Gian Mario Anselmi - La Divina Commedia: all’origine dell’horror

 

«Sangue perfetto, che poi non si beve / da l'assetate vene, e si rimane / quasi alimento che di mensa leve, / prende nel core a tutte membra umane / virtute informativa, come quello / ch'a farsi quelle per le vene vane» (Purgatorio, XXV, 37-42). Cosi Dante, elaborando una originale sintesi concettuale, rapporta il processo iniziale di generazione del­l'uomo a gocce incontaminate, perfette, pure dell'elemento vitale per eccellenza, il sangue. La grande simbologia vitalistica, connessa con il sangue da tempo immemorabile, aveva ricevuto del resto una ulteriore pregnanza con l'avvento del Cristianesimo: l'immagine del sangue sacri­ficale versato da Gesù  per la rigenerazione dell'umanitá cosi come quello sparso dai martiri erano divenuti potenti aggregati simbolici che, iterati e memorizzati da precisi apparati rituali, riproponevano in continuo il mito della renovatio salvifica. Non a caso la stessa aristocrazia feudale si era impadronita della complessa mitologia del sangue, fondando su di essa e sui suoi più sotterranei richiami emblematici, una legittimazione sostan­ziale del suo dominio, dell'esercizio del suo potere assoluto come privi­legio ereditario. Ma il sangue e l’ orrore sono, da epoca immemo­rabile, simbolo di morte, di violenza, di guerra, scenario, familiare e terribile al tempo stesso, di tortura e di efferata macelleria umana: questo rovescio della mitologia positiva del sangue sparso da Cristo per la salvezza degli uomini è ossessivamente presente in Dante che - come vedremo -  in un crescendo di raccapriccio ne costituisce in modo indelebile una tragica marca metaforica, la marca per eccellenza della lacerazione, della divisione, dell'umanità che si nega nel suo dilaniarsi. E il tutto appare terribilmente dispiegato in Inferno XXVIII, nella  raccapricciante nona bolgia dei seminatori di scismi e di discordie, dove l’imagerie dell’orrore giunge a estremi che persino il filone contemporaneo degli horror fa fatica ad imitare ed anzi ne è stato sicuramente condizionato sia in letteratura che nei film e nella serialità narrativa delle piattaforme televisive: come a dire che Stephen King o David Cronenberg o i creatori di Snowpiercer o di Walking Dead stanno più a Dante di quanto si possa credere.

Questa immagine mortale del sangue non può non accompagnarsi al raccapriccio di corpi piagati, dissezionati, violati, emblemi terribili e archetipici della fine violenta: rovescio - anche in questo caso - di una mitologia positiva del corpo inteso come tempio dell'anima e di Dio, locus amoenus della bellezza muliebre, adorato e incorrotto nei beati e nei santi e già celebrato da Dante fin dalla Vita nova con l’apparizione beatifica di Beatrice.

Il corpo mutilato con le sue piaghe rosseggianti di sangue rappresenta per Dante un'immagine ad alta condensazione espressiva perfettamente funzionale a cogliere la condizione di un'umanità dolente e negata nel suo stesso statuto, nel suo stesso fondamento sacrale e vitalistico.

La comunità è “partita”, divisa, lacerata in un modo che a Dante pare quasi irreparabile: non solo perché attraversa il tessuto sociale e politico di Stati e città  ma anche perché intacca i germi elementari della convivenza, persino i microcosmi individuali e familiari, quasi folle paradigma che informa ormai di sé ogni livello della civitas. La violenza, la guerra, l’orrore, la lacerazione sono i segni distintivi di una antropologia stra­volta al punto tale da sconfinare nel ferino, nel disumano. Se la parola, in Dante, plasma, fonda e “riscrive” la realtà, attingendo a un inaudito spessore semantico, non sarà senza frutto percorrere insieme a lui questo “viaggio di sangue e di horror”: per coglierne tutte le implicazioni e metterne in luce un tracciato non casuale che, metaforico e paradigmatico al tempo stesso, rappresenta, viaggio nel viaggio, un'architrave interpretativa del suo dolente tempo e dei suoi tragici esiti. In un impasto che, tra l'espressionistico, lo storico e profetico, come sempre in Dante, dà identità a un mondo intero e alle sue ansie di renovatio.

