Presentazione di un progetto per un film
La storia della Madame Bovary del Dipartimento di Allier fu scritta da mio padre Furio, con la mia collaborazione, all’inizio della primavera dell’ormai lontano 2002, come progetto per un film che il produttore cinematografico e televisivo Pietro Valsecchi intendeva mettere in piedi con corrispettivi francesi. Purtroppo non venne poi sviluppata in sceneggiatura, cosa però tutt’altro che rara in questo ambito artistico e professionale. Com’è noto, soltanto una bassa percentuale dei testi pensati per il cinema riescono a trovare la strada della realizzazione, per i motivi più vari, spesso di natura economica; il nostro era per l’appunto ambientato durante la Seconda Guerra Mondiale e avrebbe necessitato di una larghezza di mezzi di cui ormai disponevano e dispongono quasi esclusivamente gli americani.
Merita inoltre precisare che mentre la gran parte delle pellicole d’Oltreoceano è tratta da testi letterari già pubblicati (ve ne sono a migliaia sul mercato), di cui spetta allo sceneggiatore scrivere l’adattamento, in Italia, in genere, avviene qualcosa di diverso: lo sceneggiatore ha il compito di concepire e scrivere prima di tutto la novella, il racconto, e soltanto in un secondo momento il copione. Mio padre scherzosamente affermava che era quindi legittimo ritenere che nel nostro paese a colui che deve scrivere il testo per un film tocca essere due volte autore. Cesare Pavese negli anni Cinquanta forse non scherzava più di tanto, quanto sosteneva che il cinema italiano aveva sostituito una letteratura narrativa che latitava.[1] Tuttavia, nel caso della storia che presentiamo, scegliemmo di rifarci — come deliberata eccezione — al grande romanzo di Gustave Flaubert (1856), considerandolo, se così si può dire, un modo per mettere alla prova il perdurare del suo valore. Dovemmo comunque collocare la vicenda esemplare della provinciale insoddisfatta, votata a un’esistenza tragica, in un contesto storico completamente diverso e rielaborarne la struttura.
Nella scelta del titolo il richiamo metaletterario fu raddoppiato da mio padre, avendo deciso di parafrasare quello di un altro potente romanzo, quasi coevo di Madame Bovary: Una Lady Macbeth del Distretto di Mcensk (1865), del russo Nicolaj Leskov. Il quale, ignorato dalla critica del suo tempo, aveva compiuto un’impresa narrativa che precorreva il nostro esperimento.
Ho di recente ritrovato queste pagine e penso, e spero, che possano ancor costituire un’interessante rivisitazione in chiave novecentesca di un capolavoro. I classici, amava ripetere Calvino, sono precisamente quei libri di cui a ogni rilettura si riscoprono nuovi significati, ed è questo che li rende intramontabili.[2]
Giacomo Scarpelli (14/02/2019)
Pubblicato il 26/02/2019
[1] Cfr. C. Pavese, Il serpente e la colomba. Scritti e soggetti cinematografici, a cura di M. Masoero, Torino, Einaudi 2009, p. XXI.
[2] I. Calvino, Perché leggere i classici, Milano, Mondadori 1995.
Il testo del progetto