C'era la luna piena, di quelle che trasformano il mondo in fantasma, quando tutte le cose, le animate e le inanimate, stanno sussurrando misteriose rivelazioni, ma ciascuna dicendo la sua, e tutte discordanti, perciò non riusciamo a capire e patiamo quest'angoscia di essere sul punto di conoscerle e di non conoscerle.
José Saramago (1922 – 2010) -Storia dell'assedio di Lisbona
La luna in Meldini: occhio, palcoscenico, falce/ Lune/ Luce lunare, luce riflessa, il "doppio" / Male di luna: melancolya, noluntas, licantropia / Rispecchiamenti: la memoria e la scrittura/ La falce lunare: l'atichia/ Divinità lunari/ Nell'occhio della luna/ /Noviluni: la stanza sprangata/ I destinati eventi move arcano consiglio?
Nei romanzi dello scrittore riminese Piero Meldini[1] la luna appare ripetutamente come occhio angosciante o beffardo sugli inganni, le delusioni e le violenze della vita umana[2]. Ad esempio, nel primo, L'avvocata delle vertigini, è in un plenilunio estivo che prende forma una serie di atti maligni che sfociano in un delitto ai danni di un innocuo agiografo di provincia («Disperato, alzò gli occhi al cielo e vide la luna piena. Sulla faccia dell'astro era stampato un sorriso beffardo che gli smosse, dentro, un'oscura inquietudine»[3]), mentre nell'Antidoto della malinconia una luna semioccultata in un cielo nuvoloso è il teatro di un attentato («Quando una nuvola a forma di seppia spruzzò d'inchiostro la luna, esplose, nel buio, un colpo d'archibugio [...]. Ora la luna, sollevatosi il sipario di nuvole, gli irraggiava le spalle, e proiettava sulle facciate delle case la sagoma goffa di un cane azzoppato»[4]): in entrambi i casi, le ombre lunari (siano sulla superficie dell'astro, o ne siano proiettate sulla terra) sembrano rivelare sarcasticamente verità grottesche o derisorie, che sfuggono allo sguardo nella luce solare.
Talvolta, l'occhio lunare pare riflettere piuttosto, quasi in ipallage, le reazioni a un misfatto da parte di un eventuale spettatore, che poi altri non è che il suo autore che osserva straniato se stesso mentre agisce: così, durante la profanazione di una tomba, «La luna, velata dai vapori della calura, spargeva un chiarore livido e attonito», e il colpevole «vedeva l'altro, la sua immagine nello specchio, afferrare la lapide e scuoterla furiosamente»[5].
Nel romanzo La falce dell'ultimo quarto, invece, l'autore gioca sui campi metaforici legati all'immagine della «falce», identificata ora con quella lunare («La falce dell'ultimo quarto mieteva tornature di stelle»[6]), sotto cui si rivelano allo scrittore sia l'identità tra vita e racconto che l'umbratile evanescenza degli uomini reali o dell'invenzione letteraria[7], ora con la «Mietitrice», continuamente desiderata e dilazionata dal protagonista («Notte e giorno, non appena gli scendevano le palpebre, vedeva [...] sotto le spoglie di una giovane contadina, la Mietitrice. Non avanzava più verso di lui brandendo la falce, né aveva più un'aria minacciosa. Gli sorrideva anzi, benigna e suadente, e gli tendeva la mano»[8]).
Scelta spesso dagli uomini come teatro dei loro crimini, la luna mostra al narratore esterno o a qualcuno dei personaggi un aspetto alieno e inquietante, rendendoli consapevoli dell'«infinita vanità del tutto», e soprattutto della loro pretesa di determinare e capire se stessi e gli eventi.
L'evanescente, plurivoca, ingannevole natura della luna è al centro in particolare del conturbante terzo romanzo di Meldini: Lune[9] appunto, in cui, nell'alternarsi di piani temporali e di precarie verità, sempre minacciate dai dubbi e dagli autoinganni della voce narrante, dell'astro vengono via via evocate molte delle funzioni simboliche tradizionalmente attribuitegli nella letteratura occidentale, dall'antica Grecia in poi: di ambiguo emblema del senso di sdoppiamento o del "male oscuro" (il "male di luna", appunto), di "eterna giovinetta" contrapposta alla crescente "senilità" del protagonista, di divinità misteriosa, fatale, sospesa tra cielo ed inferi, forse dotata di poteri misconosciuti ai mortali, di sfondo più o meno compartecipe o complice delle vicende umane[10].
Narratore in prima persona e protagonista del romanzo è Andrea Severi, nel cui resoconto si intrecciano tre piani temporali: il presente - gli anni '50[11] - è il tempo della scrittura, durante il suo ricovero in una clinica svizzera in attesa di un grave quanto misterioso intervento chirurgico (i cui esiti costituiranno il futuro, non raccontato, ma deducibile dalla conclusione, ovvero dalla lettera del medico curante); il passato (prossimo) corrisponde alla rievocazione della sua insofferenza per la propria vita quotidiana a Milano e, soprattutto, al ricordo di un viaggio in Grecia e dell'incontro con l'affascinante Dimitra e le sue tre figlie; infine, emergono a tratti, per allucinate associazioni di idee, frammenti di un tempo precedente, il "trapassato" delle esperienze belliche del protagonista che, tornato dal fronte in Italia, era stato costretto a "ricostruire" la sua vita da zero. Ma nelle memorie di Andrea ricorre anche, sempre più frequente nel corso della narrazione, il ricordo di un sogno - i tripudi delle Menadi - che rinvia ad un passato remotissimo, sorta di "tempo maggiore": il mito, filtrato dalle parole delle Baccanti euripidee, diviene così specchio, profezia, figura in senso dantesco di ciò che sta avvenendo ad Andrea.
Malinconico, annoiato, Andrea si mette in viaggio in auto verso la Grecia: ma il malessere psichico della partenza si trasforma, durante il lungo tragitto, in vera e propria malattia, manifestata dalla progressiva perdita di lucidità e dalla febbre. Ciò nonostante, Andrea raggiunge Nauplia e trova alloggio presso una coppia di anziani greci, Anghelos e Vasilia, accorgendosi, dopo pochi giorni, che essi lo hanno accolto perché assomiglia in modo impressionante al loro figlio morto in guerra, quella guerra cui anche Andrea ha partecipato in campo avverso, in Africa, conservandone indelebili e angosciosi ricordi.
Andrea è dunque l'immagine riflessa e invecchiata di un altro, che invece resterà per sempre il giovane «caro agli dèi» (p. 84) forte e sorridente fissato nelle foto[12]: ne ricava da subito l'angosciante sensazione di rivivere qualcosa - o meglio qualcuno - e dunque di recitare inconsciamente una parte già scritta, e forse non per lui.
Non a caso i primi due paesaggi lunari del romanzo contrappongono - già nei tempi verbali - la scialba luna di un presente grigio e senza speranza al trionfo dell'arcaica e maestosa divinità lunare greca, quasi nel suo sdoppiamento fosse prefigurato il duplice destino di Andrea:
«Là fuori, come una regina deposta che passi in rassegna le ultime schiere fedeli, una mezzaluna velata sorvola stancamente una fila di platani.
La luna che sorgeva dietro il Palamidi mi apparve all'improvviso [...]. Anch'io avevo fatto onore al vino resinato [...]. Forse ne avevo bevuto troppo, perché ogni cosa mi pareva sorprendente e familiare a un tempo.
Mi alzai dalla sedia, mi voltai e vidi la luna.
La piazza si apriva e le case, come le quinte di un teatro, inquadravano il colle che dominava il paese. Rotonda, gialla, immensa, la luna lo abbracciava tutto, circoscrivendolo dalla base alla cima, e saliva in cielo con altera lentezza.
Può darsi che a dilatarla contribuissero anche il caldo che stagnava nella piazza e la retsina. Di sicuro mi si mostrava come non l'avevo mai veduta in vita mia. Era una luna dilagante e trionfale. Una luna, starei per dire, solare.
La sua luce scendeva dal Palamidi come una colata di miele: un placido fiume ambrato su cui galleggiavano le case, i tavoli, le sedie. E gli uomini, naufraghi felici.
Contemplavo la luna e per la prima volta, da mesi, mi sentivo in pace con me stesso» (pp. 11s.).
Il paesaggio[13] è dunque presentato come un palcoscenico, in cui Andrea sarà chiamato a "recitare" una parte di cui è ancora ignaro[14]; la luna che «abbraccia» e domina questo sipario è teofania di «altera lentezza» di una divinità «dilagante e trionfale», emblema in cui si fondono suggestioni leopardiane e pirandelliane: il suo infinito "trionfo" è riconferma del "naufragio" umano[15], che anche se "felice" perché - come a Ciaula[16] - sembra prospettare la «pace» di una liberazione o di una rinascita, non può che comportare - in quanto appunto «naufragio» - la vittoria di forze superiori a quelle dell'uomo.
Ma Andrea dalla «messa in scena» (p. 12) con la moglie, in cui ciascuno fingeva e accettava il proprio ruolo, è fuggito: così come sta cercando di sfuggire a quell'"altro se stesso" che lo tedia e lo nausea:
«In altri tempi mi sarei fatto buona compagnia. Adesso no. La conversazione con quel passeggero che non avevo scelto, e che ero costretto a portami dietro, non sarebbe stata piacevole. I suoi tetri balbettii, la sua luttuosa petulanza, l'ostinazione con cui tornava sulle cose mi intristivano e mi annoiavano» (p. 13).
Nella sua fuga egli ricerca appunto forza e vitalità "solare", quella che immagina possa offrirgli la Grecia, e che è rappresentata questa volta dall'antitesi tra due "soli", quello dell'uggioso passato e quello di uno sperato radioso futuro:
«Un sole convalescente si affacciava sui campi e solleticava le spighe di grano, reclinate per le piogge e le nebbie di un giugno quasi marzolino. Io correvo incontro a un sole sfolgorante e a un cielo corrusco.
La mia destinazione era la Grecia, la terra promessa degli anni del ginnasio e del liceo. Era là che mi immaginavo quando da ragazzo pensavo al futuro. Là mi vedevo, incanutito e felice, mentre trascrivevo un'epigrafe frantumata e corrosa o mi rigiravo tra le mani, ancora impastato di terra, un volto femminile che sorrideva.
Era il sorriso l'espressione della Grecia, e la giovinezza la sua età. Giovani, intatti erano i corpi nudi scolpiti nel marmo o dipinti sui vasi. Giovani eroi popolavano i miti. Giovane e limpido zampillava il pensiero, e anche la natura esibiva i colori accesi e la fertilità della giovinezza. Sorridente e giovane: così continuavo a figurarmi la Grecia» (p. 14).
È tuttavia significativo paradosso che, come si è visto, questa "solarità" apparentemente benefica gli sia offerta invece dalla luna. Sotto la sua luce avviene il primo incontro con Dimitra, che è anch'ella «copia vivente» di una creatura del passato, di un passato remotissimo, avvolto di per sé nel mito e nel mistero: della pittura cretese detta La Parigina. Ed ella, a sua volta, ha delle figlie che la riproducono come in età diverse: appaiono ad Andrea in una sorta di teofania («Il mare mandò un lampo accecante»), in cui le immagini del presente si fanno riproduzione dei «ricordi di estati remote» (p. 22).
Insicuro, scontento di se stesso, alla ricerca di conferme sessuali che Dimitra gli rifiuta, Andrea vorrebbe essere qualcun altro: magari il "doppio" del marito (assente) della donna, a cui ella si mostra al tempo stesso ostile e soggetta, e si immagina - lui che non ha esitato ad abbandonare moglie e figlio[17] - nei panni di un ideale pater familias:
«le osservavo compiaciuto una per una.
«Sembriamo una famiglia» pensai ad alta voce, perché era quello che volevo credere. Cinsi le spalle di Fili, che mi sedeva di fianco, e feci per stringerla a me. La fanciulla, rossa come il fuoco, si divincolò» (p. 91).
E forse ne diviene effettivamente "doppio": sia nell'ambiguo rapporto con Dimitra, che ne accetta (o subisce?) la compagnia, ma gli manifesta totale ripugnanza fisica, sia nella torbida attrazione per le ragazze[18], che si dubita che Dimitra - novella Medea - sfrutti per vendicarsi dell'odiato sposo.
D'altronde, l'intero romanzo può essere letto come il racconto del progredire di un "male oscuro" che si manifesta come graduale naufragio della ragione e della volontà, rispecchiamento in un "altro" vile e insensato, in un se stesso irriconoscibile, mentre la figura femminile si sdoppia nelle apparenze di una dea incomprensibile ma dominante, e il messaggio rinvia a serie rigorosamente binarie, di insanabile dualismo: giovinezza-vecchiaia, salute-malattia , umano-divino, sincerità-(auto)inganno e, centrale tra tutte, destino-responsabilità.
Proviamo a incrociare qualcuno dei bivi nel labirinto di specchi di Lune, alla ricerca di un'ipotesi di interpretazione di questo romanzo e in generale dell'opera di Meldini, cioè della sua riflessione su angosce ed idiosincrasie dell'uomo contemporaneo.
