Luca Manini - Robert Burton e la passione come metamorfosi

Nella primavera del 2020 apparirà, per i tipi della casa editrice Bompiani, nella collana “Classici della letteratura europea” diretta da Nuccio Ordine, la prima traduzione integrale de L’anatomia della malinconia di Robert Burton (pubblicata in prima edizione nel 1621), una delle più sontuose opere della letteratura seicentesca inglese. Il volume, a cura di Luca Manini e Amneris Roselli, sarà impreziosito dalla presenza del testo originale a fronte, dalla traduzione di tutti i passi latini e dallo scioglimento di tutte le note dell’autore. Sarà l’occasione per leggere nella sua integrità una di quelle opere più speso citate che invero lette. Siamo felici di poter ospitare su Griselda l’intervento di uno dei curatori, Luca Manini, che ci introduce in un interessante percorso all’interno del monumentale testo di Burton.

Robert Burton e la passione come metamorfosi[1]

 

Fra le innumerevoli domande[2] che Robert Burton si pone ne L’anatomia della malinconia, l’opera della sua vita[3], una è: Che cos’è la gelosia? La risposta che dà (a sé e ai suoi lettori) è che la gelosia

 

è una passione violenta, un tormento indicibile, una tortura e una piaga infernale, come la chiama Ariosto, una furia, una febbre continua, piena di sospetti, di paure e di dolori, un martirio, un mostro che rovina la felicità. […] È una tortura grandissima, un peso intollerabile, una cosa che corrode ogni felicità, una frenesia, una forma di pazzia[4].[5]

 

In un altro passo dell’opera[6], Burton scrive che se l’amore

 

diviene una passione furiosa, non è più amore bensì ardente lussuria, una malattia, una frenesia, una follia, un inferno. Est orcus ille, vis est immedicabilis, est rabies insana; questo non è un comportamento virtuoso ma una violenta perturbazione della mente, un mostro della natura, del senno e dell'arte, come chiarisce Alessi in Ateneo, viriliter audax, muliebriter timidum, furore praeceps, labore infractum, mel felleum, blanda percussio &c.[7] Rovescia regni, abbatte città grandi e piccole, famiglie; rovina, corrompe e massacra gli uomini; fulmini e tuoni, le guerre, gli incendi, le pestilenze, hanno causato meno calamità agli uomini di quanti ne abbia arrecato quest’ardente lussuria, questa passione bestiale.[8]

 

E, ancora, per tornare un istante alla gelosia:

La maggior parte delle persone gelose, se non riesce in qualche modo ad alleviare questa loro passione, passa dal sospetto all'odio, e dall'odio alla frenesia, alla pazzia, ai ferimenti, al delitto e alla disperazione.

 

Oh incurabil piaga che nel petto

d’un amator sì facile s’imprime,

non men per falso che per ver aspetto!

piaga che l’uom sì crudelmente opprime,

che la ragion gli offusca e l’intelletto,

e lo tra’ fuor de le sembianze prime.[9]

 

Se ci soffermiamo a considerare quali sostantivi usa Burton per definire la gelosia, notiamo che egli ricorre a una vasta gamma di parole, com’è tipico del suo stile, debordante e affastellante, amante delle lunghe liste sinonimiche o pseudo–sinonimiche: passione, tormento, tortura, piaga, martirio, mostro[10], febbre, frenesia, disperazione, pazzia … E i verbi che Burton accosta a questi sostantivi, specie nel passo sull’amore? Eccoli: rovesciare, abbattere, rovinare, corrompere, massacrare, cui si possono aggiungere, traendoli da altri (molteplici) passi) torturare, crocifiggere, sfigurare … Mi è piaciuto riportare la citazione che di Ariosto fa Burton perché essa riassume in sé i temi che Burton tratta e sui quali intendo soffermarmi in questo breve intervento; ossia, la passione come tormento e come metamorfosi.

Il tema generale del libro di Robert Burton, com’egli chiaramente esprime nel titolo, è la malinconia, della quale intende offrire un’anatomia completa, ovvero una disamina, un’analisi il più esaustiva e il più precisa possibile[11], ponendo (metaforicamente e letterariamente) le persone malinconiche su una tavola dove venga loro eseguita una sorta di esame autoptico, non soltanto del corpo bensì anche (e soprattutto) della mente. Se, però, cerchiamo nelle oltre mille pagine dell’opera una definizione della malinconia, scopriamo che Burton non ne dà una che sia in qualche modo univoca; egli, secondo il modo che gli è solito, si appoggia alle definizioni che di essa hanno dato i medici, dall’antichità sino all’epoca sua, da Ippocrate e Galeno[12] sino al medico e anatomista francese André Du Laurens[13].

Il nume ispiratore di Burton è Democrito[14], il Democrito fattoci conoscere dalle lettere pseudo–ippocratiche; nella lettera indirizzata a Damageto[15], Ippocrate narra come gli abitanti di Abdera lo abbiano invitato affinché visiti Democrito, da loro ritenuto pazzo per il suo modo di vivere, in solitudine, e perché, le volte che si reca, solo, al porto della città è solo per ridere di ogni cosa. Ippocrate lo trova intento a sezionare animali morti, onde scoprire la sede fisica della pazzia; nella riscrittura che Burton attua della lettera antica[16], egli, modificando l’originale, scrive che Democrito sta ricercando la sede della pazzia e della malinconia; e il risultato delle ricerche di Democrito è che la causa materiale della malinconia è di rintracciare, dal punto di vista fisiologico, nella bile nera.[17]

 

Il nome deriva dalla materia e la malattia prende il nome dalla causa materiale: come osserva Bruel, Μελανχολία quasi Μελαινα χόλη, dalla bile nera. E se sia una causa o un effetto, una malattia oppure un sintomo, lasciamo che siano Donato Altomare e Salviani a deciderlo; io non ho intenzione di discuterne. Essa ha numerose descrizioni, spiegazioni e definizioni. Fracastoro, nel secondo libro sull’Intelletto, definisce malinconici coloro che sono stati a tal punto colpiti dall’abbondanza dell’umore corrotto della bile nera da divenire pazzi, e si fissano nella maggior parte delle cose, se non in tutte le cose, che appartengono  alla scelta, alla volontà o ad altre manifeste operazioni dell’intelletto. Melanelius, sulla base di Galeno, Rufo e Aezio, la descrive come una malattia cattiva e tenace, che fa degenerare gli uomini in bestie; Galeno, una privazione o infezione della cellula mediana del cervello, ecc., definendola così a partire dalla parte malata […][18]

