Nicola Bonazzi - I matti

Questa non lo so se è vera, ma voi fate conto che lo sia.
Dice che tanti anni fa (c’erano ancora i lumi a petrolio) dovevano portare un matto dall'ospedale San Lazzaro di Reggio Emila al frenocomio di Mantova: ce lo portavano in biroccio, con uno davanti che guidava i cavalli e uno dietro che guardava il matto, che non facesse le sue mattane.
Dice che era un matto buono, che non avrebbe fatto male a una mosca.
Ce n’erano parecchi, di matti buoni, a quell’epoca, per le nostre terre: ce n'era uno, ad esempio, che era diventato matto per via della musica, che gli aveva invaso il cervello e muoveva sempre le mani come un direttore d’orchestra, a suonare questa sua musica che sentiva solo lui, e credeva di essere il più grande musicista del mondo, mentre al massimo aveva diretto la banda di Busana.
Ce n'era un altro che non voleva essere toccato, perchè pensava di avere le ossa di cristallo; e bisognava passargli tutto da lontano e lui muoveva gli arti con studiata lentezza, per non rompersi dentro.
Un altro credeva che le anime dei defunti gli si reincarnassero nei capelli, per cui se aveva voglia di parlarci, ne strappava qualcuno e gli raccontava le sue cose; qualche volta, poi, gli sembrava che tutti quei capelli facessero un gran frastuono, e allora si dava delle botte in testa, che la gente diceva: è già matto, che danno può farsi?
E tanti altri ancora.
Questo matto qua, invece, tutte le notti si metteva sotto un albero e uggiolava alla luna, come un cane; di giorno stava ai lati della strada, così in silenzio, sorridendo sempre: e nel sorriso faceva vedere i suoi denti storti e neri; ogni tanto, ma raramente, quando passava una sottana si tirava giù i pantaloni, sempre sorridendo. Capitava anche che raccogliesse dei rami, li bruciasse, e con i carboni disegnasse delle facce o delle figure umane sui muri sbregolati delle case e qualcuno allora diceva che tutti i matti sono un po’ artisti. Quelli del posto avevano imparato a conoscerlo, per queste sue mattane, e non dicevano niente: tranne che una volta si era tolto i pantaloni davanti a tre suore e la cosa aveva messo a rumore il paese; fu rintracciato un lontano cugino, l'unico parente disposto ad occuparsi di lui, che lo fece venire a prendere dagli infermieri perché lo portassero al manicomio: adesso, a motivo di cure da somministrargli, dovevano trasportarlo a Mantova.
Dice che quel giorno faceva molto caldo, nella pianura.
Dice pure che a un certo punto durante il viaggio, dalle parti di Rubiera, al birocciaio era venuta sete, aveva fermato i cavalli ed era sceso a un osteria, invitando anche il compagno a inumidirsi il gargarozzo.
Ma il compagno era piuttosto coscienzioso e aveva rifiutato. Quando però fu lì solo sul biroccio insieme al matto, fermo in mezzo alla campagna con i grilli che frinivano da tutte le parti, un po’ gli rimorse la coscienza d'aver detto no, che in fondo a scendere qualche minuto per bere un bicchiere di rosso non sarebbe successo niente.
Dice che allora fece un discorso al matto; gli disse: io per certi motivi che non ti sto a spiegare sono costretto a scendere un attimo, ma tu non devi assolutamente andartene, perché comunque noi (intendeva lui e il compagno) ti troviamo e ti lasciamo nudo a pane e acqua per tre giorni insieme ai topi, intesi?
Di solito questo discorso aveva una sua rozza efficacia e, siccome le punizioni esistevano realmente e risuonavano per i corridoi le grida lancinanti di quelli che le subivano, funzionava benissimo da deterrente.
Così l'inserviente dell'ospedale di Reggio si sentì tranquillo e raggiunse il vetturale all'osteria.
Dice però che questa volta il discorso non funzionò, così che il matto guardò la porta dell'osteria, vide che per il momento non ne usciva nessuno, e decise di prendere in tutta tranquillità la via dei campi.
E dice che quando il vetturale e l'infermiere, lasciando l'osteria un po' meno sobri di come vi erano entrati, si accorsero che il matto era scappato, cominciarono naturalmente a smoccolare come matti pure loro e a cercare una soluzione.
Per prima cosa tirarono l’acqua da un pozzo vicino e si bagnarono la testa, così da snebbiarsi e ragionare meglio.
Poi stettero in silenzio un paio di minuti.
Poi a uno venne in mente una cosa, la comunicò all’altro, e si rimisero sul biroccio per la via di Mantova.
Dice che a un certo punto, mentre andavano, videro la schiena di un contadino che si recava al lavoro.
Dove andate, chiesero al contadino.
