Non si tratta di far leggere,
ma di far pensare
(Montesquieu)[1]
1. La cupiditas
Corruzione, concussione, peculato e tanto altro non sono solamente realtà del nostro tempo, delle quali sentiamo parlare in mille occasioni, perché la cupidigia è presente in molti altri periodi storici e in altre società e nella fattispecie nella società medievale che sta a cuore a Dante e che torna a più riprese nel suo poema. E viene declinato in vari personaggi e correlato a peccati differenti, nell’orizzonte di quello ‘schema’ dei sette vizi capitali che costituisce la struttura della Commedia. È necessario fare una premessa. Nel Medioevo la dottrina morale ha subìto progressivamente variazioni in quell’adattamento del sistema dei vizi, nato nel V-VI secolo in ambito monastico, che è andato via via adeguandosi ai cambiamenti della realtà, della cultura, delle vicende storiche. In età medievale si operò, con particolare riferimento a Cassiano e a Gregorio Magno, una distinzione tra vizi carnali e vizi spirituali[2]; e questa distinzione ci aiuta a capire quanto Dante viene declinando nel suo poema. Se i peccati carnali sono quelli che sollecitano il corpo e lo spingono a peccare (incontinenza e violenza), quelli spirituali invece non procurano piacere fisico, tutt’altro; spesso infatti il corpo viene addirittura estenuato in essi, mentre è l’anima a essere coinvolta. Subito vengono in mente la superbia - per altro non presente nell’Inferno in modo specifico, in quanto tutti i dannati hanno peccato di superbia contro Dio - e la vanagloria, come si legge nel canto XI del Purgatorio, dove Dante rappresenta questo peccato, anzi il ricordo di esso, articolandolo in Guglielmo Aldobrandeschi (l’arroganza della classe nobiliare), Oderisi da Gubbio (la vanagloria e la vanità dell’orgoglio nell’arte) e Provenzan Salvani (la presunzione derivante dal potere). Da ricordare poi che fu Lucifero a compiere per primo il peccato di superbia, peccato tutto spirituale, ribellandosi a Dio.
Carla Casagrande[3] nel suo saggio sui vizi capitali dedica un capitolo a ciascuno dei sette peccati e in quello dedicato all’avarizia scrive «Tommaso di Choddam la definisce un vizio “misto”, visibile quando si manifesta in usura, latrocini o rapine, occulto, a volte anche per chi lo compie, quando si consuma nel possesso del superbo o nella mancanza di misericordia.» (p. 96), ribadendo quanto afferma Dante fin dal canto I dell’Inferno, quando il Dante pellegrino si imbatte nelle tre fiere, che ostacolano il suo cammino; la più pericolosa è proprio la lupa, «che di tutte brame / sembiava carca nella sua magrezza» (vv. 49-50), - da tutti gli studiosi nei secoli interpretata proprio come la cupidigia - e della quale si legge «Molti son li animali a cui s’ammoglia» (v. 100) e «ha natura sì malvagia e ria, / che mai non empie la bramosa voglia, / e dopo ’l pasto ha più fame che pria» (vv. 97-99). Sono questi i versi da tenere presenti come una bussola per il nostro itinerario.
Perché sono molti gli animali ai quali la lupa, cioè la cupidigia, si unisce? Perché essa ha il potere prima di tutto di mettere a tacere il libero arbitrio di cui è dotato l’uomo, quel libero arbitrio del quale parla Marco Lombardo nel XVI del Purgatorio e che, grazie al «lume [che] v’è dato a bene e a malizia» (v. 75) gli permette di operare razionalmente le scelte. Per di più non si tratta di un peccato di incontinenza o di violenza, i quali attengono alla sfera materiale, ma si tratta appunto di un peccato spirituale che viene messo in atto in svariati modi, nella frode, nell’usura, nell’omicidio, nel tradimento, come ricorda la Casagrande. Non si può non rimandare a Giuda che, per l’avidità di ottenere i 30 denari, tradì Gesù. E anche a Simon Mago che propose a san Pietro e a san Giovanni di ottenere, in cambio del denaro, la capacità di comunicare ai fedeli lo Spirito Santo con l’imposizione delle mani, come facevano loro apostoli (Inf. XIX, 1-6). Scrive Cassiano[4] a proposito dei peccati: «de philargyria [nascuntur] mendacium, fraudatio, furta, perjuria, turpis lucri appetitus, falsa testimonia, violentia, inhumanitas ac rapacitas», e in tal modo fa anch’egli della cupiditas la matrice di molti vizi umani.
Come ricorda ancora Carla Casagrande[5], svariati sono gli uomini che cedono all’avarizia: gli usurai, i funzionari, i banditi, i corsari, i principi e i potenti, «che si fanno corrompere, che proteggono ladri, assassini, rapinatori, sacrileghi» (p.19), i commercianti, i contadini «che non pagano le decime alla Chiesa», i medici, gli avvocati, i religiosi «che non si vergognano di accettare l’elemosina dagli usurai e dai rapinatori», i «prelati che, emuli di Simon Mago e soci di Giuda, non solo non proteggono il loro gregge ma, alleati con i lupi, lo mandano in rovina»[6]. Lupi, greggi, pecore sono parole ricorrenti nella Commedia quando si parla di avidità.
2. L’Inferno
Procediamo per chiarezza passo dopo passo, seguendo il cammino dantesco nei tre regni dell’oltretomba.
Dopo il canto I dell’Inferno, che serve da introduzione generale al poema e permette di fissare alcuni punti fondamentali per la riflessione sui peccati e sulle anime dei dannati nonché sul viaggio di Dante, arriviamo al canto VII, dove sono puniti gli avari e i prodighi sotto la guardia di Pluto, il mitologico dio della ricchezza, figlio di Demetra e Iasone, che nell’iconografia cristiana e dantesca è trasformato in demonio; ma potrebbe anche essere Plutone, figlio di Saturno e fratello di Giove, il re degli Inferi, chiamato anche Dite (da dives, divitis = ricco), sempre con uno stretto legame con il denaro. Questi dannati devono spingere dei pesi con il petto, divisi in due schiere, gli uni a destra e gli altri a sinistra, e quando si incontrano si ingiuriamo scambievolmente, si girano e tornano indietro e il loro spingere è senza fine. Ciò significa che il loro sforzo è vano, perché non porta a niente, e per il loro comportamento sono condannati all’inferno. Calzante è quanto dice sant’Antonio che paragona l’avaro e l’usuraio allo scarabeo. Lo scarabeo infatti raccoglie lo sterco fino a farne una palla; ma un asino, passando, distrugge con lo zoccolo in un attimo la palla di sterco, per cui la fatica dello scarabeo è stata inutile. Da ricordare poi che nel Medioevo il denaro era definito ‘sterco del diavolo’[7], a riprova della sua origine demoniaca e della sua vanità sia in terra sia nell’aldilà. Virgilio così apostrofa Pluto: «Taci, maledetto lupo!» (Inf. VII, 8), ribadendo l’immagine della lupa insaziabile, che aveva ostacolato Dante già nella salita del colle.
Questo canto permette di mettere a fuoco vari aspetti. Uno, in genere poco tenuto in considerazione, è rappresentato dai discorsi diretti[8], in questo caso quelli di Virgilio che si rivolge a Pluto, svolgendo il ruolo del Dante poeta che spiega la collocazione delle anime nei vari gironi; un altro consiste nelle domande e risposte tra Dante e Virgilio, che servono didascalicamente a spiegare il peccato compiuto da queste anime che «con misura nullo spendio ferci» (v. 42) e a individuare quali tipi di persone hanno peccato di avarizia o di prodigalità – i più sono uomini di chiesa: «Questi fuor cherci, che non han coperchio / piloso al capo, e papi e cardinali, / in cui usa avarizia il suo soperchio.» (vv. 46-48) -; e a spiegare la pena del contrappasso, in questo caso per analogia; c’è poi la riflessione sulla fortuna (vv. 73-96), accompagnata dalle parole di Virgilio, che sentenzia «Oh creature sciocche, / quanta ignoranza è quella che v’offende!» per proseguire «Or vo’ che tu mia sentenza ne ’mbocche.» (vv. 70-73), e infine la discesa nel girone successivo degli iracondi.