Le tappe di questo viaggio doloroso si dipanano secondo una sa­pientissima strategia espositiva nelle tre cantiche, in ognuna delle quali assume via via un significato sempre più ampio e profetico, che dall'orrore dell'Inferno si dilata ai confini epi­dittici e sentenziosi (ma sempre percorsi da drammaticissima tensione pronta a sfociare - senza ritegno - nell' invectiva più aspra e  sdegnata ) del Paradiso.

Infatti è possibile cogliere una vera e propria gradatio interpretativa e dimostrativa: l’Inferno è la cantica dove si costituisce l'orrore del sangue e delle piaghe, dove, in un terribile crescendo espressionistico, la marca semantica oggetto della nostra indagine dispiega tutta la sua valenza. Il pathos crescente (un conradia­no orrore di “cuore di tenebra”, si potrebbe dire) di questo “girone fra i gironi” sembra riflettere i lacerti di un'umanitá negata, violata, divisa fino ai più intimi affetti, se si pensa che il culmine di questa angosciosa galleria degli orrori è rappre­sentato dalla scena di Ugolino e dal suo racconto di cannibalismo efferato: non solo Ugolino allude, parlando con Dante, a un possibile, disperato cannibalismo fra morenti ma, nell’aldilà, Dante lo coglie in un disgustoso e raccapricciante intreccio di contrappassi. Ugolino infatti si ciba del cervello del suo persecutore e addirittura, prima di parlare con Dante, si pulisce con i suoi capelli la bocca dai resti di quel pasto disgustoso. Una sorta di vero e proprio Hannibal Lecter ante litteram: il protagonista cannibale de Il silenzio degli innocenti è stato creato sicuramente, come tanti personaggi del filone horror contemporaneo o della filmografia “alla Dario Argento”, a somiglianza dei dannati danteschi più efferati. La cupa atmosfera di incubo non si dissolve per nulla nel Purgatorio (certe topiche interpreta­zioni in chiave sostanzialmente «idillica » di questa cantica andrebbero -credo- rivisitate dalle fondamenta), se ancora nei canti V-VI-VII il segno della morte violenta, delle piaghe non risanate domina il tenore del racconto dantesco: nel Purgatorio però si compie un ulte­riore passo rispetto all' Inferno. Se la marca dell’orrore continua a segna­lare una condizione di strazio e di divisione, Dante dispiega a fondo i motivi, le cause di tale status. L'orrore non è senza un senso, anzi ha cause precise: particolarmente nell'invettiva di Dante, in VI, nelle parole di Marco Lombardo, in XVI, e di Ugo Capeto, in XX, prende corpo pieno ciò che già era adombrato nell'inquietante metafora della lupa all'inizio del viaggio infernale. L'avarizia, la sete di potere, la cupidigia erodono i fondamenti della società civile, il rispetto delle leggi e delle autorità, finendo con l'imporre un'anarchica guerra di tutti contro tutti nel nome di un egoistico potere-possesso, che nega le basi della legalità statale e quindi le regole minimali della convivenza civile. Una posizione sostanzialmente antifeudale, di condanna per la degene­razione infima di quel modello e della sua ideologia “aristocratica” (un percorso già avviato con la loro scuola poetica dagli stilnovisti e in particolare proprio da Dante e Cino da Pistoia). Nel Paradiso l'invettiva e la tensione emotiva (si pensi alla deprecatio di S. Pietro) non vengono certo meno: ma la disperazione per una condizione dolorosa che il richiamo agli orrori del mondo, pur facendosi più raro, continua a segnalare lascia il posto -com'e ovvio nel progetto profetico/cristiano di Dante- a una speranza di vera rigenerazione, di renovatio, affidata alla missione riunificatrice dell' Impero, al suo riedificarsi come baluardo e garante di legittimità statale e di legalità, condizioni queste imprescindibili per l'ab­bandono del potere temporale da parte della Chiesa e per la sua conseguente rifondazione spirituale.

