L'altro nelle novelle di Matteo Bandello
Le Novelle di Matteo Bandello si muovono entro un paradigma poetico mobile e ripercorrono le incerte e mutevoli definizioni di alcuni termini-chiave della nostra tradizione narrativa. [1] Se Giovanni Boccaccio nel Proemio al Decameron aveva dichiarato che l'immaginazione narrativa poteva spaziare con una certa libertà tra i diversi generi (e precisamente tra "novella", "favola", "parabola" e"istoria"), circa due secoli dopo Bandello colloca dichiaratamente e consapevolmente il proprio modo di narrare al bivio, tra la verosimiglianza della storia e l'imprevedibilità del reale. [2]
La cifra narrativa di Bandello risiede, infatti, in una sorta di inquietudine che alberga nel cuore stesso delle sue novelle. Accanto ad una dimensione letteraria vòlta a descrivere la realtà del Cinquecento tra corti, guerre, conversazioni e avvenimenti personali, Bandello riserva nel suo novelliere una sorta di cono d'ombra, dove collezionare miracoli, magie e peripezie fuori dall'ordinario. E' come se la scrittura di Bandello si muovesse nell'attesa del nuovo, cercando tra realtà e finzione la difficile alchimia del suo testo.
Il meccanismo della verosimiglianza - più volte richiamato dal narratore come scelta poetica - non è sempre sorvegliato. In altre parole lo scrittore lombardo non sempre racconta storie vere o verosimili, ma si avventura nel magico, nel fiabesco, nella peripezia straordinaria, fino addirittura a tradire quella coerenza poetica, dichiarata dall'alto delle sue lettere di dedica.
Il cosiddetto realismo di Bandello, ha scritto Mazzacurati, si inoltra "verso le fasce estreme ed anomale dell'esperienza, dove non vige più la funzione normativa dei moventi e dei "caratteri". E le fasce estreme ed anomale dell'esperienza, altrimenti definite irrazionali, secondo Mazzacurati conducono le Novelle alle frontiere di tale realismo, fino a farle sconfinare in un mondo altro.
In particolare Mazzacurati avanza l'ipotesi di un "contagio" tra il "modulo fiabesco" e la tradizione narrativa realistica, proprio all'altezza del nostro scrittore e nel momento in cui si avverte una certa estenuazione di temi, di caratteri e di intrecci, provenienti dalla tradizione toscana. E, viceversa, il rilancio di tematiche avventurose, tragico-patologiche e fiabesche di origine folclorica e popolare, che si riversano nelle fiabe dello Straparola (ma anche in Bandello), sono in grado di attenuare in parte la "sclerosi formale e fantastica" in cui la novella italiana lentamente si arena. [3]
E, a ben guardare, il "mirabile" bandelliano, sebbene venga abilmente riformulato con la retorica del reale e della cronaca di eventi contemporanei, è capace di rinnovare le maglie del genere e, in un certo senso, anche di sfidare le frontiere della verosimiglianza.
Bandello calca con consapevolezza i confini della narrazione, nella ricerca - tutta sperimentale - di aderire ai precetti umanistici, di applicare le norme aristoteliche, e, al contempo, di contaminare tutto questo con improvvise deviazioni di genere, con rapidi passaggi dal registro realistico a quello meraviglioso, a volte anche con l'inserimento degli elementi più autoctoni della mitologia popolare.
A volte Bandello sfugge ai propri "doveri" di storico o di compilator di vere "istorie" per farsi narratore o trascrittore di "istoriette mirabili" e "strane", che si muovono in una rarefazione degli elementi più concreti e dove il senso storico si stempera a favore di una vicenda senza tempo e senza dimensione realistica.
Nel cercare nuove strade per la novella lo scrittore, nonostante predichi la necessità della vera "istoria" che può fungere da "esempio" per chi legge, non desiste da tentare una materia tanto incerta, fluttuante e misteriosa come quella fiabesca.