Vado a lavorare alla marcita di Castellazzo.
Anche noi andiamo là, perché non salite, fecero i due.
Visto che la strada è lunga salgo, disse il contadino.
Quando poi il contadino si accorse che la strada diventava ancora più lunga, e che la marcita di Castellazzo si stava allontanando, chiese spiegazioni, ma siccome non gliene venivano fornite, cominciò a urlare perchè aveva paura di essere fatto preda dai briganti.
Dice che allora l'infermiere gli infilò uno straccio in bocca e gli diede una scarpata in testa, per farlo stare buono.
Arrivarono a Mantova che era pomeriggio inoltrato. Il vetturale e l'infermiere chiesero subito una camicia di forza, siccome il presunto matto dava in escandescenze e urlava aiuto aiuto. Il responsabile del frenocomio, dopo aver letto tutta la documentazione relativa al paziente, e averne constatato la relativa tranquillità (a parte gli uggiolii e le brache calate, naturalmente), fu piuttosto sorpreso di trovarsi davanti un individuo esagitato, il quale continuava a gridare che c'era uno sbaglio, che lui non era matto e che era tutta colpa di quei due brutti stronzi che l’avevano tirato su lungo la via.
I due lo guardavano con aria di compatimento e riferivano al dottore del brusco peggioramento subìto dal paziente.
Dovremo fare qualcosa, disse il medico.
Eh già, dissero i due.
Dopo di che si salutarono e i due ripresero la strada di Reggio, contenti d'averla scampata, mentre il presunto matto veniva sedato in qualche modo. Lo portarono via che diceva ormai sfiatato: io non sono matto, non sono matto, puttana ladra!
L'energumeno in camice bianco che l'aveva preso in consegna scuoteva la testa avvilito, come se ogni giorno dovesse vederne di nuove: del resto, affermare di non esser matti in un posto di matti non era certo un buon modo per scamparla.
Dice che il matto vero, intanto, andava in giro per i campi un po' a casaccio; quelli che lo incontravano, a vederlo così sorridente, si scappellavano per salutarlo; anche due contadine di ritorno dai campi non poterono fare a meno di sorridergli, e quello, mostrando ancor più la dentatura storta, si calò le brache, costringendo le due contadine a fuggire inorridite (una, invero, mutò il sorriso in risata uterina).
Poi venne la notte e il matto si accucciò ai piedi di un albero, da sotto il quale ogni tanto mandava uggiolii alla luna.
Dice che quello divenne il suo albero, dove ogni notte andava per uggiolare.
Dice pure che la gente del posto, col passare del tempo, aveva imparato a conoscerlo, e ad apprezzare i disegni fatti con i carboni sui muri sbregolati delle case. Qualcuno diceva che era un artista e bisognava rispettarlo: gli portava da mangiare e lo accarezzava pure, proprio come si fa con i cani, ma sempre con molta soggezione. Avevano anche cominciato ad allungargli dei fogli e dei pastelli. E lui, che era un matto furbo, aveva capito che la convenienza stava nello sfornare disegni e nel fare il cane; più veniva trattato da cane, più faceva il cane: camminava a quattro zampe, alzava la gamba per fare pipì, e così via; quando però passava qualche sottana si alzava in piedi e si calava le brache, come ai vecchi tempi; ma nessuno ci faceva più caso, perché quello era il matto dell’olmo di Campitello, cioè una specie di artista selvatico da trattare con rispetto.
Dice che passarono gli anni e un bel giorno si aprirono le porte del frenocomio di Mantova e ne uscì il contadino creduto matto: dentro si era fatto amico il parente di uno schizoide e adesso quello garantiva per lui; in più aveva smesso da un pezzo di urlare che non era matto: docce gelate e camice di forza gli avevano annichilito la volontà.
Era irriconoscibile: smagrito, con le guance scavate, gli occhi infossati, la barba lunga e lo sguardo come stravolto in una sorta di allucinata fissità
Cominciò a vagare per i campi, senza sapere dove andare. Si ricordava che una volta aveva avuto una casa e una famiglia, ma non sapeva dove, né se qualcuno era ancora in vita; dubitava anzi che potesse essere un sogno della sua mente malata.
Girando, capitò in un paese vicino all'olmo famoso. Sentì qualcuno che parlava del matto e si disse: qua c’è un fratello di sventura. Seguì da lontano un tizio che reggeva una ciotola di pane e salame, il quale, inconsapevolmente, lo condusse all'olmo. Quando il tizio, dopo aver deposto la ciotola, se ne fu andato, dal momento che non c'era nessuno e che lui sentiva una gran fame, mangiò quel pane e salame probabilmente destinato al matto. Poi si accucciò lì nei pressi e aspettò la notte.
