Cristiana De Santis
Le grammatiche, reali e fantastiche, di Gianni Rodari
Non esiste opposizione tra fantasia e realtà
come non esiste un’opposizione tra cavallo e mare.
(G. Rodari, 1974)
Del capolavoro di Rodari, Grammatica della fantasia. Introduzione all’arte di inventare storie, molto si è scritto, anche nell’anno appena trascorso, che ha visto i festeggiamenti per il centenario dalla nascita dello scrittore e l’uscita, per Mondadori, del Meridiano delle Opere curato da Daniela Marcheschi.
Proprio sulla riedizione del testo all’interno di questo poderoso volume vorrei soffermarmi, perché presenta alcune piccole ma significative novità sia rispetto alla prima edizione (apparsa nel 1973 nella collana “Piccola biblioteca Einaudi”), sia rispetto all’edizione speciale (arricchita di contributi inediti) uscita nel 2013 per Einaudi ragazzi, in occasione del quarantennale dalla pubblicazione.
Si tratta, nella maggior parte di casi, di rettifiche bibliografiche, derivanti da un controllo rigoroso del testo: corrette trascrizioni di nomi di autori russi (come Uspenskij in luogo di Uspenski), rettifiche sulle città di edizione (Rimini e non Milano nel caso di Guaraldi), controllo delle citazioni e così via. Segno che l’opera era stata pubblicata con una certa impazienza da parte dell’autore. Del resto, già nel 1960 Rodari scriveva a Giovanni Arpino: «tu non puoi immaginare quanto io mi disinteressi delle mie cose, una volta uscite da casa mia: praticamente le dimentico, non ho mai letto intero un mio libro stampato neanche per vedere gli errori tipografici» (8 agosto 1960, cit. in Roghi 2020: 131 s.). Meno giustificata appare la trascuratezza da parte dell’editore, normalmente attento alla correttezza del testo. Un testo che nasceva da un’occasione particolare, ricordata nella dedica “alla città di Reggio Emilia”: lì, infatti, Rodari aveva tenuto nel marzo 1972 una serie di Incontri con la Fantastica rivolti a insegnanti (principalmente delle scuole materne, che a Reggio avevano trovato una fioritura nuova grazie all’iniziativa di Loris Malaguzzi), su un tema al quale il giornalista-scrittore lavorava da anni. Nell’Antefatto all’opera Rodari racconta infatti di come, maestro appena diciottenne, si fosse imbattuto nel frammento 1905 di Novalis, che auspicava la nascita di una Fantastica accanto alla Logica, e nell’opera dei surrealisti francesi (Bréton in particolare), da cui avrebbe preso l’idea di raccontare ai suoi alunni «storie senza il minimo riferimento alla realtà e al buonsenso» (surreali, appunto): con un capo e una coda ma dissonanti e imprevedibili. Già nel febbraio 1962, su “Paese sera”, erano uscite due puntate di un Manuale per inventare favole. Si tratta – nelle parole di Carmine De Luca – della «prima esibizione pubblica di una già organica sistemazione tipologica del “ricettario” fantastico» (in Rodari 1982: 83), presentata sulle colonne di un quotidiano perché esplicitamente rivolta «a maestri, nonni e genitori di scarsa fantasia» (ivi: 85). Dieci anni dopo, quella prima sistemazione prenderà forma di un’opera compiuta, non senza una serie di verifiche fatte con i bambini incontrati nelle scuole (questa volta come fortunato autore di filastrocche e favole per ragazzi), oltre che con le insegnanti che avevano frequentato il corso di Reggio Emilia. A conferma del carattere di dual audience e insieme double audience delle opere di Rodari su cui insiste Marcheschi (2020): pensate per i bambini insieme con gli adulti, e per gli adulti insieme con i bambini.
Insomma, Grammatica della fantasia (d’ora in poi GF) può essere letta anche come una storia dell’immaginazione rodariana e come una rassegna delle tecniche utilizzate per comporre le (sue) storie, ma è soprattutto una rivendicazione del posto che all’immaginazione spetta o spetterebbe in una scuola che punti a emancipare le intelligenze e sappia affermare il «valore di liberazione» della parola come chiave dell’educazione infantile, linguistica ma non solo – come Rodari afferma nell’Antefatto all’opera (Rodari 1973: 6).
Un’altra scuola è possibile
L’obiettivo di Rodari – come racconta lui stesso in un testo di poco successivo a GF[1] – è offrire agli insegnanti «strumenti per contribuire a creare nella scuola un ruolo nuovo al bambino, un ruolo di bambino creatore, produttore, ricercatore, invece del tradizionale ruolo passivo che il bambino ha sempre avuto nella scuola» (Rodari 1992[1974]: 37).