Riascoltiamo Dante personaggio della Commedia: «ma dimmi, se tu sai, a che verranno / li cittadin de la città partita». (Inferno, VI, 60-61);

«E quelli a me: Dopo lunga tencione / verranno al sangue...» (Inferno, VI, 64-65).

In questo scambio di battute tra Dante e Ciacco, nel primo dei tre canti politici assegnati simmetricamente, nelle tre cantiche, alla sesta sede, viene introdotto seccamente il cuore del problema così ampiamente dilatato nel prosieguo del viaggio: l'identità di Firenze come identità spartita, lacerata, divisa, segno stesso dello scacco di un intero ceto dirigente e di una generazione. Tale lacerazione non può che condurre, come esito finale, al sangue, alla violenza che negano il fondamento stesso di una comunità civile e delle sue radici. Le marche metaforiche dell’orrore sono, per così dire, già squadernate, nella loro brutale evidenza, sotto gli occhi del lettore: la loro ricomparsa non rappresenterà che un arricchimento e un ampliamento di questo aggregato iniziale.

Le radici di simile status si perdono nel tempo e il sangue percorre la storia stessa di Firenze, il senso delle sue contese, del suo incessante e continuo dilaniarsi fra fazioni se Dante può appunto duramente rispondere a Farinata: «Lo strazio e '1 grande scempio / che fece l'Arbia colorata in rosso, / tal orazion fa far nel nostro tempio» (Inferno, X, 85-87). In quell'occasio­ne, dopo la battaglia di Montaperti, la furia devastatrice era giunta a tal punto che i ghibellini erano ormai pronti alla distruzione totale e finale di Firenze, in una apocalittica sete di vendetta. Ma Farinata, titanicamente solo ed autoritario come sempre, si oppone: «Ma fu' io solo, là dove sofferto / fu per ciascun di tôrre via Fiorenza, / colui che la difesi a viso aperto» (91-93). Un barlume di umanità si affaccia nella barbarie delle divisioni, tanto memorabile che, immortalato nel racconto dantesco, troverà eco in tutta la storiografia successiva, anche umanistica. Non a caso proprio il ricordo di siffatto gesto magnanimo stempera il “duello” dialogato fra Dante e Farinata (simboli essi stessi, in un certo senso, delle storiche rivalità tra le fazioni), cosi che Dante, quasi amichevole e defe­rente, chiede a Farinata di sciogliergli il “nodo” delle potenzialità profe­tiche delle anime. Farinata, in virtù di quel suo gesto di vita e di pace e non di sangue, non di morte, ritorna “interlocutore” plausibile: si riapre un circuito di “civiltà” che il sangue e l’orrore continuamente rischiano di spezzare per sempre.

E’ quindi ovvio che un fiume ribollente di sangue rappresenti il contrappasso per i violenti contro gli altri, gli omicidi, i tiranni, i brigan­ti, gli armigeri efferati di inutili guerre da Dante sarcasticamente segnalati, nella sua culinaria infernale (si pensi ai barattieri arruncigliati nella pece bollente), come bolliti: «lungo la proda del bollor vermiglio, / dove i bolliti facean alte strida» (Inferno, XII, 101-102). Con particolare disprezzo sono guardati i tiranni: «E' son tiranni / che dier nel sangue e ne l'aver di piglio» (104-105). La cupidigia di possesso, in questo canto, va saldandosi definitivamente con il sangue e la violenza, l'una in stretta correlazione con gli altri: il lento e graduale dipanarsi dell’ orrore va al tempo stesso mettendo in luce quali effettivi processi ne sostanzino la valenza. Il canto si chiude, del resto, con il richiamo ad efferati briganti (Rinier da Corneto e Rinier Pazzi), accomunati, nell'infamia di uccidere per cupidigia di possesso, a tiranni e signorotti, rampolli- i più- proprio della vecchia aristocrazia feudale del sangue: chi pretende il primato - e prevarica - in virtù dell'eredità simbolica del sangue è spesso chi - prima di tutti- è pronto a versare con disprezzo il sangue altrui.