 

Ecco altri termini sui quali soffermarci: la degenerazione in bestie, la corruzione, l’abbondanza di umore corrotto, la privazione. Si tratta, per gli ultimi due, della coppia eccesso / difetto di cui Aristotele discute nell’Etica nicomachea, là dove definisce i vizi nella loro contrapposizione alla virtù, la quale è identificata con una condizione di equilibrio, con uno stato di mediocritas, come si esprimerebbe Orazio. O come scrive Cicerone nelle Tuscolane, nel passo del libro IV dove discute di temperantia, di constantia, di modestia[19], contrapponendole alle passioni, che sono invece perturbationes, una animi commotio, e che sono semper in motu[20]; chi è preda delle passioni è deformis; come scrive un poeta latino il cui nome Cicerone tace[21]:

 

Refugere oculis, corpis macies extabuit,

Lacrimae peredere umore esangui genas,

Ditum inter oris barba paedore horrida

Atque infuscat pectus inluuie scabrum.[22]

 

E come scrive Ennio (sempre riportato da Cicerone): «semper errat neque pati neque perpeti potest, cupere numquam desinit[23].

Particolarmente interessante è l’errat di Ennio, là dove la parola assume il duplice significato di errore e di errare fuori della retta via dell’equilibrio; quell’equilibrio di cui dice Seneca nel De tranquillitate animi – e tranquillitas è la resa latina che Seneca[24] dà del greco euthymìa[25] (sulla quale pare che Democrito avesse scritto un’opera, ora perduta). È questo distacco da un armonico equilibrio (causato, ci dice Seneca, ab intemperie animi[26]), è questa metamorfosi che Burton dipinge e tratteggia, quasi fosse un pittore[27], in un’infinita serie di persone e di personaggi, ognuno con i propri sintomi e comportamenti, i quali sono variati come varie sono le persone malinconiche, le quali, in comune, hanno un allontanamento dal cosmos per piombare nel caos, in uno stato di modificazione che intacca e corrompe il corpo, la mente e i sensi.

Nel capito dedicato all’invidia, Burton così scrive: 

 

Secondo le osservazioni di Balescon de Tarante e di Felix Platter, l’invidia morde a tal punto i cuori di molti uomini che questi cadono preda della malinconia. È per questo motivo che Salomone la chiama (Proverbi 14, 13) il marciume delle ossa e Cipriano vulnus occultum;

 

- Siculi non invenere tyranni

Majus tormentum –

 

i tiranni di Sicilia non furono mai capaci d’inventare un tormento che l’uguagliasse. Ne mette in croce l’anima, ne avvizzisce i corpi, rende incavati i loro occhi e rende loro pallidi, smagriti e orridi d’aspetto, come dice Cipriano, ser. 2 de zelo & livore. Dice Crisostomo: Come una tarma guasta un abito, così l’invidia consuma un uomo, e lo trasforma in un vivente modello anatomico, uno scheletro, una carcassa smagrita e pallida, animata da un demone (Hall nei Caratteri).[28]

 

Straordinaria è l’espressione “modello anatomico” (anatomy) che ricorda la descrizione che Edmund Spenser fa dei miserabili irlandesi[29], dei contadini ridotti alla fame che lui chiama “anatomie della morte”, corpi cadaverici che sono insieme vivi e già morti, o condannati alla morte. Chi è preda delle passioni è un morto vivente, o un vivente che è invero morto, « animato da uno spirito », ossia da una passione che, come Burton ripete più di una volta, cancella l’identità, l’io, il sé, uno spirito che domina e distrugge il malinconico.

Trattando della malinconia d’amore[30],Burton scrive che caratteristiche fisiche degli innamorati sono pallore, magrezza, mancanza di liquidi … Gl’innamorati, secondo Apuleio, sono di un pallor deformis. E i malinconici hanno palpitazioni, il polso irregolare, sudori, tremori, uno sguardo fisso o spento o smarrito; balbettano, ridono o piangono, ridono e piangono insieme, gesticolano …

A questi moti di modificazione del corpo, corrisponde uno sconvolgimento dei sensi, una modificazione delle facoltà percettive; essi odono voci o rumori che non ci sono, vedono oggetti o persone che non sono presenti:

 

se la malinconia è radicata, essi pensano di udire rumori terrificanti, di vedere e di parlare con uomini neri, e di conversare abitualmente coi demoni o simili chimere o visioni (Gordon), oppure di essere da loro posseduti, o che un qualche corpo parli con loro o sia dentro di loro. Tales melancholici plerumque daemoniaci, Montalto, consil. 26 ex Avicenna. Balescon de Taranta aveva in cura una donna con questi sintomi: ella, ogni notte, pensava d’aver a che fare col demonio; e Gentile de’ Gentili (quaest. 55) scrive che egli aveva un amico malinconico il quale, ovunque andasse, vedeva un uomo nero, con l’aspetto di un soldato, che lo seguiva sempre. Du Laurens, cap. 7, riporta le storie di molte persone che credevano di esser state stregate dai loro nemici, e di altre che non volevano mangiar carne perché pensavano d’essere morte. Nel 1550, un avvocato di Parigi cadde preda d’una malinconia tanto profonda che credeva davvero d’esser morto; nessuno riuscì a persuaderlo del contrario o spingerlo a mangiare e bere, sinché un suo parente, uno studioso di Bourges, non mangiò dinanzi a lui, travisato da cadavere.[31]

 

Tanto sconvolti sono la mente e i sensi che le persone malinconiche sentono in sé un mutamento fisico; e, ancora:

 

