Giuliana Pala - Walking on a nap in an «electronical ecstasy»

Invito a una rilettura di «Sleepwalking» di Laura Pugno

 

Nel 2002, per Sironi editore, usciva Sleepwalking, il libro di esordio di Laura Pugno, primo di una serie di opere che hanno dato contributi rilevanti alla letteratura italiana contemporanea. Leggere o rileggere Sleepwalking di Laura Pugno è come dedicarsi alla pesca subacquea: si ha la sensazione di avere a che fare col sommerso, tanto che la nota frase di Donald Winnicot «I now began to fish around for dreams»[1] offre un punto di partenza adeguato per queste veloci note a margine.

Sleepwalking è una raccolta di tredici racconti, quasi visioni che sembrano essere state trascritte nelle prime ore del giorno, sotto una luce chiara, come era solito fare André Breton, al fine di conservare la lucidità delle associazioni notturne. Tant’è che a leggerlo, questo esordio, sembra quasi lasciare una vaga sensazione di intorpidimento. Qualcuno ha detto che non c’è luce nel sogno, ma che sono gli oggetti ad essere luminosi di per sé, e quello della Pugno appare come un ottimo esempio di auto-luminosità. D’altra parte se è vero, come insegna Langdon Hammer, docente all’Università di Yale, che osservare le copertine delle opere letterarie è un ottimo esercizio di avvistamento, permettendoci di scorgere il contenuto del testo, allora quella luminosità emerge già dalla copertina di Sleepwalking, che ospita un’opera di Guido Guidi nella quale è proprio la luce a mostrarsi sulla parete riflessa e ad entrare sottile da una finestra.

Si potrebbe persino dire che, a livello di struttura, la raccolta della Pugno abbia una sua cifra sonnambolica: apparentemente i racconti possiedono ciascuno una propria identità che li rende estranei l’uno all’altro: tuttavia, a ben guardare, ognuno si conclude offrendo una sorta di corner visuale (e paesaggistico) al racconto successivo, creando una sequenza di “dissolving views” in grado di tradurre quella dimensione dell’apparenza che è marca distintiva della scrittura dell’autrice. Non a caso Marco Giovenale in un articolo-recensione apparso su “Zoooom.it” nel 2003, assimila i tredici racconti della Pugno a delle «visioni high-tech»[2], richiamando una virtualità che, in fondo, è costitutiva del sogno. Si potrebbe pensare a Sleepwalking come un testo in grado di tradurre quanto Bertram D. Lewin sostiene in merito al «dream screen» («schermo bianco») del sogno, attraverso il quale riusciamo a “schermarci” dal trauma. Giovenale parla appunto di realtà traslata «su uno schermo che, per l’elevato numero di pixel, rispetta il non detto, le latenze e ombre e smagliature di senso delle vicende»[3], quello che potremo chiamare, prendendo in prestito Freud, «ombelico del sogno», il punto di fuga che ne consente la comprensione profonda. A questa prospettiva rispondono anche i paesaggi che incontriamo nelle narrazioni, siano essi naturali (oasi, boschi, mari) o urbani (case, ospedali): paesaggi che, non possedendo nulla di precisamente identificabile, si apparentano all’irrealtà del simbolo, accessibile nelle sue prospettive più diverse, ma comunque algido e distante, quasi deserto al cui centro si accampa la figura umana.

 

Walking on a nap in an «electronical ecstasy»

Potremmo definire ciascuna di queste visioni della Pugno “walk on a nap” se è vero che “nap” sta a significare (e in qualche modo traduce, nella brevità del termine) una sorta di “little dream”. Il sonno breve, il sonno volontario, ridotto e controllato è un sonno diverso da quello notturno. È un atto vigilato, un desiderio di abbandono di breve durata. In questo senso, si potrebbe dire che Sleepwalking si trovi esattamente a metà tra sonnambulismo e “nap”: ci si abbandona e ci si sorveglia, senza che la distinzione tra le due posture sia del tutto possibile. Ma è lo stile della Pugno a rendere possibile lo spazio della sorveglianza: una scrittura telegrafica, rappresa e traslucida, condotta con la modalità con cui Mattias, il personaggio principale del racconto Ghiaccio indaga la realtà: riprendere con la videocamera la pelle e gli oggetti così da vicino da farli dissolvere. Sarà interessante notare come gli apparecchi tecnologici, nel libro, si rivelino straordinariamente efficaci per la creazione di un contesto onirico, consentendo (per prendere a prestito il titolo di un noto album dei Black Sabbath) una sorta di Electronical Ecstasy. La scrittura telegrafica non è una pratica del tutto nuova (si pensi all’uso che ne venne fatto dai surrealisti): è stata utilizzata per lungo tempo come verbalizzazione del flusso di pensiero, sorta di stesura improvvisata e dunque, forse, più rispondente al vero; in questo contesto, tuttavia, ci sembra possieda più funzioni. Se da un lato annota la visione nel timore che scompaia, dall’altro ne sorveglia i confini; se da un lato crea libertà espressiva, dall’altro opera una riduzione dello sguardo al singolo segmento visivo. In tal modo si crea un reticolato nel quale le azioni hanno un’estensione minima e risultano ridotte in unità quasi indivisibili proprio per la necessità di essere ricordate.