Il grave è che questa pestilenziale brama è avallata e protetta, fatta propria, dal potere temporale della Chiesa, straziata e piagata dai suoi stessi pastori che dovrebbero esserne i custodi: «Se' tu si tosto di quell'a­ver sazio / per lo qual non temesti torre a 'nganno / la bella donna, e poi di farne strazio» (Inferno, XIX, 55-57). Anche la Chiesa è piagata, venduta, offesa: il XIX dell'Inferno rappresenta un passaggio significa­tivo del nostro percorso. Dante qui denuncia con veemenza (specie nella icastica pantomima di Bonifacio VIII e nell'invettiva finale) quale inau­dita legittimazione venga all'avarizia proprio da chi dovrebbe esserne il più fiero avversario. Prima di condurre il lettore al culmine del terribile viaggio nell'orrore della violenza e del tradimento, egli chiarisce con aspra evidenza tutta la latitudine immensa delle lacerazioni del suo tem­po, del sangue che l'intride, di ciò che muove l’umanità a questo ferino negarsi, scoprendo perfino nel corpo della Chiesa e dei suoi vertici molti pro­tagonisti primari di tale degrado.

E così nella bolgia dei seminatori di scismi e discordie, come accennavamo all’inizio, in Inferno XXVIII   Dante mette mano a un crescendo di “orrori”, di terribili immagini, dove le ferite, il sangue, le piaghe si materializzano come emblema per eccellenza (attra­verso il contrappasso) di ciò che dilania la storia dell'uomo. Tutto è attraversato dal sangue; tutto è orrore come nei peggiori incubi. Né è da stupirsi che proprio questi canti abbiano così tanto segnato l’immaginario europeo e mondiale fin dal Romanticismo, abbiano come accompagnato i passaggi più terribili della storia occidentale del Novecento e nutrano costantemente un immaginario contemporaneo dove l’incubo, la distopia, l’orrore dilagano in tutte le forme dell’arte narrativa e figurativa (perfino in molti “infernali” graphic novel) anche più popolare, la cui matrice dantesca è di sorprendente pervasività e attualità, per certi versi persino più radicalmente presente della matrice tragica shakeasperiana.  E in effetti se torniamo a Inferno XXVIII   vediamo dispiegarsi davanti ai nostri occhi di lettori intimoriti una rassegna da incubo: si trascorre dai grandi eccidi delle guerre passate (in apertura di canto) alle plebee e ripugnanti immagini delle più disparate ferite inferte ai dannati dalla spada del Diavolo/macellaio   fino al culmine della terrificante comparsa di Bertran de Born e del suo capo mozzo e che pure parla tenuto per la mano dal corpo separato di Bertran stesso. «Chi poria mai pur con parole sciolte / dicer del sangue e de le piaghe a pieno / ch'i' ora vidi, per narrar più volte?» (Inferno, XXVIII, 1-3): Dante prepara il lettore allo spettacolo ripugnante che l'attende, creando un clima di tensione e di paura fin dall'inizio del canto (il grande narratore che è in ultima istanza Dante inventa anche, per inciso, in tutto l’Inferno, il “suspense”, la tecnica per eccellenza del romanzo moderno e di ogni forma narrativa a noi oggi familiare). I massacri delle grandi guerre passate sono ben poca cosa rispetto a quello cui ora si dovrà assistere!

Qui Dante sembra davvero consumare fino in fondo e rilanciare in grandiosa partitura letteraria una intera tradizione medievale connessa alla “paura”, all’orrore appunto di fronte al destino dei peccatori nell’inferno ( da consultare i recenti studi di Chiara Frugoni). Accentuare l’orrore delle pene infernali, rappresentarle anche in ogni tipo di arte visiva al fine di contenere la tentazione del peccato era prassi diffusissima nella tradizione cristiana medievale in ogni ambito, dalla predica, ai testi penitenziali, all’omiletica, alle arti figurative. Suscitare “orrore” e paura poteva raggiungere un doppio scopo (come ben hanno mostrato per epoche successive gli studi di Alberto Natale): da un lato indurre il credente a non cadere nel peccato e trovare comunque sempre la via del pentimento e dall’altro consentire ai ceti e fazioni dirigenti, ai Sovrani, alla Chiesa di mantenere il potere anche con la “paura”, da sempre alleata di ogni tipo di dogmatismo e di controllo sociale e politico.

