Nota di Francesco Carbognin
Sono «ogni volta parole estreme» [1] quelle di cui Andrea Zanzotto (Pieve di Soligo, 1921) si serve per esplicitare le profonde ragioni del proprio scrivere di sempre, in sede di interventi e di saggi critici come pure nelle «micropoetiche» [2] disseminate tra i suoi versi. Dal momento che proprio attraverso tali «parole estreme» giungerebbe ad esprimersi la stessa «natura contraddittoria dell’atto poetico», costantemente lacerato tra un «estremo sentimento dell’irripetibilità, dell’unicità proprie all’individuale» e un altrettanto «prepotente senso della necessità di partecipare ad altri questa “unicità” e di ricevere quella altrui» [3].
Ne consegue, per quanto riguarda la produzione lirica di Zanzotto (specie a partire da Vocativo del 1957, fino ai Conglomerati, editi nel 2009), un tipo di testualità pluristratificata e intertestualmente onnivora, tanto tenacemente radicata nella tradizione poetica che da Petrarca giunge fino all’ermetismo quanto, dantescamente, sostenuta da una vocazione all’«oltranza» [4] della determinazione del senso, nella prospettiva di «rendere eloquenti secondo l’umano tutte le forze alloglotte con cui ci si deve misurare» [5] : quelle «forze», in particolare, scatenate da un progresso scientifico e tecnologico disumanizzante, asservito alla mera logica dei giochi di potere e alle esigenze dell’industria bellica, precocemente incombenti nell’orizzonte delle riflessioni zanzottiane a partire dai primi anni ’50.
Quelle «forze», ancora - pubblicità e mistificazione dei significati, diffusione massmediatica dell’informazione e consumismo, globalizzazione e distruzione dell’ecosistema - tipiche della società neocapitalistica, inquinata alle radici dalle «premesse quantitative» di carattere storico rispetto alle quali la poesia, secondo Zanzotto, giunge a imporsi nei termini di una «suprema proposta qualitativa» [6].
«Io credo che ci sia sempre una funzione civile nella poesia, anche se non manifesta, ma sottintesa», ha ribadito Andrea Zanzotto alcuni anni or sono [7] . E dell’attenzione da sempre prestata da Zanzotto alla funzione civile della poesia testimoniano, primariamente, le liriche dedicate ai tragici eventi di cui si è sostanziata la storia dell’umanità nel secolo appena trascorso: dalla Grande Guerra alla Resistenza; dalla guerra del Vietnam alla guerra fredda tra superpotenze; dal disastro del Vajont alla strage della Stazione di Bologna; dal bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki all’esplosione della centrale nucleare di Cernobyl’.
In occasione del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, Andrea Zanzotto ha rilasciato, per i lettori di «Griseldaonline», una breve ma significativa dichiarazione circa una sua lirica appartenente a Il Galateo in Bosco (1978), Rivolgersi agli ossari..., in cui con particolare forza si manifesta tale funzione civile riconosciuta alla poesia [8].
Al termine della Grande Guerra, l’Italia poteva dirsi, finalmente, «una». Ma il prezzo di quella unificazione non può tollerare alcuna forma di apoteosi sacrificale. Seicentomila soldati italiani furono trucidati «sotto l’alta guida di S.M. il Re, duce supremo» (come recita il noto Bollettino della Vittoria); 240.000 tra italiani e tedeschi caddero nella sola Battaglia del Solstizio, combattuta sul fronte del Piave tra il 15 e il 23 giugno 1918...
Questa mia poesia non li commemora: cerca di patirne, anzi, la radicale distanza dalla retorica spettacolarizzazione di quegli stessi eventi, quasi da «circo», compiuta nell’ambito delle commemorazioni ufficiali. Ne Il galateo in bosco (1978) si trattava, per me, piuttosto, di delineare un’allegoria dell’attuale topografia del Montello, del suo terreno tragicamente ipersedimentato, dove i segni impressi dalla catastrofe della guerra (i resti dei caduti) si mescolano ai sedimenti dei processi naturali, agli scarti dei weekendisti, ai ruderi della Certosa e dell’Abbazia, alle tracce lasciate nei secoli da chi elesse proprio quella zona, anticamente ricoperta di selve, a luogo di elaborazione letteraria (si pensi al Galateo di Giovanni della Casa). Era proprio quella scandalosa prossimità di materiali animali e vegetali, organici e inorganici, culturali e minerali, a predicare, con mezzi orrendamente persuasivi, la squallida inutilità di tutti i sacrifici umani. Perché la Storia del nostro Paese, da ultimo, si converte in una “terribile” geografia. E la Linea degli Ossari, nel Montello, si sovrappone alla faglia Periadriatica della crosta terrestre... [9] (Pieve di Soligo, 7 marzo 2011)
Rivolgersi agli ossari. Non occorre biglietto.
Rivolgersi ai cippi. Con il più disperato rispetto.
Rivolgersi alle osterie. Dove elementi paradisiaci aspettano.
Rivolgersi alle case. Dove l’infinitudine del desìo
(vedila ad ogni chiusa finestra) sta in affitto.
E la radura ha accettato più d’un frondoso colloquio
ormai, dove, ahi,
si esibì la più varia mostra dei sangui
il più mistico circo dei sangui. Oh quanti numeri, e rancio speciale. Urrah.
Vorrei bucarmi di ogni chimica rovina
per accogliere tutti, in anteprima,
nello specchio medicato d’infinitudini e desii
di quel circo i fermenti gli enzimi
dentro i succhi più sublimi dell’alba, dell’azione, in piena diana. E si va.