Un assunto, questo, che immediatamente collega Rodari al fermento culturale che agitava la scuola in quegli anni: nel 1967 era uscito Lettera a una Professoressa, «il più bel libro che sia mai stato scritto sulla scuola italiana, il più appassionante, il più vero» – come scriveva Rodari sulle colonne di “Paese sera” (cit. in Roghi 2020: 176) – con la sua denuncia della natura classista del sistema di istruzione in Italia[2].
Nel 1970 – proprio su indicazione di Rodari, assiduo frequentatore dei convegni del Movimento di Cooperazione Educativa (MCE) – era uscito per Einaudi il volume che raccoglieva il diario di un quinquennio di esperienza didattica del maestro Mario Lodi: Il paese sbagliato. Diario di un’esperienza didattica. Un libro (citato da Rodari 1973: 150) che, fin dalle prime pagine, metteva in luce la natura autoritaria della scuola tradizionale «fatta per formare uomini-servi invece che uomini liberi» (Lodi 1970: 19).
Nel 1973 nasceva, intorno al linguista Tullio De Mauro, il Gruppo di Intervento e Studio per l’Educazione Linguistica Democratica (GISCEL), uno dei gruppi di autoaggiornamento organizzati dagli insegnanti in quegli anni, che rivendicava – contro una tradizione scolastica all’insegna del monolinguismo e della centralità di una grammatica autoritaria e inerte – l’importanza di una più completa “educazione linguistica”, secondo una formula ripresa da Giuseppe Lombardo Radice (De Mauro 2018[1998]: 8s.) e riletta in chiave democratica. Le Dieci Tesi per l’educazione linguistica democratica, pubblicate nel 1975, faranno proprio il «buon motto, dal bel suono democratico» (tutti gli usi della lingua a tutti) proposto da Rodari (1973: 6)[3]. Nello stesso anno, firmando la Prefazione al libro di Laura Migliorini che raccoglieva i compiti dei bambini di una borgata romana, De Mauro ribadiva che il migliore antidoto al silenzio dei bambini linguisticamente svantaggiati, e alla dispersione scolastica indotta dalla condanna senz’appello dell’errore, era «la pedagogia della creatività linguistica e del plurilinguismo» (De Mauro 1975: XI).
Anche Umberto Eco aveva partecipato a questo fermento, incoraggiando la pubblicazione del volume di Marisa Bonazzi (1972): un’antologia polemica che giustapponeva spezzoni tematici estratti dai libri di lettura del decennio precedente (già esposti in una mostra organizzata a Reggio Emilia dalla stessa insegnante e artista figurativa, moglie di Renzo Bonazzi, sindaco della città in quegli anni di rinnovamento pedagogico), e ne metteva a nudo il valore modellizzante e insieme il carattere inautentico e repressivo[4].
Un’altra lingua è possibile
Alla lingua bamboleggiante e inautentica proposta per decenni a bambini e ragazzi, Rodari aveva contrapposto il nuovo registro espressivo delle sue favole e filastrocche (del 1964 è Il libro degli errori), dando un contributo importante sia «alla creazione di un italiano “giocoso”, colloquiale, linguisticamente “medio”» (Sardo 2020: 108), sia «al processo di corrosione della falsa solennità degli stereotipi e di ricerca di quella che il Manzoni diceva “una lingua viva e vera”» (De Mauro 1993: 109).
Del resto, proprio De Mauro, in una recensione apparsa il 25 gennaio 1974 su “Paese Sera” (il giornale nel quale lavorava fianco a fianco con Rodari), nel salutare GF come «un classico», ne sottolineava il carattere «non accigliato e grave», eppure «serio, profondo, nuovo, pur nella sua larga accessibilità», non accademico ma vivamente consigliato agli accademici[5]. Tornando in seguito sul tema De Mauro ribadirà del resto «la grande, eccezionale importanza di Rodari nella storia linguistica del nostro paese e nell’avvio di una educazione realistica e critica, rigorosa e veramente sollecitante nelle nostre scuole» (De Mauro 1990: XII). L’importanza linguistica (oltre che pedagogica) di Rodari, primo grande autore per ragazzi non toscano, era stata colta in tutta la sua ampiezza da De Mauro, i cui scritti sono giustamente richiamati dagli studi più recenti sulla lingua e le idee linguistiche di Rodari (oltre a Sardo 2020, cfr. De Roberto 2020, Loiero 2020, Ricci 2021, Sposetti 2021)[6].