E la paura e l’orrore non erano affatto mere evocazioni astratte ma ben visibili nella quotidianità della vita: e soprattutto nelle efferate violenze esercitate sui corpi, rispetto ai quali non casualmente si dipana un vero e proprio sapere medico, magico, feticistico, figurativo e simbolico/religioso (il culto delle “reliquie”) intorno alle loro varie parti (mani, testa, occhi, cuore, ecc.) viste come distinte e “sezionate”, quasi autonome dall’intero del corpo. Il corpo in altre parole è già “fatto a pezzi” nella cultura e nell’immaginario prima ancora che nella violenza quotidiana (si vedano gli studi in proposito di Jack Hartnell).

 Le torture, la macellazione per vendetta dei corpi di uomini e donne (pratiche che ancora oggi ci funestano ovunque le guerre e le violenze hanno spazio), il sangue che impregna la terra di città e campagne sono uno sfondo consueto, terribilmente consueto nella vita di ogni giorno a Firenze come in ogni luogo ai tempi di Dante. Egli stesso, da combattente in armi per la sua “parte”, vide direttamente gli strazi degli scontri militari e partecipò in prima persona (come ha ben ricostruito Barbero) a battaglie anche efferate dove non poté certamente sottrarsi alla violenza della guerra e agli orrori dei corpi mutilati dalle ferite delle spade e delle lance. Il Dante poeta della donna “gentile” e dell’amore è come, se in quel sogno di Beatrice che lo accompagnerà fino al Paradiso della pace e dell’Amore, in quel tenace costruirsi per tutta la vita il mito della “ donna del destino” (come suggerisce Lacan dell’amore a prima vista, Dante  trasforma la casualità di un incontro in un destino, in un per sempre) volesse dimenticare il mondo di violenze cui aveva assistito in prima persona non solo nei combattimenti ma anche nei rischi, nelle paure, nell’angoscia costante di essere ucciso e torturato che lo accompagnerà dovunque nella sua vita di esule costantemente a rischio. Come a dire che il poeta dell’Amore doveva convivere con l’orrore della realtà in un tragico e terribile contrappunto che diede materia incandescente al costituirsi e definirsi della grandiosa e lacerante invenzione ascensionale (dall’orrore infernale alla luce paradisiaca) della Commedia. Solo così possiamo comprendere la beatitudine dell’ultimo canto del Paradiso, la sua incredibile affettività e dolcezza. La visione finale di Dio, con la decisiva vicinanza della donna amata, sciolgono finalmente l’orrore che coabita in Dante, ne annullano gli incubi, non sono una astratta esaltazione mistica di Dio ma abbandono nella pace del cuore con la donna amata e, come nel sogno di tutti gli innamorati, davvero per sempre : non per nulla Dio è Amore e non per nulla Beatrice è davvero la donna amata da sempre e per sempre e non mera e frigida figura allegorica. Solo la donna della vita e Dio possono cancellare l’orrore di cui Dante è stato testimone in terra e nell’aldilà (non a caso Primo Levi, il più grande scrittore dell’Olocausto, ha sempre pensato a Dante come a unico, decisivo punto di riferimento per tentare di rammemorare e dare voce all’orrore indicibile e alla “cura” che potesse seppure in parte darne qualche risarcimento).

 Appare del resto fortissimo in Dante il senso di ripugnanza per il sangue sparso nelle guerre di ogni tipo (lui stesso, come dicevamo, essendone stato testimone diretto): non casualmente tutta la sua riflessione politica e ideologica è volta, dal Convivio alla Monarchia alla Commedia, a indicare un modello di pace universale atto a far crescere in sapienza l’uomo e a prepararlo sul cammino della futura civitas Dei .