Alessandro di Tralle ha un esempio simile, di una donna che pensava di poter scuotere il mondo intero con un dito, e che aveva paura di stringere il pugno, temendo di poter così stritolare il mondo come una mela; Galeno dice di un uomo che credeva d’esser Atlante e di sostenere il cielo sulle spalle. Un altro, invece, si crede tanto piccolo da strisciare in una fessura; e un altro ancora ha paura che il cielo gli caschi sulla testa; un altro si sente un gallo, un altro (Guainerio dice d’averlo visto a Padova) soleva battere le mani e gracchiare. Un altro crede di essere un usignolo, e quindi canta per tutta la notte; un altro di essere fatto di vetro, di essere un bicchiere, e pertanto non permette a nessuno di avvicinarglisi  (Du Laurens ci assicura di aver visto in Francia un tipo simile). Cristobal da Vega (lib. 3 cap. 14), Schenck e Marcello Donato (lib. 2 cap. 1) riportano altri svariati esempi, uno in particolare, riguardo a un fornaio di Ferrara, il quale credeva d’esser fatto di burro e non osava sedersi al sole o avvicinarsi al fuoco per paura di sciogliersi; e quello di un uomo che credeva d’essere una sacca di pelle gonfia di vento. Alcuni ridono, piangono, altri sono pazzi, altri ancora afflitti, dolenti, sofferenti, alcuni a sprazzi, altri in modo continuo, ecc. Alcuni hanno l’udito guasto e pensano d’udire musiche o rumori spaventosi, creati dalla loro immaginazione; altri hanno la vista guasta, altri ancora l’olfatto, o un senso o l’altro.[32]

 

Ecco l’errare di cui diceva Ennio, un di-vagare dei sensi sconvolti conduce all’errore, a un’erronea percezione di sé e del reale; i malinconici, scrive Burton, sono agelasti, moesti, cogitabundi, sono uomini e donne che paiono usciti dalla grotta di Trofonio[33]

Come riconquistare l’equilibrio perduto? Come ripercorrere a ritroso la via che ha portato alla malinconia, forse alla pazzia? Come riacquistare lo stato che Democrito, in un’opera perduta di cui restano solo frammenti (ma che Seneca aveva avuto la possibilità di leggere) definisce symmetria? È un percorso arduo, lungo ma, dice Burton, possibile. Come egli ricorda, Virgilio ha scritto che « facilis descensus Averni » … più difficile uscire, dall’Averno che è lo stato della malinconia. Lascio a voi leggere la via o le vie proposte da Burton nelle sue digressioni consolatorie, che si rifanno, fra gli altri, a Plutarco, Seneca, Cicerone, Cardano; nelle liste di rimedi medici e chirurgici che indica, traendoli dai medici antichi e contemporanei; negli elenchi di erbe, decotti, infusi che possono tornar utili; nei consigli che sparge pagina dopo pagina; nella preghiera cui invita i lettori ad affidarsi.

Mi piace concludere con la cecità o la deformazione visiva cui soggiacciono gli’innamorati:

 

Ogni amante ammira la propria amata, sebbene ella sia deforme, priva di qualunque grazia, rugosa, foruncolosa, pallida, rubizza, gialliccia, scura, dalla carnagione terrea, con la faccia tonda e gonfia come quella di un giocoliere, oppure smagrita, smunta e infantile, o con la faccia tutta macchiata, e sia tutta storta, secca, pelata, con gli occhi sporgenti o cisposi o sempre fissi; sebbene abbia l’aspetto di un gatto schiacciato in una porta, con la testa sempre piegata, e sia pesante, con gli occhi incavati, le occhiaie gialle o nere, guercia, con la bocca come quella dei passeri, il naso adunco come hanno i Persiani, o affilato come quello di una volpe, rosso, piatto come quello dei Cinesi, un naso grosso, nare simo patuloque, un naso come un promontorio, con denti sporgenti come zanne, marci, neri, dispari, marroncini, sopracciglia che sembrano le antenne di uno scarafaggio, una barba da strega, il fiato che ammorba tutta la stanza, il naso che le cola estate e inverno, con un gozzo sotto il mento come i bavaresi, un mento aguzzo, le orecchie a sventola, il collo lungo come quello di una gru, pendulis mammis, mammelle come un paio di brocche o, all’estremo opposto, sia completamente piatta, e abbia le dita arrossate e piene di bolle, le  unghie  lunghe, non tagliate e sporche, mani e polsi con i segni della scabbia, la pelle scura, una carcassa marcia, la schiena storta, e cammini curva, sia zoppa, con i piedi piatti, con una vita sottile quanto la pancia di una vacca, le gambe gottose, le caviglie che debordano sulle scarpe, i piedi puzzolenti, sia piena di pidocchi, una perfetta idiota, un mostro vero e proprio, una bambina mal cresciuta, con la pelle graveolente, la voce acuta, gesti scomposti, un’andatura volgare, sia una virago corpulenta, o una donnetta bruttissima, una pigrona, una grassa sciattona, un involto informe, una spilungona tutta pelle e ossa, uno scheletro, un'ombra, (si qua latent meliora puta) una che ti sembra una merda messa in una lanterna, che non ti attirerebbe per niente al mondo e che anzi odi, aborri, alla quale sputeresti in faccia o nel cui petto ti soffieresti il naso, un remedium amoris, una sciattona, una sgualdrina, una bisbetica, cattiva, maleodorante, puzzolente, bestiale, a volte disonesta, oscena, volgare, accattona, sgarbata, scema, ignorante, irritabile, figlia di Iros, sorella di Tersite, discepola di Grobianus; ma se qualcuno se ne innamora, ecco che l’ammira nonostante tutto, non si accorge dei difetti o delle imperfezioni del suo corpo o della sua mente […][34]

 

Ecco gli effetti della passione d’amore …

 

 

 

 

[1] Ho, volutamente, mantenuto, in questa versione pur scritta, lo stile discorsivo e ‘orale’ dell’intervento tenuto in occasione del convegno modenese.

[2] Si veda, per l’ansia ‘inquisitiva’ di Burton, per il suo abbandono alla curiositas positiva di Plutarco (si legga il suo De curiositate), la magnifica “Digressione sull’aria” nella seconda partizione dell’opera.

[3] La prima edizione de The Anatomy of Melancholy è del 1621; Burton continuò, sino alla morte (avvenuta nel 1640; era nato nel 1576) a lavorarci, ampliando l’opera secondo la misura del barocco, ossia la dis-misura; la sesta (e postuma) edizione apparve nel 1651.

 

[5] Tutte le traduzioni sono mie. La traduzione integrale dell’opera apparirà nella collana “Classici della letteratura europea” (diretta da Nuccio Ordine) nel 2020: L’anatomia della malinconia, a cura di Luca Manini e Amneris Roselli, Milano, Bompiani. Il passo citato è nella terza partizione, sezione terza, membro primo, sottosezione prima (i riferimenti sono solitamente indicati in questo modo: 3, 3, 1, 1). L’edizione inglese è a cura di T. C. Faulkner et alii, Clarendon Press, Oxford 1989-2000, in sei volumi (tre di testo e tre di commento).