Proseguendo il nostro cammino si arriva al canto XVII, dove, prima di scendere nelle Malebolge sulle spalle di Gerione, «Ecco la fiera con la coda aguzza, / che passa i monti e rompe i muri e l’armi! / Ecco colei che tutto ’l mondo appuzza!» (vv. 1-3), Dante osserva gli usurai, anch’essi legati al denaro. Il denaro infatti è quella ricchezza che rappresenta e concentra in sé il desiderio di potere, politico, sociale, intellettuale. Non si deve dimenticare che l’opera dantesca ritrae una delle due fasi fondamentali di snodo storico-sociale (l’altra si avrà nell’Ottocento), con il passaggio dalla società nobiliare a quella borghese, ed è il denaro che svolge una funzione decisiva in tale cambiamento. Gerione è il mostro che incarna la frode, uno dei peccati che scaturiscono dalla cupidigia, nonostante che abbia la faccia «d’uom giusto» (v. 10), mentre nasconde il corpo che è di serpente, l’animale che incarna il peccato per antonomasia, dato che rappresenta il tentatore di Adamo ed Eva nel Paradiso Terrestre, inducendoli a peccare. La raffigurazione fisica di questo mostro è funzionale alla comunicazione realistica propria della Commedia e della mentalità di un pubblico medievale non colto. Gli usurai sono seduti sull’orlo del sabbione dove corrono i violenti contro natura, i sodomiti, e portano al collo una borsa con lo stemma di famiglia. Dall’araldica in essa rappresentata Dante può capire che si trova davanti un fiorentino, forse Catello di Rosso Gianfigliazzi, di parte guelfa, uno della famiglia degli Obriachi, di parte ghibellina, Reginaldo degli Scrovegni, padovano, che gli indica i suoi vicini, Vitaliano del Dente, anch’egli padovano, e Giovanni di Buiamonte dei Becchi, fiorentino. La borsa al collo infatti era usata nell’iconografia pittorica e scultorea del tempo per rappresentare i cosiddetti peccati infamanti.
Nelle società primitive studiate dall’antropologia, coloro che avevano infranto le regole non scritte della loro comunità, venivano allontanati dal villaggio e condannati a vivere ai margini della loro società. Nella società medievale, che qui ci interessa, è possibile ricavare delle indicazioni al riguardo dalle immagini presenti nelle pitture morali o nei capitelli delle chiese o nei mosaici. Siamo infatti in presenza delle immagini infamanti[9] proprie della comunicazione visiva, tipica del Medioevo, nelle quali sono raffigurati coloro che avevano infranto i valori condivisi e venivano esclusi dalla comunità. Queste persone sono raffigurate con una borsa al collo, in quanto la loro colpa era legata al denaro e al suo cattivo uso; costoro cambiavano status, o per meglio dire la loro fama, e venivano collocati ai margini del sociale. Se pensiamo al modo in cui Dante raffigura gli usurai, ci rendiamo conto sia che li descrive con appesa al collo la borsa recante il loro stemma familiare, e fin qui siamo in linea con le raffigurazioni murali, sia che li colloca ai margini del sabbione, isolati dagli altri dannati e senza un panorama in cui si possono muovere e interagire tra loro, come invece succede, ad esempio, nel canto XIII con i suicidi e gli scialacquatori, o nel canto XVI, dove i sodomiti corrono attraverso il sabbione infuocato, avendo per così dire, una ‘vita di relazione’. La postura e la prossemica sono sempre un veicolo esteriore significativo di una condizione emotiva interiore, per cui la marginalità degli usurai sull’orlo del baratro che porta alle Malebolge appare come sinonimo della marginalità sociale alla quale erano condannati al loro tempo e di quella condizione infamante che li segue anche dopo la morte sulle pareti della comunicazione visiva.
Gli usurai sono collocati fra i violenti perché hanno “esercitato il loro mestiere” vessando chi aveva bisogno di soldi per necessità commerciali, come i mercanti, oppure familiari e quant’altro. Dunque denaro in cambio di denaro ad interessi spesso esosi. La loro attività era conosciuta e la violenza che esercitavano riguardava i beni materiali. Infatti il peccato degli usurai non consiste tanto nella ricerca ossessiva del denaro quanto nel mezzo e nel modo violento in cui questa ricerca viene condotta (Inf. XI, 91-115).
Ricordiamo che l’usura[10], separata da una sottile linea di demarcazione dai prestiti erogati a interesse dalle compagnie bancarie, era esercitata nel Medioevo in particolare dagli ebrei, la cui attività era condannata dalla Chiesa anche se la potevano esercitare perché non facevano parte dei fedeli, mentre le banche da parte loro prestavano soldi persino ai re e non ultimo al papa. Come non citare la Compagnia dei Bardi e quella dei Peruzzi che, per aver prestato denaro al re d’Inghilterra per la guerra dei Cent’anni e anche al re di Francia per lo stesso conflitto, erano fallite perché il re Edoardo III d’Inghilterra, nonostante le promesse solenni di restituzione dei prestiti, nel 1345 non volle, o non poté, restituire il denaro avuto in prestito. Il debito che il re d’Inghilterra aveva con i Bardi ammontava a 900.000 fiorini d’oro e quello con i Peruzzi a 600.000 fiorini. Il loro fallimento trascinò con sé anche altre banche fiorentine, provocando la crisi in tutta la città di Firenze[11]. Le due famiglie avevano filiali e agenti in tutto il territorio europeo dove avevano soppiantato per estensione e liquidità la compagnia del senese Orlando Bonsignori, che nel XIII secolo era stato il banchiere più potente in Europa. La sua infatti per 20 anni, fino al 1273, anno della morte di Orlando, fu la banca di fiducia del papato: evidentemente, prestare denaro al papa allontanava dall’accusa di usura! e fece diventare il Bonsignori il monopolista delle finanze vaticane.
Se usurai, ruffiani e barattieri usano la moneta per il loro interesse materiale, mercantile e, chiamiamolo così, laico e mondano, gli uomini di Chiesa non sono da meno e non sono immuni dalla stessa ingordigia di denaro. Ai simoniaci è dedicato il canto XIX infernale, quasi a pareggiare la bilancia con politici, faccendieri, barattieri.
È vero che nel Medioevo prestare a usura era un’attività riservata agli ebrei, che non sottostavano alla religione cristiana e pertanto potevano gestire un’attività lucrosa non consentita dalla Chiesa ai fedeli, pur se ciò comportava un loro isolamento sociale. Ancora una volta si deve sottolineare la loro condizione sociale di marginalità rispetto alla compagine cittadina, proprio perché la Chiesa condannava l’usura e la considerava un peccato grave. Esemplare a questo riguardo è la novella 26 del Novellino[12], dal titolo Merlino e l’usura, dove il marito della donna, che si era lamentata che le altre donne, che avevano partecipato a una festa, avevano un abito più bello del suo, «prestò l'argento a due marchi di guiderdone e fece la cotta a sua mogliere. La mogliere andò al mostier con l'altre donne». Merlino rimprovera la donna mostrandole il peccato compiuto dal marito per soddisfare la sua richiesta di un abito più bello: «Membravi voi quando voi foste alla festa dove l'altre donne erano sguardate più che voi non eravate, per vostra laida cotta, e che voi tornaste a vostra magione e mostraste cruccio a vostro marito, et elli impromise di farvi una nuova cotta del primo guadagno che prendesse; e da ivi a pochi giorni venne un borgese per dieci marchi in presto a due marchi di guadagno, onde voi v' induceste vostro marito? E di sì malvagio guadagno è vostra cotta! Ditemi, dama, s' io fallo di neente.»
La condanna del guadagno e in particolare del desiderio smodato del guadagno grazie al prestito ad interesse va di pari passo con la condanna della smania dovuta al desiderio di apparire, incarnato in questa novella dalla moglie del borghese, la quale voleva abiti e ornamenti da mostrare in pubblico a testimonianza della ricchezza posseduta. A tutto discapito del vero valore umano, cioè di quelle virtù personali e morali che nella nuova società mercantile cominciano a essere sostituite dal denaro. L’apparire già allora ha dunque la meglio sull’essere. Ma l’ammonizione di Merlino fa capire alla donna il suo errore e il peccato a cui aveva spinto il marito, e la riporta sulla retta via. Insegnamento edificante, che ben si iscrive nella mentalità medievale e che fa meditare anche su quel desiderio di seguire la moda e di indossare abiti griffati, insito nel nostro modo di agire e in particolare nei giovani, che sembrano non rendersi conto non solamente di quanto sia faticoso guadagnare il denaro ma anche danno importanza unicamente all’apparire. L’importante è diventato seguire e ostentare la moda e stupire con l’abbigliamento, come molto spesso si vede nei personaggi pubblici dello spettacolo, che in tal modo costruiscono ‘il personaggio’ e spingono i fans alla loro emulazione.