In Inferno XXVIIII il paragone iniziale con le celebri battaglie (Canne, Ceprano, Taglia­cozzo) segnala una sorta di progressivo degrado persino nel sangue sparso, degrado di una storia umana che sembra giungere agli approdi infi­mi: infatti, dalle guerre terribili ma celebri dei primi versi il canto va via via metten­do in luce scismi, scandali, divisioni fino alle faide più truculente e meno nobili, quasi a marcare con nettezza l'insensata follia sanguinaria dei tempi recenti. Non a caso, dopo il vibrante paragone iniziale con le battaglie del passato, immediatamente Dante, nell'introdurre la pena della bolgia nona, trascorre, con violenza espressionistica tra le più forti del poema, ad un registro di orrore insieme plebeo e sconcio riferito non a caso allo “scismatico” per eccellenza nell’alveo delle religioni monoteistiche di origine veterotestamentaria, Maometto: «Già veggia, per mezzul perdere o lulla, / com'io vidi un, cosi non si pertugia, / rotto dal mento infin dove si trulla. / Tra le gambe pendevan le minugia; / la corata pareva e 'l tristo sacco / che merda fa di quel che si trangugia» (22-27). Le rime aspre e difficili, il lessico, il tono dispregiativo, tutto accentua una visione che non suscita compassione ma orrore, non dolore ma ripugnanza: l'orrore e la ripugnanza che si dilatano verso la sostanza stessa della colpa di chi divide e lacera la società umana e per cui nessuna compartecipazione emotiva, nessuna pietas sono ammissibili. Dante mostra, come già dicevamo, grande familiarità con le “gallerie degli orrori” che, nelle città, esibivano corpi martoriati e torturati, specchi di paura per ammonire gli uomini (come ben hanno studiato Piero Camporesi e la sua scuola) e però essi stessi simbolo di una barbarie cruenta, per nulla conciliabile col primato civile ed etico delle leggi. La “banalità del male” e gli orrori che vi sono connessi sono già ben presenti a Dante, attento scrutatore della realtà, anche più infima, e fin nei più perturbanti interstizi. Eppure nella nona bolgia non siamo ancora al fondo dell'orrore: tale culmine viene raggiunto nei canti dei traditori (specie il XXXII e il XXXIII), in un clima di incredibile tensione emotiva e tragica che si impenna nell'episo­dio di Ugolino. Il tradimento è , in un certo senso, l'atto ultimo e più grave di quelle divisioni che attraversano per intero la società del tempo, ferendone i sentimenti più sacri, imbestiando l'uomo, rendendolo fiera (il fiero pasto di Ugolino): la galleria disumana di omicidi-traditori, l'ira violenta di Dante contro Bocca degli Abati, l'accenno staziano a Tideo e Melanippo, nel XXXII, preparano il culmine simbolico di questa lacera­zione totale nel XXXIII, di questa umanità  negata, con l'episodio di Ugolino.

Il canto è un condensato di odii, di lacerazioni, di brame di potere che rinviano a una società che sembra disgregarsi addirittura nelle sue stesse radici antropologiche. Dante, innovatore sempre, mette dunque in campo, con modalità che superano per visionarietà e ferocia gli stessi apparati figurativi di tanta arte medievale, l’orrore come condizione umana: il peccato e la colpa non emendabili nutrono lo scenario infernale che si rifrange nel mondo terreno e nelle sue pratiche brutali. Pratiche che non pertengono solo ai casi eclatanti di personaggi illustri, di tiranni, di signori feudali ma che dilagano in tutto il corpo sociale, fino alla quotidianità delle persone comuni: è la prima, straordinaria intuizione, cui poi Anna Harendt darà piena dignità filosofica, della “banalità del male”, dell’orrore come “ordinario” costume degli uomini, come loro “doppio” perturbante e annidato nella nostra natura più profonda ( un percorso che si dipana tra Machiavelli, Shakespeare,  Milton, lo Stevenson di Dr.Jekille e Mr.Hyde fino a  Freud, Conrad, Bernhard e oltre). Dante esibisce quell’orrore e lo attraversa nell’Inferno fino alle sue più tragiche evidenze come presupposto per smarcarsene: solo prendendo coscienza di quell’ abisso è possibile a lui come a ogni uomo rivedere la luce, ritrovare la pacificazione, sdoganare l’utopia d’Amore, in ultimo attingere al Paradiso e al sogno di un mondo bucolico di pace. Infatti l’ ultimo Dante “ravennate” dopo un millennio ridarà vita al genere bucolico/pastorale virgiliano con la reinvenzione, in dialogo con Giovanni del Virgilio, in due Egloghe di un intero apparato letterario e utopico di matrice classica inabissatosi nei secoli medievali. Le Egloghe, già pienamente umanistiche, stanno agli ultimi canti del Paradiso come Dante sta alla sua ansiosa e inesausta speranza di pace e di verità: quella luce finale che lo abbaglia e lo ristora, quella donna che lo “significa” definitivamente dopo una lunga storia di un sogno d’amore sono l’approdo che consente a Dante di lasciarsi alle spalle l’orrore, l’ultima stazione di un salutare e salvifico oblio.