[6] 3, 2, 1, 2.

[7] Intenzione prima di Burton era di scrivere la sua Anatomia in latino; dissuaso dal farlo dall’editore, la scrisse i un inglese continuamente interrotto da citazioni in latino, che Burton a volte spiega in nota, a volte lascia senza alcuna indicazione. In queste righe vi è un riferimento all’opera I Deipnosofisti di Areteo. 

[8] 3, 1, 1, 2.

[9] 3, 3, 3, 1. La citazione di Ariosto è da Orlando furioso, XXXI, 6, vv. 1-6. Burton cita però Ariosto sempre nella traduzione inglese (a tratti libera) di Sir John Harington.

[10] “Un mostro dagli occhi verdi”, come direbbe Shakespeare (Otello, iii, 3, vv. 165-166).

[11] Sull’anatomia secentesca, cfr. l’introduzione di Giorgio Melchiori a John Donne, Anatomia del mondo. Duello della morte, Mondadori, Milano 1983.

[12] Il medico greco Ippocrate e il medico romano Galeno sono tra le autorità che Burton più spesso cita.

[13] Laurentius, secondo come scrive Burton, il quale, per tutti gli autori che cita, usa sempre la forma latinizzata con la quale essi pubblicavano le loro opere (il più delle volte scritte in latino). L’opera più celebre del medico francese André Du Laurens (1558-1609) è Discours de la conservation de la veue: des maladies mélancholiques: des catharres: & de la vieillesse (Parigi, 1597), più e più volte ricordata da Burton. È autore anche di una Historia anatomica humani corporis (Parigi, 1600).

[14] Burton firmò L’anatomia della malinconia con lo pseudonimo di Democrito Junior, ed è con questo nome fittizio che si presenta al lettore nella prima sezione dell’opera, Democrito Junior al lettore. E lo stesso nome volle fosse inciso sulla sua lapide.

[15] La si può leggere in Ippocrate, Lettere sulla follia di Democrito, a cura di Amneris Roselli, Liguori, Napoli 1986, pp. 54-77.

[16] Nella prima sezione dell’opera, Democrito Junior al lettore.

[17] Ancora al tempo di Burton era ritenuta valida la teoria dei quattro umori che regolano il funzionamento della macchina del corpo umano: sangue, flegma, bile gialla e bile nera. La salute è data da un equilibrio tra questi quattro umori; nel momento in cui uno di essi è carente o sovrabbondante, insorgono le malattie.

[18] 1, 1, 3, 1. Secondo il suo modo di procedere, Burton affastella autori antichi e moderni: Walter Bruele, autore di testi di medicina, vissuto nel XVI secolo; il medico italiano Donato Antonio Altomare (XVI secolo) e il professore di medicina Salustio Salviani (XVI secolo); l’enciclopedista Girolamo Fracastoro ((1483-1553), il quale scrisse opere dedicate alla sympathia et antipathia rerum; il medico fiammingo Melanelius, del XVI secolo; e le autorità antiche di Rufo, Aezio e Galeno.

[19] Cicerone, Tuscolane, a cura di E. Narducci e L. Zuccoli Clerici, Rizzoli, Milano 1996, p. 390.

[20] Ivi, p. 388.

[21] Forse Pacuvio.

[22] La citazione è nel libro III: «Si sono incavati gli occhi, il corpo macilento è disfatto, / le lacrime hanno bagnato e consunto le guance esangui; / nell’incuria dei volti la barba irta di sozzura e / intonsa mi oscura il petto, squallido di sporcizia» (traduzione di L. Zuccoli Clerici).

[23] La citazione è nel libro III: «e l’anima malata è sempre in errore: non è in grado di sopportare né di resistere, e non smette mai di desiderare» (traduzione di L. Zuccoli Clerici).

[24] Si veda, oltre al De tranquillitate animi, il De ira, 3, 6, 3. E Cicerone. De finibus, 5, 23.

[25] Letteralmente, ‘virtù’.

[26] Nel De tranquillitate animi, 2.

[27] Burton ricorda due pittori dell’antica Grecia, Parrasio e Timante. Il primo torturò un uomo per raffigurare appieno il tormento di Prometeo incatenato; il secondo invece velò il volto di Agamennone nel momento in cui Ifigenia era sacrificata, per lasciare che chi guardasse il dipinto immaginasse il dolore del padre.

[28] 3, 2, 3, 7. Gli autori qui citati spaziano dal biblico Salomone ai Padri della Chiesa, dal medico francese Balescon de Tarante attivo alla fine del XIV secolo e l’inizio del XV) al medico svizzero Felix Platter (1536-1614), al contemporaneo Joseph Hall, vescovo di Norwich, morto nel 1656.

[29] Nell’opera in prosa A Vewe of Ireland.

[30] Tema cui Burton dedica la quasi totalità della terza partizione.

[31] 1, 3, 1, 3. Accanto ai già ricordati Du Laurens e Balescon de Tarante, Burton ricorre qui all’autorità del medico francese Bernard de Gordon (vissuto tra il XIII e il XIV secolo), il professore di medicina Gentile de’ Gentili (XIV secolo) e il medico portoghese Eliao Montalto (morto nel 1616), un autore cui Burton ricorre spessissimo.

[32] 1, 3, 1, 3. Alessandro di Tralle fu un medico d’origine bizantina attivo a Roma nel VI secolo. Antonio Guaierio fu un medico italiano, morto nel 1440, autore dell’opera Practica, alle quale Burton attinge grandemente. Johann Schenk (padre e figlio) scrissero di medicina nel XVI secolo. Cristobal de Vega fu un medico spagnolo del  del XVI secolo. Marcello Donati (1538-1602) scrisse una medica historia.

[33] L’architetto Trofonio (costruttore, col fratello, del tempio di Apollo a Delfi, fu trasformato da Apollo in un oracolo; per consultarlo, era necessario scendere in una caverna che offriva visioni a tal punto spaventose che chi ne usciva non poteva più sorridere.

