Recensione a Monica Longobardi, Viaggio in Occitania, Virtuosa-mente, 2019
Nel panorama della romanistica italiana è raro trovare studiosi che, estendendo i limiti cronologici della propria ricerca, si interessino alla letteratura contemporanea di quelle che un giovane Pier Paolo Pasolini definisce, in un intervento sullo Stroligut, le « piccole patrie romanze»[1]. Monica Longobardi (ML), docente all’Università di Ferrara, da alcuni anni si dedica con passione (anche civile) allo studio di questa romania minor sommersa, in molti casi marginalizzata dagli studi canonici, eppure viva e ricca di legami con le grandi tradizioni letterarie europee. È proprio in quest’ottica che ML ha in passato dedicato ricerche all’autore de La Rosa (parziale riscrittura del Roman de la Rose), Franco Scataglini, «poeta romanzo» come lo definisce in un un suo recente saggio[2], e a poeti occitani contemporanei quali Antonio Bodrero (Barbo Toni Boudrìe) e Claudio Salvagno. Questi singolari interessi scientifici non si limitano soltanto alla ricerca, ma trovano spazio anche nelle pratiche didattiche, come oggetto di studio nell’ambito dei corsi di filologia romanza presso l’ateneo ferrarese.
L’interesse dell’autrice per la letteratura d’oc non è semplicemente un divertissement da filologa, quanto piuttosto il frutto di una scelta etica: l’esigenza di trasmettere agli studenti e all’insieme della comunità scientifica la letteratura di una «patria inconfessabile», letteratura che si pratica in una lingua «libra esquelenta, naissua vivua sègles, d’es-per-si, soleta, de sa fòrça, son àrima, son cor, una lenga sens escòla e sensa estat»[3], per riprendere le parole (in occitano del Piemonte) di Barbo Toni Boudrìe, poeta della Val Varaita. Scelta etica che nasce dalla volontà precisa di ridare dignità, almeno nel contesto accademico, alla letteratura d’oc e alla lingua occitana. Nel corso del Novecento, infatti, lo sviluppo di una nuova letteratura in questa lingua non è semplicemente una scelta «minoritaria», ma piuttosto il frutto di un’elaborazione politica e culturale ben radicata, che trae le proprie origini dalla lirica medievale e dall’esperienza politico-letteraria del Félibrige mistraliano. Operazione poetica che, per natura, si oppone con vigore alla lingua e alla cultura mainstream e al loro dominio sulle lingue minoritarie, che vengono schiacciate da una potenza coloniale, in questo caso gli apparati ideologici messi in campo dallo Stato francese (e, seppur in minima parte, da quello italiano).
Il cuore della letteratura d’oc, nel corso del Novecento, è la vita sommersa di un popolo isolato e dominato, che per secoli ha cercato di resistere alla colonizzazione, riuscendo a far sopravvivere la propria lingua e la propria letteratura, senza che essa potesse trovare spazio nella cultura ufficiale. Le forme di Resistenza alla colonizzazione sono, soprattutto nel corso del Novecento, molteplici e possono manifestarsi anche in maniera violenta, attraverso battaglie dal forte valore politico, come quella di Volem viure al pais, che si è sviluppata nel corso degli anni Settanta contro l’abbandono dei villaggi, rimasti deserti a causa delle conseguenze deteriori della globalizzazione e della nuova organizzazione capitalistica. Più recentemente, sono le battaglie ambientaliste e per la difesa del paesaggio, come quella contro la costruzione della diga di Sivens, nel Tarn, ad avere un ruolo preminente e a trovare una voce in oc, quella - ad esempio - di Rodin Kaufmann, che dedica a Rémi Fraisse una sua struggente canzone rap.