Andrea, fuggito «alla spossatezza, al disamore, alla desolazione [...]; agli affetti che andavano languendo, al desiderio che d'un tratto si spegneva, alla vitalità che si disseccava come un torrente estivo[19]» (p. 13) della sua vita coniugale, cerca dunque nella Grecia e in Dimitra, che gli pare sua emanazione, forza, giovinezza, salute, virilità, determinazione.
Andrea si dimostra insomma affetto da una crescente acedia o melancolia[20] - stato d'animo, si noti bene, a decorso periodico come quello delle lunazioni. Meldini ne è sottile interprete anche in altri romanzi, e nell'Avvocata delle vertigini ne dà perfino spiegazione clinica:
«La diagnosi [...] era quella di una melanconia involutiva - la regina delle psicosi presenili -, ossia di una depressione ansiosa, agitata e farneticante; associata a disturbi della memoria, stato confusionale, insonnia e attacchi epilettiformi [...]. I malati di melanconia involutiva si addossano tutti i mali del mondo [...]. Un solo dono possono fare all'umanità: liberarla al più presto della loro nefasta coabitazione»[21].
Se però da un canto Andrea si dichiara passivamente rassegnato alla sua sudditanza rispetto alla volontà di Dimitra, dall'altro, a più riprese, si ha la sensazione che egli menta per giustificarsi e autoilludersi: in primo luogo, l'uso dei verbi di "parere" rende scarsamente attendibile la sua affermazione di non provare risentimento per l'ostinato rifiuto di Dimitra:
«Ma sul desiderio prevaleva ormai la tenerezza. [...]. Mi dicevo che non ero più adirato con lei. Pareva svanito anche quello spaesamento, simile alla sensazione di affacciarsi sul vuoto, che la sua vicinanza mi comunicava. Volevo sentirmi pacificato e indulgente, come dopo una notte d'amore» (p. 53).
Ella, d'altra parte, intavolando con l'uomo un'incomprensibile gioco a gatto e topo[22], accresce in lui il senso di insicurezza e di frustrazione, apparentemente ignara del rischio cui sta sottoponendo le giovani figlie, che viaggiano insieme a loro e che Andrea viola una dopo l'altra, in sostituzione e pavida rivalsa sulla madre. Da questo punto di vista, si può dubitare che le ripulse di Dimitra non siano così sgradite ad Andrea come vuol far credere, visto che gli evitano di mettersi alla prova e di rischiare un fallimento, mentre gli offrono il pretesto per concretizzare sulle ragazze desideri inconfessabili e dunque prima sistematicamente occultati, ma la cui realizzazione comporta comunque meno rischi per il suo orgoglio di maschio che il confronto con una donna adulta e consapevole:
«In un moto che era di vergogna e di compassione per entrambi, le abbassai la sottana [...]. Provavo un'indicibile spossatezza: uno stupore desolato che piegava la volontà e spegneva ogni desiderio,
e insieme un oscuro senso di sollievo» (p. 44).
Questo spiega perché Dimitra spesso appaia agli occhi di Andrea figura adolescente, addirittura bambina, dunque non "modello", ma "copia" delle sue figlie:
«Accecato dal riverbero del pomeriggio, mi pareva di scorgere non il corpo pieno di una donna sui trent'anni, ma quello sottile e fragile della figlia più piccola» (p. 39).
Il tema tanto esibito, soprattutto nelle prime pagine, del contrasto tra giovinezza e vecchiaia e tra salute e malattia, si va configurando così nel romanzo come riflessione sulla disperata ricerca della vitalità perduta, che si esprime in particolare nel risarcimento del languire della sessualità, che sarà infine ottenuto costi quel che costi[23]. Andrea è infatti un uomo frustrato e insicuro che non si piace (p. 34)[24], continuamente alle prese con un "doppio" invecchiato in cui non si riconosce più:
«passando davanti all'armadio, scorsi nella specchiera un estraneo, di cui mi colpirono penosamente le borse sotto gli occhi, l'esile muscolatura e il ventre che cominciava a rilassarsi» (p. 101),
e che sente rifiutato da Dimitra:
«Tutti ci specchiamo negli occhi degli altri» continuai sottovoce. «Non so come tu veda te stessa nei miei, ma i tuoi sono uno specchio impietoso. L'immagine che mi rimandano è quella di un uomo invecchiato e poco attraente. Un indesiderato» (p. 102).
Questo contrasto si riflette, tramite il punto di vista del protagonista, anche sul paesaggio, ad esempio nel confronto tra il "vecchio" mare dell'infanzia di Andrea (presumibilmente la riviera adriatica del riminese Meldini) e il "giovane", esuberante, misterioso mare della Grecia (da cui emergono, appunto, Dimitra e le figlie):
«Il mare della mia infanzia era un altro mare. Un mare domato e incanutito. Un vecchio mare a cui le mamme affidavano i loro bambini come a un nonno amorevole, certe che li avrebbe restituiti sani e salvi. Il mare che fremeva davanti a me, eccitato dalla vampa del sole, era invece un mare giovane. Come le tre ragazze. Come la Grecia [...]. A lente bracciate mi allontanai dalla spiaggia. Tutt'a un tratto mi sentii stanco» (p. 32).
«E c'era, a perdita d'occhio, il mare: qui argenteo, là turchese, là, ancora, di un azzurro intenso e striato di violetto. Era un mare cangiante ed enigmatico, come l'occhio di una dea» (p. 37)[25].
D'altra parte, la senilità - secondo il suggerimento sveviano, «il male avveniva, non veniva commesso»[26] - è appunto autoinganno e noluntas: mali di cui Andrea soffre anche prima di incontrare Dimitra, ma che nel corso della vicenda si accentueranno disastrosamente, dilatando la sua sensazione di dissociazione e di essere marionetta "agita" da forze esterne[27]:
«Mi sentivo sdoppiato. Una parte di me agiva meccanicamente, come un automa caricato a molla; l'altra assisteva e giudicava, incapace però di alzare un dito. È così, almeno, che misericordiosamente mi rivedo» (p. 132).
In realtà, Andrea va accumulando «una collera cieca e disperata: quella del gatto stretto nell'angolo, che non ha più vie di fuga e può solo rizzare il pelo e rivoltarsi contro l'aggressore» (p. 100), ma per tutta la narrazione continua a rifiutare di assumere qualsivoglia responsabilità di quello che accade, pronto ad autoassolversi per dare la colpa alla «notte», alla «solitudine», a Dimitra che lo respinge (p. 110). Al tempo stesso, anche dopo che l'avventura con le quattro donne è finita, si dichiara addirittura compiaciuto della propria viltà:
«Assisto perplesso, ma senza che mi dispiaccia, al mutamento della mia natura, che diviene ogni giorno più fragile e pavida» (p. 109).
Ma questa condiscendenza alla propria "inettitudine" non rende Andrea Severi (così come il bibliotecario Manara dell'Avvocata delle vertigini) innocua vittima dell'incomprensione o dello scherno altrui, come in genere nel romanzo della prima metà del Novecento: vittima egli vuole credersi, ma la sua frustrazione si trasforma in violenza vigliacca, o meglio - avrebbero detto i medici antichi - nell'evoluzione dalla melanconia alla licantropia[28], al "male di luna", certo non innocuo però come quello della celebre novella pirandelliana.
Perciò, se il personaggio è un moderno, degradato Ulisse, come più riferimenti nel romanzo fanno pensare[29], ancora una volta disperante è la visione di Meldini: ché Andrea dalle malìe imbestiatrici di Dimitra-Circe, che gli ha rifiutato il suo talamo, non trova scampo e, come il lupo delle fiabe, giunge ad aggredire perfino una bambina indifesa[30]:
«Intanto vedo l'altro, quello che mi somiglia come si somigliano due gocce d'acqua, che stringe la fanciulla con tutta la forza che ha, le bacia i capelli, il viso, i seni in boccio, e ansima parole senza senso [...].
Quando l'altro rialzò la testa, anch'io la rialzai. Ero completamente lucido [...]. Avevo orrore della mia nudità e bruciavo di vergogna. Ebbi l'impulso di baciarle la fronte, ma subito indietreggiai, come per un urto improvviso.
«Fili, pedì mu!» gemetti. «Povera figlia mia!» [...]. «Fili è là da sola» pensai. «È ancora piccola: avrà paura dei temporali», ed ero addolorato di non poter correre da lei e tenerle compagnia fino al ritorno della madre e delle sorelle» (pp. 134s.).
Da questa tragica rappresentazione della "banalità del male" deriva il capovolgimento della concezione dell'"inettitudine" o del "male oscuro" come estrema (e salvifica) forma di chiaroveggenza: essa invece per Meldini non eleva affatto rispetto agli altri uomini, ma porta solo all'amara constatazione che tutto è menzogna, che non si può mai credere a se stessi, anzi che di se stessi si è vittime e carnefici al tempo stesso:
«Che cosa avevo da spartire con quella straniera e con le sue figlie? Che cosa volevo realmente da lei, da loro, se ero disposto a pagarlo a così caro prezzo? La verità è che non lo sapevo affatto, e tuttora non lo so [...] tutte le risposte che mi do sembrano menzogne: pietose menzogne.
Poiché non sapevo cosa cercavo, tanto più misteriosa era la natura di quel che avevo trovato. Avvertivo solo che si stava annidando in me come un parassita, e che non avevo né la volontà né la forza per estirparlo» (pp. 100s.).
Così, la suggestione della Coscienza di Zeno[31] e dell'ironia sveviana nei confronti del potere terapeutico dell'autoanalisi diviene acre, disperante affermazione della facies insensata e medusea della realtà e perfino della vanità dell'atto della scrittura e della memoria, richiamata solo nella speranza di cancellarla:
«Sto rabbrividendo [...]. Le figure che ho evocato continueranno a ballarmi davanti agli occhi. Le ho richiamate perché alla fine si disperdano. Le ricordo per dimenticarle» (p. 23).
I personaggi di Meldini, infatti, tutti autori di "memoriali" con cui cercano di far luce e ordine nel caos dell'esistenza propria e altrui, finiscono in genere con l'abbandonare o annientare la propria opera, vale a dire di quel "se stessi" che avevano miseramente cercato di (ri)costruire, e di cui sono stati unici lettori: l'agiografo Dominici non può terminare la salvifica biografia dell'Avvocata delle vertigini; Gioseffo brucia il suo Antidoto della malinconia; il mercante Bartolini della Falce dell'ultimo quarto, colpito da una forma di afasia, non riesce a trovare una redazione definitiva e soddisfacente per il proprio testamento.
Solo quello di Andrea Severi - «un grosso quaderno con la copertina nera e i tagli rossi che ricorda un messale»[32] (p. 11) - potrà essere rinvenuto e letto, poiché egli, prima di sparire nel nulla, lo ha abbandonato nella clinica, forse con la speranza che qualcuno - la moglie, ipotizza il dottor Baumann che lo ha trovato [33] (p. 143) - ne venga in possesso.
La scrittura, presentata attraverso l'immagine del «messale» come un'operazione "sacra"[34] - o piuttosto dissacrante -, viene in realtà realizzata dal personaggio «un po' come dare di stomaco, e il travaglio è il prezzo da pagare per liberarsi» (p. 33): è un atto di denudamento penoso per gli schivi, infecondi scrittori ideati da Meldini, e il loro disagio si materializza nella grafia:
«Mi sono accorto, sfogliando questo quaderno, che più procedo nel racconto, più la mia scrittura si rimpicciolisce. Ora la grafia è così minuta che mi costringe a non alzare la testa dalla pagina e quasi a sfiorarla con il naso. Anche le parole tendono ad appiccicarsi tra loro. È un fatto curioso di cui ignoro il significato, ammesso che ne abbia uno. Si direbbe che io voglia abbassare la voce. Ridurla a un bisbiglio. A un filo» (p. 97)[35].
Tuttavia, lo sforzo di scrivere, invece che liberare Andrea dei fantasmi che lo ossessionano, lo porta piuttosto a constatare la farraginosità, l'illusorietà della memoria: in primo luogo, per quella sensazione di sdoppiamento che sbiadisce la certezza di essere stato il vero protagonista dei propri ricordi[36]; in secondo luogo perché la memoria non è in grado di ridare ordine al magma confuso del vissuto:
«Da qualche tempo, se mi voltavo indietro, la vita mi appariva un groviglio di fatti che, invece di acquistare in prospettiva ordine e senso, tanto più si ingarbugliavano quanto più me ne distanziavo. Gli avvenimenti lontani si mescolavano con quelli recenti. Cause ed effetti si invertivano. Le parole dette si intrecciavano a quelle ascoltate. Le facce si sovrapponevano [...] Potevo mai confondere, oltre ai volti, ai corpi, alle voci, anche i tempi e i luoghi? [...] Chi aveva pronunciato quella frase? Con chi avevo fatto quella passeggiata? [...] tutte le donne che avevo incontrato si erano fuse in una sola» (pp. 14s.).