Se perciò è ormai consuetudine critica corrente far nascere il genere horror, fra i più presenti nell’immaginario contemporaneo, col romanzo “gotico” romantico e in seguito con Poe o Lovecraft non c’è dubbio che occorrerebbe indagare a fondo anche sulla remota ma indiscutibile matrice infernale dantesca (anche solo a stare agli accenni che finora abbiamo fatto e ben sapendo quanto il Romanticismo anglosassone abbia totalmente rilanciato l’Inferno di Dante nell’immaginario moderno). Il paesaggio infernale che Dante delinea è lo sfondo non solo della migliore letteratura horror (fino a Stephen King e oltre) ma anche dell’intera cinematografia e serialità televisiva contemporanea: la stessa selva oscura iniziale con le sue belve feroci, il terrore di Dante, l’apparizione del Virgilio “fantasma” inducono subito nel lettore (e ben oltre le ovvie letture allegoriche che questo scenario comporta) un senso di disagio e di paura, di senso dell’ignoto come fattore perturbante, come inquietante appalesarsi del male e dell’orrore (il “peccato” in chiave cristiana). Questo topos della “selva oscura” diverrà il più diffuso in una infinità di generi e opere contemporanei tra l’horror, il visionario e il trhiller (basti pensare, che so, alle serie Netflix Hotspot, Bordertown o Deadwind). Ma ovviamente altri scenari infernali sono archetipi fondamentali di tanto immaginario contemporaneo: l’oscurità interrotta da fuochi e fiammelle che la rendono ancora più terrificante (fondamentale ne Il trono di spade in punti e passaggi decisivi ad esempio); le lande desolate di ghiaccio (insuperata invenzione dantesca senza precedenti nella letteratura e nell’iconologia precedenti) della parte più profonda dell’Inferno (cui si ispirò per il finale di Frankestein Mary Shelley); le strida e le urla disumane dei dannati; l’apparizione improvvisa, di continuo, di essere mostruosi e ringhianti tratti dal repertorio mitologico classico ma trasformati in cupi e deformi messaggeri di tortura; la invasione dei Diavoli feroci, irriverenti e devastanti con fisionomie e ghigni che rimangono intatti fino ad oggi (si vedano i misteriosi, ributtanti “mostri” di Outsider, fra gli ultimi capolavori di King poi divenuto splendida serie TV e il filone demoniaco alla Rosemary’s Baby… o ai romanzi di Dan Brown fino alla recente serie spagnola La trilogia del Baztàn). Ma l’aspetto che in modo più eclatante forse ha generato il costituirsi dell’horror con le sue peculiari caratteristiche è dato ovviamente dalle pene cui sono sottoposti i dannati danteschi: come già si diceva, una ininterrotta galleria degli orrori che ha segnato profondamente la cultura occidentale e non solo (basti pensare ai film del coreano Bong Joon-ho come Parasite o Snowpiercer). Le pene e le torture , l’angoscia per la sofferenza eterna, il contrasto tra Dante e i suoi terribili incontri infernali fanno da sfondo all’immaginario collettivo della modernità, ivi compreso il “contrappasso” tra colpe, peccati e punizioni e ritrascritto oggi in infinite modalità: sia in senso letterale come nel film trhiller/horror più dantesco e celebre che sia mai stato girato, Seven, sia in senso lato come oscura punizione di colpe ancestrali di chi viola, punito terribilmente,  i segreti della natura e del suo misterioso svelarsi in lande appunto desolate e glaciali ( la inquietante, splendida serie britannica Fortitude) dove l’umano convive col male e con l’orrore di cupe colpe e delitti indicibili e di conseguenti feroci contrappassi, tanto che il trhiller si trasforma via via in un crescendo di horror come è ormai consueto in molte produzioni contemporanee, specie nordiche e di fatto totalmente “dantesche”. Altrettanto può dirsi del genere horror, che continuamente si rinnova, dei cosiddetti “morti viventi” (nella cultura ancestrale anglosassone e nordica legato in particolare alla ricorrenza dei “morti che tornano” per una notte ovvero Halloween): qui le suggestioni sono infinite e attingono radici in molta narrativa romantica ottocentesca e durano con ininterrotta fortuna fino ad oggi profondamente segnate dall’immaginario creato da Dante che per primo appunto “incontra” direttamente nell’aldilà i “morti viventi” e li incontra piagati, feriti, lacerati, feroci, cupi proprio come oggi si pretende da questo genere che senza l’Inferno di Dante non sarebbe mai nato. E’ vero che la discesa agli Inferi (la greca nekuia) compare già nell’Odissea e nell’Eneide e le “visioni” infernali fanno parte di tanta letteratura penitenziale e di tanta iconologia medievali ma è anche vero che nessuno ha dispiegato con tanta estensione e con tanta puntualità espressiva gli Inferi come Dante nella Commedia. Il Walking Dead televisivo di oggi come l’insuperato film- capostipite La notte dei morti viventi (1968) di Romero sono danteschi fino nelle radici più profonde. Ma potremmo dire la stessa cosa per tanti filoni del Graphic novel contemporaneo che direttamente spesso si rifanno all’imagerie della Commedia. E del resto lo stesso, per dirla con una battuta, spin-off dell’horror che è la fortunatissima saga di Dracula, Signore delle tenebre, e dei vampiri è impregnato della marca metaforica del sangue infernale così come domina nell’Inferno di Dante di cui il fondatore del genere, l’irlandese Bram Stoker (Dracula, 1897) fu grande ammiratore: la cosa di grande interesse nel filone “Vampiri”, e che è eclatante nella rivisitazione contemporanea (romanzi e trilogia filmica) Twilight, è data dal contrasto fra le tenebre del mondo notturno e dolente di Dracula e la luce, il biancore delle donne destinate al “morso” fatale ma che, col passare del tempo, si trasformano in molti romanzi e film in una sorta di Beatrici salvifiche (appunto Bella di Twilight) in grado di riscattare dalla maledizione infernale il Vampiro innamorato. Parliamo dei Vampiri  come uno dei cicli più popolari nel mondo (fino all’uso proverbiale di molti termini “vampireschi” in ogni lingua ) e che si innesta clamorosamente, fra le tante suggestioni che lo alimentano, anche nel grande archetipo dantesco.