Viaggio in Occitania, recentemente pubblicato presso Virtuosa-mente, può inserirsi in questo discorso, divenendo il frutto di un’operazione a suo modo politica. ML sceglie di approfondire, nel proprio percorso in una Provenza del cuore o dello spirito, tre autori novecenteschi, diversi fra loro, ma uniti dall’appartenenza comune alla patria occitanica, dalla stessa geografia (il sud della Francia) e dall’uso della stessa lingua. Lo studio—rigoroso— di alcune opere dei tre autori (Joseph d’Arbaud, Mas-Felipe Delavouët e Joan Ganhaire) si accompagna, da un lato, a un approccio critico innovativo, che consente di intrecciare temi e stilemi di autori «minoritari» o minorizzati ai grandi autori del Novecento europeo, a partire da Pessoa, Poe o anche Heine, che l’autrice convoca nel suo sondaggio critico; dall’altro, a un ponderoso lavoro di traduzione di brani in occitano, che vengono antologizzati e resi disponibili, con un ricco apparato analitico e bibliografico, in lingua italiana.
Nell’introduzione, preceduta da un breve contributo della grande studiosa Fausta Garavini, che ripercorre il proprio rapporto con lo studio e la ricerca intorno alla letteratura d’oc[4] (pp. 5-6), ML tratteggia alcuni degli aspetti fondamentali della letteratura occitanica novecentesca. La «conoscenza della Provenza», titolo di uno dei capitoli introduttivi, è prima di tutto conoscenza del paesaggio: un paesaggio che riaffiora nella triade scelta dall’autrice: «ognuno dei tre […] coglie, attraverso i tratti naturalistici, l’anima mitica dei luoghi e la lunga storia del mondo, che non coincide con la storia costruita dagli uomini» (p. 10).
Un paesaggio frequentato a più riprese è, ad esempio, quello deltizio: il delta del Rodano[5], la Camargue, che assumono anche significati mitici e religiosi e si associano alla tradizione mistraliana, al Pouèmo dóu Rose dell’autore provenzale (1897). Del resto, per riprendere l’espressione zanzottiana, «dietro il paesaggio» prende forma una vita carsica, sommersa e si può creare un nuovo, potente immaginario strettamente legato alla mitologia.
I testi selezionati da Longobardi mettono in luce la vita boschiva di luoghi in cui riaffiorano le tracce di una mitologia antica, di culti pre-cristiani, come ad esempio quello dei reire, che si ritrovano pure nella lirica d’oc sul versante italiano o anche nella leggenda degli Alyscamps, che si ritrova nella Storia del Re Morto che discendeva il fiume di Delavouët, pubblicata nel 1961. Résurgences mitologiche, mediate anche dall’immaginario medievale, celtico o arturiano, sembrano così prendere forma in uno spazio letterario e geografico nuovo. È ad esempio il caso delle «fate morgane» (pp. 72 e ss.), miraggi che sono frequenti in Camargue: «soprattutto nella regione del Vaccarès. Cominciano con una vibrazione dell’aria, un tremolio continuo raso-terra che sembra far danzare delle immagini e si stende da lontano in grandi falde dove si riflettono dei ciuffi d’erba scuri. Come non vedere in questa misteriosa Vièio, danzante al sole nel deserto, un ricordo popolare della dea inafferrabile e sfuggente, forza antica, genio della solitudine, divinizzato un tempo, e che alberga l’anima di questo grande paese selvaggio?».
Se J. d’Arbaud, primo autore della triade, è considerato da ML come il «fondatore della prosa d’arte occitana», il suo La bèstio dóu Vacarés, pubblicato nel 1926, ricostruisce (attraverso l’espediente del «manoscritto ritrovato», di cui d’Arbaud si dichiara trascrittore) uno scenario finzionale d’epoca medievale, epoca di poco posteriore alle eresie catare e persecuzioni religiose, dove si staglia la figura mitologica della Grande Bestia e il suo incontro con il protagonista del manoscritto ritrovato, Jaume Roubaud. Da un iniziale orrore, una forma di amicizia, un legame umano sembra svilupparsi fra il protagonista della narrazione e la bestia: una amistanço incoumprensiblo, che spinge Roubaud a provare pietà per la Grande Bestia al solo immaginare l’intervento delle autorità religiose, intenzionate ad estirpare questa pericolosa manifestazione pagana.