Così, ricordare, invece che garantire l'irrevocabilità e la certezza dell'evento effettivamente trascorso, rimanda a realtà non meno precarie e controvertibili di quelle del presente e del futuro (il «groviglio», il garbuglio dell'essere[37]), deprivando l'individuo perfino dell'ultima forma di identità, quella assicurata dalla memoria, che non appare più segno di conoscenza e, forse, di saggezza, ma di confusione e di senilità[38].
Eppure, non esiste altra strada per combattere l'irrazionalità e il male dell'esistenza e per cercare di tornare «a casa», per ritrovare se stessi e riaffermare la propria umanità, che affrontare i propri fantasmi, se non per comprenderli, almeno per placarli[39]:
«Dovrò ripercorrere una strada sempre più buia e affrontare le ombre che la popolano, stridule come uccelli» (pp. 76s.).
Anche se le «ombre» in questione (Dimitra e le figlie) sono ancora vive, il rimorso di Andrea farà di quei ricordi una vera e propria discesa agli inferi, come suggerisce anche l'intarsio di reminiscenze classiche, dall'iter tenebricosum percorso dal passero di Catullo (3,11) alla similitudine delle ombre con gli uccelli, che ricorre in entrambe le descrizioni virgiliane dell'Ade (Georgiche IV 471-474 ed Eneide VI 310-312), ma che è di derivazione omerica, come suggerisce la nota «stridule» (psyché tetrigyia in Iliade XXIII 100s.), sviluppata in ampia similitudine tra le ombre dei pretendenti morti e le nottole, entrambe trizousai[40], in Odissea XXIV 5-9: suggestione fonica che si fa segno di rimprovero o disperato rimpianto, e rimanda a sensazioni luttuose e angoscianti.
Se tuttavia il descensus ad inferos si riferisse unicamente allo scavo interiore che Andrea va compiendo mano a mano che compila il suo «messale», Lune rientrerebbe in fin dei conti in una topica narrativa piuttosto scontata, ma anche rassicurante. Invece, il romanzo è oggettivamente conturbante, perché non esclude l'esistenza di entità irrazionali che l'uomo moderno ha da secoli bandito dall'interpretazione della realtà.
In effetti, Andrea subisce una sorta di vera e propria vocazione, psicologica ma anche "fatale", alla vertigine e al precipizio, cosicché, proprio lui che è partito sognando un nostos, «Un estremo e forse velleitario tentativo di ritrovare me stesso. Un pellegrinaggio ai luoghi, alla fonte, della giovinezza» (p. 15), si trova a vivere invece realmente un molteplice descensus ad inferos: un moto geografico e simbolico da nord a sud (da Milano a Nauplia)[41], fino ad avvistare un luogo che evoca appunto "l'isola dei morti"; uno stato d'animo di «irragionevole ostinazione» nel suo viaggio (p. 17), in cui si susseguono depressione, ubriachezza, smemoratezza, febbre sempre più alta (pp. 16s.), improvvisi allucinati ricordi del passato (p. 17); un progressivo abbandonarsi a forze estranee alla volontà, verso mete (e conseguenze) non previste, fino al conclusivo sprofondamento nel buio di pulsioni inconfessabili.
Al fondo di questa discesa c'è Dimitra, che Andrea vede per la prima volta - come si è detto - nel segno di un plenilunio e di un paesaggio che pare anticipare ciò che avverrà e rispecchiare il fascino (e forse il ruolo) della donna:
«L'aria profumava di mare, di fiori e di spezie, e la luna, al suo culmine, splendeva sulla Grecia irraggiando ogni pietra [...].
Seduto su una vecchia bitta di ferro, contemplavo la superficie del mare, che diffondeva un chiarore perlaceo, e ne ascoltavo la voce sommessa e insinuante. Le piccole barche da pesca vagavano intorno alla fortezza di Burdzi, che sorgeva dall'acqua come un miraggio. Mi rammentò l'isola dei morti dipinta da Böcklin. Avrei letto sulla guida, più tardi, che un tempo vi abitava il boia»[42] (pp. 18s.).
Il sovrapporsi di sdoppiamenti e déjà vu che affiancano l'incontro sembra alludere a un incrocio, a un'interferenza nella storia umana di epoche e di memorie diverse, che minacciano la razionalità, l'univocità del presente: il passato prossimo della seconda guerra mondiale appena finita, in cui è morto il giovane sosia di Andrea, che pure ne conserva ossessivi ricordi, e una Grecia arcaica ed arcana, che si rispecchia nel volto di Dimitra e che prende forma negli incubi sulle Menadi che cominciano da allora ad ossessionare il protagonista[43].
Per di più, un'oscura minaccia pare circonfondere le quattro donne, che evitano ogni contatto con gli abitanti della città e sulle quali grava evidentemente l'ostilità collettiva (cf. pp. 50 e 60). L'anziana ospite di Andrea, novella Cassandra, tenta di avvertirlo:
«Di quel che mi disse capii ben poco, se non che mi stava mettendo in guardia. Non era opportuno che frequentassi Dimitra. Non era prudente. Una parola, fra le altre, ricorreva di continuo: atichia. Strano che, pur suonandomi familiare, non ne ricordassi il significato» (p. 60).
Il termine, tanto in greco antico quanto in neogreco, significa «disgrazia», «fallimento», cioè la forma più ostile e nefasta della τύχη, la sorte; e infatti in Andrea si va consolidando l'idea di una predestinazione:
«Aspettavo gli eventi con atterrito fatalismo. Mi sembrava che tutto fosse già scritto. Che i pezzi si muovessero sulla scacchiera da soli, ripetendo una partita giocata chissà quando, chissà dove» (p. 110).
D'altra parte, il «fatalismo» presuppone una crisi della volontà (che è del resto il carattere dominante del personaggio), come ben spiega Platone, che mette appunto in relazione l' atychia con la boulé / bolé («decisione» e «lancio»): «l' aboulia (mancanza di volontà) sembra essere atychia, come di uno che non colpisce né coglie quello a cui mirava e che voleva e su cui prendeva deliberazioni e che bramava»[44].
In effetti, l'atichia di Andrea coincide con un'«ostinata sudditanza» (p. 92) alla volontà di Dimitra, che egli avverte come un'ineludibile malia («fascinazione»), e che identifica appunto con la «sorte», la tyche, o - attivando un ulteriore parallelismo simbolico - con la necessità delle fasi lunari e delle maree, che della luna subiscono l'influenza:
«La fascinazione del luogo si aggiungeva a quella che Dimitra e le figlie continuavano a esercitare su di me. Ancora una volta, lasciavo che fossero gli altri a decidere: e, dietro agli altri, la sorte» (p. 117);
«E ancora adesso mi chiedo come mai, invece di sentirmi umiliato, accettassi il suo comportamento volubile e ambiguo come qualcosa di ineluttabile. Non potevo oppormi a lei così come non ci si può opporre al rincorrersi delle stagioni, al succedersi delle fasi lunari, all'alternarsi delle maree» (p. 57)[45].
In questo modo, intorno alla figura di Dimitra viene ipotizzata - ma mai confermata in forma definitiva - una complessa rete di identificazioni tutte connesse col simbolo lunare - la sorte, la disgrazia, la volubilità, l'ineluttabilità[46] - che non fanno che moltiplicare lo sconcertante gioco di specchi.
Molti sono gli interrogativi, a questo proposito, che il romanzo pone senza offrire risposte definitive: il destino è un incontro "fatale" o un'ossessione? E in quale misura Andrea è responsabile di questa ossessione, oltre che, forse, nell' "ostinazione" con cui riconosce di averla perseguita?
Se Lune fosse una tragedia greca, e si potesse interpretare Andrea come un personaggio di Eschilo o di Sofocle, ci risulterebbe subito chiaro in cosa consiste la sua "colpa", colpa di uomo moderno, beninteso:
«Mi vergognavo dei miei timori; di essermi lasciato suggestionare dagli sproloqui di una vecchia superstiziosa. Adesso so che avrei dovuto darle ascolto, e che non è saggio credersi saggi» (p. 63).
In questa chiave, egli ha peccato senza dubbio di ὕβρις, nella presunzione di sapere e di poter dominare il proprio destino. Non a caso Meldini parla di "accecamento", tipica conseguenza, secondo i Greci, dell'hybris:
«Questo mi andavo dicendo, con il dissennato candore dell'uomo che gli dèi hanno accecato: che volevo rivederle solo per salutarle» (pp. 69s.).
Privo sin dall'inizio del romanzo della sophrosyne, il senso dell'equilibrio e dell'armonia tra corpo e spirito, che si riflette nella salute, nell'autocontrollo, nella saggezza, nell'accettazione positiva dei propri limiti e nel riconoscimento dell'esistenza del divino, Andrea non può che andare incontro all' ἀτυχία, in una catastrofica coazione a conoscere se stesso, sia pure incompiutamente e senza poter comunque definire con certezza in quale misura sia stato vittima di forze esterne e in quale delle proprie scelte. Così, come un moderno Edipo, o forse meglio un Penteo, se si pensa che nel frontespizio sono citate le Baccanti[47], anche lui subirà una spietata legge del taglione, che ne farà l'impotente "doppio" del se stesso scettico e razionale dell'inizio del romanzo. Peraltro, lo sparagmòs di Andrea, pur tanto più grottesco e umiliante di quello di Penteo[48], risulta parodia di un rito di iniziazione, perché o non porterà alcuna rinascita ma morte o, più probabilmente, consentirà sì la vita, ma in una forma deprivata e frustrante.
In conclusione, coercizione a recitare un ruolo, nevrosi, vana ostinazione, presunzione, senescenza, concatenazione di frustrazione e violenza, viltà auto-assolutoria: il "doppio" sgradevole e perfino mostruoso, il Mr. Hyde celato sotto le rispettabili sembianze del dottor Jekyll, è spiegazione sufficiente dell'atroce opacità dell'essere, della banalità del male? L' atychia può essere spiegata unicamente come conseguenza dell'azione dell'uomo, della sua hybris? O invece esiste una tyche, ed è da essa che dipende il corso della vita, come conclude Andrea ripensando alla sua avventura?
«Quando, nella rassicurante casualità dei fatti, ci sembra di cogliere una traccia di maligna ostinazione, invochiamo il destino. Qualche volta succede anche a me di pensare che una volontà misteriosa governi gli eventi e che a condurmi a Nauplia sia stata quell'oscura divinità, figlia della Notte, che da Omero è chiamata funesta, e perfida da Esiodo» (p. 17).
Ma se davvero siamo "agiti" (dal destino, dal nostro inconscio), qual è il margine di responsabilità individuale? E quante sono infine le interpretazioni, le "facce lunari", di ciò che accade?
Se sul piano psicologico e umano Lune è la storia delle solitudini di Andrea e di Dimitra, che si cercano senza potersi colmare, al tempo stesso, i loro nomi, i loro doppi, alludono a un'altra possibile spiegazione della loro sorte, tragicamente intuita e rassegnatamente subita dal protagonista, che ne fa la vera chiave di interpretazione e giustificazione di quel destino in cui non sa riconoscersi: forse Andrea è segno dell'anér, dell'umanità e della virilità al tempo stesso, che si scontra - sempre come in una tragedia greca - col fondo misterico e inintelligibile della divinità[49], cioè con Dimitra/Demetra, dea madre (meter, mitera, la chiama sua figlia, p. 106) per eccellenza, ma anche dea notturna e lunare, "doppio" sulla terra di quella che domina i cieli del romanzo, o ipostasi di altre dèe antichissime dal culto troppo a lungo trascurato:
«L'aspetto della sconosciuta mi aveva colpito. C'era qualcosa, in lei, che richiamava il passato. Qualcosa come un'eco remota di quella terra [...]. Spiavo il naso diritto e sottile, gli occhi allungati, la bocca imbronciata, il mento appena sfuggente, e mi chiedevo a chi somigliasse. Mi colpirono la fonte alta e liscia, che si incurvava sotto l'attaccatura dei capelli, e la forma del capo, corto e dalla nuca leggermente schiacciata. All'improvviso ricordai. La donna era la copia vivente di famose figure cretesi. Di una, in particolare: quella che chiamano la Parigina» (p. 19).
Difatti, i suoi primi incontri[50] con Andrea sono rappresentati come teofanie:
«Giacevo in quello stato che oscilla tra la veglia e il sonno e in cui le sensazioni si mescolano a visioni fugaci. Spezzati dai gridi dei gabbiani, improvvisi e fastidiosi come colpi di clacson, baluginavano ricordi di estati lontane.
Lontana, dal mare, mi sembrò di udire una voce di donna. Poi, più vicine e più chiare, altre voci femminili. Erano richiami, strilli, risate, accompagnati da sciacqui e tonfi. Riapersi gli occhi. Il mare mandò un lampo accecante.
Quando il buio si dissipò, vidi la donna che avevo incontrato al porto la sera prima. Usciva dall'acqua con il busto eretto, la fronte alta, le braccia tese e leggermente divaricate. Superava le onde con un movimento delle gambe ampio e rotondo che mi rammentò quello dei cavalli alla scuola di equitazione. Il costume nero, che l'acqua le incollava al corpo, luccicava» (p. 22) [51],
mentre le forze della natura paiono assecondarli:
«Il mare avanzava pian piano, furtivamente, quasi volesse imprigionarci tutti e cinque nella caletta» (p. 23).