Torniamo a Dante. A questo punto si scende nelle Malebolge, dove tutti i peccatori hanno commesso i peccati derivanti dalla cupiditas, siano essi seduttori, simoniaci o traditori. Ecco che il nostro pellegrino incontra il bolognese Venedico Caccianemico, che in cambio di denaro fece prostituire la sorella Ghisolabella: «I’ fui colui che la Ghisolabella / condussi a far la voglia del marchese, / come che suoni la sconcia novella.» (XVIII, vv. 55-57) e che sconta il suo peccato insieme a tanti altri bolognesi, tutti dall’indole avida di denaro. Venedico è l’incarnazione di chi pecca per cupiditas che nel suo caso si materializza nel mendacium. Infatti, come sottolinea Martelli ricordando Giovanni di Salisbury, «adulatoris finis est suaviloquio decepisse», cioè gli adulatori si servono della parola dolce e soave per attirare e convincere, e «apud istos [gli adulatori] ars est suam pudicitiam prostituire, alienam violare vel oppugnare»[13]; proprio come si è comportato Venedico con la sorella. A questo riguardo Vittorio Celotto commenta: «L’adulatore […] raggiunge il suo scopo attraverso la soavità del discorso tipica del seduttore, e può persino trasformarsi in un ruffiano che per avidità di denaro o per compiacere qualcuno è disposto a vendere le persone vicine.»[14]. Poi arriva Giasone, il seduttore di Medea, che l’ha conquistata con il suo eloquio e la forza di convincimento della parola, e tra gli adulatori, coperti di sterco, Alessio Interminelli da Lucca. Di nuovo ritorna lo sterco, che lorda questi peccatori, in particolare nel volto e sulla bocca con la quale hanno peccato, e che rimanda al diavolo.
Seguono i simoniaci e secondo Lino Pertile[15] il loro peccato non consiste tanto nella ricerca della ricchezza quanto nel «modo fraudolento e il mezzo sacrilego in cui la perseguono tramite la compravendita delle “cose di Dio” (XIX, 2), quelle cose che proprio loro dovrebbero conservare e custodire». La stessa accusa si ritrova nel canto XIX, 10-12 del Purgatorio e nel canto XXVII del Paradiso «in cui Dante esprime direttamente o indirettamente lo sdegno contro la corruzione della Chiesa»[16]. Fa infatti dire a Cacciaguida, che gli predice l’esilio «Questo si vuole e questo già si cerca, / e tosto verrà fatto a chi ciò pensa / là dove Cristo tutto dì si merca» (Par. XVII, 49-51).
La cupiditas dunque non colpisce solamente i laici, anzi molte delle sue vittime fanno parte del clero, come si legge nel canto XIX infernale, dove sono puniti appunto i simoniaci, infilati a testa in giù nella pietra della bolgia. Questa forma di pena manifesta un’analogia con quanto hanno operato in vita, perché, invece di guardare in alto verso il bene e verso Dio, hanno rivolto lo sguardo a terra e al più terreno degli interessi materiali, il denaro. Si può notare la stessa caratteristica nella pena comminata agli avari nel Purgatorio, i quali sono distesi a terra bocconi: «Com’io nel quinto giro fui dischiuso, / vidi gente per esso che piangea, / giacendo a terra tutta volta in giuso. / “adhaesit pavimento anima mea”/ sentia dir lor con sì alti sospiri, / che la parola a pena s’intendea» (Purg. XIX, vv.70-75). Il denaro è dunque il tipo di bene che assomma in sé tutte le avidità e la cupiditas, un vizio “fuori dalla natura” e “contro natura”, lega a terra questo tipo di peccatori. Va poi considerato che la tesaurizzazione dell’avaro è di per sé sterile in quanto si contrappone a un’economia fondata sulla circolazione dei beni, come era quella che vede lo sviluppo del comune medievale dal punto di vista economico. Se è vero, come lo è per i fedeli cristiani, che i beni terreni sono stati affidati da Dio agli uomini e ancora di più agli uomini di chiesa, perché li distribuissero ai poveri, gli avari, e in questo caso i simoniaci, peccano anche perché non attuano il mandato che Dio ha affidato loro. Così il peccato di cupiditas si trasforma addirittura in peccato di eresia, in quanto l’uomo non obbedisce a Dio, e di infidelitas, diventando il vizio per antonomasia, attribuito in genere alla diversità religiosa e nel Medioevo agli ebrei, che esercitavano, come abbiamo visto, l’usura.
Anche nell’incontro con il papa simoniaco Niccolò III viene riproposto uno scambio di battute, questa volta non solo tra Virgilio e il dannato ma anche tra Dante e il peccatore, scambio che assume toni aspri nel momento in cui il pontefice allude al suo successore Bonifacio VIII, anch’egli avido e bramoso di ricchezze al punto da non avere nessun rispetto per la carica ricoperta. Dante rincara la dose, dicendo: «E se non fosse ch’ancor lo mi vieta / la reverenza de le somme chiavi / che tu tenesti ne la vita lieta, / io userei parole ancor più gravi; / ché la vostra avarizia il mondo attrista, / calcando i buoni e sollevando i pravi.» (vv.100- 105). Chiara è in questa apostrofe la parola ‘avarizia’, posta a metà del verso in posizione dominante, che connota l’intrinsecità del peccato dei simoniaci, incarnato da Niccolò III, che fu «figliuol de l’orsa, / cupido sì per avanzar gli orsatti, / che su l’avere e qui me misi in borsa» (vv. 70-72). Il desiderio del denaro lo ha reso ‘cupido’, preda della cupiditas, che gli ha fatto dimenticare il suo ruolo di pontefice e l’ha fatto sottostare a questo peccato spirituale, scelta aggravata dal fatto che si è comportato, lui della famiglia degli Orsini, nel cui stemma era raffigurata un’orsa – per il Medioevo nomina sunt consequentia rerum –, letteralmente come un’orsa, che nei bestiari del tempo era considerata un animale che amava molto i suoi cuccioli ma che era avido e ingordo.
«Fatto v’avete dio d’oro e d’argento; / e che altro è da voi a l’idolatre, / se non ch’elli uno, e voi ne orate cento?» (XIX, vv.112-114), continua Dante. I simoniaci desiderano e adorano l’oro e l’argento, i metalli preziosi del conio delle monete, e la differenza con gli idolatri, che nelle Sacre Scritture adoravano il vitello d’oro, consiste nel fatto che le monete sono varie, mentre il vitello d’oro era uno solo. San Paolo nella Lettera agli Efesini 5.5 e in quella ai Colossesi 3.5 pone l’idolatria «tra i peccati che portano fuori dai confini della fede e precludono ogni possibilità di salvezza»[17], pertanto, l’assimilazione e la similitudine dell’avarizia con l’idolatria la rende un peccato gravissimo, in quanto peccato di infidelitas.
L’avaro infatti adora il suo denaro più di Dio, e se ne fa schiavo. Troviamo svariati esempi di questo comportamento nella letteratura sacra e profana di tutti i tempi e, per attualizzare con una breve digressione, nel Novecento si può fare ad esempio riferimento a Iréne Nèmirovsky[18] che nel suo romanzo David Golder (1926) delinea un ritratto dell’avaro nel personaggio di Solfer, un vecchio ebreo, amico del protagonista; costui in là con gli anni è diventato ancora più avaro, non spende più niente per sé, rinuncia a tutto, perché vuole lasciare tutto alla sua famiglia:
…aveva serbato una grande diffidenza, accresciutasi di anno in anno, verso il denaro, che guerre e rivoluzioni potevano trasformare, da un giorno all’altro, in carta straccia. Sicché, a poco a poco, aveva convertito il suo capitale in gioielli. In una cassaforte, a Londra, aveva dei diamanti, delle perle meravigliose, degli smeraldi di tale bellezza che nemmeno Gloria [la moglie di Golder], un tempo, ne possedeva di uguali. Eppure era di un’avarizia che rasentava la follia. Abitava in un sordido appartamento ammobiliato, in una viuzza sudicia di Passy. Non metteva mai piede su un taxi, nemmeno quando un amico si offriva di pagare; “Non voglio” diceva “prendere delle abitudini al lusso che poi non mi posso permettere”. (XXII, p. 133).
Nell’Ottocento Emile Zola[19], delineando ne L’argent (1891) la figura del banchiere Grundermann, anch’esso ebreo, lo presenta così:
lavoratore impeccabile, senza bisogni carnali, […] che continuava a costruire ostinatamente la sua torre di milioni, con l’unico sogno di lasciarla in eredità ai suoi, perché quelli la innalzassero ancora, fino a quando non avesse dominato la terra (p. 152).