Anche la temporalità dei racconti contribuisce ai fini espressivi della scrittura. Domina il presente, capace di rispondere al meglio alle esigenze di registrazione dello sguardo: come se il lettore si trovasse a osservare un’azione o un oggetto di là da un vetro: il diaframma rende inesplicabilmente lontano ciò che, nello spazio, è invece vicino, limitrofo.

 

Call me by your name

Un’ultima riflessione va poi dedicata ai personaggi, che sembrano davvero dimostrare che il sogno, sempre secondo le teorie freudiane, è l’appagamento mascherato di un desiderio.

Per rappresentare l’Io nelle sue parti, mai armoniche e spesso in lotta, la Pugno ricorre spesso al condizionale, in grado di segnalare una dialettica contrastiva tra la possibilità e l’inveramento: il modo, e moto, del desiderio, della tensione verso qualcosa o qualcuno.

Tale condizione “tensiva” è tipica di tutti i personaggi, che arrivano in questo ad assomigliarsi, persino a sovrapporsi, senza che ci sia possibilità di identificarli fisicamente, “sentiendi” ma non “dicendi”, circoscritti spesso solo da un nome proprio. Anzi, forse è solo il nome che permette una verticalità in questo libro orizzontale e acquatico, secondo quell’abitudine a nominare tipica già di Anna Maria Ortese che, offrendo alle più piccole parti di mondo un nome proprio, una maiuscola, faceva levitare il reale, creava entità e categorie. Entrambe le scrittrici inventano nomi esotici, stralunati, realizzando figure a-psicologiche più simili a «proiezioni di alcune particolari e intense percezioni, di sogni stravaganti eppure lucidissimi»[4] che a personaggi veri e propri.

Ed è forse per questa loro mancata caratterizzazione sul piano psicologico che, come nota Marco Giovenale, i personaggi della Pugno non riescono ad instaurare dei «rapporti immediati tra loro e con le cose. Ognuno possiede, verso vicende e oggetti e memoria, un legame ostacolato e riscritto da riti, ossessioni, alter-ego oscuri, sogni-deformazioni, oblio. Le cose avanzano verso la percezione come se l’io venisse continuamente fasciato dal sonnambulismo. Respinto in un pre-conscio»[5]. Il tutto a creare la rappresentazione di un “io” «minato dalle virgolette fino al midollo»[6], e inserito in una trama altrettanto instabile, raramente compiuta, dove più di una volta non esiste finale narrativo ma solo sospensione, rinvio o, forse, tregua.

Anche l’analisi, così, deve fermarsi alle soglie della compiutezza, rispettando la volontà dell’autrice di suggerire più che di spiegare: quello della Pugno è un libro che, appena finito, si rivela solo per fugaci illuminazioni, proprio come i sogni che, al risveglio, si fanno ricordare per il solo tempo di una loro possibile annotazione, finendo poi subito sommersi, obbligandoci ogni volta a ripescarli dal fondo, e a domandarci costantemente, guardando il nostro riflesso in uno specchio: «old man, are they biting today?»[7].

 

27 gennaio 2023

 


[1] D. Winnicott, Therapeutic Consultations in Child Psychiatry, London, Hogarth Press, 1971 (trad. it. Colloqui terapeutici con i bambini, Roma, Armando, 1974).

[2] http://www.sironieditore.it/sezioni/articolo.php?ID_articolo=164&ID_libro=88-518-0006-5&ID_collana=X.

[3] https://slowforward.net/2010/06/04/testi-critici-_-su-sleepwalking-di-laura-pugno/.

[4] http://www.sironieditore.it/sezioni/articolo.php?ID_articolo=50

[5] https://slowforward.net/2010/06/04/testi-critici-_-su-sleepwalking-di-laura-pugno/

[6] https://slowforward.net/2010/06/04/testi-critici-_-su-sleepwalking-di-laura-pugno/

[7] Si tratta di un verso di The Old man and me del cantautore statunitense J.J. Cale (cfr.: https://www.youtube.com/watch?v=KGhZ4V1HR6o)