L'immagine di Dimitra è tutta filtrata attraverso le reminiscenza classiche del suo ammiratore, che nel suo viaggio va cercando appunto: «la voce [...] delle divinità spodestate» (p. 67): ad esempio, i capelli «dai riflessi violacei» sono di memoria alcaica[52], anche se alcune allusioni ne fanno piuttosto un volto di Erinni o di Gorgone, il cui amplesso è terrifico:
«I capelli le scesero sulle tempie, neri e irrequieti come una covata di serpentelli» (p. 40);
«Prima che dalle sue mani, che mi presero il capo, fui attirato dalle sue pupille, nere e vuote come un cielo senza stelle. La sua bocca cercò la mia. Provai una sensazione di sgomento. La pelle mi si accapponò, quasi urticata. Mi crebbe nelle orecchie un fruscio insistente, come di cicale» (p. 63);
«Scendeva il tramonto, infuocato e repentino come quelli del Sahara. I capelli di Dimitra, in controluce, erano contornati da un'aureola fiammeggiante» (p. 64).
Sulla sua procacità si concentra, comunque, il caratteristico voyeurismo dell'uomo, che è però ambiguamente attratto - come s'è detto - soprattutto dal suo aspetto adolescenziale, acerbo, che la rende somigliante alle figlie, ma che forse è accentuato ad arte, tanto da farla apparire sfuggente e falsa:
«Di tanto in tanto mi volgevo verso di lei e lo sguardo mi cadeva sulle sue braccia tornite, sul profilo maturo del seno, sulle gambe nervose. Sbirciavo la pelle nuda, che l'abbronzatura uniforme sembrava aver levigato, e sentivo crescere in me una sorta di dolorosa impazienza» (p. 30);
«Gli occhi bistrati e il rossetto troppo acceso sulle labbra stridevano con la sua figura da ragazza» (p. 37)[53];
«Quel puerile vestito a quadrettini con il colletto bianco allacciato da un fiocco di seta blu, quel filo di trucco e quelle poche gocce di colonia le davano un'aria bugiarda» (pp. 110s.).
Nelle sue ripulse vi è qualcosa di violento, di patologico, come se il suo corpo si ribellasse alla «rassegnazione» (p. 41) con cui ella ha acconsentito agli inviti di Andrea: dal suo grembo sale l'odore «acre di una persona febbricitante» (p. 44), coperta da «un velo di sudore freddo» e scossa da «brividi intermittenti» (p. 51); nei suoi occhi «si susseguivano paura e ripulsa, ostinazione e ferocia»»; la sua faccia diviene «terrea» (p. 44).
Nonostante l'immagine del suo apparire dall'acqua (p. 22) possa far pensare a Venere, la sua ostilità al maschio, marito o amante, la rende simile piuttosto alle divinità che difendono fieramente la loro castità, come Artemide, o il cui amplesso è funesto per l'uomo: in primo luogo Demetra, naturalmente, che condivide con quella sua prima apparizione l'associazione col cavallo («un movimento delle gambe ampio e rotondo che mi rammentò quello dei cavalli alla scuola di equitazione») e il colore nero dell'abbigliamento, e che culti antichissimi identificavano con un'Erinni[54] e con divinità infere quali Ecate-Cibele a Persefone, tutte connesse col culto lunare[55] e caratterizzate dall'essere "une e trine"[56], ovvero spesso moltiplicate in trinità, come appunto è Dimitra, inseparabile dalle sue figlie-emanazioni[57]. Persefone aveva poi uno sposo odioso, Ade, che l'aveva conquistata con la violenza; i sacerdoti-amanti di Cibele subivano - come ben si ricorda dal carme 63 di Catullo - l'evirazione, mentre Andrea rammenta il castigo di chi, come Atteone, violi il pudore di Artemide (p. 57).
Dimitra è dunque presentata come ipostasi o materializzazione di una divinità lunare («Osservavo quel viso disteso, a cui la luce lunare donava i riflessi e le iridescenze della madreperla», p. 52): perfino il paesaggio, quando ella vi appare, sembra voler "imitare" la luna («La bassa marea scopre per qualche ora piccole mezzelune di sabbia granulosa dove si prende il sole», p. 22), che del resto partecipa, assieme ad astri e costellazioni, agli incontri - e ai fallimenti - di Andrea con la donna: ad esempio, un'immagine forse di marca pascoliana allude all'eccitazione di Andrea al primo incontro, e al suo successivo placarsi:
«il disco della luna cominciava a sfaldarsi, e lunghe file di stelle operaie ne trasportavano briciole luminose su e giù per la volta» (p. 43);
«A poco a poco si placò l'animazione del firmamento e si chetò il suo brusio [...]. La luna tramontava» (p. 45)[58].
A loro volta, Olimpia, Aglaia e Fili, dai nomi abbastanza trasparenti[59], vengono paragonate da Andrea a «gentili divinità protettrici in grado di difenderci dagli sguardi invidiosi del mondo» (p. 46), cui la natura sembra presentare un omaggio, una libagione sacra di latte, miele e vino:
«Ogni cosa era singolarmente dolce, in quell'ora. La sabbia aveva il colore del miele, il mare andava assumendo la tonalità del mosto, e la spuma, intorno agli scogli che racchiudevano la caletta, sembrava quella del latte che bolle» (p. 59)[60].
Ben presto, però, egli si accorge che esse assomigliano piuttosto a seducenti ma pericolose Nereidi o Sirene, di cui finisce per sentirsi «l'ostaggio» (p. 81):
«Nelle movenze, nelle positure, negli atteggiamenti suoi e delle sorelle c'erano una freschezza e insieme una forza di seduzione che mi rapivano. Irretito, quasi ipnotizzato dall'armonia di quell'idillio, pensavo a loro come a un gruppo di nereidi, dimentico di quanto possano essere fatali gli incontri con le ninfe» (pp. 47s.);
«Io mi spogliai completamente e mi buttai nell'acqua. Era tiepida, densa e misteriosa. Giungevano dal largo continui, suadenti richiami: filastrocche di nereidi; ninnenanne di sirene» (p. 123) [61].
Infatti, Andrea è più volte attirato dal loro canto (pp. 59, 87, 91), e ha perfino l'impressione che le due sorelle maggiori si siano «spontaneamente» (p. 128) date a lui; anzi, che siano state loro le seduttrici. Perché lo hanno fatto? Il comportamento delle ragazze più volte ricorda ad Andrea il «segreto» e «assurdo cerimoniale» (pp. 31 e 126) di un rito[62] o, forse, di un perfido gioco, con cui esse lo stanno sfidando:
«Cercai di capire, senza però riuscirci, a che gioco giocassero. Mi era non solo sconosciuto, ma incomprensibile. I lanci e le prese sembravano non obbedire ad alcuna regola. Le carte guadagnate si ammonticchiavano ora davanti all'una ora davanti all'altra in modo apparentemente casuale. Anche il conteggio dei punti era un mistero. Arrivai a pensare che si trattasse di un gioco inventato da loro; o addirittura che mi stessero prendendo in giro [...] del loro gioco, come di quello della madre, ignoravo le regole» (p. 81)[63].
Hanno giocato anche con lui? L'ambiente è, al solito, carico di presagi, quasi linguaggio cifrato di quello che sta avvenendo: le piante del giardino della casa in cui soggiornano Andrea e le donne rimandano ad un erbario afroditico e funebre al tempo stesso (tamerice, mirto, oleandro, rosaio, cipressi: p. 115), ma soprattutto
«Sotto le finestre del piano rialzato, dentro due nicchie rotonde, si fronteggiavano il busto di una ninfa sorridente e quello di un satiro che sogghignava» (p. 115).
E le azioni che "l'altro" Andrea qui compie sono proprio quelle di un vecchio satiro, lascivo sì, ma anche adescato dalle ninfe, almeno stando a come egli interpreta più tardi la scultura:
«Tutto stava languendo - l'immaginazione, il desiderio, le forze -, ma non si spezzava il laccio che Dimitra mi aveva teso, né svaniva la paura che avevo di lei: e dell'ignoto. Il sogghigno del satiro, dentro la nicchia rotonda, si era mutato in una smorfia insensata, e c'era un'ironica sicurezza di sé nel sorriso della ninfa» (p. 127).
Il satiro è il capro espiatorio di un gioco che non può comprendere? la suggestione viene, ancora una volta, dai curiosi arredi della villa che ospita i personaggi:
«Alle pareti del soggiorno erano fissati con grappe di ferro due calchi di gesso di altorilievi antichi. Raffiguravano una frotta di bambini nudi e grassocci che giocavano con un caprone» (p. 116).
Ma Andrea travisa? Delira? Certo, sorprende il comportamento della quindicenne Aglaia, appena sedotta:
«mi sentii sfiorare da una carezza.
Sollevai le palpebre a fatica. Aglaia, in costume da bagno, mi solleticava con la punta delle dita le guance e il collo. Aveva stampato sulle labbra lo stesso sorriso canzonatorio della ninfa. La spinsi via:
«Sta' lontana da me» le ingiunsi tra i denti.
Lei mi guardò prima incredula, poi con commiserazione» (p. 129).
O forse Dimitra e le figlie sono le «donne che da terre straniere / ho portato con me, mie complici / e compagne di strada» del frontespizio[64], cioè delle Menadi[65], quelle del sogno ricorrente che fa Andrea, quasi in traduzione a puntate, appunto, delle Baccanti? Il sogno si ripresenta ogni volta che Dimitra lo respinge, e riecheggia angosciosamente la realtà: le Menadi sono tutte molto giovani, adolescenti, e le loro melodie simili a quelle cantate dalle tre ragazze, sennonché le anticipano:
«Quella notte mi addormentai di colpo. Sognai un bosco fitto e un gruppo di donne che dormivano addossate agli alberi o distese per terra su letti di foglie[66]. Portavano intorno alla testa corone di edera. I loro corpi, tramortiti dal sonno, erano ricoperti di pelli e fronde di abete» (p. 45);
«Vennero a visitarmi le donne coronate di edera e fronde di quercia che già mi erano apparse in sogno. Tranne alcune di mezza età, erano tutte fra i dieci e i vent'anni. Me ne ricordo bene, perché la loro giovinezza mi meravigliò. Le donne stringevano al seno piccoli daini, non ancora svezzati, e con materna beatitudine porgevano il petto a cuccioli di lupo. Altre percuotevano le rocce con aste fronzute, facendone sgorgare acqua limpida, vino e latte[67].
Mi svegliai più di tre ore dopo in un bagno di sudore. Avevo la gola riarsa e nelle orecchie mi echeggiava una specie di ritornello, ritmato da colpi di bastone. Cantava un'età remota. L'età in cui per terra scorrevano rivoli di latte e miele, e il vino zampillava dalle fonti» (pp. 53s.);
«Il sonno richiamò le donne coronate di edera e di fronde di quercia. Stavano immobili e mi fissavano con le pupille dilatate» (p. 77);
«Aglaia e Fili si erano svegliate e canticchiavano, una strofa ciascuna, una filastrocca monotona e insinuante che assomigliava al ritornello delle donne coronate di edera. Da un paio di notti non mi facevano visita» (p. 87).
Il sogno prende però connotazione sempre più ostile mano a mano che Andrea viola le ragazze, evidenziando al tempo stesso il suo senso di colpa e l'impressione di essere la vittima predestinata:
«Sorgeva il sole. Le donne vestite di pelli e coronate di edera si alzavano da terra una dopo l'altra. Le più vecchie brandivano le aste e lanciavano richiami alle più giovani, che si levavano in piedi di scatto, agili e muscolose come leonesse. Nei loro sguardi brillava una luce ferina. Ora il bosco echeggiava di grida e di canti. Le donne percuotevano i massi con le aste e con le unghie grattavano il suolo, ma non ne scaturivano più acqua limpida e latte: solo un vino denso color del sangue, che esse bevevano avidamente» (p. 108);
«Le donne coperte di pelli e cinte di edera si stavano mettendo in camino. Vecchie e giovani, e perfino madri fresche di parto, con le mammelle turgide di latte, impugnavano le aste e le agitavano in aria. Disposte in tre schiere, lasciavano il bosco e si affacciavano su una valle erbosa che il vento scompigliava e che già risuonava delle loro grida» (pp. 123s.);
«Il cielo sembrava spazzato da una tromba di fuoco, eppure non tirava un alito di vento. L'aria era ferma e muta. Tutto taceva nella valle: gli uccelli, gli insetti, perfino le foglie degli alberi[68]. Le donne, accovacciate nell'erba, attendevano un segnale e intanto si guardavano intorno. Sulle loro teste cinte di edera si agitavano fiamme che non bruciavano[69]. Quando la più anziana eruppe in un grido, balzarono in piedi tutte insieme e cominciarono a roteare le aste[70]. Poi si precipitarono di corsa giù per il pendio. Il terreno, sotto i loro piedi, rullava come un tamburo.