Alcune novelle o "istorie mirabili" possono essere proposte come esempio di questi sconfinamenti narrativi: la favola di due giovani innamorati (III, 50), il mondo alla rovescia di un originale abate (II,30) e il mondo orroroso e irreale di corpi violati e torturati(1,42; II,24). Da queste brevi "epifanie" di un mondo altro, si può comprendere fino a che punto Bandello esperimenti nuove formule narrative, dissimulandole sotto la patina della "istoria" vera, esemplare e realistica.
Se si legge con attenzione la cinquantesima novella della terza parte, si noterà che il racconto si regge su un'atmosfera evanescente e rarefatta, dovuta all'uso di definizioni generiche riguardo ai personaggi e ai luoghi in cui avvengono i fatti narrati.
E' il caso di un esempio di virtù "appo gente barbare", tratto dal De oboedientia del Pontano, mandato da Bandello a Girolamo Archinto. L'unico luogo geografico citato con precisione è quello di origine dell' "istorietta", come la definisce lo stesso Bandello nella dedica: Lenticosa, in provincia di Salerno.
I protagonisti, poi, sono brevemente tratteggiati in base al loro basso ruolo sociale: sono Petriello, definito come un "giovine di basso sangue e povero" e la moglie, una "villanella". I due vivono "in gran pace", ma anche in grande povertà: lavorano infatti da un "massaro" in un "campo vicino al mare" fino a quando la giovane donna viene improvvisamente rapita dai corsari. In particolare il rapimento avviene per un tragico e inaspettato rovescio del destino: la donna si addormenta, vinta dal caldo e dalla stanchezza per il suo duro lavoro di bracciante, sulla riva del mare, dove all'improvviso compaiono "certi corsari da Tunisi" che la portano sulla loro galera. Ma, altrettanto inaspettatamente il marito, poco lontano, si accorge dell'assenza della moglie, avvista la nave dei corsari e decide di raggiungerla a nuoto: egli "senza indugio spogliatosi, in mare si gittò e cominciò notando andare a la volta dei corsari, ove in poco d'ora da Amore aiutato pervenne". La forza dell'amore, aggiungiamo, aiuta il giovane marito anche a convincere, mediante una sapiente orazione condotta tra i flutti, i temibili corsari. Naturalmente l'alto discorso retorico è davvero poco aderente alle vere condizioni del povero bracciante, che parla piuttosto con le parole del più avveduto dei cortigiani e con moduli petrarchisti del linguaggio amoroso. Si veda un esempio banale, che vale come trascrizione di un celeberrimo verso di Petrarca. Così Petriello: "Onde , se alcuno di voi ha moglie, o se mai ha provato che cosa sia amore (...). Il che ricorda il sonetto premiale del Canzoniere, peraltro parafrasato più volte nelle Novelle. Ma a parte questo affrettato avvìo narrativo e alcune incongruenze, è, piuttosto, la dinamicità dell'intreccio, privo di problematiche psicologiche o introspettive, a rendere l'atmosfera della "istorietta" sempre più rarefatta e fiabesca.
I due giovani (denominati "due cristiani") vengono portati al cospetto di un indefinito "re di Tunisi" o "re moro", che si meraviglia talmente della "virtù coniugale" del giovane uomo da decidere di lasciare i due malcapitati in libertà. Ma non solo: il giovane entra a servizio del re per qualche anno, fino a quando diventa ricco. A questo punto segue la lieta conclusione della fiaba, che vale come "esempio": "Onde, essendosi nudo e mal contento da Lenticosa partito, per la cortesia del re moro ricco e allegro vi ritornò; di modo che a le volte tra gente barbara si trovano uomini che la vertù ammirano e amano, come tra noi assai spesso chi la vituperano e biasimano". Il giovane, partito come un povero bracciante, torna dal mondo orientale "ricco e allegro", dopo aver fortunosamente recuperato - peraltro a nuoto - la moglie, prigioniera in una nava corsara. E al di là della pura fabula, che da sola si inscrive nella peripezia e nell'avventura, è la maniera in cui essa è raccontata a schiudere nuovi e inaspettati orizzonti narrativi nella trama delle Novelle. I personaggi, inoltre, contrariamente a quanto avviene altrove, sono privi di una profondità psicologica e si risolvono unicamente nelle azioni in cui vengono coinvolti. [4] Non vi è, pertanto, un'acquisizione di esperienza che li cambia o li trasforma, ma essi rimangono appiattiti nella mera definizione di superficie: come poveri innamorati sventurati, come "re moro", come "corsari": oltre a ciò al lettore non è dato intendere.