E si va per ossari. Essi attendono
gremiti di mortalità lievi ormai, quai gemme di primavera,
gremiti di bravura e di paura. A ruota libera, e si va.
Buoni, ossari – tante morti fuori del qualitativo divario
onde si sale a sicurezze di cippo,
fuori del gran bidone (e la patria bidonista,
che promette casetta e campicello
e non li diede mai, qui santità mendica, acquista).
Hanno come un fervore di fabbrica gli ossari.
Vi si ricevono ordini, ordinazioni eterne. Vi si smista.
All’asilo, certi pazzi-di-guerra, ancora vivi
allevano maiali; traffici con gli ossari.
Mi avete investito, lordato tutto, eternizzato tutto, un fiotto di sangue.
Arteria aperta il Piave, né calmo né placido
ma soltanto gaiamente sollecito oltre i beni i mali e simili
e tutto solletichìo di argenti, nei suoi intenti, a dismisura.
Padre e madre, in quel nume forse uniti
tra quell’incoercibile sanguinare
ed il verde e l’argenteizzare altrettanto incoercibili,
in quel grandore dove tutti i silenzi sono possibili
voi mi combinaste, sotto quelle caterve di
os-ossa, ben catalogate, nemmeno geroglifici, ostie
rivomitate ma come in un più alto, in un aldilà d’erbe e d’enzimi
erbosi assunte,
in un fuori-luogo che su me s’inclina e domina
un poco creandomi, facendomi assurgere a
Così che suono a parlamento
per le balbuzie e le più ardue rime,
quelle si addestrano e rincorrono a vicenda,
io mi avvicendo, vado per ossari, e cari stinchi e teschi
mi trascino dietro dolcissimamente, senza o con flauto magico
Sempre più con essi, dolcissimamente, nella brughiera
io mi avvicendo a me, tra pezzi di guerra sporgenti da terra,
si avvicenda un fiore a un cielo
dentro le primavere delle ossa in sfacelo,
si avvicenda un sì a un no, ma di poco
differenziati, nel fioco
negli steli esili di questa pioggia, da circo, da gioco.
Andrea Zanzotto, in occasione delle celebrazioni per l’Unità d’Italia, ci ha inviato un commento a una sua poesia del Galateo in bosco. Abbiamo chiesto a Francesco Carbognin, studioso dell’opera di Zanzotto, di offrirci una breve lettura del suo intervento.
NOTE
[1]A. Zanzotto, E la madre-norma, in Id., La beltà, Milano, Mondadori, 1968, vv. 15-19; ora in Id., Le Poesie e Prose scelte, a cura di S. Dal Bianco e G.M. Villalta, con due saggi di S. Agosti e F. Bandini, Milano, Mondadori, 1999, p. 348: «torno a capo ogni volta ogni volta poemizzo / e mi poemizzo a ogni cosa e insieme / dolenti mie parole estreme / sempre ogni volta parole estreme / insieme esercito in pugna folla cattiva o angelica: state». Cfr. Petrarca, Rerum vulgarium fragmenta, CXXVI, vv. 12-13: «date udïenza insieme / a le dolenti mie parole extreme».
[2]Si tratta di quelle «poetiche-lampo, bagliori di “immagini” esse stesse, immagini che virano in teorie, e viceversa» che ogni autore, a detta di Zanzotto, incastona nei propri versi: A. Zanzotto,Tentativi di esperienze poetiche (Poetiche-lampo) (1987), in Id., Le Poesie e Prose scelte, cit., p. 1311.
[3]A. Zanzotto, Uno sguardo dalla periferia (1972), in Id., Le Poesie e Prose scelte, cit., p. 1150.
[4]Oltranza oltraggio è il titolo della lirica d’apertura di A. Zanzotto, La beltà (ora in Id., Le Poesie e Prose scelte, cit., p. 267), dichiaratamente connessa a una memoria dantesca: «Oltranza oltraggio: nel senso di “cosa che va oltre il limite, la sopportazione” (“e cede la memoria a tanto oltraggio”, cfr. Paradiso, XXXIII, 57)» (Note a La beltà, ivi, p. 349).
[5]A. Zanzotto, Il mestiere di poeta [1965], ora in Id., Le Poesie e Prose scelte, cit., p. 1128.
[6]Ivi, p. 1129. Riportiamo il contesto da cui sono tratte queste ultime citazioni, da cui si evince il valore civile da Zanzotto attribuito alla poesia.
[7]Dal testo di una intervista a Zanzotto parzialmente riportata, con il titolo La poesia ha sempre una funzione civile (anche se è nascosta), nel «Corriere della Sera» del 6 dicembre 2008 (articolo consultabile online).
[8]A. Zanzotto, Rivolgersi agli ossari..., in Id., Il Galateo in Bosco, Milano, Mondadori, 1978; ora in Id., Le Poesie e Prose scelte, cit., pp. 565-566.
[9]Al centro de Il Galateo in Bosco (ora in Le Poesie e Prose scelte, cit., p. 560), Andrea Zanzotto ha posto una cartina topografica del Montello. Vi è segnata « la Linea degli Ossari che ad est va fino al mare Adriatico, ad ovest (nord-ovest) continua attraverso il territorio italiano e poi francese, fino alla Manica. Linee su cui l’Europa, ancora oggi, mette in gioco la sua stessa esistenza, e segnalazione di una faglia: che nel Montello si sovrappone alla faglia Periadriatica della crosta terrestre» (N.d.A, ivi, p. 644). Ecco la cartina in cui è segnata la Linea degli Ossari.