[34] 3, 2, 3, 1. Vi sono, in questo passo, echi, dalle Metamorfosi di Ovidio (si qua latent meliora puta, ossia “pensa che è meglio ciò che non si vede”, I, v. 502) e da Omero (Iros è un mendicante di Itaca (Odissea, XIX). Tersite, uno dei greci che assediarono Troia, è rimasto famoso per la sua bruttezza e malagrazia. Grobianus è il tipo dello zotico, creato da autori tedeschi del Cinquecento.

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Robert Burton e la passione come metamorfosi[1]

 

Fra le innumerevoli domande[2] che Robert Burton si pone ne L’anatomia della malinconia, l’opera della sua vita[3], una è: Che cos’è la gelosia? La risposta che dà (a sé e ai suoi lettori) è che la gelosia

 

è una passione violenta, un tormento indicibile, una tortura e una piaga infernale, come la chiama Ariosto, una furia, una febbre continua, piena di sospetti, di paure e di dolori, un martirio, un mostro che rovina la felicità. […] È una tortura grandissima, un peso intollerabile, una cosa che corrode ogni felicità, una frenesia, una forma di pazzia[4].[5]

 

In un altro passo dell’opera[6], Burton scrive che se l’amore

 

diviene una passione furiosa, non è più amore bensì ardente lussuria, una malattia, una frenesia, una follia, un inferno. Est orcus ille, vis est immedicabilis, est rabies insana; questo non è un comportamento virtuoso ma una violenta perturbazione della mente, un mostro della natura, del senno e dell'arte, come chiarisce Alessi in Ateneo, viriliter audax, muliebriter timidum, furore praeceps, labore infractum, mel felleum, blanda percussio &c.[7] Rovescia regni, abbatte città grandi e piccole, famiglie; rovina, corrompe e massacra gli uomini; fulmini e tuoni, le guerre, gli incendi, le pestilenze, hanno causato meno calamità agli uomini di quanti ne abbia arrecato quest’ardente lussuria, questa passione bestiale.[8]

 

E, ancora, per tornare un istante alla gelosia:

La maggior parte delle persone gelose, se non riesce in qualche modo ad alleviare questa loro passione, passa dal sospetto all'odio, e dall'odio alla frenesia, alla pazzia, ai ferimenti, al delitto e alla disperazione.

 

Oh incurabil piaga che nel petto

d’un amator sì facile s’imprime,

non men per falso che per ver aspetto!

piaga che l’uom sì crudelmente opprime,

che la ragion gli offusca e l’intelletto,

e lo tra’ fuor de le sembianze prime.[9]

 

Se ci soffermiamo a considerare quali sostantivi usa Burton per definire la gelosia, notiamo che egli ricorre a una vasta gamma di parole, com’è tipico del suo stile, debordante e affastellante, amante delle lunghe liste sinonimiche o pseudo–sinonimiche: passione, tormento, tortura, piaga, martirio, mostro[10], febbre, frenesia, disperazione, pazzia … E i verbi che Burton accosta a questi sostantivi, specie nel passo sull’amore? Eccoli: rovesciare, abbattere, rovinare, corrompere, massacrare, cui si possono aggiungere, traendoli da altri (molteplici) passi) torturare, crocifiggere, sfigurare … Mi è piaciuto riportare la citazione che di Ariosto fa Burton perché essa riassume in sé i temi che Burton tratta e sui quali intendo soffermarmi in questo breve intervento; ossia, la passione come tormento e come metamorfosi.

Il tema generale del libro di Robert Burton, com’egli chiaramente esprime nel titolo, è la malinconia, della quale intende offrire un’anatomia completa, ovvero una disamina, un’analisi il più esaustiva e il più precisa possibile[11], ponendo (metaforicamente e letterariamente) le persone malinconiche su una tavola dove venga loro eseguita una sorta di esame autoptico, non soltanto del corpo bensì anche (e soprattutto) della mente. Se, però, cerchiamo nelle oltre mille pagine dell’opera una definizione della malinconia, scopriamo che Burton non ne dà una che sia in qualche modo univoca; egli, secondo il modo che gli è solito, si appoggia alle definizioni che di essa hanno dato i medici, dall’antichità sino all’epoca sua, da Ippocrate e Galeno[12] sino al medico e anatomista francese André Du Laurens[13].

Il nume ispiratore di Burton è Democrito[14], il Democrito fattoci conoscere dalle lettere pseudo–ippocratiche; nella lettera indirizzata a Damageto[15], Ippocrate narra come gli abitanti di Abdera lo abbiano invitato affinché visiti Democrito, da loro ritenuto pazzo per il suo modo di vivere, in solitudine, e perché, le volte che si reca, solo, al porto della città è solo per ridere di ogni cosa. Ippocrate lo trova intento a sezionare animali morti, onde scoprire la sede fisica della pazzia; nella riscrittura che Burton attua della lettera antica[16], egli, modificando l’originale, scrive che Democrito sta ricercando la sede della pazzia e della malinconia; e il risultato delle ricerche di Democrito è che la causa materiale della malinconia è di rintracciare, dal punto di vista fisiologico, nella bile nera.[17]

 

Il nome deriva dalla materia e la malattia prende il nome dalla causa materiale: come osserva Bruel, Μελανχολία quasi Μελαινα χόλη, dalla bile nera. E se sia una causa o un effetto, una malattia oppure un sintomo, lasciamo che siano Donato Altomare e Salviani a deciderlo; io non ho intenzione di discuterne. Essa ha numerose descrizioni, spiegazioni e definizioni. Fracastoro, nel secondo libro sull’Intelletto, definisce malinconici coloro che sono stati a tal punto colpiti dall’abbondanza dell’umore corrotto della bile nera da divenire pazzi, e si fissano nella maggior parte delle cose, se non in tutte le cose, che appartengono  alla scelta, alla volontà o ad altre manifeste operazioni dell’intelletto. Melanelius, sulla base di Galeno, Rufo e Aezio, la descrive come una malattia cattiva e tenace, che fa degenerare gli uomini in bestie; Galeno, una privazione o infezione della cellula mediana del cervello, ecc., definendola così a partire dalla parte malata […][18]

 

Ecco altri termini sui quali soffermarci: la degenerazione in bestie, la corruzione, l’abbondanza di umore corrotto, la privazione. Si tratta, per gli ultimi due, della coppia eccesso / difetto di cui Aristotele discute nell’Etica nicomachea, là dove definisce i vizi nella loro contrapposizione alla virtù, la quale è identificata con una condizione di equilibrio, con uno stato di mediocritas, come si esprimerebbe Orazio. O come scrive Cicerone nelle Tuscolane, nel passo del libro IV dove discute di temperantia, di constantia, di modestia[19], contrapponendole alle passioni, che sono invece perturbationes, una animi commotio, e che sono semper in motu[20]; chi è preda delle passioni è deformis; come scrive un poeta latino il cui nome Cicerone tace[21]:

 

Refugere oculis, corpis macies extabuit,

Lacrimae peredere umore esangui genas,

Ditum inter oris barba paedore horrida

Atque infuscat pectus inluuie scabrum.[22]

 

E come scrive Ennio (sempre riportato da Cicerone): «semper errat neque pati neque perpeti potest, cupere numquam desinit[23].