Ecco come persiste nel tempo l’avarizia! Ed ecco che l’avaro è incarnato sempre, o quasi sempre, da un ebreo, tanto gli stereotipi perdurano nel tempo. La ricchezza, che l’avaro insegue, non serve a niente se non a soddisfare il suo desiderio di possedere sempre di più, in una spirale che non ha fine e che lo fa vivere ‘gramo’, come sentenzia Dante all’inizio dell’Inferno a proposito della lupa, che, come abbiamo già ricordato, «molte genti fè già viver grame» (I. v. 51) e la cui natura è «sì malvagia e ria, / che mai non empie la bramosa voglia, / e dopo ’l pasto ha più fame che pria.» (I, vv. 97-99).
Scendendo più giù nell’Inferno, il canto XXI narra dei barattieri, immersi nella pece bollente e uncinati dai diavoli. Dante non perde occasione per attaccare uno dei peccatori, l’«anzian di Santa Zita» (v. 38), forse Martino Bottaio di Lucca, la città dove «ogn’uom v’è barattier, fuor che Bonturo» (v. 41) e dove «del no, per li denar, vi si fa ita.» (v. 42), a dimostrazione del grande potere del denaro, che può ribaltare qualsiasi decisione. I diavoli sono eccitati nel vedere i due viandanti e la loro rabbia per non poterli attaccare si riversa sui dannati.
La cupiditas, come abbiamo detto sopra, genera altri vizi e altri peccati, «de philargyria [nascuntur] mendacium, fraudatio, furta…», ed ecco che nel canto XXIV nella settima bolgia Dante incontra i ladri, che hanno le mani legate da serpenti, che li circondano anche in tutto il corpo; ed ecco di nuovo che il dannato che parla con Dante è un toscano, il pistoiese Vanni Fucci che confessa «Vita bestial mi piacque e non umana» (XXIV, v. 124) e aggiunge «io fui / ladro a la sagrestia d’i belli arredi» (vv. 137-138). Attraverso questo peccatore di parte Nera, il discorso rimanda a quello che era il tempo di Dante, quando i comuni toscani, in primis quello fiorentino e quelli limitrofi, erano dilaniati dalle lotte politiche di parte, alle quali partecipò lo stesso Dante. La conoscenza dei rapporti politici interni ed esterni a Firenze permette di capire meglio certe prese di posizione dantesche nella Commedia, come il disprezzo per Bonifacio VIII, ma anche di avere un panorama più complesso e meno stereotipato delle divisioni fra Guelfi Bianchi e Guelfi Neri e ripercorrere anche le vicissitudini degli spostamenti e della vita del poeta, e perfino dei cambiamenti delle sue scelte politiche, che lo portano prima dai conti Guidi in Casentino, poi in Lunigiana da Moroello Malaspina, poi a Verona presso Cangrande della Scala e infine a Ravenna, ospite dei Da Polenta. Seguire gli itinerari danteschi tra le corti italiane consente inoltre di capire i rapporti di forza nella lotta tra papato e impero e gli schieramenti, per altro mutevoli, scelti dai vari signori[20]. Non apriamo qui una finestra su questi problemi, perché ci allontanerebbe dal nostro assunto; pertanto proseguiamo nel nostro itinerario nella Commedia.
Ancora una volta un canto, il XXVI, inizia con un’apostrofe sarcastica – uno degli artifici retorici impiegati da Dante - e nello stesso tempo amara contro Firenze: «Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande / che per mare e per terra batti l’ali, / e per lo ’nferno tuo nome si spande! / Tra li ladron trovai cinque cotali / tuoi cittadini onde mi ven vergogna, / e tu in grande orranza non ne sali.» (XXVI, vv. 1-6). Questo canto e quello seguente presentano i consiglieri fraudolenti, Ulisse e Diomede nel primo e Guido da Montefeltro nel secondo. Non ci soffermiamo sull’incontro con Ulisse, peccatore fraudolento per aver consigliato l’inganno del cavallo di Troia, peraltro molto famoso e che ci porterebbe lontano, mentre interessa l’incontro con Guido da Montefeltro, che visse tra i «monti là intra Orbino / e ’l giogo di che Tevere si diserra.» (vv. 29-30). Siamo in presenza di una delle tante indicazioni geografiche disseminate[21] nella Commedia, le quali non sono fine a sé stesse ma si intrecciano con le vicende politiche e con quelle della vita quotidiana del tempo. Il consigliere fraudolento è Guido da Montefeltro, uno dei capi ghibellini, morto nel 1298, e Dante se ne serve per ribadire la condanna di Bonifacio VIII, «il principe d’i novi Farisei» (XXVII, 85) e per affrontare il problema religioso se il pentimento dei peccati commessi può salvare l’anima, addirittura prima di commettere il peccato. Guido, che in vecchiaia aveva lasciato la vita mondana per il convento, sottostando alle minacciose pressioni del papa Bonifacio VIII, gli ha fornito il consiglio fraudolento di non mantenere la parola data ai Colonna, «lunga promessa con l’attender corto» (v. 110) per potersi impadronire di Palestrina di sorpresa; così dopo la sua morte in quella teatralizzazione, come accadeva nelle sacre rappresentazioni medievali, del contrasto tra san Francesco e un diavolo, che si contendono la sua anima, la spunta il diavolo perché «assolver non si può chi non si pente, / né pentere e volere insieme possi / per la contradizion che nol consente» (vv.118-120), mettendo in atto il rigore logico della dimostrazione aristotelica e scolastica.
Nella bolgia seguente Dante incontra i seminatori di discordie, ma più interessante è il canto XXIX dove avviene l’incontro con i falsatori di metalli, cioè del denaro, e con Maestro Adamo, che aveva sostituito 3 dei 24 carati di oro con «mondiglia», cioè con un metallo vile, alterando il valore intrinseco del fiorino, su istigazione dei conti Guidi di Romena, Guido, Aginolfo e Alessandro. Tale falsazione garantiva un lucro di più del 12% sul valore nominale della moneta. Per il suo inganno maestro Adamo nel 1281 fu condannato al rogo, pena appunto per i falsatori di monete:
Ivi è Romena, là dov' io falsai
la lega suggellata del Batista;
per ch'io il corpo sù arso lasciai.
Ma s'io vedessi qui l'anima trista
di Guido o d'Alessandro o di lor frate,
per Fonte Branda[22] non darei la vista.
(Inf. XXX, 73-78)
e continua
S'io fossi pur di tanto ancor leggero
ch'i' potessi in cent' anni andare un'oncia,
io sarei messo già per lo sentiero,
cercando lui tra questa gente sconcia,
con tutto ch'ella volge undici miglia,
e men d'un mezzo di traverso non ci ha.
Io son per lor tra sì fatta famiglia;
e' m'indussero a batter li fiorini
ch'avevan tre carati di mondiglia».
(Inf. XXX, 82-90)
Vale la pena di ricordare che la falsazione del fiorino, e dunque della moneta per eccellenza, era ritenuta nel Medioevo e a Firenze il reato più grave di falso nummario dal punto di vista strettamente giuridico. Il fiorino era formato da 3,5368 grammi di oro puro, cioè da 24 carati, e i monetieri, come pubblici ufficiali che avevano il compito di controllare le monete in circolazione, ne garantivano il peso. La novità e l’importanza nella coniazione del fiorino d’oro consisteva proprio nel metallo, l’oro, da cui era formato, perché da Carlo Magno in poi nessuno lo aveva usato e le monete erano sempre state d’argento. L’oro di per sé rappresentava il potere[23].
Giovanni Villani (1276-1348)[24] nella sua Nuova Cronica (VII, cap. LIII) descrive quasi con orgoglio la coniazione di questa moneta:
… i mercatanti di Firenze per onore del comune, ordinaro col popolo e comune che si battesse moneta d’oro in Firenze; e eglino promisono di fornire la moneta d’oro, che in prima si battea moneta d’ariento da denari dodici l’uno. E allora si cominciò la buona moneta d’oro fine di ventiquattro carati, che si chiamano fiorini d’oro, e contavansi l’un venti soldi. E ciò fu al tempo del detto messer Filippo degli Ugoni di Brescia, del mese di novembre gli anni di Cristo 1252. I quali fiorini, gli otto pesarono un’oncia, e dall’un lato era la ’mpronta del giglio, e dall’altro il San Giovanni.