La novità linguistica di GF, in particolare, risulta un elemento tanto più innovativo perché giocato in un testo non di favole, ma sulle favole, uscito all’inizio degli anni Settanta. Vale la pena ripercorrere la saggistica coeva (anche all’interno della stessa collana Einaudi) per capire quanto questa fosse lontana da quegli ideali di leggibilità e comprensibilità che De Mauro si sforzerà di promuovere a partire dagli anni Ottanta con la creazione della collana “Libri di base” per Editori Riuniti (De Mauro 2016: 27). Già Antonio Faeti aveva colto questa novità: «La Grammatica è tutta fondata su una lingua briosa e sapiente, resa ancora più ritmica e musicale dagli “stacchi” imposti dai brevi capitoli, e dal succedersi vibrante delle argomentazioni, tutte estremamente concentrate, ma tutte utili per un’immediata appropriazione» (1990: 29).
Sicuramente in GF agiva la matrice orale e conversazionale, dato che il testo rielabora le trascrizioni dattiloscritte degli incontri reggiani: di qui la scelta di un registro affabile, non scientifico né accademico, che mima la “confessione” (sant’Agostino è del resto a più riprese evocato da Rodari) più che la forma del trattato (o quella del più domestico ricettario). E che rimpasta a suo modo gli ingredienti di una cultura eclettica e profonda per sollecitare l’attenzione e l’impegno degli insegnanti cui elettivamente si rivolge.
Riprendere in mano i testi citati nelle Schede bibliografiche poste in appendice a GF (Rodari 1973: 177-195), in quest’ottica, ci permette di fare alcune interessanti scoperte. Al di là, infatti, degli opportuni riscontri bibliografici che hanno consentito alla curatrice del Meridiano rodariano di correggere alcune sviste nel testo, interrogare le fonti ci permette di saperne di più sulla cultura linguistica di Rodari, fortemente influenzata dallo strutturalismo e dalla semiotica, ma anche e ancora tacitamente debitrice della cultura idealista italiana.
La lezione della linguistica strutturale
Se molto è stato detto intorno alle fonti pedagogiche di Rodari, l’apporto delle letture di linguistica – disciplina centrale nel dibattito culturale di quegli anni – è rimasto negli anni più in ombra, al di là dell’ovvia constatazione del debito verso i linguisti e narratologi russi: eppure, il legame di Rodari con Tullio De Mauro (il professor De Mauris delle Novelle fatte a macchina), traduttore e commentatore del Corso di linguistica generale di Ferdinand de Saussure (Laterza, 1967), basterebbe a testimoniare dell’importanza della disciplina nella formazione del Rodari più maturo. L’idea della «linguistica come ponte tra la “logica” e la “fantastica”», non a caso, è stata opportunamente proposta da Rosaria Sardo (2020).
A scorrere le Schede di GF, si trova conferma di questa centralità della linguistica: Rodari, pur dichiarando di non voler fare nomi, ne fa, riconoscendo i debiti maggiori per la preparazione del libro. Oltre ai formalisti russi (Jakobson, Šklosvkij, Propp), compare Umberto Eco di Le forme del contenuto (1971): un volume che, fin dalla copertina, dichiara di voler aprire la discussione «al riconoscimento della contraddizione come condizione di ogni pratica significante», e indaga le possibilità creative del linguaggio soffermandosi sulla figura retorica per eccellenza del conflitto concettuale: la metafora[7]. Rodari fa reagire questa concezione nuova della metafora (interattiva e non meramente sostituiva: cfr. Prandi/De Santis 2019: 467 ss.) con il concetto di “straniamento” dell’oggetto di Šklovskij (Rodari 1973: 19) per mettere in moto i suoi “giocattoli poetici”, che fanno interagire significati di parole sottratte alle relazioni associative consuete e collocate in un terreno semantico estraneo. Un meccanismo che richiama l’immagine delle oves in rure alieno, proposta da Geoffrey de Vinsauf, autore di una poetica medievale, per definire quelle parole che, come pecore che saltano la staccionata dell’ovile, oltrepassano il loro significato abituale per entrare nel territorio della metafora.
Il potenziale cognitivo della metafora e la sua capacità proiettiva era ben noto anche a Bruno Munari, l’illustratore di tanti libri rodariani che nel 1977 pubblicherà per Laterza il volume Fantasia, con i suoi giochi grafici che costituiscono la controparte figurativa di GF. Non dobbiamo poi dimenticare la suggestione esercitata in quegli anni dalle carte di Propp, corrispondenti alle varie funzioni narrative delle fiabe tradizionali di magia, tradotte in quadri di grande formato da Antonio Faeti (riprodotti in Rodari 1973: 79-80), lo studioso di letteratura per l’infanzia che nel 1972 aveva pubblicato per Einaudi Guardare le figure.
