è accostata alla passione per le nuove mode musicali, ma sembra conservare il significato usuale: un riso abusivo che tende a evitare l’impegno dovuto di fronte al maestro.

Nei Cavalieri, nel corso dell’agone, Paflagone accusa il Salsicciaio di sconvolgerlo con le sue buffonerie, apostrofandolo quale πανοῦργος (vv. 902 s.). Il Salsicciaio replica adducendo l’ordine divino che gli impone di sconfiggerlo nelle ἀλαζονεῖαι. Di particolare interesse appare qui la sostanziale equivalenza che Aristofane presuppone tra alazoneia e bomolochia, equivalenza che testimonia in favore di un evidente legame tra la bomolochia e la falsità che favorisce l’inganno. Ancora nei Cavalieri, quando Paflagone offre carne di lepre a Demo, il Salsicciaio si rivolge al proprio θυμός, esortandolo a escogitare qualcosa di βωμολόχον [vv. 1193 s.; Frontisi-Ducroux (1984, 34) mostra come nei Cavalieri il bomolocheuma si profili quale invenzione verbale grossolana rivolta a disorientare, intimidire l’avversario sino alla sua definitiva sconfitta]. Secondo la recente ipotesi di Kidd (2012, 245-248), Aristofane costruisce un pun simile al gioco che abbiamo osservato nel frammento di Ferecrate. Un altare sulla scena, forse provvisorio, con la funzione di denotare lo spazio della casa di Demo, permette ad Aristofane di giocare sul significato corrente di «buffoneria» con il senso etimologico di «agguato attorno all’altare». Dopo la vittoria nell’agone, nella scena finale il Salsicciaio istruisce Demo, chiedendo quale sarebbe la sua risposta a un procuratore βωμολόχος che minaccia i giudici (vv. 1356- 1361): «Non avrete la farina, se non emettete sentenza di condanna in questo processo». Insieme alla battuta dello Schiavo nella parabasi della Pace, questo passo dei Cavalieri offre un chiaro esempio di ciò che per Aristofane caratterizza il βωμολόχος: nella Pace la volgarità triviale dei poeti comici delle generazioni precedenti, nei Cavalieri l’inganno da parte dei politici corrotti. Al campo semantico dell’inganno è da ricondurre anche l’occorrenza del termine nelle Tesmoforiazuse: nella parabasi che argomenta in favore della superiorità del genere femminile, la Corifea afferma che, in misura ben maggiore delle donne, gli uomini sono ingordi, ladri, βωμολόχοι e mercanti di schiavi (vv. 814-818).

In sintesi, la buffoneria compare in contesti nei quali Aristofane mette in luce, per contrasto con la bomolochia, le implicazioni politiche e i tratti raffinati della propria arte comica oppure intende connotare in negativo, spesso a lato delle accuse di panourgia e alazoneia, singoli personaggi come Euripide nelle Rane e Paflagone nei Cavalieri, o gruppi come il genere maschile nelle Tesmoforiazuse o i procuratori «scimmie del popolo» nei Cavalieri. La bomolochia designa quindi il riso volgare perché fine a se stesso, rivolto a personaggi deboli, di nessun ruolo sociale, oppure descrive l’atteggiamento buffonesco di chi inganna a proprio vantaggio [sull’«inganno al popolo» quale linea comune tra queste due sfere di significato cfr. Lauriola (2005, 105)]. I termini legati alla bomolochia non sembrano però caratterizzare mai in modo preminente ed esclusivo nessuna delle maschere che compaiono sulla scena.