Accanto a questa elementare definizione di ruoli viene ad assumere forte rilievo anche la dimensione esemplare in cui tutto il racconto risulta inserito: l'istorietta, sulle orme del Pontano, serve a celebrare la virtù coniugale, da un lato, e la cortesia d'oltremare, dall'altro. Certo è che questo tipo di novella, che come vedremo non è caso per nulla raro, è la spia di una trasformazione.
La dimensione fiabesca, infatti, è dissimulata con cura da Bandello. E' dissimulata nelle dediche, dove definisce le proprie novelle come "istorie" vere e mirabili, ma sempre verosimili. Ed è quasi confusa e mescolata nel corpus di "cronache" realistiche, di "istorie" mondane, inserite nella società cortigiana cinquecentesca. Ma la dissimulazione, in questo caso non onesta, del nostro scrittore si palesa quando si approfondiscano quelle novelle dove vigono diversi tempi del racconto e una diversa connotazione dello spazio. Per dirla con Bachtin è l'esatta individuazione del "cronotopo" di queste "istoriette" a denunciare il bonario inganno di Bandello di fronte al rinnovamento del materiale narrativo. [5]
Difatti, la dilatazione dello spazio e del tempo, la sospensione di quell'ordito narrativo complesso e stratificato, la semplificazione dei caratteri e dei contenuti fa apparire, insieme alla più complessa poetica di Bandello, un forte disagio del nostro scrittore nel trovare un baricentro, un equilibrio alla propria vena narrativa. Perchè se solo si considerano le insistite richieste di credibilità, da parte di Bandello, ai lettori sulla veridicità delle proprie "istorie mirabili", non c'è che da ravvisare una contraddizione, insita nello spirito stesso di tutto il mondo narrativo bandelliano. Una contraddizione che mette in risalto le due tendenze opposte che dividono le Novelle: la ricerca di una scrittura realistica (in linea con la tradizione narrativa toscana e con il successivo sviluppo della novella umanistica quattrocentesca) e contemporaneamente, la ricerca di nuove frontiere narrative, ravvisabili nel fiabesco, nell'irrazionale, nell'orrido e nell'abnorme, fino a sconfinare in un provocatorio rovesciamento dei canoni.
Ci aiuterà ad entrare nel mondo alla rovescia del novelliere un acuta, brillante ed "eversiva" novella, che si legge nella seconda parte del novelliere.
Nella novella trentesima viene raccontata la storia dell'abbate di "Begné" (città o paese non identificabili, almeno per ora, in una geografia conosciuta) "uomo di grandissimo ingegno e musico eccellentissimo", il quale si mette nell'intrapresa di comporre per il re una musica con dei porci.
La folle e scherzosa richiesta da parte del re, viene prese sul serio dall'originale abate. In poco tempo viene organizzato il nuovo gruppo canoro: i musicisti sono sostituiti dai porcelli, che l'abile "musico" si industria alla meglio di far "cantare".