Particolarmente interessante è l’errat di Ennio, là dove la parola assume il duplice significato di errore e di errare fuori della retta via dell’equilibrio; quell’equilibrio di cui dice Seneca nel De tranquillitate animi – e tranquillitas è la resa latina che Seneca[24] dà del greco euthymìa[25] (sulla quale pare che Democrito avesse scritto un’opera, ora perduta). È questo distacco da un armonico equilibrio (causato, ci dice Seneca, ab intemperie animi[26]), è questa metamorfosi che Burton dipinge e tratteggia, quasi fosse un pittore[27], in un’infinita serie di persone e di personaggi, ognuno con i propri sintomi e comportamenti, i quali sono variati come varie sono le persone malinconiche, le quali, in comune, hanno un allontanamento dal cosmos per piombare nel caos, in uno stato di modificazione che intacca e corrompe il corpo, la mente e i sensi.

Nel capito dedicato all’invidia, Burton così scrive: 

 

Secondo le osservazioni di Balescon de Tarante e di Felix Platter, l’invidia morde a tal punto i cuori di molti uomini che questi cadono preda della malinconia. È per questo motivo che Salomone la chiama (Proverbi 14, 13) il marciume delle ossa e Cipriano vulnus occultum;

 

- Siculi non invenere tyranni

Majus tormentum –

 

i tiranni di Sicilia non furono mai capaci d’inventare un tormento che l’uguagliasse. Ne mette in croce l’anima, ne avvizzisce i corpi, rende incavati i loro occhi e rende loro pallidi, smagriti e orridi d’aspetto, come dice Cipriano, ser. 2 de zelo & livore. Dice Crisostomo: Come una tarma guasta un abito, così l’invidia consuma un uomo, e lo trasforma in un vivente modello anatomico, uno scheletro, una carcassa smagrita e pallida, animata da un demone (Hall nei Caratteri).[28]

 

Straordinaria è l’espressione “modello anatomico” (anatomy) che ricorda la descrizione che Edmund Spenser fa dei miserabili irlandesi[29], dei contadini ridotti alla fame che lui chiama “anatomie della morte”, corpi cadaverici che sono insieme vivi e già morti, o condannati alla morte. Chi è preda delle passioni è un morto vivente, o un vivente che è invero morto, « animato da uno spirito », ossia da una passione che, come Burton ripete più di una volta, cancella l’identità, l’io, il sé, uno spirito che domina e distrugge il malinconico.

Trattando della malinconia d’amore[30],Burton scrive che caratteristiche fisiche degli innamorati sono pallore, magrezza, mancanza di liquidi … Gl’innamorati, secondo Apuleio, sono di un pallor deformis. E i malinconici hanno palpitazioni, il polso irregolare, sudori, tremori, uno sguardo fisso o spento o smarrito; balbettano, ridono o piangono, ridono e piangono insieme, gesticolano …

A questi moti di modificazione del corpo, corrisponde uno sconvolgimento dei sensi, una modificazione delle facoltà percettive; essi odono voci o rumori che non ci sono, vedono oggetti o persone che non sono presenti:

 

se la malinconia è radicata, essi pensano di udire rumori terrificanti, di vedere e di parlare con uomini neri, e di conversare abitualmente coi demoni o simili chimere o visioni (Gordon), oppure di essere da loro posseduti, o che un qualche corpo parli con loro o sia dentro di loro. Tales melancholici plerumque daemoniaci, Montalto, consil. 26 ex Avicenna. Balescon de Taranta aveva in cura una donna con questi sintomi: ella, ogni notte, pensava d’aver a che fare col demonio; e Gentile de’ Gentili (quaest. 55) scrive che egli aveva un amico malinconico il quale, ovunque andasse, vedeva un uomo nero, con l’aspetto di un soldato, che lo seguiva sempre. Du Laurens, cap. 7, riporta le storie di molte persone che credevano di esser state stregate dai loro nemici, e di altre che non volevano mangiar carne perché pensavano d’essere morte. Nel 1550, un avvocato di Parigi cadde preda d’una malinconia tanto profonda che credeva davvero d’esser morto; nessuno riuscì a persuaderlo del contrario o spingerlo a mangiare e bere, sinché un suo parente, uno studioso di Bourges, non mangiò dinanzi a lui, travisato da cadavere.[31]

 

Tanto sconvolti sono la mente e i sensi che le persone malinconiche sentono in sé un mutamento fisico; e, ancora:

 

Alessandro di Tralle ha un esempio simile, di una donna che pensava di poter scuotere il mondo intero con un dito, e che aveva paura di stringere il pugno, temendo di poter così stritolare il mondo come una mela; Galeno dice di un uomo che credeva d’esser Atlante e di sostenere il cielo sulle spalle. Un altro, invece, si crede tanto piccolo da strisciare in una fessura; e un altro ancora ha paura che il cielo gli caschi sulla testa; un altro si sente un gallo, un altro (Guainerio dice d’averlo visto a Padova) soleva battere le mani e gracchiare. Un altro crede di essere un usignolo, e quindi canta per tutta la notte; un altro di essere fatto di vetro, di essere un bicchiere, e pertanto non permette a nessuno di avvicinarglisi  (Du Laurens ci assicura di aver visto in Francia un tipo simile). Cristobal da Vega (lib. 3 cap. 14), Schenck e Marcello Donato (lib. 2 cap. 1) riportano altri svariati esempi, uno in particolare, riguardo a un fornaio di Ferrara, il quale credeva d’esser fatto di burro e non osava sedersi al sole o avvicinarsi al fuoco per paura di sciogliersi; e quello di un uomo che credeva d’essere una sacca di pelle gonfia di vento. Alcuni ridono, piangono, altri sono pazzi, altri ancora afflitti, dolenti, sofferenti, alcuni a sprazzi, altri in modo continuo, ecc. Alcuni hanno l’udito guasto e pensano d’udire musiche o rumori spaventosi, creati dalla loro immaginazione; altri hanno la vista guasta, altri ancora l’olfatto, o un senso o l’altro.[32]