A partire dai lavori di Zielinski (1885, 116) e Süss (1908), che si fondano sulla riflessione di Aristotele in merito alla bomolochia (si veda la Sezione 2), è d’uso per la critica scorgere nel βωμολόχος una maschera che Aristofane impiegherebbe in particolare negli agoni epirrematici [si mostra scettico in merito Wilamowitz (1929, 471 n. 1), per il quale la figura del bomolochos è «eine besonders unglükliche Erfindung»]. Secondo Gelzer (1960, 124 s.), un personaggio assume i tratti del βωμολόχος quando glossa o conferma le affermazioni del personaggio principale, senza che le sue parole siano in alcun modo recepite dagli altri personaggi sulla scena né abbiano alcuna influenza sullo sviluppo dell’azione comica. Per Gelzer, il ruolo del βωμολόχος si declina all’interno dell’agone quale arbitro tra i due contendenti (Demo nel secondo agone dei Cavalieri, Dioniso nelle Rane) oppure come sostenitore o accompagnatore di un personaggio principale (Evelpide nel secondo agone degli Uccelli, Calonice nella Lisistrata, Cremete nelle Ecclesiazuse, Blepsidemo nel Pluto). Rispetto a Gelzer, Pickard- Cambridge (1962, 175-177) amplia lo spettro della bomolochia a ogni personaggio di basso rango, di norma lo schiavo o il rustico di campagna, che si oppone all’alazon. Per Pickard-Cambridge la maschera del βωμολόχος sarebbe un elemento che la commedia attica eredita dal mimo dorico. Di opposta tendenza l’approccio di Kloss (2001, 133-188), che limita le possibilità di applicare la qualifica di βωμολόχος ai momenti nei quali i personaggi escono dallo spazio e dal tempo dell’illusione scenica, per incarnare la prospettiva del rappresentante medio del pubblico che commenta gli eventi sulla scena. Tra gli elementi isolati da Gelzer, per Kloss diviene preminente quindi la mancata ricezione delle affermazioni del βωμολόχος da parte degli altri personaggi presenti sulla scena: secondo Kloss, caso esemplare di βωμολόχος è lo schiavo Demostene nel primo agone dei Cavalieri. Tratto distintivo dell’impiego della maschera del βωμολόχος è per Kloss la temporanea assunzione degli attributi della bomolochia da parte di personaggi che escono dall’illusorio spazio teatrale per poi rientrare nell’azione scenica quando depongono la maschera del βωμολόχος: Evelpide negli Uccelli assume la posizione subordinata del βωμολόχος solo nel secondo agone (vv. 451-626), dopo aver condotto l’azione sino a quel momento. La figura del βωμολόχος avrebbe la funzione di comunicare agli spettatori la dimensione pubblica dell’agone tra i personaggi. Ciò spiegherebbe l’assenza del βωμολόχος negli agoni privati come nel caso delle Vespe.

Pur legittima quale strumento per l’esegesi, la categoria interpretativa impiegata dalla critica non sembra coincidere con il significato dei termini legati al tema bomoloch– in Aristofane. Sia la buffoneria dei comici rivali (Pace, Rane) sia la bomolochia quale accusa di falsità (Cavalieri, Euripide nelle Rane, Tesmoforiazuse) è connotata in senso negativo: l’inganno che il βωμολόχος produce nel destinatario mira al proprio interesse a danno dell’interesse altrui: un tratto che non può certo appartenere, nelle intenzioni di Aristofane, al βωμολόχος quale rappresentante del pubblico sulla scena. Al contrario, la funzione del Buffone, nel caso ad esempio del servo Demostene nei Cavalieri (vv. 337, 341, 359 s., 366, 375-381, 421 s.), converge con l’attacco a Paflagone dal quale deriva il massimo beneficio per Atene: il personaggio collabora con l’autore Aristofane [anche nel Simposio di Platone, dove Avlonitis (1999) scorge il profilo del bomolochos nella caratterizzazione dello stesso Aristofane in preda al singhiozzo durante il discorso di Erissimaco, l’eventuale buffoneria di Aristofane è diretta contro un rivale nell’agone su Eros in casa di Agatone; a una comicità urbana, distante dalla bomolochia, pensa invece Nieddu (2007)]. Il carattere ingenuo dello schiavo o del rustico al quale spesso è ricondotta la maschera del βωμολόχος non sembra conciliabile con l’uso che Aristofane mostra dei termini legati alla bomolochia, che connotano sempre in senso negativo l’uso ingannevole della parola.

Mario Regali © 2016