La descrizione è tutta costruita sulla tecnica del rovesciamento dei ruoli e della sovrapposizione grottesca e paradossale del verso del porco con la melodia musicale: "Pigliò l'abate termine un mese a fare questa musica e in quel tempo comperò trentadui porcelli di varia età, scegliendone otto per tenore, otto per il basso, otto per il sovrano e otto per l'alto. Di poi fece un instrumento con i suoi tasti a modo d'organo, con fili lunghi di rame in capo dei quali maestrevolmente erano alligati certi ferri di punta acutissima, i quali secondo che i tasti erano tocchi ferivano quei porcelli che egli voleva,onde ne risultava una meravigliosa armonia". [6] Lo strumento "fantastico" conferisce alla scena un evidente tono comico e grottesco, che ha il suo culmine durante il concerto dei maiali suonato dall'esperto compositore.
Il verso dei porci, così orchestrato, permette all'eccellente musico di cavarne un'armonia, persino secondo gli schemi musicali del tempo, come le ricercate e i mottetti. La "musica porcellina", infine, piace moltissimo allo stesso re, che arriva ad elogiare l'ingegno e la caparbietà dell'uomo.
Il rovesciamento dei canoni comuni in questo caso è senza dubbio evidente. E se dalla novella ci si sposta alla dedica, si può comprendere come l'intenzione di Bandello vada oltre il genere comico grottesco, a cui peraltro si ispira. La dedica si apre con una considerazione generale sulla varietà dei caratteri e delle personalità degli uomini. C'è chi si scoraggia di fronte ad ogni iniziativa, e chi, invece, tenta di realizzare anche le imprese impossibili: l'abate fa parte della seconda specie di uomini.
E' chiaro, dunque, che da un ragionamento strettamente umanistico - e tutto condotto con i filtri della più raffinata retorica umanistica - si passa alla sua esemplificazione: la "musica porcellina", appunto. Alla luce della dedica l'intenzione parodica della novella appare ancora più evidente.
La cultura umanistica viene rovesciata, capovolta e infine, ridicolizzata, specialmente nel suo aspetto gnomico e pedagogico. Non vi è nulla di più grottesco di un coro di porci per la musica del re! Specie se il re si complimenta con il compositore per questa musica "meravigliosamente dilettevole a sentire", chiedendo persino il bis. Solo in un "mondo alla rovescia", insomma, un coro di porci può essere considerato una musica "meravigliosamente dilettevole a sentire".
Il narratore francese Jacques Yver nella dedica «au favorable et bienveillant lecteur» della sua raccolta di novelle (Le Printemps d'Yver uscita postuma nel 1572) ricorda come le Histoires tragiques dell'italiano Bandello abbiano avuto in Francia così fortuna che «aujourd'hui c'est une honte, entre les filles bien nourries et entre ces mieux apprins courtisans, de les ignorer (...)». [7]
Il modo, insomma, con cui si è propagata in Francia, e poi in Europa, la fama di Bandello può essere uno spunto per studiare i meccanismi e gli ingranaggi dell'ultima, vera raccolta di novelle della nostra narrativa. Anche per Yver, sono essenzialmente le «storie tragiche» a conoscere una rapida e larga diffusione. [8] Grazie ai traduttori Boaistuau e Belleforest, [9] quindi, le «storie tragiche» diventano organismi narrativi del tutto indipendenti dal corpus delle Novelle, molto più complesso e dinamico.
Le storie tragiche di Bandello, che hanno influenzato e ispirato anche Shakespeare, nascono dalla riflessione dello scrittore sulla violenza, sulla brutalità dei rapporti tra uomini e donne.
Sono molti i personaggi bandelliani che "cadono" in pensieri "fierissimi", perseguiti con cupa determinazione. Violante è un caso emblematico di efferatezza femminile: donna tradita e abbandonata, concepisce un "fiero proponimento", una crudele vendetta contro l'amante (I, 42).
La violenza compare per la prima volta per mano di una donna, peraltro "compita di beltà, di leggiadrìa, di grazia, di belle maniere e in tutto avveduta e gentile". Una donna, aggraziata e bella, dunque, che per un amore tradito si trasforma in una spietata torturatrice. Colpisce, inoltre, anche il particolare che è una donna a narrare con dettagliata crudezza lo scempio di Violante.