Insomma: se, visto da vicino, il binomio fantastico richiama subito alla mente «il fortuito incontro di un ombrello e di una macchina da cucire su un tavolo anatomico» di Lautréamont (citato in GF: 9 insieme con altri surrealisti come André Bréton) [8] o gli iconici «binomi di concetti» di un artista come Paul Klee (citato in Rodari 1973: 16), visto da più lontano
non è altro che il principio cardine dello strutturalismo (le relazioni precedono i termini e ne fondano il significato) che, al di là delle mode intellettuali, dominava le scienze umane del periodo dotandole di un metodo rigoroso e, soprattutto, di innumerevoli risultati conoscitivi. Un principio strategico che Rodari considera alla base di qualsiasi innesco narrativo. (Marrone 2000: online)
Più delle lontane ascendenze artistiche evocate da Rodari, contano dunque le contaminazioni con le riflessioni dei semiologi e di quanti in quegli anni sviluppavano le intuizioni di Saussure, Lévi-Strauss, Propp e Šklovskij: lo stesso Italo Calvino, per citare un altro nome vicino a Rodari, di cui era uscito nel 1969 Il castello dei destini incrociati, ispirato alle stesse strategie linguistiche e narratologiche di tipo combinatorio, che suggerivano intrecci nuovi creati a partire da un mazzo di carte da tarocchi. Un libro che Rodari non cita in GF, preferendo ricordare Il visconte dimezzato (Rodari 1973: 32, imparentato col suo Barone Lamberto) e l’operazione di «filologia fantastica» attuata da Calvino con la raccolta delle Fiabe italiane (Rodari 1973: 51). In quegli stessi anni, del resto, come ricorda il semiologo Gianfranco Marrone (2000: online), si lavorava sull’analisi formale di Pinocchio: un libro caro a Rodari, che nel 1977 sarà fatto oggetto della riscrittura fantastica di Luigi Malerba (Pinocchio con gli stivali) e del libro parallelo di Giorgio Manganelli. C’è dunque un’aria di famiglia che si coglie tra le righe, e che avvicina Rodari ad altri nomi di quella società letteraria dalla quale si teneva a schiva e rispettosa distanza. Significativi da questo punto di vista i richiami con altri protagonisti della Neoavanguardia: i poeti Nanni Balestrini e Antonio Porta, che avevano riportato in auge la scrittura automatica dei surrealisti grazie ai loro esperimenti verbo-visivi, consistenti nel ritagliare e incollare in modo studiatamente casuale titoli di giornale (una pratica suggerita da Rodari 1973: 37)[9].
Tornando allo specifico linguistico dell’ispirazione rodariana, nelle Schede sono esplicitamente citate fonti che insistono sulla natura duplice del segno linguistico:
- la dicotomia langue/parole cara a Ferdinand de Saussure (Rodari 1973: 31), che mette a fuoco e valorizza la diversificazione degli usi linguistici entro la comunità di parlanti, e quella tra significante/significato o espressione/contenuto (cui rimanda per esempio il gioco dell’acrostico, come quello di sasso, Rodari 1973: 11);
- il doppio asse su cui si gioca la scelta delle parole nella formulazione di Roman Jakobson (p. 14)[10], che Rodari si diverte a sfruttare sia a livello paradigmatico (per esempio negli Esercizi di fantasia, in particolare Chi sono io?, la risposta verte sulla selezione all’interno di un insieme di parole: figlio, nipote, alunno…) sia a livello sintagmatico, per esempio quando smonta proverbi e costruzioni fisse (nel Libro degli errori e nel Libro dei perché, ma anche si veda anche lo sbagliando si inventa in Rodari 1973: 36);
- il concetto di “doppia articolazione” (in morfemi e in fonemi) del significante nella formulazione di André Martinet, che agli occhi di Rodari aveva avuto il merito di valorizzare «l’originalità del pensiero che si manifesta nella disposizione inattesa delle unità» (Martinet 1966: 22)[11]: al concetto di valore distintivo del fonema rimandano i giochi verbali di sostituzione (pero/però, giro/ghiro, cugine/cucine, tram/tran – per citare esempi tratti dal Libro degli errori); alla combinatorietà dei morfemi (prefissi, suffissi, radici), i giochi che consentono di formare per esempio lo stemperino, un oggetto fantastico che funziona al contrario del temperino (Rodari 1973: 30), oppure di creare accrescitivi fantasiosi come cannone da cane, mattone da matto e così via (nel Libro degli errori e nelle Filastrocche lunghe e corte)[12].
Insomma, alla base della fantastica c’è il «ritmo binario» della lingua che informa di sé i territori dell’immaginazione (Rodari 1973: 39). Rodari, però, non si limita a imparare la lezione dello strutturalismo,
ma ribalta il punto di vista. Per lui non si tratta di analizzare materiali narrativi dati, di ritrovare forme comuni dietro sostanze idiosincratiche, ma semmai, in termini molto induttivi […], di ricostruire le tecniche adoperate al momento dell’invenzione narrativa. Si pone non nella prospettiva del ricevente ma in quella dell’emittente. (Marrone 2000: online)
Rodari, cioè, smonta il meccanismo e ce lo fa vedere dall’interno affinché possiamo riproporne le regole costruttive ai bambini, che con i diversi pezzi dovranno fare costruzioni nuove e imprevedibili, per ridisegnare la realtà imparando a confrontarsi con il dato surreale.