[ Figura 1 - vedi allegato]
Se nel Medioevo e nell’ottica dantesca la falsazione della moneta era ritenuta un reato, oltre che un peccato grave, in altre epoche storiche l’ottica cambia, tanto che nel XVIII secolo, in tutt’altro contesto pratico e ideologico, tra gli economisti europei si discute dell’efficacia o meno dell’«alzamento»[25] delle monete per far fronte ai problemi di liquidità delle casse dello Stato. In Italia ci troviamo di fronte a due posizioni contrapposte: da una parte Pompeo Neri (1706-1776), l’organizzatore del catasto milanese per volere di Maria Teresa d’Austria, che, riferendosi alle posizioni del napoletano Ferdinando Galiani (1728-1787), autore del trattato Della moneta del 1750, sostiene che: «Quantunque io conosca che l’autore merita infinita lode per molte verità che egli ha benissimo espresse nel suo libro, non resto veramente persuaso che l’alzamento arbitrario della moneta sia meno nocivo del fallimento, parendomi i mali dell’alzamento più estesi, più importanti, più casualmente gettati sopra il popolo e specialmente sopra i poveri, come sono tutti i creditori delle proprie fatiche, e più durevoli»[26]. Dall’altra Galiani[27] riteneva invece che l’alzamento dovesse essere adottato, pur se solamente in situazioni particolari, cioè in presenza di un significativo debito pubblico, perché aumentava le entrate senza l’introduzione o l’inasprimento di nuove tasse; si trattava in pratica di un’inflazione controllata[28]. Franco Venturi fornisce un quadro esauriente di questo dibattito in Settecento riformatore[29], sottolineando che il Neri con Gianluca Pallavicini, ministro plenipotenziario degli Asburgo in Lombardia, cercavano di realizzare a Milano una nuova contribuzione monetaria che si basava sul possesso dei beni contenuti nel catasto, mentre Galiani era convinto che la tassazione, che colpisse la proprietà fondiaria e i più ricchi, poteva ottenere un miglioramento economico per lo Stato in sostituzione dell’inflazione, in quanto l’alzamento della moneta favoriva l’aumento del gettito delle imposte.
Recuperiamo però il nostro assunto dopo questa breve parentesi.
La falsazione della moneta torna addirittura nel Paradiso, quando Dante si trova nel cielo di Giove, dove si presentano a lui i principi giusti e per antitesi vengono ricordati quelli che hanno agito in modo malvagio, primo fra tutti Filippo il Bello, re di Francia, accusato appunto di falsazione: «Lì si vedrà il duol che sovra Senna / induce, falseggiando la moneta, / quel che morrà di colpo di cotenna.» (Par., XIX, vv.118-120). Il re aveva bisogno di denaro a causa della guerra contro l’Inghilterra e il modo più veloce per rimpinguare le casse dello stato fu quello di diminuire la quantità d’oro e d’argento che si trovava nel tornese. Quindi falsando la moneta. Ancora una volta è Giovanni Villani che parla di Filippo il Bello e narra persino l’episodio della morte del re nella sua Cronica X, 66, morte che sembra sia stata causata da un cinghiale che lo colpì dopo che era caduto da cavallo durante una battuta di caccia. «Nel detto anno MCCCXIIII, del mese di novembre, il re Filippo re di Francia, il quale avea regnato XXVIIII anni, morì disaventuratamente, che essendo a una caccia, uno porco salvatico gli s'atraversò tra gambe al cavallo in su ch'era, e fecelne cadere, e poco appresso morì.»
Un’ultima notazione infernale. Nell’incontro con Paolo e Francesca che aveva coinvolto tanto emotivamente Dante, Francesca aveva chiuso il racconto della sua vita con un verso profetico: «Caina attende chi a vita ci spense» (Inf. V, v. 107), alludendo all’inganno e al tradimento del marito Gianciotto; e infatti nella parte più profonda dell’Inferno si trovano i traditori: dei parenti nella Caina, della patria e del partito nell’Antenora, degli ospiti nella Tolomea, della Chiesa e dell’Impero nella Giudecca. Tutti i peccatori sono immersi nel ghiaccio del Cocito con una parte o con tutto il loro corpo, e tra questi spicca, anche per fama, il conte Ugolino della Gherardesca insieme all’arcivescovo Ruggieri, del quale si era fidato e dal quale è stato tradito. Ci troviamo di nuovo in mezzo alle vicende politiche degli anni precedenti a quelli di Dante che fanno ancora sentire gli echi e le conseguenze nel nuovo secolo. Collocare i traditori nel profondo dell’inferno, catalogarli come la forma più grave di peccato generato dalla cupidigia, significa metterli all’ultimo posto nella gerarchia dei dannati.
3. Il Purgatorio
Si parla di avarizia, pur se per antitesi, anche nel Purgatorio, dopo che Dante e Virgilio hanno incontrato Stazio, ormai purificato e libero di salire al Paradiso. Stazio spiega infatti che, lontano dall’avarizia, è caduto però nel peccato opposto, l’eccessiva prodigalità: «Or sappi ch’avarizia fu partita / troppo da me, e questa dismisura / migliaia di lunari hanno punita.» (Purg. XXII, vv. 34-36). Dante riecheggia i versi virgiliani «Quid non mortalia pectora cogis, / auri sacra fames» (Aen. III, 56-57), quando fa dire a Stazio «Perché non reggi tu, o sacra fame / de l’oro, l’appetito dei mortali?» (XXII, 40-41) e ribadisce la condanna della ‘febbre dell’oro’, che ha colpito e ha fatto peccare tanti uomini.
Prima di questo incontro Dante ha parlato del giusto uso del denaro da parte degli uomini politici. Infatti troviamo almeno un cenno alla giusta misura della prodigalità e dell’obbedienza a quel principio della distribuzione dei beni concessi da Dio agli uomini nelle parole che pronuncia ante litteram rispetto agli eventi della sua vita, quando esprime riconoscenza alla casa Malaspina della Lunigiana, dove fu ospitato durante il primo periodo dell’esilio. A Corrado Malaspina, che nella valletta dei principi gli chiede notizie della sua famiglia, risponde in questi termini: «e io vi giuro, s’io di sopra vada, / che vostra gente onrata non si sfregia / del pregio della borsa e della spada. // Uso e natura sì la privilegia, / che, perché il capo reo il mondo torca, / sola va dritta e ’l mal cammin dispregia.» (Purg. VIII 127-132). In questi versi troviamo sia l’apprezzamento della prodigalità nella giusta misura sia la riprovazione del cattivo comportamento degli uomini, e in particolare del pontefice, che non obbediscono al volere di Dio.
Nel canto XI, nella prima cornice, si purgano i superbi. È opportuno ricordare le tre anime purganti qui incontrate, Omberto Aldobrandeschi, Oderisi da Gubbio e Provenzan Salvani, che hanno saputo mitigare il loro peccato con un atto di umiltà e riscattarsi almeno in parte quando erano in vita. In particolare Provenzan Salvani ha opposto alla superbia che gli derivava dal potere un comportamento di estrema umiltà, quando «liberamente nel campo di Siena, /ogne vergogna diposta, s’affisse: // e lì, per trar l’amico suo di pena, / ch’e’ sostenea ne la prigion di Carlo, / si condusse a tremar per ogne vena.» (XI, 134-138). Proprio quando era al massimo del suo potere infatti, Provenzano, steso il suo mantello in terra nella piazza del Campo a Siena, chiese l’elemosina per poter raccogliere il denaro sufficiente per pagare a Carlo d’Angiò il riscatto e liberare dalla prigione il suo amico, forse Mino de’ Mini. Ci troviamo ancora una volta davanti al denaro e vediamo che la vita di una persona è valutata in termini economici e, più è importante il personaggio o maggior peso può avere nei violenti rapporti politici e militari con un nemico, maggiore è la quantità di denaro che viene richiesta per liberarlo. La vita dell’uomo vien così reificata e ridotta a merce di scambio, proprio come se fosse una merce inanimata, disconoscendone il valore vitale e umano. Provenzano soggiace a una mercificazione di tal genere perché non può riscattare il suo amico se non con il denaro, tuttavia il suo ‘acquisto’ è ben lontano da quella fame dell’oro che colpisce gli uomini.