In mezzo alla valle pascolava una mandria di giovenchi. Le donne si avventarono su di loro, che crollarono al suolo, e a mani nude, con forza sovrumana, ne dilaniarono le carni, ne strapparono gli arti e li fecero a brani. La valle echeggiava di muggiti laceranti e di grida di trionfo. Pezzi di carne sanguinolenta erano sparsi sull'erba o appesi agli alberi come trofei[71].
Il clamore cessò di colpo. Sporche di sangue, le donne risalirono il pendio. Tornarono là donde erano venute, a lavarsi alle fonti che le loro aste avevano fatto sgorgare[72].
La tromba di fuoco vorticava ancora nel cielo e il suo rombo era uguale a quello di un grande stormo di fortezze volanti» (pp. 135s.).
Ma se Dimitra e le sue figlie sono ombre di Menadi o di antiche divinità femminili, quale crudele e insensato culto stanno praticando?
La mitologia greca riproponeva insistentemente, attraverso personaggi diversi, il mito primordiale della dea-ninfa di mezza estate (Afrodite Urania, Persefone, Cibele, Iside, Artemide Efesia, Nemesi e altre, ma in particolare Selene), che «uccideva il divino paredro[73], che si era accoppiato a lei sulla vetta della montagna, così come l'ape regina uccide il maschio, cioè strappandogli i genitali»[74]: Demetra è un'ipostasi, forse inconsapevole o immemore, di questa divinità[75]? Le figlie sono le sacerdotesse, le complici, le Moire tessitrici della sua tela[76], oppure le sue vittime? In quale misura le quattro donne sono responsabili di ciò che accade?
Accanto a loro, intanto, nella villa, tra relitti di un passato che si fa segno, funesto presagio di tempi successivi, vanno manifestandosi ad Andrea presenze remote, aliene, ostili, che forse quel passato lo popolarono: «ombre femminili senza volto», che « bisbigliavano tra sé e sé frasi in una lingua sconosciuta» (p. 129). Esse sono il lugubre corteggio di Olimpia e Fili, apparentemente votate a un incomprensibile sacrificio[77], e per la più piccola intonano addirittura «un coro rauco e lamentoso» (p. 134):
«Mi sembrava di percepire nella camera una sorta di animazione; di intravedere un capannello di ombre, non so se benevole o ostili, che corteggiavano la fanciulla» (p. 106).
In questa atmosfera allucinata, anche il paesaggio - spesso lunare - vira a farsi sempre più nettamente ominoso, figurale specchio degli eventi umani: quando le donne si ritirano lontano da Andrea «La luna era tramontata [...]. Le stelle, da un capo all'altro del cielo, si riunivano in crocchi, come congiurati» (p. 66); la seduzione di Olimpia, preceduta dalla vista di «un cielo di un azzurro senza scampo», in cui «si alzavano in volo stormi di corvi » (pp. 87s.) e che poi si fa «cinereo» (p. 90), avviene quando «bassa sull'orizzonte, rossiccia, la falce sottile della luna penzolava dal ramo di un pino come un impiccato» (p. 98); Fili è stuprata in «un paese in lutto» (p. 114), in una villa che sembra «un'edicola cimiteriale» (p. 116), in un'atmosfera burrascosa, da cui emerge però - a suggerire nuovamente l'idea di un rito o di un sacrificio - «uno strano profumo d'incenso», e ancora una volta «un querulo brusio» (p. 129). L'abuso è seguito dallo scatenarsi temporalesco delle forze della natura, che evocano ad Andrea l'angoscia delle esperienze belliche, «come l'esplosione di una granata » (pp. 134s.): e dopo, quasi egli non potesse più rivolgere lo sguardo in alto, il cielo non viene più descritto.
In effetti, almeno ai suoi occhi, fino a quel momento le costellazioni sono parse prendere vita per anticipare e commentare le vicende che stava vivendo, secondo un topos non insolito in Meldini[78]: la luce di Venere/Lucifero, ad esempio, rischiara malaugurante l'inizio del viaggio con le quattro donne, che comincia appunto nel giorno consacrato a Venere, venerdì (p. 83), secondo la credenza popolare infausto per viaggi e nozze, quando «Lucifero, messaggero dell'aurora, brillava di una notte apprensiva» (p. 84). Così, giocando sul doppio significato pagano e cristiano del nome del pianeta, Meldini associa l'aspetto afroditico a quello perverso della vicenda e, forse, della sua protagonista.
Anche la seduzione delle due sorelle maggiori è anticipata da inquietanti congiunzioni astrali: prima della deflorazione di Olimpia, ingenua e sentimentale,
«Si delineava nitidamente, nel cielo terso, il disegno delle costellazioni: da un lato la Vergine, dall'altro il Serpente: ardeva, bassa sull'orizzonte, la fiaccola rossa di Marte» (p. 93).
Vergine e Serpente, costellazioni contigue, sono ben visibili nei cieli estivi (la prima da febbraio a luglio, la seconda da maggio a settembre): la Vergine, nelle carte antiche, è rappresentata come una donna che porta in mano una spiga (la luminosa stella Spica, appunto, così chiamata perché visibile nella stagione della mietitura) ed era identificata di solito con Persefone, la figlia violata della dea Demetra[79]; trasparente - anche se non fedele alla rappresentazione mitologica tradizionale[80] - il valore biblico del Serpente. Peraltro, nella descrizione, l'omissione del Centauro, pure ben visibile in estate accanto alla Vergine, rivela come Andrea osservi il cielo da una prospettiva selettiva e simbolica. Ovvio infine il suggerimento ominoso della sanguigna luce "guerriera" di Marte.
Anche nella notte della seduzione di Aglaia, peraltro delle tre sorelle quella non più vergine e più palesemente provocante ed adescatrice,
«La buia distesa dell'acqua sembrava una voragine spalancata, pronta a inghiottire le stelle a una a una [...]. Andromeda era adagiata su Haghion Oros e Pegaso apriva le ali, ma non riusciva a spiccare il volo. L'acqua gorgogliava negli interstizi degli scogli con un domestico rumore di lavandini. L'aria si stava facendo umida, e sulla pineta si andava addensando un velo di foschia» (p. 122).
Ma Aglaia è consenziente o è vittima di Andrea? All'ambiguità della descrizione del loro amplesso (p. 123) si somma questa rappresentazione del cielo: nel celebre mito, Andromeda è esposta quale vittima sacrificale per espiare la superbia della madre Cassiopea contro - si noti - le Nereidi[81] e placare il mostro che devasta le terre del padre Cefeo[82]. Ma nel romanzo di Meldini, la fanciulla non potrà essere salvata da Perseo, perché Pegaso «non riusciva a spiccare il volo». In questo caso, il simbolismo trionfa sulla realtà astronomica, perché le due costellazioni sono tipicamente autunnali, e anzi Andromeda è visibile tra settembre e gennaio (Pegaso da luglio a gennaio).
Il sublime della descrizione è tuttavia subito degradato - secondo una tendenza tipica di Meldini - nella grottesca similitudine del «rumore di lavandini»[83]: forse mistero e banalità quotidiana non sono che facce di una stessa moneta.
Analogamente, nella villa esiste una stanza sprangata, che diviene simbolo dell'animo di Dimitra:
«Nelle sue parole, come dentro la casa, cercavo una traccia: la più debole; la più confusa. Anche in lei c'era una stanza sprangata. Una stanza di cui paventavo i segreti e che non ero più certo di voler aprire» (p. 121).
Il comportamento della donna, infatti, risulterà fino alla conclusione opaco, incomprensibile: cosa implica la pretesa confidenza assoluta con le figlie? in quale misura ella è consapevole o addirittura responsabile del loro comportamento? e in quale del loro stupro?
«La fissai. Mi passò per la mente un pensiero aguzzo come un pugnale. Com'era possibile che Dimitra fosse così cieca? Eppure tra lei e le ragazze c'era la massima confidenza. Legami non solo di sangue, ma di complicità. Non erano forse inseparabili? Non si raccontavano tutto? O le cose erano invece diverse da come apparivano, e i rapporti tra la madre e le figlie, e forse anche quelli tra le sorelle, erano più intricati, più oscuri di quanto non volessero far credere?» (p. 128).
Anche la condotta delle due figlie maggiori, del resto, non è limpida: Olimpia - sorprendentemente per una vergine degli anni Cinquanta - fa visita ad Andrea in camera sua una notte che Dimitra l'ha respinto; poi pare subirne passivamente l'aggressione (pp. 107s.), e il giorno dopo si limita ad ignorare l'uomo, mentre
«Verso sua madre era particolarmente sollecita, e le parlava fitto, assentendo a ogni sua risposta. Dimitra sembrava serena e addirittura compiaciuta. Fissava Olimpia, le sfiorava una mano e di tanto in tanto faceva una risatina breve e gutturale, come il verso di un uccello rapace» (pp. 111s.).
Aglaia, nel frattempo, pare «gelosa delle confidenze che si scambiavano sua sorella e sua madre; della loro intesa» (p. 112), mentre la madre - con quell'indimenticabile riso da «uccello rapace» - la sera dopo non esita a esporre agli sguardi lascivi degli avventori di una taverna le figlie, e in particolare l'adolescente Aglaia, che si lancia in una danza provocante:
«La madre la osservava con indulgenza e quasi con compiacimento. Olimpia aveva gli occhi sgranati e un'espressione di rassegnata tristezza. Fili si guardava intorno con l'atteggiamento confuso e impermalito di chi non capisce» (p. 119).
Fili pare in effetti esclusa dalla misteriosa «intesa» della madre con le due sorelle maggiori, che una notte non esitano ad abbandonarla da sola con Andrea. Ora, se Dimitra può non sapere che l'uomo ha abusato delle altre figlie, certo loro lo sanno: perché lasciano la bambina? Cosa intende Dimitra quando, fissandolo «con un'intensità quasi dolorosa», gli dice «L'affido a te» (p. 131)? La risposta che si dà Andrea è quella di un uomo ubriaco, ormai incapace di controllare i propri istinti e di affrontare i propri rimorsi:
«Il vino scendeva nello stomaco vuoto e, invece di annebbiarmi le idee, sembrava mi desse una percezione più acuta, una lucidità folgorante e cruda, da veggente. C'era qualcosa che Dimitra aveva cercato di dirmi. Qualcosa che mi spingeva a fare. Continuavo a girarci intorno, ma per quanto acuissi la vista non riuscivo a scoprirlo.
Poi, d'un tratto, ebbi una folgorazione. Mi nacque dentro come un remoto sospetto. Bicchiere dopo bicchiere, si mutò in assoluta certezza. Quel che era successo tra me e Olimpia non si era verificato per caso. Né quanto era accaduto con Aglaia [...]. Non solo Dimitra sapeva tutto di me e delle figlie, ma era lei che me ne aveva fatto dono. Per prima la maggiore, poi la secondogenita. In ordine d'età. Così si erano svolti i fatti, non c'era il minimo dubbio [...].
Credetti che ora, lasciandomi solo con Fili, intendesse offrirmela. Arrivai a pensare, che Dio mi perdoni, che Fili fosse la strada per arrivare a sua madre. L'ultima prova che dovevo sostenere per averla» (pp. 131s.).
Andrea giunge davvero alla verità attraverso l'ebbrezza, come pretende, o ne è al contrario ottenebrato[84]? È per caso chiamato, secondo il celebre suggerimento di Rimbaud, a «faire l'âme monstrueuse» attraverso l'esperienza velenosa di «toutes les formes d'amour, de souffrance, de folie», per diventare «veggente» e scoprire infine «l'inconnu»[85]?
O forse, una volta forzato l'accesso a quella «porta sprangata» che è il cuore di Dimitra - il cuore di ognuno - non si troverebbero che poche vecchie carabattole, «la memoria e forse i segreti» senza interesse per gli altri, come avviene quando Andrea - in una sorta di favola di Barbablù a rovescio - viola la stanza chiusa della villa (pp. 139s.), alla ricerca di risposte che, ora che Dimitra e le figlie se ne sono andate per sempre, nessuno potrà dargli?
Dell'enigma e dei suoi fantasmi non gli resterà che un ultimo, raggelante, quadro lunare:
«È una notte fredda e limpida. La luce lunare si posa come un velo di brina sulla fontana rotonda del parco, sui vialetti che vi convergono, sulle siepi e, laggiù in fondo, sulla nuda schiera dei platani.
Se avessi occhi meno stanchi, potrei forse scorgere dietro quegli alberi un piccolo gruppo di donne. Si tengono per mano e avanzano a piccoli passi, indugiando. Sono Dimitra e Fili, Aglaia e Olimpia. La luna le sbianca, le raggela, le appiattisce. Ne accarezza i profili parigini e sembra accennare un sorriso enigmatico» (pp. 141s.).
Fino all'ultimo, dunque, le quattro donne conserveranno il loro «sorriso enigmatico», ed Andrea, ripensando a loro, non riuscirà a capire se si è estinta la spirale perversa che li aveva avvinti:
«Quando scendeva la sera mi sembrava di udire la voce bassa di Aglaia e le sue risate, quella sommessa di Olimpia e il cicaleccio acuto e un po' lamentoso di Fili. A volte parlava al mio orecchio la voce di Dimitra. Non capivo ciò che mi diceva, e se il suo tono uniforme mi tranquillizzava, lasciandomi sperare che prima o poi ci saremmo ritrovati, e che di lei non avrei più avuto paura, i movimenti ferini che la vedevo fare, l'espressione del volto, lo sguardo, così simili a quelli delle donne del sogno, mi mordevano la carne» (p. 139).