Quando logica e fantastica vanno a braccetto
Presentando in GF l’ipotesi fantastica dell’omino di vetro, Rodari allude a una «logica fantastica» alternativa alla «logica-logica» (1973: 90 s.); più avanti, parla di una «matematica delle storie» (ivi: 135 s.), formata per analogia su grammatica delle storie (l’oggetto principale di GF). Questo accostamento richiama alla mente la Logica fantastica[13] del reverendo Charles Dodgson che, nelle sue vesti di matematico oxfordiano, aveva proposto quesiti surreali, che fanno scoprire le possibilità dell’immaginazione (e il relativo potere di emancipazione) anche all’interno di una struttura rigida come quella del sillogismo.
Non diversamente, nelle vesti artistiche di Lewis Carroll, lo scrittore inglese aveva proposto in Alice attraverso lo specchio (un nome che non a caso ritroviamo in tante eroine rodariane) meccanismi di creatività linguistica basati sulla combinatoria di due elementi, come le “parole-valigia” (valigie a due scomparti, come quelle dei viaggiatori di fine secolo) di cui è intessuto il celebre Jabberwocky. Un «duello di parole» – per usare la formula rodariana – che in Carroll si risolve nella fusione anziché nella combinazione inventiva di due elementi lessicali lontani. Alla tradizione inglese del nonsense rimanda del resto anche la forma del limerick, che Rodari cerca di adattare alla lingua italiana (Rodari 1973: 43 s.).
Logica e fantastica, dunque, non sono necessariamente in opposizione. Tantomeno possono essere considerati in rapporto ossimorico due termini come grammatica e fantasia, secondo una idée reçue scolastica dura a morire anche fra tanti interpreti dell’opera rodariana, e che ha contribuito non poco al diffondersi di un’altra pericolosa vulgata, secondo la quale Rodari (con don Milani e De Mauro) avrebbe contribuito a quella degrammaticalizzazione dell’insegnamento scolastico in nome della libera facoltà creatrice, dalla quale, altrettanto indebitamente, viene fatta discendere la presunta crisi del sistema scolastico italiano (sulla polemica cfr. Ricci 2021).
Le grammatiche di Rodari
Abbiamo già visto che la grammatica di cui Rodari si occupa è in realtà la “grammatica delle storie” di stampo strutturalista (cfr. supra). Ma, anche a guardare da vicino la grammatica nella sua concezione più tradizionale e scolastica, di insieme di regole che governano l’uso di una lingua, il conflitto con la fantastica è solo apparente. Anzi, si potrebbe dire, con De Mauro (1990: XIX), che «soprattutto la fantasia è grammatica, tiefe Grammatik, grammatica profonda, come diceva un autore caro a Rodari, Ludwig Wittgenstein».
Per capire che idea Rodari avesse della grammatica intesa come disciplina tradizionale, vale la pena guardare da vicino i libri di grammatica italiana citati nelle Schede di GF (Rodari 1973: 188 s.): non tanto come modelli di norma[14], ma come testi scelti tra quelli evidentemente più avanzati sul terreno delle ipotesi che andava indagando, in particolare quella relativa all’uso infantile dell’imperfetto da lui chiamato “fabulativo” – oggi diremmo “ludico”.
Apriamo per esempio il libro di Alfredo Panzini e Augusto Vicinelli: La parola e la vita, avviamento all’arte dello scrivere e all’analisi estetica. Stupisce trovare citato un libro scolastico dei primi anni Trenta, opera di un Accademico d’Italia che era stato bersaglio polemico di Antonio Gramsci[15], e dedicato più che alla grammatica alla stilistica e retorica. Come era d’uso in questi manuali, conformi ai programmi scolastici di età fascista, vengono presentati modelli di bello scrivere suddivisi in generi letterari: la lirica, la drammatica, la didascalica e… la fantastica! O meglio, la narrazione fantastica, di cui è repertoriata una “varietà di espressioni” in poesia e in prosa, che si allontanano dai “concetti logici” astratti e generici per dar vita a “rappresentazioni individue, concrete” (p. 100). Insomma, dietro la Fantastica c’è la suggestione del frammento di Novalis, ma anche la formazione idealistica del giovane italiano, memore del posto che alla fantasia spetta nel terreno dell’intuizione poetica[16].