La narratrice della brigata cortigiana è, infatti, Eleonora Buonvicina, la quale propone di riflettere, mediante questo "meraviglioso accidente", sulla possibilità che le donne hanno di difendersi dalle offese degli uomini. E forse non è un caso che anche nel Decameron è una donna - Filomena - ad introdurre temi "fantastico-macabri" con l'orribile descrizione del cadavere di Ambrogiuolo (II,9). Sempre di Filomena sono le novelle di Lisabetta da Messina (IV, 5) e di Nastagio degli Onesti (V, 8), i cui riflessi visionari e, ancora, macabri risultano come straniati dalla realtà. [10]
Violante precipita in un inferno di violenza perché vuole vendicarsi del suo amante, il quale, dopo averla sposata in gran segreto, le preferisce pubblicamente una donna di una classe sociale superiore. Ma al di là delle motivazioni, che presiedono al "fiero proponimento" di Violante, è la descrizione, accurata e iperrealistica, della sua vendetta a svelare la spietata crudeltà che può albergare anche nell'animo di una fanciulla, all'origine bella e gentile.
Il racconto si apre improvvisamente su un baratro di terrore e di orrore, mentre il tono narrativo permane pacato e realistico, perfino eccessivamente aderente alla realtà.
La giovane donna, aiutata dalla sua serva, lega la vittima ad una trave, che regge il soffitto della camera. Didaco, questo è il nome dell'uomo, è al centro della stanza, legato e imbavagliato, mentre gli danzano intorno le due donne, quasi fossero spaventose apparizioni infernali. La vendetta viene consumata come un rito: la donna incrudelisce lentamente, assegnando le colpe dell'uomo a corrispondenti parti del corpo, secondo una facile simbologia. Violante, così bella e gentile, ora assomiglia ad un "beccaio"che si appresta a macellare un bue: prende con le tenaglie la lingua dell'amante che, con "falsi parlari" l'aveva ingannata, e con un paio di forbici ne taglia "più di quattro dita". Sempre con le tenaglie Violante blocca le dita dell'uomo, colpevoli di avere donato un falso anello nuziale, tagliandone "con le forbici tutte le sommità". Poi, con uno "stiletto" acceca gli occhi, che avevano comunicato sentimenti falsi, accanendosi su tutte le altre parti del corpo. Bandello infine insiste sulla descrizione dell'orribile immagine del cavaliere torturato, appeso ad una trave e incapace di muoversi. La donna, alla fine stanca, lo uccide pugnalandolo più volte al cuore.
Il furore di questa donna delusa è pari alle tenebre del suo animo, perché la violenza di cui è stata capace non la avvilisce, ma al contario la rallegra. Violante e la fante verranno giustiziate, ma la punizione della donna malvagia è parte marginale della "istoria".
Il piacere della tortura, la danza macabra intorno alla vittima, l'allegria delle carnefici sono le tenebre della violenza.
Bandello riproduce senza infingimenti le ambiguità dell'animo umano, portando sulla pagina con crudo realismo i gesti inspiegabili, gli odi irresolubili e gli istinti irrazionali di un'umanità che conosce il sangue, il dolore, la violenza e l'orrore.
E' un altro inferno, che può albergare in una donna, ancorché leggiadra e gentile.
Senz'altro in questa radicale e lucida rappresentazione della violenza e dell'orrore agiscono alcuni importanti testi letterari di riferimento. Se è vero che Bandello è tra i primi a squadernare il tragico dipanarsi delle vicende umane tra irrazionalità e violenza, ovviamente non è l'unico. [11] Solo per rimanere nell'area della novella quattro-cinquecentesca già Masuccio prima, poi il Lasca o lo Straparola avevano misurato in questo senso le potenzialità della propria scrittura narrativa. E ancora prima, come abbiamo accennato, anche Boccaccio aveva filtrato nelle maglie del Decameron una cupa e orrorosa imagerie, richiamandola spesso dall'Inferno dantesco, con evidenti e forti intertestualità, come nel caso della novella della vedova e dello scolare (VIII, 7). [12]
Tuttavia nelle Novelle bandelliane il tema della violenza apre all'orrore e al macabro con insolita e compiaciuta insistenza. E se la violenza è parte integrante di molti intrecci, il macabro e l'orrore sono una frontiera a parte delle Novelle.