Dice che quando spuntò la luna, arrivò il matto dell’olmo, il quale, avendo trovato la ciotola vuota, cominciò ad uggiolare furiosamente.
Allora, il contadino diventato matto si fece avanti e cominciò a parlare pressoché assennatamente al matto dell'olmo.
Mi pare di ricordare, disse, che una volta ero un’altra persona da quella di adesso, e che poi la vita sia stata crudele con me; tu, invece, non sei forse mai cambiato da questa tua condizione, eppure la gente ti rispetta come un grand'uomo; il che mi fa credere che al mondo non esista giusto o sbagliato e che alla fin fine tutti siamo su una barca alla deriva; dovremmo perciò essere solidali l'uno con l'altro e scambiarci vicendevolmente quel poco di cui disponiamo; siccome io non ho niente, ti chiedo per il momento di darmi del tuo, e di potere mangiare dalle ciotole che ti portano quotidianamente.
Il matto dell’olmo lo annusò, sorrise con i denti storti e si mise di nuovo ad uggiolare. Quando il giorno dopo venne un paesano a portare cibo al matto dell'olmo, anziché un solo uomo-cane, ne trovò due e la cosa gli parve sospetta. Ma depose comunque la ciotola e si mise a guardare cosa succedeva. Successe che il primo ad avventarsi sul cibo fu il contadino creduto matto; a quel punto l'altro cominciò a ringhiare e ad abbaiare come un cane vero, gli digrignava i denti con una virulenza forsennata.
Il paesano tornò a casa e presto si sparse la voce che qualcosa non andava, laggiù all'olmo.
Si radunarono in una decina e andarono a vedere cosa succedeva, non senza essersi armati di forcone.
Quando arrivarono videro il matto dell'olmo che fissava ingrugnato quest'altro matto, la cui testa spuntava da una forra lì vicino: dopo il pasto si era placidamente addormentato.
Appena scorse i paesani, il matto dell’olmo cominciò ad abbaiare, così che l’altro fu costretto a ridestarsi: allora anche lui vide i paesani e si disse che la cosa più saggia era fare il cane per ingraziarseli. Tirò fuori la lingua e cominciò ad ansimare, come fanno i cani quando hanno caldo; poi cacciò qualche baiata, e infine volle trotterellare verso di loro per mostrare la propria festevole amicizia. Ma, fatto qualche passo, quelli gli puntarono i forconi contro e qualcuno gli gettò parole di volgare disprezzo. Urlavano che non era bello fingersi matti per far su qualcosa da mangiare, e toglierla al matto vero, il quale non faceva male a una mosca e in più sapeva disegnare: tu cosa sai fare, oltre il mariolo?
Volevano che se ne andasse, che lasciasse in pace il matto, che viceversa ci avrebbero pensato loro a farlo sloggiare. Tenevano i forconi dritti e puntati: il contadino creduto matto aveva già cominciato ad arretrare, ma poi qualcuno raccolse una pietra e gliela scagliò contro. Allora anche gli altri raccolsero pietre e le scagliarono, e andavano pure alla carrareccia vicina a prenderle, per tirargliele. Il contadino creduto matto smise di fare il cane, si levò sulle due gambe e si diede alla fuga. Ma gli altri dietro, con i loro forconi e le loro pietre. Al contadino creduto matto, poveretto, la muscolatura delle gambe presto cedette e alla fine cadde in una forra. Gli altri gli furono sopra e gli tirarono le ultime pietre con gran violenza. Lui si riparava con le braccia, ma una pietra lo colpì in testa e gli fece un buco da cui cominciò a colare sangue.
I paesani se andarono soddisfatti: gli avevano dato una di quelle lezioni, che sicuro non si sarebbe fatto più vedere, il volgare truffatore!
Dice che il contadino creduto matto si rialzò, fece qualche passo barcollando, poi crollò a terra e non si rialzò più.
Forse, ma non è sicuro, qualcuno lo ritrovò giorni dopo e, anziché avvertire le guardie, per non avere rogne lo seppellì nella nuda terra.
Dice invece che il matto vero continuò a fare il cane e a disegnare per la gente: venne un mercante d'arte e gli offrì una casa in cambio dei disegni. Così il matto continuò a fare il cane, ma in una casa enorme con finestre enormi.
Dice che quando morì, pochi anni dopo, per una debolezza di polmoni dovuta al freddo preso nelle notti d'inverno passate ad uggiolare alla luna, tutti quelli delle terre vicine gli fecero un gran bel funerale e vollero che sulla lapide fosse scritto: artista.
Dice che quando i vecchi ti raccontano questa storia, alla fine si mettono a ridere.
È soltanto una storia, dicono, i matti son matti e i sani son sani.
Però, aggiungono, non si può mai sapere.

Pubblicato il 14/05/2013