Uno strumento più aggiornato appare il Dizionario grammaticale di Vincenzo Ceppellini (1956), compilato sulla scorta delle migliori grammatiche disponibili agli inizi degli anni Cinquanta: Fornaciari, Battaglia e Pernicone, Migliorini ecc. Un libro assai sorprendente è invece la Grammatica rivoluzionaria e ragionata della lingua italiana di Pietro Silvio Rivetta detto il Toddi (1946), opera di un ingegno poliglotta e bizzarro, capace di giocare con la lingua e di illustrare le regole grammaticali con una fantasia grafica (il libro contiene 110 disegni dell’autore) e figurale in genere, che lo porta a ricorrere a metafore efficaci per descrivere il funzionamento della lingua. Tra queste, quella del nuoto, un autentico topos nei testi pedagogici dell’epoca, che ci riporta al dibattito idealista sulla grammatica, intesa come spontanea formazione di regole o come apprendimento frutto di addestramento scolastico.
Taluno ha negato la grammatica normativa, asserendo che la grammatica si impari «leggendo, leggendo, leggendo, e intanto parlando, parlando, parlando: come per capire appunto le regole del nuoto, bisogna buttarsi in acqua, e restarvi un pezzo, e muovervisi, e nuotare; e si sa che si impara a patto che un po’ d’acqua da principio si beva» (G. Gentile, La nuova grammatica italiana, in “Leonardo” sett. 1934, pag. 382). Se così fosse, i migliori nuotatori sarebbero coloro che tanto energicamente si sono immersi, inesperti, nell’acqua e tanto hanno bevuto, da affogare. Esistono invece saggissime regole del nuoto […]. Così esistono norme e leggi grammaticali. (p. 19 n.)
Anche Rodari parla di una «lingua come il mare» (Rodari 1992[1974]: 40), dentro la quale siamo immersi naturalmente, ma non come il nuotatore, bensì come il pesce nell’acqua – riprendendo la metafora da Vygotskij (1972: 29). Una lettura più democratica del topos, in anni in cui il nuoto era un’attività per pochi, e al tempo stesso più consapevole della forza cogente delle regole: a differenza del nuotatore, che dall’acqua può uscire, il pesce è costretto a procedere. Compito dell’educazione sarà allora aiutare il bambino a nuotare «fin dove le sue forze lo porteranno» (Rodari 1992[1974]: 40) e invitarlo a esplorare le profondità: perché «le storie si cercano… nuotando sott’acqua» (Rodari 1973: 12). A nulla, di certo, varrà il secchiello di agostiniana memoria per svuotare il mare della conoscenza (linguistica ma non solo) una nozione alla volta (Rodari 1992[1974]: 42).
Per una grammatica vissuta
La centralità di una lingua che “si vive” ci riporta alla lezione di Giuseppe Lombardo Radice, le cui Lezioni di didattica e ricordi di esperienza magistrale (1913) rimangono il punto di riferimento per una generazione di maestri innovatori che cercheranno di modificare le pratiche dello scrivere, fino ad allora incentrate sull’imitazione o sull’esercizio retorico del tema su traccia, per promuovere attività più legate al fare concreto e alla libera intuizione ed espressività infantile. Sarà utile allora tornare ad aprire il libro scritto dal figlio Lucio (Lombardo Radice 1962), citato da Rodari nelle Schede di GF a proposito degli indovinelli (Rodari 1973: 183). Nelle pagine di quel libro, che riprendevano articoli apparsi su quello stesso “Giornale dei genitori” per cui scriveva anche Rodari, Lucio Lombardo Radice ricordava un «gioco di fantasia» inventato dal padre, consistente nell’inventare un duplicato della famiglia (Lombríce Rodardo) e un paese di fantasia nel quale immaginare di vivere secondo regole democratiche: come Gelsomino, Cipollino e altri protagonisti delle storie di Rodari. Significativa anche la rivendicazione che il figlio fa della corretta interpretazione della lezione del padre, le cui teorie sulla spontaneità infantile (espresse in particolare nel volume Athena fanciulla. Scienza e poesia della scuola serena del 1925) venivano assunte dai contemporanei a giustificazione delle “fanciullaggini” che avevano dominato nell’educazione per decenni:
nulla di più lontano dal pensiero di Giuseppe Lombardo Radice del “pargoleggiare”, del rispondere al desiderio di conoscere dei piccoli con favolette insipide e mendaci. Giuseppe Lombardo Radice intendeva, e amava, l’arte infantile non come evasione […] ma, al contrario, come la forma di conoscenza caratteristica dell’infanzia. (Lombardo Radice 1974[1962]: 27 s.)