La Istòri dóu rèi mort qu’anavo à la desciso, pubblicata nel 1961 da Delavouët, si inserisce in una più ampia opera poetica in lingua occitana, il suo Pouèmo. Anche in questo testo risuonano presenze mitologiche antiche e fonti letterarie medievali: «non v’è dubbio» afferma ML «che anche l’opera di D. sia popolata da un amalgama di fonti storiche, epiche, bibliche, mitologiche e leggendarie». La macchina mitologica che si crea nel testo di Delavouët trova le proprie origini in testi agiografici medievali, nell’epica classica, nella tradizione biblica, ma anche in leggende provenzali, in alcuni casi mediate dallo stesso Mistral. ML, prima di consegnarci una traduzione italiana della Storia del re morto, ripercorre con grande perizia le possibili ascendenze testuali e culturali del testo in questione, giungendo però a una conclusione essenziale: è soprattutto il Rodano, il grande fiume, il Dio-Rodano, ad essere al centro della meditazione poetica dell’autore.
Il terzo autore selezionato da ML è, invece, Joan Ganhaire, di cui vengono presentate due opere: Lo darrier daus Lobaterras e Lo sendareu daus genebres. Il primo libro, pubblicato alla fine degli anni Ottanta, è un romanzo di neo-medievale al cui centro si staglia la foresta di Feytaud, luogo di pace e silenzio attraversato da feroci conflitti. Il primo: quello fra uomini e lupi (p. 202); il secondo: quello fra Natura e Cultura, fra il santuario di pace che è la foresta di Feytaud e gli uomini, desboijaires e buschairon, che desiderano disboscarla, nella seconda metà del XII secolo. Il secondo racconto, invece, definito come una «favola gotica», presenta un intreccio diverso, ma in un paesaggio simile a quello del suo primo romanzo. Di quest’opera, ML propone una traduzione integrale e un ricco apparato critico.
Viaggio in Occitania ha il merito di gettare luce nuova su una tradizione letteraria sommersa, lasciata ai margini dell’accademia, sia in Italia che in Francia. Ma il merito di questo prezioso lavoro di ricerca e di analisi testuale non è soltanto etico o politico. I testi e gli autori selezionati da ML, sempre proposti in una lettura ricca, approfondita e aperta all’intertestualità, consentono di costruire un discorso nuovo sulla letteratura d’oc nel corso del Novecento. Un discorso che mette in evidenza la presenza centrale del paesaggio nell’immaginario letterario contemporaneo: un paesaggio da salvare e da difendere, per una lingua da salvare e da difendere. In questa ZAD— per riprendere il lessico militante contemporaneo— emerge una cultura antica e resistente, da cui gli autori contemporanei traggono ispirazione per costruire nuove architetture poetiche e narrative.
Questo «pais que vol viure », come cantava negli anni Settanta Claude Martì, e che senz’altro continuerà a sopravvivere— forse come patria sommersa— si manifesta in tutta la sua forza nel libro-viaggio di ML, che ne restituisce una parte consistente e affascinante al lettore italiano.
Pubblicato il 18 luglio 2019
Note
[1] « Il Friuli si unisce, con la sua sterile storia, e il suo innocente, trepido desiderio di poesia, alla Provenza, alla Catalogna, ai Grigioni, alla Rumenia, e a tutte le Piccole Patrie di lingua romanza ».
[2] M. Longobardi, Il Giardino e la Rosa. Tre saggi per Franco Scataglini, Milano, Mimesis, Unifestum, 2018.
[3] Una lingua « libera, limpida, nativa, vissuta secoli da sola, con la sua forza, la sua anima, il suo cuore, una lingua senza scuola e senza Stato »
[4] Di cui FG è stata un’importante passeuse nel contesto accademico e culturale italiano.
[5] « Il Padre-Rodano occupa un immaginario mitologico immenso ».