 

Ecco l’errare di cui diceva Ennio, un di-vagare dei sensi sconvolti conduce all’errore, a un’erronea percezione di sé e del reale; i malinconici, scrive Burton, sono agelasti, moesti, cogitabundi, sono uomini e donne che paiono usciti dalla grotta di Trofonio[33]

Come riconquistare l’equilibrio perduto? Come ripercorrere a ritroso la via che ha portato alla malinconia, forse alla pazzia? Come riacquistare lo stato che Democrito, in un’opera perduta di cui restano solo frammenti (ma che Seneca aveva avuto la possibilità di leggere) definisce symmetria? È un percorso arduo, lungo ma, dice Burton, possibile. Come egli ricorda, Virgilio ha scritto che « facilis descensus Averni » … più difficile uscire, dall’Averno che è lo stato della malinconia. Lascio a voi leggere la via o le vie proposte da Burton nelle sue digressioni consolatorie, che si rifanno, fra gli altri, a Plutarco, Seneca, Cicerone, Cardano; nelle liste di rimedi medici e chirurgici che indica, traendoli dai medici antichi e contemporanei; negli elenchi di erbe, decotti, infusi che possono tornar utili; nei consigli che sparge pagina dopo pagina; nella preghiera cui invita i lettori ad affidarsi.

Mi piace concludere con la cecità o la deformazione visiva cui soggiacciono gli’innamorati:

 

Ogni amante ammira la propria amata, sebbene ella sia deforme, priva di qualunque grazia, rugosa, foruncolosa, pallida, rubizza, gialliccia, scura, dalla carnagione terrea, con la faccia tonda e gonfia come quella di un giocoliere, oppure smagrita, smunta e infantile, o con la faccia tutta macchiata, e sia tutta storta, secca, pelata, con gli occhi sporgenti o cisposi o sempre fissi; sebbene abbia l’aspetto di un gatto schiacciato in una porta, con la testa sempre piegata, e sia pesante, con gli occhi incavati, le occhiaie gialle o nere, guercia, con la bocca come quella dei passeri, il naso adunco come hanno i Persiani, o affilato come quello di una volpe, rosso, piatto come quello dei Cinesi, un naso grosso, nare simo patuloque, un naso come un promontorio, con denti sporgenti come zanne, marci, neri, dispari, marroncini, sopracciglia che sembrano le antenne di uno scarafaggio, una barba da strega, il fiato che ammorba tutta la stanza, il naso che le cola estate e inverno, con un gozzo sotto il mento come i bavaresi, un mento aguzzo, le orecchie a sventola, il collo lungo come quello di una gru, pendulis mammis, mammelle come un paio di brocche o, all’estremo opposto, sia completamente piatta, e abbia le dita arrossate e piene di bolle, le  unghie  lunghe, non tagliate e sporche, mani e polsi con i segni della scabbia, la pelle scura, una carcassa marcia, la schiena storta, e cammini curva, sia zoppa, con i piedi piatti, con una vita sottile quanto la pancia di una vacca, le gambe gottose, le caviglie che debordano sulle scarpe, i piedi puzzolenti, sia piena di pidocchi, una perfetta idiota, un mostro vero e proprio, una bambina mal cresciuta, con la pelle graveolente, la voce acuta, gesti scomposti, un’andatura volgare, sia una virago corpulenta, o una donnetta bruttissima, una pigrona, una grassa sciattona, un involto informe, una spilungona tutta pelle e ossa, uno scheletro, un'ombra, (si qua latent meliora puta) una che ti sembra una merda messa in una lanterna, che non ti attirerebbe per niente al mondo e che anzi odi, aborri, alla quale sputeresti in faccia o nel cui petto ti soffieresti il naso, un remedium amoris, una sciattona, una sgualdrina, una bisbetica, cattiva, maleodorante, puzzolente, bestiale, a volte disonesta, oscena, volgare, accattona, sgarbata, scema, ignorante, irritabile, figlia di Iros, sorella di Tersite, discepola di Grobianus; ma se qualcuno se ne innamora, ecco che l’ammira nonostante tutto, non si accorge dei difetti o delle imperfezioni del suo corpo o della sua mente […][34]

 

Ecco gli effetti della passione d’amore …

 

 

 

 

[1] Ho, volutamente, mantenuto, in questa versione pur scritta, lo stile discorsivo e ‘orale’ dell’intervento tenuto in occasione del convegno modenese.

[2] Si veda, per l’ansia ‘inquisitiva’ di Burton, per il suo abbandono alla curiositas positiva di Plutarco (si legga il suo De curiositate), la magnifica “Digressione sull’aria” nella seconda partizione dell’opera.

[3] La prima edizione de The Anatomy of Melancholy è del 1621; Burton continuò, sino alla morte (avvenuta nel 1640; era nato nel 1576) a lavorarci, ampliando l’opera secondo la misura del barocco, ossia la dis-misura; la sesta (e postuma) edizione apparve nel 1651.

 

[5] Tutte le traduzioni sono mie. La traduzione integrale dell’opera apparirà nella collana “Classici della letteratura europea” (diretta da Nuccio Ordine) nel 2020: L’anatomia della malinconia, a cura di Luca Manini e Amneris Roselli, Milano, Bompiani. Il passo citato è nella terza partizione, sezione terza, membro primo, sottosezione prima (i riferimenti sono solitamente indicati in questo modo: 3, 3, 1, 1). L’edizione inglese è a cura di T. C. Faulkner et alii, Clarendon Press, Oxford 1989-2000, in sei volumi (tre di testo e tre di commento).

[6] 3, 2, 1, 2.