Non è il «fanciullo tutto intuizione, fantasia, sentimento» dei programmi Ermini (1955) quello cui si rivolge Rodari, ma un bambino capace di unire mente e corpo per conoscere la realtà, simile a quello della scuola serena della Montesca (che a inizio secolo aveva ispirato anche Maria Montessori) e anticipatore del nuovo bambino che disegneranno i programmi del 1985 (che la ministra Falcucci si ostinerà a voler chiamare ancora “fanciullo”: cfr. Altieri Biagi 1986). Un bambino inteso come persona intera, degna di occupare l’intero foglio e non soltanto un angolino (A un bambino pittore, in Il libro degli errori). Per questo bambino Rodari immagina Una Scuola grande come il mondo (ivi), capace di accogliere «le cento lingue dei bambini» – per citare Loris Malaguzzi –, di mettere insieme «il gioco e il lavoro / la realtà e la fantasia / la scienza e l’immaginazione» (cfr. Edwards / Gandini / Forman 2010).
Una pluralità di grammatiche
Quello che Rodari ha in mente, in definitiva, non è un modello di grammatica che promuova l’adesione conformista a una norma, ma neppure una grammatica intesa come baluardo della tradizione da cancellare in nome della fantasia al potere: è piuttosto una pluralità di grammatiche (grammatica delle storie e grammatica della lingua, grammatica vissuta e grammatica riflessa) e un’educazione che punti a una mobilità consapevole all’interno di una realtà fatta di molteplici linguaggi espressivi e diversi sistemi di regole, aperta agli usi creativi e alla valorizzazione euristica dell’errore. Perché la norma grammaticale – come scriveva Luisa Muraro (1973) – è una norma sociale che si dà insieme con la possibilità della propria trasgressione.
Nessuna intenzione, in Rodari, di negare le regole, ma la volontà di trovare una chiave nuova, più democratica, per impadronirsene, utilizzabile da tutti e da ciascuno, per giunta giocando e divertendosi, sperimentando le diverse possibilità espressive e manipolando le strutture linguistiche. Il modo migliore, da questo punto di vista, non è affidarsi ad «astratti esercizi di lingua», ma a «concrete attività linguistiche» (Rodari 1992[1974]: 40), intendendo per “linguistica” l’insieme dei linguaggi (verbali e non verbali), e collegando la riflessione linguistica ad attività logico-matematiche, che impegnino il bambino con tutta la sua personalità e le sue funzioni: osservare, classificare, misurare, fare ipotesi (ivi: 41)[17].
Da questo punto di vista, il nostro Gianni ci appare – per felice coincidenza onomastica – l’erede di una tradizione, ricca di Giannetti e Giannettini (De Santis 2018), che dagli anni post-unitari in poi aveva cercato di avvicinare alla grammatica i giovani italiani. Un compagno cresciuto del Gianni di don Milani, anche. La crasi felice di uno dei Giovanni-Giovannino, i lievi personaggi di tante sue favole.
Bibliografia
Altieri Biagi, Maria Luisa (1986), Il bambino è rinfanciullito, in Insegnare lingua italiana con i nuovi programmi nella scuola elementare, a cura di Ead., Milano, Fabbri editori, pp. 62-74.
Altieri Biagi, Maria Luisa / Speranza, Francesco (1981), Oggetto parola numero. Itinerario didattico per gli insegnanti del primo ciclo, Bologna, Nicola Milano.
Bonazzi, Marisa (1972), I pampini bugiardi. Indagine sui libri al di sopra di ogni sospetto: i testi delle scuole elementari, Introduzione di U. Eco, Rimini, Guaraldi.
De Mauro, Tullio (1982), Prefazione a G. Rodari, Il cane di Magonza, a cura di C. De Luca, Roma, Editori Riuniti.
De Mauro, Tullio (1983), Prefazione a G. Rodari, Esercizi di fantasia, a cura di F. Nibbi, Roma, Editori Riuniti.
De Mauro, Tullio (1985), Il linguaggio a Montecucco, in Cancelati dalla dotrina. I compiti scolastici dei bambini di una borgata romana, a cura di L. Migliorini, Milano, Bompiani, pp. V-XXI.
De Mauro, Tullio (1990), Prefazione a G. Rodari, Il gatto viaggiatore e altre storie, a cura di C. De Luca, L’Unità/Editori Riuniti, Roma, pp. XI-XIX.
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27 aprile 2021
[1] L’articolo, apparso su “Riforma della scuola” (5/1982) col titolo Scuola di fantasia, riproduce la conferenza tenuta a Reggio Emilia il 17 aprile 1974 dal titolo Perché ho dedicato il mio nuovo libro alla città di Reggio Emilia. Il testo è stato ripubblicato nel volume omonimo di Rodari, uscito postumo nel 1992.
[2] L’intreccio di voci seguito al dibattito sulla Lettera a una professoressa della Scuola di Barbiana, che testimonia l’«interesse trasversale agguerrito sui temi dell’educazione che è una delle caratteristiche della sinistra italiana nel suo complesso almeno fino al 1977» è ricostruito in Roghi (2020: 199). Sul tema cfr. anche Roghi 2017.