Il senso del macabro nasce dalla descrizione iperrealistica del corpo umano lacerato, mutilato, deformato e decomposto. Una descrizione che si pone su un piano diverso rispetto all'ordito narrativo in cui essa è inserita.
A volte l'orroroso potrebbe apparire gratuito, superfluo, inutile allo scioglimento della trama. Certo è che, secondo la lezione dei classici e in particolare di Seneca o della tragedia greca, che Bandello aveva studiato a fondo, il sangue, le piaghe, il dolore dovevano essere parte integrante di ogni partitura tragica . Tuttavia sembra che Bandello non riesca sempre a contenere le immagini che evoca. Ad esempio, nella II, 24 la rappresentazione, drammatica e violenta del suicidio di una donna è segnata fin nel dettaglio.
Gli ultimi istanti di vita della suicida contengono, pur nella crudezza della descrizione degli spasmi provocati dal soffocamento, la proiezione ulteriore del racconto: la morte del neonato, lo spavento della damigella, il risveglio in piena notte di tutta la casa. Bandello ambienta la tragedia durante una notte senza luna, aggiungendo un'interessante riflessione: "Sapete che l'orrore ed il silenzio de la notte sempre seco apporta più di tema e di spavento che non fanno i romori del giorno".
Il silenzio e le tenebre della notte amplificano l'orrore della scena.
Ma il senso del macabro prende il sopravvento quando i parenti vegliano i corpi dei loro cari. In questo caso Bandello propone al lettore una delle immagini più efferate, orribili e raccappriccianti di tutte le Novelle.
Il corpo della donna, devastato dalla morte violenta e da un primo stadio di decomposizione, non avvìa, come la precedente, altri rilanci narrativi. L'immagine orrenda vale per sé, come prova di crudo realismo: "E se i corpi di natural morte privati de lo spirito loro si rendono a chi quelli mira non solamente spiacevoli ma fastidiosi e pieni di spaventoso orrore, che devono far quelli ove interviene separazione violenta, ferite, percosse e spargimento di sangue, de le quali ciascuna da per sé genera nausea e tutte insieme farebbero non che ambascia ma paura ai più sicuri e ferrigni occhi del mondo?"
E' un orrore spaventoso la visione di cadaveri colpiti da morte violenta, al punto da nauseare e da spaventare gli animi più sicuri e più forti. Tuttavia Bandello non si tira indietro e prosegue la descrizione del corpo della donna, insistendo lungamente sul contrasto tra la bellezza di quando era viva e la ripugnanza del suo cadavere. Lo scrittore fa emergere dalla pagina un "mostro" inquietante e spaventoso, che sembra addirittura avere uno sguardo obliquo e quasi digrignare i denti come un cane.
Gli occhi della donna sono " tumidi, torbidi e stravolti" e ancora "oscuri, orrendi e spaventevoli", con un'insistenza accumulativa che dilata il senso dell'orrore di tutta l'immagine. Lo sguardo di Bandello si ferma persino a scrutare l' "osso fracido e corrotto" della mandibola, le labbra "alquanto enfiate e in su rivolte", le mani con le unghie "lividissime".