Sono i canti XX-XXIV quelli in cui ritorna prepotentemente il tema dell’avidità e dell’avarizia, con tutto quanto essa comporta. È un re quello che ora incontra Dante e gli parla. Ugo Capeto si presenta come colui che fu «radice de la mala pianta / che la terra cristiana tutta aduggia» (XX, 43-44), cioè il capostipite della casa di Francia che, dopo l’acquisizione della contea di Provenza in funzione del matrimonio del re Carlo I d’Angiò con Beatrice di Provenza, figlia di Raimondo Berlinghieri, «per ammenda», ripetuto sarcasticamente in epifora tre volte ai vv. 65, 67 e 70, con Filippo il Bello si è appropriata di altre contee in Francia, ha occupto il regno di Napoli dopo aver fatto uccidere Corradino di Svevia, e infine ha fatto avvelenare Tommaso d’Aquino. I Capetingi si sono serviti dell’inganno e del tradimento per raggiungere il loro scopo, il che fa esclamare a Ugo «O avarizia, che puoi tu più farne, / poscia ch’hai il mio sangue a te tratto, / che non si cura de la propria carne?» (vv. 82-84), riferendosi al fatto che Carlo dette in moglie la figlia Beatrice giovanissima al vecchio Azzo VIII d’Este per stringere alleanze politiche. Addirittura, almeno così sembra, Azzo la comprò, equiparando e riducendo ancora una volta la persona e la vita umana a merce, e Carlo vendette «sua figlia e patteggiarne / come fanno i corsar de l’altre schiave» (XX, 80.81) con il totale disprezzo dei vincoli di sangue e degli affetti familiari.
Sappiamo bene come nel tempo i rapporti politici fra i potenti sono passati anche attraverso i matrimoni e come le donne delle casate signorili furono date in sposa successivamente anche a più potenti, forzando il vincolo matrimoniale laddove il marito non era morto, per garantire il mantenimento di un patrimonio o del potere politico della famiglia di origine su certi territori. Le donne erano né più né meno merce di scambio come il denaro!
Interessante è la triplice ripetizione di «per ammenda», che contrasta con la condizione stessa delle anime del Purgatorio, che stanno espiando, cioè facendo ammenda, le loro colpe e i loro vizi terreni, Il termine ‘ammenda’ si trova nel canto XIII dell’Inferno, quando Virgilio invita Pier delle Vigne a rivelarsi a Dante, che ha spezzato un ramo del pruno nel quale è stato trasformato, in modo che il poeta fiorentino «’n vece / d’alcun’ ammenda» (vv. 52-53) possa restaurare la buona fama della sua vita come una ricompensa e un’espiazione dell’azione dolorosa compiuta nei suoi confronti; e nel canto XXVII nelle parole di Guido da Montefeltro, che credendo di «fare ammenda» della sua fraudolenza quando era un uomo d’armi, si era convertito e si era fatto frate francescano. Se nei passi dell’Inferno il termine è usato nel suo significato positivo, nel Purgatorio viene ribaltato nel registro ironico che viene messo in bocca a Ugo Capeto.
Ugo Capeto parla a Dante pronunciando per ben quattro volte il pronome «io», a sottolineare per così dire la sua posizione di supremazia nel mondo terreno. La prima volta lo pronuncia proprio in apertura del suo discorso in risposta a Dante che gli ha chiesto chi fosse: «Io ti dirò» (XX, v. 40) e prosegue dicendo «Io fui radice de la mala pianta / che la terra cristiana tutta aduggia, sì che buon frutto rado se ne schianta.» (vv. 43-45); lo sottintende poi al v. 49 quando pronuncia il suo nome «Chiamato fui di là Ugo Ciappetta; / di me son nati i Filippi e i Luigi / per cui novellamente è Francia retta.» (vv. 49-51), e conclude la sua presentazione, mettendo una specie di ‘sfragìs’ in negativo, dichiarando «Figliuol fu’ io d’un beccaio di Parigi» (v. 52) a sottolineare, nonostante la sua umile origine – vera o falsa che fosse –, la sua posizione nella storia. A questo proposito Roberto Giacone commenta che questi quattro ‘io’ potrebbero essere definiti «io cosciente, io genealogico, io morale e io politico»[30] e Dante lascia il passo alla storia, quella storia che vede contrapposti anche al suo tempo la Francia e il territorio italiano e che mostra i Capetingi violenti e ostili a chi si oppone al loro desiderio di conquistare sempre nuove terre e di sottometterle. Per di più Dante individua nella monarchia francese la causa del suo esilio a seguito della totale sconfitta dei Bianchi a Firenze per opera di Carlo di Valois.
Come in tutte le cornici purgatoriali, anche in questa quinta cornice incontriamo, insieme agli esempi della virtù premiata, quelli del vizio punito, e qui ci troviamo davanti Pigmalione, re di Tiro e fratello di Didone, che uccise a tradimento il cognato Sicheo per impadronirsi delle sue ricchezze, «traditore e ladro e parricida / fece la voglia sua de l’oro ghiotta» (vv.104-105), e si ribadisce che nel suo caso che la cupiditas si era concretizzata nel tradimento, nel furto, nell’omicidio. A lui segue l’avaro re Mida, che fu spinto dal desiderio del denaro e chiese a Bacco di poter trasformare in oro tutto quanto toccava, come racconta Ovidio (Met. XI 85-145). Non poteva mancare tra l’altro il riferimento al triumviro romano Marco Licinio Crasso, al quale dal re dei Parti fu fatto colare in bocca dell’oro fuso, a stigmatizzare anche post mortem la sua cupidigia di ricchezze. L’ultimo degli esempi deriva dalla storia sacra con Acan che si era impadronito di alcuni oggetti preziosi, presenti nel bottino di guerra preso a Gerico e consacrati a Dio da Giosuè; per questo ‘furto’ Acan fu punito con la lapidazione, e Dante lo definisce «folle», per indicare il suo comportamento che aveva osato sfidare Dio compiendo un atto sacrilego. L’aggettivo «folle» riecheggia quello usato da Dante nel canto XIX dell’Inferno, quando apostrofa Niccolò III e gli altri papi simoniaci, sottolineando la sua rabbia e il suo disprezzo con queste parole: «Io non so s’i’ mi fui qui troppo folle, / ch’i’ pur risposi lui a questo metro: / “Deh, or mi dì; quanto tesoro volle // Nostro Segnore in prima da san Pietro / ch’ei ponesse le chiavi in sua balia?» (vv.88-92). Lega la follia non solo allo spasmodico desiderio di denaro dei peccatori ma anche alla sua reazione esacerbata, che quasi lo fa sostituire a Dio; tuttavia l’essere ‘folle’ caratterizza sempre chi osa ribellarsi a Dio e sfidarlo.
Da porre attenzione all’invettiva contro la cupiditas in incipit di questo canto XX del Purgatorio: «Maladetta sie tu, antica lupa, / che più che tutte l’altre bestie hai preda / per la tua fame sanza fine cupa!» (10-12), nella quale ritorna la lupa come incarnazione del peccato di avidità. Invettiva che si ritrova in Paradiso dove perfino Beatrice esclama nel canto XXVII: «Oh cupidigia che i mortali affonde / sì sotto te, che nessuno ha podere / di trarre li occhi fuor de le tue onde!» (121-123), e poi nel canto XXX, quando, mostrando a Dante la rosa dei beati, gli indica il seggio, per ora vuoto, che sarà dell’imperatore Arrigo VII, «ch’a drizzare Italia / verrà in prima ch’ella sia disposta» (vv. 137-138). Dante affida alle parole di Beatrice le sue speranze, purtroppo frustrate, in Arrigo. A chi attribuisce la colpa di questo fallimento? alla cecità politica degli abitanti dell’Italia in quanto «La cieca cupidigia che v’ammalia / simili fatti v’ha al fantolino / che muor per fame e caccia via la balia.» (vv. 139-141) per cui, invece di accogliere l’imperatore come un salvatore, lo hanno respinto. Occuperà il soglio pontificio grazie all’aiuto del re di Francia Filippo il Bello, arrogandosi anche il potere temporale, quel Clemente V, il «pastor sanza legge» (Inf. XIX, 83), papa simoniaco che resterà poco tempo in carica dopo Bonifacio VIII e che «sarà detruso / là dove Simon mago è per suo merto, / e farà quel d’Alagna intrar più giuso.» (Par.146-148). Da un canto all’altro e da una cantica all’altra si riverbera dunque l’ostilità e la condanna di Dante della cupidigia, quasi a sottolineare la sua progressiva vittoria sulla lupa, che non gli potrà più impedire il cammino verso la salvezza.