[3] Il testo delle Dieci Tesi è leggibile sul sito www.giscel.org. Sul dialogo implicito tra Rodari e quel testo cfr. De Santis 2020 e Sposetti 2021.
[4] L’anno seguente, con lo pseudonimo di Dedalus, Eco avrebbe dato alle stampe per Bompiani un’arguta parodia di quegli stessi libri di testo: Ammazza l’uccellino. Letture scolastiche per i bambini della maggioranza silenziosa (cfr. De Santis 2017b).
[5] La recensione di De Mauro è riprodotta nell’edizione del quarantennale di GF (2013).
[6] Sul tema “Educazione linguistica e fantasia. Gianni Rodari e la lingua italiana” si è tenuto a Omegna un convegno di studi il 3 ottobre 2020, organizzato da Simone Fornara e Silvana Loiero.
[7] Rodari indica proprio nei capitoli Le forme del contenuto e Semantica della metafora le parti del libro che più lo hanno influenzato. Nella scrittura di Eco, d’altra parte, Rodari riconosce quella «festosità intellettuale» (legata alla capacità di «abbassare i confini tra arte e scienza, tra matematica e gioco, tra immaginazione e pensiero logico») che doveva augurarsi anche per sé, se è vero che anche i suoi saggi possono essere trasformati «in un affascinante giocattolo poetico per i bambini» (GF: 180).
[8] Il legame con la letteratura surrealista francese è stato ampiamente indagato: per una sintesi cfr. Rossitto (2011: 64 ss).
[9] Ma si pensi anche a un componimento di Porta come Modello per bambini di linguaggio (in Metropoli, Feltrinelli, 1971) che avvicina la scrittura automatica di stampo surrealista alle olofrasi e al linguaggio telegrafico infantile.
[10] Alla lettura dei Saggi di linguistica generale di Jakobson (usciti a cura di L. Heilmann per Feltrinelli nel 1963) andrà fatta risalire anche la considerazione del peso del significante ai fini della funzione poetica del linguaggio.
[11] Delle idee di Martinet (per esempio la sua visione della frase “minima” composta da soggetto, predicato ed espansioni) si approprieranno presto le scuole per rinnovare la tradizione grammaticale attingendo ai modelli linguistici.
[12] Il filone dei giochi linguistici sarà poi sviluppato da un’insegnante di Omegna, come Rodari, Ersilia Zamponi, “scoperta” e valorizzata da Umberto Eco, che nel 1986 firmerà l’Introduzione al volume einaudiano I draghi locopei (Einaudi), una raccolta di giochi di parole sperimentati in classe con ragazzi della scuola media. Sugli sviluppi della ludolinguistica rodariana cfr. De Roberto (2020).
[13] Con questo titolo è apparsa nel 1994 una selezione di sillogismi di Lewis Carroll per le edizioni Stampa alternativa (http://www.stradebianchelibri.com/carroll-lewis---logica-fantastica.html). Rodari non cita Carroll, ma sembra metterci sulla pista quando, nelle Schede di GF, cita un numero della rivista “Scienze” in cui erano apparsi nel 1971 i giochi proposti da un matematico di Cambridge, Norton Conway, inventati per esplorare o ampliare i territori della logica, ma che assumevano «spesso la caratteristica di “fictions” che stanno a un passo dall’invenzione narrativa» (Rodari 1973: 189). Su quella stessa rivista, il 1 ottobre 1972, veniva pubblicato un articolo di W.W. Bartley III che dava la notizia del ritrovamento della seconda parte, inedita, del libro di Dodgson Logica simbolica (che in Italia sarà stampato nel 1977) e citava una serie di paradossi (anche sotto forma di storielle) perfettamente in linea con l’immaginazione rodariana (http://download.kataweb.it/mediaweb/pdf/espresso/scienze/1972_050_3.pdf).
[14] Sul dizionario consultato da Rodari, di Ferdinando Palazzi (1939 e successive edizioni), cfr. De Santis 2012.
[15] Lo scrittore Alfredo Panzini fu autore della Guida alla grammatica italiana (1932): uno dei libri posseduti e annotati in carcere (in chiave polemica) da Antonio Gramsci, che aveva rivalutato lo studio della grammatica e della glottologia dopo la severa condanna crociana (Tommaso Chiaretti, Perchè Gramsci leggeva Panzini, “Repubblica”, 26 maggio 1977).
[16] Gensini (1981: 68) richiama il nome di Galvano Della Volpe quale esponente della corrente marxista dell’estetica italiana del secondo dopoguerra, che riteneva necessario espungere il concetto di “fantasia” da ogni teoria letteraria.
[17] Si veda la riflessione del matematico Lombardo Radice (1962), la lezione di “matematica nella realtà” di Emma Castelnuovo negli stessi anni e, per gli sviluppi successivi, Altieri Biagi e Speranza 1981.