La sforzo di razionalizzare la storia attraverso la memoria e la scrittura è miseramente fallito: i segni che la componevano potevano forse essere disposti diversamente, dando altri significati, e al tempo stesso negandoli tutti:
«negli orecchi è troppo forte il rimbombo delle parole che ho scritto. La loro trama sta cedendo. Si spezzano, una dopo l'altra, le maglie delle lettere.
Per quanto mi pieghi sul foglio e aguzzi la vista, non distinguo altro che un eccitato brulichio, come se le parole si scomponessero e ricomponessero. Per cancellare questa storia. Per narrarne un'altra» (p. 136).
Come nell'Avvocata delle vertigini, affiora «la convinzione che il testo apparentemente chiaro fosse esso stesso, a sua volta, cifrato», «l'idea di una cifratura al quadrato»[86], e che non sia che un «miraggio» quello «di un ultimo, inafferrabile testo, dietro la serie infinita dei suoi travestimenti»[87]: e la scrittura racconta la vita, tenta vanamente di farsene razionalizzazione, documento.
In questo cifrario, secondo una costante meldiniana, non è possibile distinguere vittime e carnefici, che tutti finiscono con l'essere «strumenti» di un «Regista» che pretende «una mutua, solidale complicità»[88], come ribadisce - ironica proiezione dell'autore - il bibliotecario Manara, l'assassino del primo romanzo:
«Chi è lei?» immaginava di chiedergli. «Chi è lei veramente?».
«Dipende» rispondeva il bibliotecario.
«Cioè?».
«Se sono il carnefice o la vittima» [...]
«Siamo tutti strumenti».
«Di che cosa? Di una volontà superiore? Del destino? Del caso? Di chi?».
Il bibliotecario rideva sotto i baffi. «E che ne so?» rispondeva[89].
Dunque Andrea e le ragazze non sono stati che gli attori in un dramma dominato - come una tragedia greca - da un Regista esterno? E Dimitra era il Regista o solo un personaggio? sono stati liberi, sono stati responsabili in ciò che avveniva? Meldini nel primo romanzo dice che «la necessità si era fatta beffe della libertà»[90], mentre sul frontespizio di Lune cita due versi di Leopardi, dall'Ultimo canto di Saffo: «... i destinati eventi / move arcano consiglio. Arcano è tutto, / fuor che il nostro dolor...»[91].
Ma è appunto attraverso l'esperienza del dolore che l'uomo, secondo Meldini, sente "esaltata" la propria umanità, e ne fa anzi modello «a sua immagine e somiglianza» per immaginarsi un Dio infelice[92]: è questo forse il significato cifrato del rapporto tra Andrea e Dimitra, o meglio tra i due personaggi che essi sono chiamati a interpretare? è questo il significato cifrato del sacrificio delle tre ragazze? Secondo Mircea Eliade «Si potrebbe dire che la Luna rivela all'uomo la propria condizione umana; che, in un certo senso, l'uomo guarda sé stesso e si ritrova nella vita della luna»[93].
Data comunque l'imperscrutabilità del disegno da cui scaturisce il dolore, neanche ai poveri diavoli che si rendono colpevoli di atti ripugnanti[94" "94"> Meldini nega la sua pietas: di Manara si dice che «Quella vita che lo schiacciava, non se l'era scelta»[95]; per Andrea, il dottor Baumann constata la «singolare e rovinosa successione di eventi di cui è stato al tempo stesso attore e vittima» (pp. 144s.).
Essi, infatti, seminano, sì, il male, ma lo fanno perché sono a loro volta - secondo una metafora ricorrente in Meldini, che capovolge ironicamente la parabola evangelica del seminatore[96] - i campi in cui quel seme ha potuto germogliare, gli appestati che non possono che diffondere la loro involontaria infezione:
«Come le età passate, a cominciare dalle più remote, contengono i semi di tutte le età successive, così ogni nuovo giorno insemina i giorni che seguono. Quella notte, per bocca mia, spargeva la gramigna: nei giardini primaverili delle tre ragazze, nel chiuso orto di Dimitra e nel mio campo inaridito» (p. 74)
Ma se il male è un seme che germoglia nell'uomo, da dove viene questo seme, unde malum[97]? Forse, come pensava Eschilo, esso si trasmette di generazione in generazione, sicché, appunto, «ogni nuovo giorno insemina i giorni che seguono», e l'uomo si trova a raccogliere, ignaro, oscure eredità di epoche passate, ed è per questo che ogni tempo pare rispecchiarne o riprodurne altri. Forse, allora, il male non è che una «spora errante» che, meccanicamente eppur casualmente, può approdare nel "campo" di chiunque, dannandolo, secondo un pessimismo che travalica quello del modello leopardiano, perché non lascia nemmeno l'illusione di poter lottare, di poter rivendicare una qualche dignità o grandezza:
«quale vento aveva trasportato il vento della malapianta. Se il terreno su cui era caduto era stato scelto, o se non era il caso a infestare i campi. E come la terra avrebbe potuto soffocare il seme e impedirgli di radicare.
Forse il male era una spora errante. Cieca. Ignara. Gramigna vagabonda. Impalpabile polvere sospesa. Sotto l'opaco, attonito, testardo silenzio delle sfere»[98].
Ma è davvero «cieca, ignara» quella spora? o il campo è stato «scelto» ed esiste una maligna coerenza nelle concatenazioni del caso? Forse il seminatore, all'opposto di quello evangelico, mira alla propagazione delle malepiante; forse egli è davvero divinità - luna - aliena e beffarda, e l'uomo non può che essere "travolto" dal male:
«Ne ero infetto. Lo avevo sparso intorno a me come una pestilenza. Ora mi travolgeva.
Sentivo che quella violenza che non ero stato capace di arginare mi si sarebbe ritorna contro. Non potevo prevederne il modo rancoroso e beffardo» (p. 138).
Infatti, deforme è il frutto che germoglia da tale seme in Andrea, con grottesco e umiliante contrappasso: un teratoma maligno, da eradicare assieme ai testicoli del violatore di dèe.
Pubblicato il 13/03/2015
Note:
[1] Piero Meldini (Rimini 1941), oltre a numerosi saggi sulla storia contemporanea e sulle tradizioni romagnole, ha scritto cinque romanzi: L'avvocata delle vertigini (1994), L'antidoto della malinconia (1996), Lune (1999), La falce dell'ultimo quarto (2004), Italia. Una storia d'amore (2012). Sui primi due e sul peculiare rapporto dell'autore con la letteratura classica, rimando al mio articolo Notturni e "saccheggi": Alcmane e Piero Meldini, «Kleos» II, 1997, pp. 235-245.
[2] In questo senso, pare valere la lezione di Pirandello: come rileva G. Cerina (Il simbolo lunare e la metamorfosi di Ciàula, in Pirandello e la scienza della fantasia. Mutazioni del procedimento nelle «Novelle per un anno», ETS, Pisa 1983, pp. 117-150), anche nella celebre novella Ciàula scopre la luna (Novelle per un anno, a c. di M. Costanzo, vol. II, Mondadori, Milano 1985, novella 107), la scoperta nell'astro di un «occhio chiaro, d'una deliziosa chiarità d'argento» coincide con l'acquisizione della consapevolezza da parte del protagonista. La facies beffarda, forse insensata della luna emerge invece - come noto - nelle novelle Male di luna e Un cavallo sulla luna (op. cit., n. 110 e 127). Indimenticabile è infine l'associazione tra luna e occhio (squarciato perché veda ciò che prima aveva ignorato o evitato) nella prima sequenza del film surrealista Un chien andalou di Luis Buñuel (1929).
[3] P. Meldini, L'avvocata delle vertigini, Adelphi, Milano 1994, p. 43.
[4] P. Meldini, L'antidoto della malinconia, Adelphi, Milano 1996, pp. 100s.
[5] Meldini, L'avvocata, pp. 109 e 110.
[6] P. Meldini, La falce dell'ultimo quarto, Mondadori, Milano, 2004, p. 183.
[7] Ibid. p. 182: «La storia che aveva fatto e di cui era stato testimone si mescolava con quella che aveva scritto, ché la vita, una volta vissuta, assomiglia a un racconto [...] e narrare vicende significa anche viverle. Le creature della sua immaginazione gli sembravano non meno reali degli uomini in carne e ossa: e altrettanto evanescenti. Un giorno non lontano nessuno li avrebbe più potuti distinguere. Erano ombre, le une e gli altri: solo ombre». Apparente il parallelo con la concezione pirandelliana: ché il pessimismo di Meldini è molto più radicale, e nega consistenza e conoscibilità anche ai personaggi d'invenzione letteraria.
[8] Nell'avvenenza che modifica l'immagine tradizionale della morte personificata, forse Meldini ricorda - e degrada riadattandola al proprio personaggio, che non è un principe, ma un mercante di granaglie arricchito - la «giovane signora» che vede il Gattopardo in punto di morte: «Era lei, la creatura bramata da sempre che veniva a prenderlo [...]. Giunta faccia a faccia con lui sollevò il velo, e così, pudica, ma pronta ad esser posseduta, gli apparve più bella di come mai l'avesse intravista negli spazi stellari» (G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, cap. VII).
[9] P. Meldini, Lune, Adelphi, Milano 1999, edizione cui si riferiscono le citazioni.
[10] Meldini sembra voler giocare sulla polisemia del mito, così come descritta da Mircea Eliade: «Non esiste simbolo, emblema o efficienza che sia monovalente o singolarizzato. Tutto è collegato, ogni cosa è legata alle altre, formando un insieme di struttura cosmica» (Trattato di storia delle religioni, Einaudi, Torino 1954, pp. 160s.). Molti dei simboli lunari rielaborati da Meldini sono studiati appunto da Eliade nel suo esemplare capitolo sulla luna (op. cit., pp. 158-192), che li riassume nei temi della fecondità, della rigenerazione periodica, del tempo e del destino, del cambiamento segnato dall'opposizione luce-oscurità, essere-non essere, virtuale-attuale, e conclude che «l'idea dominante è quella del ritmo, ottenuto attraverso la successione dei contrari» (p. 190), in un divenire che si svolge attraverso la sofferenza e che produce continua palingenesi.
[11] Per la precisione, dev'essere il 1953 o '54: a p. 42 si fa riferimento al torbido, e ancora irrisolto, "caso Montesi".
[12] Cf. pp. 20s.: «Anch'io assomigliavo a qualcun altro [...]. La rassomiglianza tra quel giovane e me alla sua età era stupefacente. La corporatura, i lineamenti, perfino l'espressione corrispondevano [...]. Starei quasi per dire che mi riconoscevo più nelle fotografie di quel ragazzo greco che non nelle mie, dove ho spesso una faccia spaesata e inespressiva, come sfuocata».
[13] Il notturno dai colori di "miele" fa pensare a una tela di Van Gogh, da Terrazza del caffè la sera, Place du Forum, Arles, al celeberrimo Notte stellata, a Notte stellata sul Rodano, a Paesaggio con coppia che cammina e luna nascente, anche se non mancano in pittura altri "fiumi ambrati" lunari: ad esempio, Moonlight di Washington Allston (Boston, Museum of Fine Art, 1819),Clair de lune sur les bords de l'Oise, à l'Isle-Adam di Victor Vignon (Parigi, Musée d'Orsay, 1867), o Canale a Saint-Denis di Stanislas Lepine (1835-1892, collezione privata).
[14] L'immagine del «palcoscenico», come s'è visto, ricorre anche nell'Antidoto della malinconia, e un plenilunio è scelto dal malvagio Manara nell' Avvocata delle vertigini come teatro in cui dar inizio alla sua messinscena.
[15] In «placido fiume / naufraghi felici» si può avvertire un'allusione al celeberrimo «e il naufragar m'è dolce in questo mare» (Leopardi, L'infinito, Canti XII, v. 15). Scontati i rimandi alla luna in Leopardi, memoria del resto ben presente nel romanzo, sin dalla citazione nel frontespizio dei vv. 45-47 dell'Ultimo canto di Saffo.
[16] Cf. Pirandello, op. cit., dove ricorrono tra l'altro l'immagine della «luna solare» e quella acquea della sua luce: «la chiaria cresceva, cresceva sempre più, come se il sole, che egli aveva pur visto tramontare, fosse rispuntato. [...] Grande, placida, come in un fresco luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna».
[17] Dell'aridità del sentimento paterno di Andrea verso il figlio bambino lasciato in Italia ci sono più cenni nel romanzo: ad es. a pp. 28, 34 e 38.
[18] Alcune reticenze e allusioni fanno sospettare che il marito di Dimitra abbia rapporti incestuosi almeno con una delle figlie: in particolare quando della quindicenne Aglaia, che poi si scoprirà che non è più vergine, Dimitra dice: «E' la preferita di suo padre [...], forse» proseguì, e mi indirizzò uno sguardo indecifrabile «perché è la più bella» (p. 32). L'amore tra padre e figlia è del resto descritto da Andrea in termini ambigui: «Tutti i padri che conosco stravedono per le loro figlie [...]. Scommetto che anche suo marito è innamorato pazzo delle vostre» (p. 28).