[7] Intenzione prima di Burton era di scrivere la sua Anatomia in latino; dissuaso dal farlo dall’editore, la scrisse i un inglese continuamente interrotto da citazioni in latino, che Burton a volte spiega in nota, a volte lascia senza alcuna indicazione. In queste righe vi è un riferimento all’opera I Deipnosofisti di Areteo. 

[8] 3, 1, 1, 2.

[9] 3, 3, 3, 1. La citazione di Ariosto è da Orlando furioso, XXXI, 6, vv. 1-6. Burton cita però Ariosto sempre nella traduzione inglese (a tratti libera) di Sir John Harington.

[10] “Un mostro dagli occhi verdi”, come direbbe Shakespeare (Otello, iii, 3, vv. 165-166).

[11] Sull’anatomia secentesca, cfr. l’introduzione di Giorgio Melchiori a John Donne, Anatomia del mondo. Duello della morte, Mondadori, Milano 1983.

[12] Il medico greco Ippocrate e il medico romano Galeno sono tra le autorità che Burton più spesso cita.

[13] Laurentius, secondo come scrive Burton, il quale, per tutti gli autori che cita, usa sempre la forma latinizzata con la quale essi pubblicavano le loro opere (il più delle volte scritte in latino). L’opera più celebre del medico francese André Du Laurens (1558-1609) è Discours de la conservation de la veue: des maladies mélancholiques: des catharres: & de la vieillesse (Parigi, 1597), più e più volte ricordata da Burton. È autore anche di una Historia anatomica humani corporis (Parigi, 1600).

[14] Burton firmò L’anatomia della malinconia con lo pseudonimo di Democrito Junior, ed è con questo nome fittizio che si presenta al lettore nella prima sezione dell’opera, Democrito Junior al lettore. E lo stesso nome volle fosse inciso sulla sua lapide.

[15] La si può leggere in Ippocrate, Lettere sulla follia di Democrito, a cura di Amneris Roselli, Liguori, Napoli 1986, pp. 54-77.

[16] Nella prima sezione dell’opera, Democrito Junior al lettore.

[17] Ancora al tempo di Burton era ritenuta valida la teoria dei quattro umori che regolano il funzionamento della macchina del corpo umano: sangue, flegma, bile gialla e bile nera. La salute è data da un equilibrio tra questi quattro umori; nel momento in cui uno di essi è carente o sovrabbondante, insorgono le malattie.

[18] 1, 1, 3, 1. Secondo il suo modo di procedere, Burton affastella autori antichi e moderni: Walter Bruele, autore di testi di medicina, vissuto nel XVI secolo; il medico italiano Donato Antonio Altomare (XVI secolo) e il professore di medicina Salustio Salviani (XVI secolo); l’enciclopedista Girolamo Fracastoro ((1483-1553), il quale scrisse opere dedicate alla sympathia et antipathia rerum; il medico fiammingo Melanelius, del XVI secolo; e le autorità antiche di Rufo, Aezio e Galeno.

[19] Cicerone, Tuscolane, a cura di E. Narducci e L. Zuccoli Clerici, Rizzoli, Milano 1996, p. 390.

[20] Ivi, p. 388.

[21] Forse Pacuvio.

[22] La citazione è nel libro III: «Si sono incavati gli occhi, il corpo macilento è disfatto, / le lacrime hanno bagnato e consunto le guance esangui; / nell’incuria dei volti la barba irta di sozzura e / intonsa mi oscura il petto, squallido di sporcizia» (traduzione di L. Zuccoli Clerici).

[23] La citazione è nel libro III: «e l’anima malata è sempre in errore: non è in grado di sopportare né di resistere, e non smette mai di desiderare» (traduzione di L. Zuccoli Clerici).

[24] Si veda, oltre al De tranquillitate animi, il De ira, 3, 6, 3. E Cicerone. De finibus, 5, 23.

[25] Letteralmente, ‘virtù’.

[26] Nel De tranquillitate animi, 2.

[27] Burton ricorda due pittori dell’antica Grecia, Parrasio e Timante. Il primo torturò un uomo per raffigurare appieno il tormento di Prometeo incatenato; il secondo invece velò il volto di Agamennone nel momento in cui Ifigenia era sacrificata, per lasciare che chi guardasse il dipinto immaginasse il dolore del padre.

[28] 3, 2, 3, 7. Gli autori qui citati spaziano dal biblico Salomone ai Padri della Chiesa, dal medico francese Balescon de Tarante attivo alla fine del XIV secolo e l’inizio del XV) al medico svizzero Felix Platter (1536-1614), al contemporaneo Joseph Hall, vescovo di Norwich, morto nel 1656.

[29] Nell’opera in prosa A Vewe of Ireland.

[30] Tema cui Burton dedica la quasi totalità della terza partizione.

[31] 1, 3, 1, 3. Accanto ai già ricordati Du Laurens e Balescon de Tarante, Burton ricorre qui all’autorità del medico francese Bernard de Gordon (vissuto tra il XIII e il XIV secolo), il professore di medicina Gentile de’ Gentili (XIV secolo) e il medico portoghese Eliao Montalto (morto nel 1616), un autore cui Burton ricorre spessissimo.

[32] 1, 3, 1, 3. Alessandro di Tralle fu un medico d’origine bizantina attivo a Roma nel VI secolo. Antonio Guaierio fu un medico italiano, morto nel 1440, autore dell’opera Practica, alle quale Burton attinge grandemente. Johann Schenk (padre e figlio) scrissero di medicina nel XVI secolo. Cristobal de Vega fu un medico spagnolo del  del XVI secolo. Marcello Donati (1538-1602) scrisse una medica historia.

[33] L’architetto Trofonio (costruttore, col fratello, del tempio di Apollo a Delfi, fu trasformato da Apollo in un oracolo; per consultarlo, era necessario scendere in una caverna che offriva visioni a tal punto spaventose che chi ne usciva non poteva più sorridere.

[34] 3, 2, 3, 1. Vi sono, in questo passo, echi, dalle Metamorfosi di Ovidio (si qua latent meliora puta, ossia “pensa che è meglio ciò che non si vede”, I, v. 502) e da Omero (Iros è un mendicante di Itaca (Odissea, XIX). Tersite, uno dei greci che assediarono Troia, è rimasto famoso per la sua bruttezza e malagrazia. Grobianus è il tipo dello zotico, creato da autori tedeschi del Cinquecento.