Accanto ad un lessico macabro, che ricorda certi dannati danteschi, per contrasto Bandello sovrappone il linguaggio d'amore cortigiano, per cui gli occhi prima del tragico evento erano "dolce e vero albergo del piacere e sommo diletto", la bocca mostrava "la pompa ricca e meravigliosa de le perle orientali e dei più fini coralli e preziosi rubini", le mani erano "schiette di pura neve e d'avorio" e quella gola, ora martoriata dalla stretta del lenzuolo, era prima "di marmo e latte". Naturalmente tale contrasto accentua l'orrore del cadavere e sottolinea quanto la morte abbia potuto stravolgere le sembianze di questa bella donna. E non a caso Bandello insiste su come la "trasfigurazione" sia "oltra misura", al di là della norma, e perciò maggiormente orribile e spaventosa. Tuttavia questo "fiero mostro", per quanto ripugnante, muove "mirabilmente" a "compassione" e a "pietà".
Bandello, insomma, propone al lettore, oltre alle crudeltà degli uomini, un'inaudita e ripugnante violenza praticata dalle donne. E nel descrivere l'orrore conduce la propria scrittura realistica ad una prova estrema, per riuscire a ritrarre i particolari macabri di un corpo in disfacimento, in putrefazione, gonfiato o lacerato.
Un iperrealismo che aggiunge pathos alla dimensione tragica, ma che a volte pare indipendente e separato dall'intreccio. Perché la visione del cadavere della donna suicida ha quasi una vita propria, uno sguardo, un movimento. Non è più la donna di prima, ma è una sorta di monstrum che sovrasta l'intera novella. E' una terrificante icona della mostruosità della violenza umana, che accresce piuttosto l'esigenza di una riflessione su quanto viene raccontato.
Le "istorie" orribili e tragiche servono a Bandello per ispessire le proprie riflessioni pedagogiche sul pericolo delle passioni umane. I suicidi e gli omicidi sono un monito a non lasciarsi trascinare dal tumulto irrazionale dei sentimenti. L'orrore e il macabro sono una dimensione letteraria aggiuntiva, non necessaria all'intreccio ma necessaria a una sorta di "decalogo" di comportamento. In questo caso, come nella tortura delle due donne, il macabro e l'orrore svelano la vera natura di ogni atto violento. E svelano in maniera radicale , e persino spietata, che cosa sia un cadavere e che cosa siano le torture, il sangue, il dolore fisico, le piaghe.
Bandello, insomma, non esita a portare sulla pagina letteraria le tenebre della violenza di un mondo lacerato, diviso e dal quale, ancora oggi, l'umanità deve tragicamente affrancarsi.
Note:
[1] La prima (seconda, terza) parte de le novelle del Bandello. In Lucca, per il Busdrago, 1554; La quarta parte de le novelle del Bandello, nuovamente composte nè per l'adietro date in luce. In Lione, appresso Alessandro Marsilii, 1573. Le citazioni saranno tratte d'ora in avanti dalla recente edizione delle Novelle curata da D.Maestri, utile per il commento, per gli approfondimenti storici e biografici dei personaggi: M.Bandello, La prima parte de le novelle, a c. di D.Maestri, Alessandria, Edizioni dell'Orso, 1992; sempre a cura dello stesso: La seconda parte de le novelle, Alessandria, Edizione dell'Orso, 1993; La terza parte de le novelle, Alessandria, Edizioni dell'Orso, 1995; La quarta parte de le novelle, Alessandria, Edizioni dell'Orso, 1996. Per La prima, La seconda , La terza parte de le Novelle il curatore afferma di essersi attenuto all'edizione Lucca, Busdrago, 1554 e per La quarta parte de le Novelle all'edizione postuma (Lione, Marsilii, 1573). Importante resta ancora l'edizione curata da F.Flora: Tutte le opere di M.Bandello, Milano, Mondadori, 1934, 1935.
[2] Sull'ambiguità tra veritas e fictio nella narrativa bandelliana: G.Mazzacurati, All'ombra di Dioneo. Tipologie e percorsi della novella da Boccaccio a Bandello, a cura di M.Palumbo, Firenze, La Nuova Italia, 1996, p. 197. Fondamentale per comprendere l'importanza ermeneutica del concetto di verosimiglianza nella novella cinquecentesca: R.Bragantini, Il riso sotto il velame. La novella cinquecentesca tra l'avventura e la norma, Firenze, Olschki, 1987, p. 167 e p.187.