4. Il Paradiso
Procedendo nel cammino verso Dio, ci si allontana sempre di più dalla terra e dalle sue manchevolezze, tuttavia nemmeno nel Paradiso, e in parte l’abbiamo già visto, Dante tralascia di parlare di avarizia e di denaro, come quando, ad esempio, definisce la moneta fiorentina il «maledetto fiore», la cupidigia del quale ha trasformato il pastore, cioè il pontefice, e con lui tutto il clero, in lupo, riprendendo così l’immagine della lupa che aveva cercato di impedire a Dante la salita del colle prima dell’arrivo di Virgilio.
La tua città, che di colui è pianta
che pria volse le spalle al suo fattore
e di cui è la ’nvidia tanto pianta,
produce e spande il maledetto fiore
c’ha disviate le pecore e gli agni,
però che fatto ha lupo del pastore.
(Par. IX, 127-132)
A parlare è Folchetto da Marsiglia nel cielo di Venere, dove si trovano gli spiriti amanti, e a condannare la cupidigia come uno dei peccati più gravi, incarnato proprio da Firenze, che per prima si è ribellata a Dio per il desiderio di accumulare denaro dandosi al commercio e diventando con la sua moneta, il fiorino appunto, colei che controllava tutte le transazioni monetarie europee.
La moneta fiorentina si era infatti imposta, e l’abbiamo già visto, come mezzo dei pagamenti negli scambi commerciali e finanziari dell’Europa e, aspetto da non dimenticare o sottovalutare, era la moneta usata dalle compagnie bancarie che riscuotevano le decime per conto della Chiesa in Inghilterra e in Francia. Diventava pertanto il simbolo e l’oggetto dell’avidità papale, contrapposta alla caritas cristiana.
Così per Dante il fiorino era la moneta che si faceva denaro in senso moderno, non semplice mezzo di misura e di scambio ma perno della circolazione monetaria e valore di riferimento per tutte le merci. Questa moneta rappresentava infatti un fondamentale cambiamento di mentalità, la quale basa ora il suo potere e la sua forza sul capitale, sulle organizzazioni bancarie e sulla finanza che nel Medioevo acquista progressivamente un orizzonte internazionale. Il fiorino fu infatti la moneta accettata ovunque e rappresentava il punto di riferimento in Europa anche per le altre valute; il suo potere durò fino al 1542, quando fu emesso per l’ultima volta. Dante condanna il fiorino, perché, per dirla con Marx, il fiorino era la carica che dissolveva i legami che avevano tenuto salda la comunità entro la cerchia antica. Infatti Marx[31] sostiene che il denaro è la comunità, e che non può tollerarne un’altra che gli sia «superiore»; in questo caso la comunità è quella della città comunale, la cui civiltà comincia a sgretolarsi proprio quando inizia la circolazione monetaria del fiorino.
È poi Cacciaguida che, ricordando nel cielo di Marte la Firenze antica, sottolinea la semplicità dei costumi che aveva caratterizzato la sua età. Anzi l’incipit del canto XV recita: «Benigna volontade in che si liqua / sempre l’amor che drittamente spira, / come cupidità fa ne la iniqua» (Par. XV, vv. 1-3) e rimanda a quella antinomia fra le indoli ‘buone’, che mettono in opera nel mondo gli insegnamenti e la volontà divina, e quelle ‘malvage’ che stravolgono queste indicazioni di Dio rivolgendole ai beni materiali. Cacciaguida parla della Firenze antica, dove «si stava in pace, sobria e pudica.» (v. 99) e dove «Non faceva, nascendo, ancor paura la figlia al padre, ché ’l tempo e la dote / non fuggien quinci e quindi la misura» (vv.103-105) e «Non avea case di famiglia vòte» (v. 106) a dimostrazione di come il denaro e le ricchezze avessero cambiato del tutto il modo di vita e di relazione tra le persone e la loro mentalità. Inoltre il commercio portato alle estreme conseguenze per ottenere il maggior guadagno possibile aveva reso le donne «per Francia nel letto diserte» (v. 120), mentre l’inurbamento dal contado ha corrotto gli uomini e ormai ciascuno «per barattare ha l’occhio aguzzo!» (XVI, 57).
L’incontro di Dante con Carlo Martello nel cielo di Venere fa da contraltare a quello purgatoriale con Ugo Capeto, anche perché i due personaggi appartengono alla stessa casata. Dante vede nella casa di Francia e nei suoi legami con gli Angioini e il papato la massima espressione della cupidigia e per questo motivo fa accusare Filippo il Bello, Carlo I e Carlo II d’Angiò da Ugo Capeto e condannare la loro avidità. In antitesi va ricordato che l’imperatore, nella visione dantesca, è il solo uomo politico che è immune dalla cupidigia e che pertanto può esercitare la giustizia e l’equità, come si evince dal De Monarchia.
Carlo Martello, a differenza degli altri della sua stirpe, è invece portatore di quell’amore che spinge al bene e al donare e, nel nostro caso, non è importante conoscere come, dove e quando si sia incontrato con Dante quando era in vita, perché l’importante è il legame di affetto e la sintonia tra i due. Per il poeta fiorentino Carlo Martello era guidato dal retto amore, che contrastava con la cupidigia del fratello Roberto, e pertanto può condannare la «mala segnoria, che sempre accora / li popoli suggetti» (Par. VIII, vv.73-74), quella cattiva signoria che susciterà la ribellione dei Vespri Siciliani contro Roberto, che se «questo antivedesse, / l’avara povertà di Catalogna / già fuggeria, perché no li offendesse» (Par. VIII, vv. 76-78). Dante dà un giudizio negativo di Roberto d’Angiò, perché discendente da Ugo Capeto, già accusato di cupiditas come i suoi successori, e gli attribuisce un carattere gretto, che si collega all’avidità.
Ecco che ritorna il termine «avara», pur se in questo passo gli studiosi la interpretano in due modi: chi la riferisce all’avarizia propria di Roberto, degna di un catalano; e chi all’avidità dei consiglieri catalani di cui Roberto si circondò. Per tentare di capire, almeno in parte, quale delle due interpretazioni può essere la più accettabile, può venire in aiuto ad esempio la Cronica del Villani (VIII, 82), che parla dei soldati catalani arruolati da Carlo d’Angiò.
Nella parte finale del Paradiso è san Pietro che pronuncia un’invettiva contro la cupidigia, ricordando, prima di tutto, che «Non fu la sposa di Cristo allevata / del sangue mio. Di Lin, di quel di Cleto, / per essere ad acquisto d’oro usata;» (XXVII, vv. 40-42); nomina Lino di Volterra, che fu il primo successore di Pietro e fu martirizzato come il suo successore Cleto o Anacleto e altri papi come Sisto I, Pio I, Calisto I e Urbano I, e ribadisce al contempo la condanna dei papi simoniaci. Continua dicendo «In vesta di pastor lupi rapaci / si veggion di qua sù per tutti i paschi:» (XXVII, vv. 55-56) e ancora una volta ci troviamo davanti l’antitesi “pastore/lupi rapaci”, l’antinomia che copre di biasimo gli uomini di Chiesa che dovrebbero essere ‘pastori’ per i fedeli mentre si trasformano in quei lupi che sono spinti solamente dalla cupiditas e dalla fame dell’oro. Antinomia del resto di origine evangelica e che si ritrova ad esempio in Matteo (VII, 15): «Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma all’interno sono lupi rapaci», il che mette a contrasto la fidelitas, che dovrebbe essere praticata dagli ecclesiastici, con l’infidelitas, ammantata peraltro del suo contrario, che è invece la vera natura di questi uomini corrotti. Alle parole di Pietro fanno seguito quelle di Beatrice, già ricordate sopra, che allarga la condanna della corruzione a tutti gli uomini «Oh cupidigia, che i mortali affonde / sì sotto te, che nessuno ha podere / di trarre li occhi fuor de le tue onde! // Ben fiorisce ne li uomini il volere; / ma la pioggia continua converte / in bozzacchioni le susine vere. // Fede e innocenza son reperte / solo ne’ parvoletti; poi ciascuna / pria fugge che le guance sian coperte.» (XXVII, vv. 121-130). Dante, attribuendo la fede e l’innocenza solamente ai bambini, riprende almeno in parte il discorso di Marco Lombardo sul libero arbitrio nel canto XVI del Purgatorio, secondo il quale agli uomini è dato il «libero voler» (v. 76), quel «lume v’è dato a bene e a malizia» (v. 75); per cui «se ’l mondo presente disvia, / in voi è la cagione, in voi si cheggia;» (vv82-83). Interessante in questo passo l’uso di un detto proverbiale: «la pioggia continua converte / in bozzacchioni le susine vere» (v. 125) per ribadire che la corruzione degli uomini di Chiesa guasta anche tutti gli altri uomini, come la pioggia continua finisce per guastare anche le susine buone. L’uso di adagia popolari del resto fa parte delle regole delle artes dictandi medievali e, unito ai vari registri che si intrecciano nel poema sacro, contribuisce a giustificare il senso del titolo di Comedìa.