[19] L'immagine del torrente, o meglio del «fluido vitale» (di sabbia, però), che si esaurisce sempre più vorticosamente si legge anche nel già citato VII capitolo del Gattopardo: «Non era più un fiume che erompeva da lui, ma un oceano, tempestoso, irto di spume e di cavalloni sfrenati».
[20] Cf. ad es. la definizione di melanconia nell'Enciclopedia Italiana, http://www.treccani.it/enciclopedia/melanconia/: «melanconia (o malinconia) Stato psichico caratterizzato da un'alterazione patologica del tono dell'umore, con un'immotivata tristezza, talora accompagnata da ansia, e con inibizione di tutta la vita intellettuale [...]; la tristezza, il rallentamento, lo scoraggiamento, la perdita del tono vitale, il senso di vuoto e la tendenza al suicidio»; essa si alterna periodicamente alla mania, e fu perciò chiamata anche folie circulaire. Nel Medioevo era identificata con l'acedia (accidia) in contrasto polare con la vita activa; oggi corrisponde alla «depressione endogena».
[21] Meldini, Avvocata, p. 96. Si noti, oltre all'uso del termine clinico melanconia in luogo di quello comune malinconia, il riferimento alla senilità e alla tendenza autodistruttiva dei "malinconici", comprovata nel romanzo successivo, ironicamente L'antidoto della malinconia, dal suicidio dei due personaggi "melanconici", Gioseffo e Matilde: e la sorte di Andrea Severi è suggellata da un inquietante silenzio dell'autore.
[22] Per la precisione, la loro storia è presentata, attraverso gli scorci del paesaggio, come agita in «un anfiteatro» (p. 34); tra«i pezzi della scacchiera» (p. 37).
[23] Si tratta di temi cari a Meldini: cf. Notturni e saccheggi, cit., p. 244.
[24] Andrea pare ossessionato dall'idea di «segreti imbarazzanti» nel suo corpo, di cui lui stesso è «all'oscuro» (p. 43; cf. anche p. 52).
[25] Stesso procedimento si osserva nella soggettività di altre descrizioni: ad es. della retsina: «Nel suo sapore, nuovo e antico, l'acerbità della giovinezza si accompagnava alle muffe senili» (p. 34).
[26] I. Svevo, Senilità, cap. XII.
[27] I riferimenti a questa sensazione sono numerosissimi: cf. pp. 72, 126, 134, 135; in particolare, la "paralisi" della volontà e del corpo è descritta, come per il protagonista dell'Antidoto della malinconia, con parole che fanno pensare alla morte di Socrate descritta da Platone: «Una dopo l'altra le ombre si dissolsero. Il corpo mi pesava come un macigno. Il torpore saliva formicolando lungo le gambe e mi irrigidiva le membra» (p. 129).
[28] Secondo la tradizione, la "licantropia" è un delirio «proprio soltanto di casi gravissimi di melancolia» e «in varî luoghi, la metamorfosi si ritiene conseguenza del "mal di luna"» (cf. s. v. licantropia in Enciclopedia Italiana, http://www.treccani.it/enciclopedia/licantropia_(Enciclopedia_Italiana)/).
[29] Si ha ripetutamente l'impressione che Andrea sia beffardamente concepito come un solitario Ulisse moderno, che tenta il suo "ultimo viaggio" con esiti paragonabili a quelli dell'Ulisse dantesco, o meglio di quello pascoliano («Ero tentato di abbandonarmi alla corrente, che mi portava al largo. Avrei vagato di terra in terra, come Ulisse, ma senza un'Itaca a cui far ritorno», p. 33), dopo aver incautamente abbandonato la sua Penelope («Aveva ubbidito, come sempre [...]. Si faceva come trasparente [...]. Se avessi potuto prevedere ciò che il futuro mi riservava, sarei rimasto con lei. A custodire, insieme a lei, la nostra casa», pp. 12 s.).
[30] Il pathos e la pietas in proposito si manifestano nell'allusività, che somma le atmosfere di contesti omogenei, dell'aulica similitudine «come per terra un fiore calpestato» (p. 134), che richiama Saffo, fr. 105b Voigt «quale il giacinto che i pastori sui monti calpestano (catasteiboisi)coi piedi, fiore purpureo a terra (chamai)» (la verginità violata), e Catullo, 11,22-24 velut prati / ultimi flos, praetereunte postquam / tactus aratro est (l'amore oltraggiato). In Meldini le reminiscenze classiche, come dimostrato in Notturni e saccheggi, cit., sono frequenti e fortemente allusive.
[31] I parallelismi con il romanzo di Svevo sono notevoli: la scrittura come tentativo di terapia, la debolezza del protagonista, i suoi continui infingimenti e autoinganni, la natura sessuale della malattia psichica, che però in questo caso si risolve in menomazione reale, il complesso rapporto col medico che lo cura.
[32] L'immagine da bibliofilo è cara a Meldini, che del resto ha a lungo diretto la storica Biblioteca Gambalunghiana di Rimini: anche il vescovo dell'Avvocata scrive le sue note su «un vecchio quaderno con la copertina nera e i tagli rossi» (p. 86), mentre l'assassino pubblica libri «rilegati in marocchino rosso [...] coi tagli dorati» (ibid. p. 109).
[33] Rispetto all'escamotage manzoniano/sveviano del "manoscritto altrui", si notano alcune interessanti variazioni: 1) apprendiamo del suo recupero non all'inizio ma alla fine del romanzo, dalla lettera del medico posta in calce; 2) pur compiendo, come il dottor S. nella Coscienza di Zeno, atti professionalmente ed eticamente scorretti (leggere tale privatissimo documento e poi inviarlo alla moglie di Andrea, perché faccia altrettanto), il dottor Baumann non mira alla pubblicazione del diario, come nel comune topos romanzesco (dunque, stando alla finzione letteraria, chi lo ha fatto?); 3) sebbene anche Andrea Severi, come Zeno, si sia sottratto alla cura intrapresa, il medico non manifesta alcun senso di contrarietà, anzi dichiara di voler solo favorire il suo reinserimento in famiglia, facendone conoscere alla moglie le azioni (ma dato che queste sono atroci, intollerabili, il lettore è colto dal dubbio che Baumann menta); 4) nonostante l'ironia del nome parlante del dottor Ernst Baumann (in tedesco "serio costruttore", oppure per lettura fonetica dall'inglese earnest bowman, "onesto arciere"), la sua lettera non serve affatto per conferire attendibilità o leggibilità al récit (come ad esempio nei Promessi Sposi, o nella Signora delle camelie di Dumas, o ancora nella Fosca di Tarchetti): sua sola funzione, pare, è fornire al lettore ragguagli sul "dopo", cioè su quello che Andrea non ha più narrato.
[34] Quanto alla "sacralità" della scrittura, celebre è l'affermazione baudelairiana che «iIl y a dans le mot, dans le verbe, quelque chose de sacré qui nous défend d'en faire un jeu de hasard» (L'art romantique, consultabile in: http://fr.wikisource.org/wiki/Page:Baudelaire_-_L'Art_romantique_1869.djvu/183).
[35] Allo stesso modo, nell'Avvocata, p. 106: «il carattere schivo, taciturno e quasi ispido dell'illustre ignoto traluceva dalla grafia microscopica».
[36] Ad esempio, quando Andrea osserva la stanza in cui è ospitato: «Quelle melodie di sapore orientale mi suonavano stranamente familiari, e altrettanto familiari mi apparivano i muri imbiancati a calce, le tende ad arabeschi bianchi e blu, i tappeti stesi sul pavimento, il lavabo in ferro smaltato. Familiare era la penombra, visitata da ricordi d'infanzia. Rivedevo le crepe sul soffitto e le macchie di umidità di un'altra camera, i riflessi che giocavano a rimpiattino sulle pareti e le zie sedute accanto al letto» (p. 18); o mentre guarda le foto del suo "sosia" greco: «mi veniva da chiedermi in quale occasione avessi portato quella maglietta a righe orizzontali, chi fossero i due sconosciuti intorno alle cui spalle tenevo le braccia, e che scoglio fosse quello sul quale sedevo, con le barche da pesca sullo sfondo» (pp. 20s.).
[37] Termini che non possono che evocare la tesi gaddiana del «nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero» esposta all'inizio di Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana (Garzanti, Milano 1987, p. 3).
[38] Cf. Avvocata, p. 84: «Come tutti i vecchi, sono un grande archivio: disordinato, ah sì, e qua e là in briciole».
[39] Lo stesso Andrea fa riferimento al mito di Oreste, citando le Eumenidi eschilee (vv. 130-132): «provai un lieve capogiro e mi risuonò dentro, inattesa, l'invocazione di Elettra: «O padre, abbi pietà del tuo Oreste. Restituiscici alle nostre case. Adesso siamo esuli» (p. 41).
[40] In greco il verbo trizo si riferisce a rumori stridenti, come quelli prodotti da uccelli, topi, porte cigolanti o denti serrati: tra i loci similes, si notino anche «le ombre stridenti (tetrigyiai) dei morti» di Luciano, Menippo o la negromanzia, XI 11, dove è notevole l'associazione di tetrigyiai con skiai "ombre", invece che con l'omerico psychai, e Plutarco, Mario XIX 9, dove tetrigyiai sono - come nel nostro passo - delle donne (quelle degli Ambroni), nella loro disperata lotta contro i Romani.
[41] Cf. p. 17: «All'alba ripresi il viaggio. Inchiodato al posto di guida, scesi oltre Delfi, oltre Eleusi, oltre il canale di Corinto e ogni altra tappa prefissata. Fuori degli itinerari che avevo stabilito».
[42] Cf. http://it.wikipedia.org/wiki/L'isola_dei_morti_(dipinto): «Ultime più recenti ricerche sembrano ricollegare l'isola dei morti all'Isola di San Giorgio (chiamata dai montenegrini isola dei morti), davanti le coste perastine presso le Bocche di Cattaro, nell'attuale Repubblica del Montenegro. Quest'isola ospita infatti una chiesetta e un camposanto di costruzione veneziana, così come il quadro dipinto dall'artista».
[43] Il passato si intromette continuamente nei pensieri di Andrea a rispecchiare il presente (cf. pp. 67, 88s. Dimitra e le figlie immagine della moglie e del figlio di Andrea; p. 101 Andrea riflesso nel volto del nemico in guerra), forse perché «La nostalgia del passato s'intrecciava con quella del futuro» (p. 67), ed egli aspira perciò a trovare un luogo «dove echeggiassero ancora le voci dei poeti antichi. Un luogo, se c'era, che invertisse il corso del tempo e ne appannasse la nozione, così che mi ci potessi perdere insieme a Dimitra e alle sue figlie» (pp. 97s.).
[44] Trascrivo atichia quando cito Meldini, che traslittera il neogreco, ma atychia per il greco antico, riproducendone la grafia fonetica.
[45] Platone, Cratilo 420c.
[46] Il triplice parallelismo è analizzato da Eliade, che annota in particolare che «Tutte le divinità lunari conservano, più o meno sensibilmente, attributi o funzioni acquatiche» (op. cit., p. 164).
[47] Cf. Eliade, op. cit., pp. 177-181, 188-192.
[48] Anche i protagonisti delle Baccanti sono psicologicamente accecati: Penteo lo è prima dalla propria hybris, al punto di proibire i riti in onore di Dioniso, poi dallo stesso dio, che lo induce a comportarsi in modo degradante e ridicolo; sua madre Agave, obnubilata da Dioniso, giunge a portare in trionfo la testa del figlio che lei stessa ha dilaniato.
[49] G. Ieranò (a c. di), Euripide, Baccanti, Mondadori, Milano 1999, p. XI: «Lo sparagmòs, lo smembramento di una vittima animale, apparteneva al rituale del sacrificio dionisiaco: ma qui la vittima sacrificale consacrata a Dioniso non è un animale, bensì un uomo, Penteo. Lo sparagmòs di Penteo è un sacrificio paradossale, di cui l'uomo è vittima e non solo officiante; ed è anche un rito di iniziazione abortito, che non porta conoscenza o evoluzione ma regressione e morte».
[50] Il cognome Severi da un canto pare alludere alla sua volontà di razionalizzazione, peraltro costantemente frustrata; dall'altro rispecchia in una sorta di traduzione il nome Ernst del chirurgo che lo opera e ne recupera il diario.
[51] Il primo, in realtà, è connotato dall'evanescenza dell'apparizione: «Dietro di me, a sinistra, avvertii una presenza estranea. Mi girai e scorsi una donna [...]. Quando mi volsi di nuovo nella sua direzione vidi che se n'era andata. Furtivamente come era comparsa» (p. 19).
[52] Cf. Eliade, op. cit., p. 212: «Le ninfe sono poi pericolose in un'altra maniera; a mezzo il giorno, al colmo del caldo, turbano lo spirito di chi le vede. Il mezzogiorno è il momento dell'epifania delle ninfe, chi le scorge è in preda a un entusiasmo ninfoleptico».