La sostanza di quel che abbiamo voluto qui dire è che la rappresentazione del male e dell’orrore che Dante ci ha così magistralmente consegnato non attiene solo a una pagina fortunatissima della sua ricezione universale ma è anche un viatico che ha consentito a scrittori, registi, musicisti classici e pop, filosofi, artisti di confrontarsi con il doppio perturbante ( Stevenson, Freud, Bernhard, Picasso, McGrath, Munch, Arendt) che ci coabita nutrendo i nostri incubi (basti solo pensare all’Urlo di Munch): la lettura di Dante costringe a un viaggio nell’orrore e negli abissi del cuore come premessa per ritrovare una sorta di salvazione e di luce. Gli orrori del Novecento ci hanno fatto disperare che non potessimo attingere altro che all’Inferno o all’”inverno del nostro scontento” del più demoniaco, accanto a Lady Macbeth, dei personaggi di Shakespeare, Riccardo III: eppure il Dante degli orrori è anche il Dante di Beatrice, dell’amore che può redimere e forse oggi possiamo tentare di ridisegnare un’utopia di speranza ritrovando anche questo Dante che ha saputo calarsi nell’abisso delle tenebre e della ferocia per trovare alla fine la luce di un possibile Paradiso cui bussare, quel Knockin’on Heaven’s Door dell’insuperato Bob Dylan.

 

23 marzo 2021