Già nel canto V del Paradiso, Beatrice, quando invita gli uomini a non prendere con leggerezza il voto e, prima di salire al cielo di Mercurio, li ammonisce a non lasciarsi trascinare dalle passioni improvvise e momentanee, sentenzia: «Se mala cupidigia altro vi grida, / uomini siate, e non pecore matte,» (Par. V. vv. 79-80), attribuendo nuovamente la causa del traviamento umano alla cupiditas, il vizio più grave. Ancora una volta i fedeli sono identificati con le pecore, che dovrebbero essere umili e obbedienti, mentre in questo caso le pecore sono ‘matte’, perché colpite dal cosiddetto ‘capostorno’, una malattia che fa loro muovere la testa in modo strano e impedisce loro di seguire un cammino retto.
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Vecchio Silvana, Vizi «carnali» e vizi «spirituali»: il peccato tra anima e corpo, in «Etica & Politica», 2002, 2.
Venturi Franco, Settecento riformatore. Da Muratori a Beccaria, Torino, Einaudi, 1969, p. 508.
Villani Giovanni, Nuova Cronica, edizione critica a cura di Giovanni Porta, 3 voll., Fondazione Pietro Bembo, Parma, Guanda, 1991.
Zola Emile, Il denaro, Palermo, Sellerio, 2017.
Sitografia
http://www.units.it/dipfilo/etic_e_politica/2020_2/indexvecchio.html
Pubblicato il 24/11/2021
[1] Montesquieu, Lo spirito delle leggi, a cura di Sergio Cotta, Torino, UTE, 2005, 2 voll., libro XI. Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu, è noto solamente come Montesquieu (1689–1755).
[2] Cfr. Silvana Vecchio, Vizi «carnali» e vizi «spirituali»: il peccato tra anima e corpo, in «Etica & Politica», 2002, 2 http://www.units.it/dipfilo/etic_e_politica/2020_2/indexvecchio.html
[3] Carla Casagrande, I sette vizi capitali. Storia dei peccati nel Medioevo, Torino, Einaudi, 2000.
[4] Giovanni Cassiano (360-435 circa), De institutis coenobiorum, in Migne, Patrol. Lat., XLIX-L; Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum, Vienna 1886-88, a cura di M. Petscenig.
[5] Cfr. Carla Casagrande, Il peccato di avarizia nel medioevo, in Ciclo di conferenze e seminari L’uomo e il denaro, Quaderno n. 23, Milano, 8 ottobre 2007, p. 19.
[6] La Casagrande riprende questo ventaglio di peccatori da Giacomo di Vitry Historia occidentalis, ed. J. F. Hinnebusch, Fribourg, 1972, pp. 78-86.
[7] Cfr. Jacques Le Goff, Lo sterco del diavolo: il denaro nel Medioevo, Roma-Bari, Laterza, 2012.
[8] Interessante al riguardo Carmelo Tramontana, A più voci. Dialogo e poesia in Dante, Brunetto e Boccaccio, Leonforte, Siké, 2020.
[9] Cfr. Giuliano Milani, L’uomo con la borsa al collo. Genealogia e uso di un’immagine medievale, Roma, Viella, 2017.
[10] Interessante il saggio di Antonio Montefusco, Banca e poesia al tempo di Dante, per il ciclo di conferenze e seminari L’uomo e il denaro, 23 gennaio 2017, Quaderno n. 58, Associazione per lo Sviluppo degli Studi da Banca e Borsa e Università Cattolica del sacro Cuore, marzo 2017.
[11] Vedi http://www.linkiesta.it/it/article/2012/02/04/la-grande-crisi-fu-nel-300-e-da-li-nacque-il-mercato/6157/ relativo alla compagnia dei Bardi e alle successive implicazioni inflazionistiche della moneta e dell’economia fiorentina.
[12] Anonimo, Il Novellino, a cura di V. Mouchet, introduzione di Lucia Battaglia Ricci, Milano, BUR, 2008.
[13] Giovanni di Salisbury, Policraticus, in PL, cxcix coll. 497° e 504d. Cfr. anche Carla Casagrande, I peccati della lingua. Disciplina ed etica della parola nella cultura medievale, Roma, Ist. Della Enciclopedia italiana, 1987.
[14] Vittorio Celotto, La menzogna e il comico. Inferno, XVIII, in Cento canti per cento anni". Lectura Dantis Romana, a cura di E. Malato e A. Mazzucchi, Roma, Salerno Editrice, 2014, vol. II, pp. 575-613 : 541-542.
[15] Lino Pertile, L’avarizia e la composizione dell’Inferno, in Lecturae Dantis. Dante oggi e letture dell’Inferno, a cura di Sergio Cristaldi, «Le forme e la storia», n.s. IX, 2, 2016, Catania, Rubettino, pp. 127-142 : 133.
[16] Ibidem.
[17] Cfr. C. Casagrande, I sette vizi…, cit., p. 104.
[18] Iréne Némirovsky, David Golder, traduzione di Margherita Belardetti, Milano, Adelphi, 2006 [1926¹].
[19] Emile Zola, Il denaro, Palermo, Sellerio, 2017.
[20] Di agile lettura risulta il libro di Marco Berisso, Per patria il mondo, Supplemento a "La Repubblica", 2 aprile 2021, che ripercorre le tappe della vita e dell’esilio di Dante. Cfr. anche Umberto Carpi, La nobiltà di Dante, Firenze, Polistampa, 2004, e L’Inferno dei guelfi e i principi del Purgatorio, Milano, Franco Angeli, 2013, dello stesso autore per orientarsi nei rapporti tra i vari signori, le varie consorterie e fra le istituzioni politiche del tempo. Non apriamo qui una finestra su questi problemi, perché ci allontanerebbe dal nostro assunto.
[21] In https://www.raicultura.it/letteratura/articoli/2018/12/SPECIALE-DANTE-PARLANO-FERRONI-E-STABILE-4ffcaa2e-c15a-4413-81a6-1557c4988f1b.html si può vedere un filmato su questo argomento al quale partecipano Giulio Ferroni e Giorgio Stabile..
[22] Il falsario Mastro Adamo è assetato di vendetta e rinuncerebbe a placare la sua sete pur di vedere i suoi istigatori all’inferno.
[23] Cfr. Carlo M. Cipolla, Storia economica dell’Europa pre-industriale, Bologna, il Mulino, 2009 [1974¹]; Id., Il fiorino e il quattrino. La politica monetaria a Firenze nel Trecento, Bologna, il Mulino 2013 [1982¹].
[24] Giovanni Villani, Nuova Cronica, edizione critica a cura di Giovanni Porta, 3 voll., Fondazione Pietro Bembo, Parma, Guanda, 1991.
[25] L’alzamento consiste nella diminuzione della quantità di metallo, cioè del metallo nobile, nella moneta, che conserva però il suo valore di conio originario, il suo valore nominale. In un certo senso costituisce una falsazione!
[26] Cfr. G. Nicoletti, Due altri corrispondenti toscani di Ferdinando Galiani: lettere inedite di Pompeo Neri e Cammillo Piombanti (1752-53), in Miscellanea di studi in onore di Claudio Varese, a cura di Giorgio Cerboni Baiardi, Roma, Vecchiarelli, 2001, pp. 551-575 : 553, nota 6.
[27] Ferdinando Galiani fu anche il primo ad avere la consapevolezza della differenza tra valore d’uso e valore di scambio, che in seguito troverà per così dire consacrazione nel pensiero di Marx. Galiani infatti metteva in relazione il valore di una cosa e la sua utilità (cioè tutto ciò che provoca piacere e felicità) e la rarità (dovuta al rapporto tra le quantità esistenti di una cosa e i suoi usi).
[28] Cfr. Giocoli N., La teoria del valore di Ferdinando Galiani: un'ipotesi unitaria, in «Storia del pensiero economico», n.38, 1999, pp.69-93.
[29] F. Venturi, Settecento riformatore. Da Muratori a Beccaria, Torino, Einaudi, 1969, p. 508.
[30] Roberto Giacone, Ugo Capeto e Dante, in «Aevum», 49, 5/6, sett.-dic. 1975, pp 437-473 : 442-443.
[31] K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, in K. Marx-F. Engels, Opere, vol. XXIX, Roma, Editori Riuniti, 1986, p. 153.