[53] Traduce il celebre ioplokamos «dalla chioma di viola», attribuito da Alceo a Saffo (fr. 384 L.-P., 63 D.2).
[54] Un vero e proprio Leitmotiv del romanzo: cf. anche pp. 39, 50, 64, 100, 110, 131.
[55] Si vedano ad esempio le testimonianze di Pausania a proposito delle dèe arcadiche Demetra Erinys di Thelpusa e Demetra Melaina di Phigaleia (Periegesi VIII 25, 4-5 e VIII 42,4).
[56] Si noti che «Alcuni indizî monumentali sembrano [...] attestare una maggiore importanza della religione lunare nella civiltà minoico-micenea. In età storica, la regione della Grecia per la quale ci è più abbondantemente testimoniato il culto di Selene fu l'Arcadia [...]. La dea Selene veniva pure ricordata nelle rappresentazioni del culto eleusino [...]. Le tendenze sincretistiche del tardo periodo ellenistico e dell'età romana portarono Selene in intima connessione con altre divinità: venne identificata dai Greci con Ecate e con Artemide, così come gli Egiziani l'avevano identificata con Iside» (G. Giannelli, v. Selene, Enciclopedia Italiana, 1936, http://www.treccani.it/enciclopedia/selene_(Enciclopedia-Italiana)/).
[57] Cf. Graves, I miti greci. Dèi ed eroi in Omero, Longanesi, Milano 1963, p. 6: «Le tre fasi della Luna si riflettevano nelle tre fasi della vita della matriarca: vergine, ninfa (nubile) e vegliarda [...]. La dea fu identificata poi con un'altra triade: la vergine dell'aria, la ninfa della terra e la vegliarda del mondo sotterraneo, personificate rispettivamente da Selene, Afrodite ed Ecate». La triade misterica era invece costituita da Core, Persefone ed Ecate (ibid., cap. 24,1); ed Ecate Trioditis o Trivia era tradizionalmente rappresentata con tre teste o tre corpi. Infine, anche Erinni e Gorgoni «rappresentavano la triplice dea», e i nomi delle Gorgoni (Sino, Euriale, Medusa) «sono appellativi della dea-Luna» (ibid., capp. 6,3 e 33,3).
[58] «La seguivano tre ragazze, l'ultima poco più che una bambina. Assomigliavano a lei in modo straordinario: i tratti del viso erano gli stessi; uguale la forma del capo; uguale il colore ambrato della pelle. Anche i costumi che indossavano erano identici [...]. Mi tornarono di nuovo in mente le immagini femminili delle pitture cretesi» (pp. 22s.).
[59] Penso a Pascoli, Canti di Castelvecchio, Il gelsomino notturno, vv. 13-16: «Un'ape tardiva sussurra / trovando già prese le celle. / La Chioccetta per l'aia azzurra / va col suo pigolio di stelle», versi cari a Meldini, che li rielabora anche nell'Avvocata, p. 123 «Nel cielo insensato le stelle sciamavano dietro l'ape regina» e nell'Antidoto, p. 108 «pigolare le stelle», anche se qui forse fonde le immagini distinte dell'ape e del pigolio. Suggestivo pensare ad Andrea come all'«ape» che pure, come Pascoli, è rimasta esclusa dalla soddisfazione erotica.
[60] Olimpia è appunto l'"olimpico" «ritratto della saggezza»: «L'espressione del suo viso era quieta e assennata. I suoi gesti calmi e composti» (p. 47); Aglaia è il nome di una delle Cariti (cf. Esiodo, Teogonia 945); Fili potrebbe alludere al tragico mito di Filomela, la giovinetta violata e mutilata dal cognato Tereo (cf. ad es. Ovidio, Metamorfosi VI 426-674).
[61] Al di là dell'ovvio riferimento all'omerico «mare color del vino» (Il. XXIII 316, Od. II 421, V 132), si noti lo stesso tipo di libagione nel sogno delle Menadi a p. 53.
[62] Cf. anche a p. 79: «Le ragazze nuotavano lontano dalla riva. Se ne intravedevano le chiome nere che affioravano e scomparivano nel fervente brillio delle onde. A tratti se ne percepivano le voci».
[63] Cf. p. 26: « la figlia maggiore, con movenze precise e armoniose di chi compia un rito, si inginocchiava sulla sabbia e distribuiva il pane, il formaggio e la frutta; la sorella volgeva il capo verso di me una volta, e una seconda, e un'altra ancora, e nei suoi occhi balenavano lampi di malizia » (p. 26).
[64] Cf. p. 82: «Mi osservarono incuriosite, con ironica insistenza; poi, dopo essersi scambiate uno sguardo d'intesa, tornarono al loro gioco» .
[65] Cf. Euripide, Baccanti 56s.: peraltro, con «complici» Meldini forza la traduzione di paredros, «che siede accanto», «compagno».
[66] Forse Meldini, che nell'Antidoto rielabora un celebre frammento di Alcmane (89 Davies: cf. Notturni e saccheggi, cit., pp. 238-243), dello stesso poeta conosce anche il frammento 63 Davies, in cui tra le ninfe sono poste Naiadi, Tiadi (epiteto delle Menadi) e Lampadi, che gli scoli associano al culto della dea Ecate (schol. min. Hom. Il. VI 21): ciò potrebbe suggerire che a Sparta anche le seguaci di Dioniso e di Ecate erano onorate come ninfe (cf. N. Serafini, La dea Ecate, le torce e le ninfe Lampadi: un frammento di Alcmane da rivalutare (fr. 63 Davies), «QUCC», n.s. 104,2, 2013, pp. 11-22). Una simile reminiscenza (da considerare in questo caso "coperta"), tra l'altro coerente con l'ambientazione del romanzo, rafforzerebbe la serie di identificazioni delle ragazze con ninfe, Baccanti, ipostasi di Ecate, e ne spiegherebbe l'origine nella memoria dello scrittore.
[67] Cf. Euripide, Baccanti, vv. 683-685. Le «fronde d'abete» (v. 684) nell'originale appartengono all'albero cui le Menadi appoggiano la schiena.
[68] Ibid., vv. 699-711. Il significativo dettaglio sull'età delle donne è specifica meldiniana rispetto al generico neai palaiai parthenoi t'et'azyghes del v. 694; la resa è qui estremamente sintetica rispetto al modello, e traspone il riferimento ai «fiumi di miele» prodotti dalle Menadi (v. 711) come puro eco di «un'età remota», forse perché all'atmosfera bucolica ed idilliaca della descrizione euripidea Meldini vuole dare un tono onirico ed inquietante.
[69] Ibid., vv. 1082-1085.
[70] Ibid., vv. 757s., tradotto letteralmente; si ricordi però anche la precedente descrizione della testa di Dimitra che si staglia sul tramonto.
[71] Ibid., vv. 689-693 e 1098s..
[72] Ibid., vv. 735-742: quasi una traduzione.
[73] Ibid., vv. 765-768: omesso solo il riferimento ai serpenti che leccano le guance delle Baccanti.
[74] Adone, Attis, Anchise, Atteone, Osiride ecc. In alcuni miti l'amputazione o l'uccisione non dipendono direttamente dalla dea.
[75] Graves, op. cit., cap. 18,3. Si vedano anche i capp. 22,1; 30,1; 32, 2: «Nel mito pre-ellenico, è la dea che insegue il divino paredro e [...] infine lo divora al solstizio d'estate. Nel mito ellenico le parti sono rovesciate».
[76] In un romanzo dello scrittore fiammingo Jean Ray, Malpertuis (Mondadori, Milano 1990), si immagina, capovolgendo la consueta idea della creazione, che gli antichi dèi ricavassero vitalità e forza dalla fede degli uomini e che sopravvivano ancora, ma indeboliti, degradati, privi di memoria: «Mi sembra, a ripensarci ora, che gli dèi che vissero a Malpertuis fossero sottoposti a un imprevedibile alternarsi di umanità e divinità [...]. Furono consci, a volte, del loro stato? [...] E quando sopraggiungevano i lunghi momenti di oblio, non si ricordavano nemmeno di essere stati dèi» (op. cit., p. 144). ll personaggio di Euryale-Medusa, in particolare, che vive la violenta scissione tra il suo essere divino e predeterminato e il suo desiderio di rimanere umana e libera, ha alcuni tratti in comune con Dimitra.
[77] Anche le Moire erano simbolo della triplice dea-luna: cf. Graves, op. cit., cap. 4,1; 10 passim; Eliade, op. cit., pp. 187s.
[78] Forse non è un sacrificio quello di Aglaia, che infatti pare circondata piuttosto da Nereidi o Sirene.
[79] Cf. Antidoto, p. 149: «Uno squarcio tra le nuvole lasciava intravedere la costellazione di Andromeda, che con la nera capigliatura cingeva il ventre dell'alato Pegaso»; vd. anche Notturni e saccheggi, cit., p. 245.
[80] Cf. Manilio, Astronomica II 442: spicifera est Virgo Cereris. La Vergine fu identificata anche con Astrea ed Erigone: la prima, portatrice di giustizia e bontà, aveva abbandonato gli uomini disgustata dalla loro malvagità (cf. Ovidio, Metamorfosi, I 149s.: Victa iacet pietas, et virgo caede madentis / ultima caelestum terras Astraea reliquit), e ben potrebbe essere paragonata alla mite Olimpia; Erigone era invece figura associata alla fertilità e a Dioniso (cf. Graves, op. cit., cap. 79). Alla stella Spica gli astrologi attribuiscono l'influsso di «unscrupolousness, unfruitfulness and injustice to innocence» (V.E. Robson, Fixed Stars and Constellations in Astrology, citato in http://www.constellationsofwords.com/stars/Spica.html).
[81] Ammesso - tenendo conto della sua contiguità astronomica con la Vergine - che il Serpente nominato da Meldini sia, appunto, la costellazione del Serpente e non quella dell'Idra, esso rinviava, secondo gli antichi, all'immagine di Ofiuco (Ophiuchus) che lotta con un serpente. Il serpente è, peraltro, simbolo di rinascita (per la muta della pelle), spesso associato a divinità femminili come Persefone (cf. Graves, op. cit., cap. 19.6) o alla luna (cf. Eliade, op. cit., pp. 173-175).
[82] Dopo il rapporto, come s'è visto, delle Nereidi giungono «continui, suadenti richiami» (p. 123).
[83] Cf. Graves, op. cit., cap. 73, f-k, n, 7.
[84] Allo stesso modo, ad esempio, Meldini scorona il frammento 104a Voigt («Espero, tu che porti tutto quello che disperse Eos luminosa, porti la pecora, porti la capra, porti [però via] la figlia alla madre»), alludendovi in una prosaica descrizione delle visite serali in ospedale: «La sera restituisce ciò che il mattino aveva disperso: l'agnello, il capretto, il figlio alla madre, la famiglia ai malati» (p. 141), con interpretazione tra l'altro diversa da quella oggi invalsa del controverso pheres apu; per l'analogo procedimento rispetto al frammento 89 Davies di Alcmane, cf. Notturni e saccheggi, cit., pp. 238- 243.
[85] La saggezza antica non dà in proposito risposte univoche: In vino veritas (cf. R. Tosi, Dizionario delle sentenze latine e greche, Rizzoli, Milano 1991, n. 732, p. 343) e soprattutto l'eschileo «il bronzo è lo specchio del volto, il vino quello della mente» (frammento 393 R., in Tosi, op. cit., n. 733, p. 344) fanno riferimento al fatto che il vino permetterebbe di esprimere verità interiori normalmente celate, mentre sapientiam vino obumbrari (ibid., n. 737, p. 345) dichiara il ben più ovvio obnubilamento prodotto dall'ebbrezza.
[86] A. Rimbaud, Lettre à Paul Demeny à Douai, Charleville, 15 mai 1871.
[87] Avvocata, p. 35.
[88] Ibid., p. 52.
[89] Ibid. p. 16.
[90] Ibid. pp. 112s.
[91] Ibid. p. 119. In questo romanzo, Manara, che aveva creduto di piegare un'antica profezia ai propri piani, finisce col diventare invece involontariamente l'olocausto in cui la profezia si adempie.
[92] vv. 45-47.
[93] Avvocata, p. 122.
[94] Cf. Eliade, op. cit., p. 192.
[95] Quali quelli, appunto, dell'Avvocata delle vertigini e di Lune. Nell'Antidoto della malinconia il problema del rapporto tra dolore e destino è sviluppato dal punto di vista delle vittime del male altrui; nella Falce dell'ultimo quarto da quello dell'inane sforzo di determinare la propria vita e quella altrui.
[96] Avvocata, p. 108.
[97] Cf. Matteo 13,1-23, Marco 4,1-20; Luca 8,4-15.
[98] La citazione da sant'Agostino (Confessiones, VII 5,7) è dello stesso Meldini, Avvocata, p. 119: nel testo di Agostino ricorre anche l'immagine del seme: Quae radix eius et quod semen eius?
[99] Avvocata, p. 121.