[3] G. Mazzacurati, All'ombra d Dioneo, cit., p.155-78. Cfr., Id., Rapporto su alcunimateriali in opera nelle "Piacevoli notti", in Conflitti di culture, cit.,
[4] Cfr: V.Ja. Propp, Morfologia della fiaba, a c. di G.L.Bravo, Torino, Einaudi, 1988, pp.85 ss; M.Guglielminetti, La cornice e il furto, cit., p.93 ss.
[5] M.Bachtin, Estetica e romanzo. Un contributo fondamentale alla "scienza della letteratura., Torino, Einaudi, 1979, pp.231 ss.
[6] M.Bandello, La seconda parte, a c. di D. Maestri, cit., p.252
[7] J.Yver, Le Printemps d'Yver, Paris, Ruelle, 1572 (Lyon, Rigaud, 1600). Si cita dall'edizione Les vieux conteurs francais, a c. di P.Lacroix, Genève, Slatkine, 1970, p.520.
[8] Sull'importanza di una «teoria moderna dei temi letterari» si è soffermato C.Bremond promuovendo una serie di studi e di convegni tenuti a Parigi (Pour une thématique I,II,III) i cui contributi sono ora raccolti su «Poetique», 64, 1985; «Communications», 47, 1988; «Strumenti Critici», 60, 1989. Un'applicazione di quelle teorie si trova nel recente lavoro di Bremond sulle Mille e una notte: Il divenire dei temi. Al di qua e al di là di un racconto, a c. di D.Giglioli, Firenze, La Nuova Italia, 1997.
[9] Histoires tragiques extraites des oeuvres italiennes de Bandel, et mises en nostre langue française, Paris, V.Sertemans, 1559 - Paris, G.Robinot, 1559, da cui è tratta l'edizione critica a cura di R. A.Carr, Paris, Champion , STFM, 1977. Si vedano inoltre: O.H.Moore, Le role de Boaistuau dans le développement de la légende de Roméo et Juliette,in «Revue de Littérature Comparée», 1929; R.Pruvost, Les deux premiers tomes de la versione francaise de Bandello, «Revue de Litt.Comparée», 1932; R.A.Carr, Pierre Boaistuau's Histoires tragiques, a study of narrative form and tragic vision, Chapel Hill, North Carolina University Press, 1979; L.Tortonese, Bandello, Boaistuau e la novella di Didao e Violante, in La nouvelle francaise à la Renaissance, a cura di L.Sozzi, Genève-Paris, Slatkine, 1981, pp.461-470. Fondamentale resta : R.Sturel, Bandello en France au XVI siècle, Bordeaux, Féret, 1918 (Genève, Slatkine, 1970). Si veda infine il contributo di M.Simonin, Francois de Belleforest traducteur de Bandel dans le premier volume des 'histoires tragiques', in Matteo Bandello Novelliere europeo, Tortona ,Litocoop, 1982, pp. 455-471.
[10] E.Menetti, Il Decameron fantastico, Bologna, Clueb, 1994
[11] Cfr. L.Riccò, Fra "opere scellerate" e "dolorosi fini": il tragico nella novella toscana del Cinqueceto, in "Giornale storico della letteratura italiana, vol. CLXIX, 1992, pp.200-27; M.Ariani, La trasgressione e l'ordine: l'"Orbecche" di imbattista Giraldi Cinzio e la fondazione del linguaggio ragico ciquecentesco, in "La Rassegna della Letteratura italiana", XV, 1979, pp.117-80.
[12] Cfr. A.Tenenti, Il macabro nel simbolismo dell'Umanesimo, in Credenze, ideologie, libertinismi tra Medioevo ed età moderna, Bologna 1978; Id., Il senso della morte e l'amore della vita nel Rinascimento, Torino, Einaudi, 1978.