In un saggio del 1988, Postmodernism and the Consumer Society Fredric Jameson indicava come caratteri più distintivi della cultura postmoderna l'erosione della distinzione fra cultura alta e la cosiddetta cultura popolare o di massa, il frequente ricorso al pastiche e alla citazione, la rinuncia alla ricerca o all'invenzione di uno stile che fosse inequivocabilmente personale e infine il "modo" nostalgico. Questa definizione, che ancora oggi non sembra aver perso nulla della sua attualità e che è entrata nel vocabolario "classico" della critica letteraria, risponde in pieno a quelli che sono gli elementi caratterizzanti la più recente produzione narrativa del Giappone. Scrittori che hanno prodotto veri e propri boom editoriali, creando best seller a ripetizione e diventando rapidamente famosi anche oltre i confini del proprio paese, come Murakami Haruki, Yoshimoto Banana, Takahashi Gen'ichirō (tutti autori tradotti in Italia) e molti altri ancora, si nutrono di citazioni, di interscambi con altri prodotti culturali come la musica o il fumetto, mentre le loro opere passano agevolmente attraverso ricodificazioni di vario tipo, dal cinema al manga al dramma televisivo all'anime.
Si tratta di un fenomeno che rientra appieno in quel processo di trasformazione del romanzo in un prodotto di mercato, parte di un'economia basata sul consumo e sulla produzione di massa, esploso in Giappone negli ultimi anni del XX secolo, e che ha avuto come immediata conseguenza la necessità per gli scrittori di esplorare costantemente nuovi temi, creare a un ritmo veloce opere facilmente fruibili e consumabili, mutandone la fisionomia attraverso un continuo dialogo con altri generi, letterari e non. Tra i principali e forse effimeri fenomeni innovativi della produzione letteraria nata in Giappone nei primi anni del Duemila e rimasta per un certo tempo al centro di analisi e dibattiti, si è collocato il cosiddetto keitai shōsetsu (romanzo per cellulare), ossia l'insieme di opere scritte e diffuse attraverso i telefoni cellulari e stampate solo in un secondo momento, prima o dopo essere passate attraverso l'inevitabile filtro delle trasposizioni nel manga e nel cinema. Segnalandosi come un fenomeno socio letterario di notevole impatto che implica l'esplorazione di nuove tecnologie e nuovi linguaggi, il keitai shōsetsu, la cui popolarità si è riverberata non solo in Cina e in Corea, ma anche negli Stati Uniti, è caratterizzato formalmente da una struttura linguistica semplificata, l'uso molto limitato di sinogrammi, un lessico ridotto, il frequente ricorso allo slang giovanile, ampie pause e frequenti capoversi; spesso opera di autori anonimi, che si presentano con il solo nome, il keitai shōsetsu ha subìto nel giro di un decennio una relativa evoluzione nei contenuti e se all'inizio suscitava sconcerto per aver incluso elementi di sesso, stupro e violenza o fenomeni sociali come la prostituzione giovanile, in seconda generazione sembra aver invece definitivamente conquistato un pubblico di giovanissime studentesse di liceo, presentandosi molto spesso in forma di diario e assumendo la fisionomia di una letteratura autoreferenziale, dove autrici e lettrici si confrontano parlando di esperienze condivise in ampia misura. Mantenendo come tratti distintivi un certo artefatto sapore di «verità» e vita quotidiana e mostrando un pericoloso penchant verso il melodramma sentimentale e strappalacrime, questo genere di racconti si muove sullo sfondo di una visione in sostanza conservatrice che fa della donna una vittima delle proprie emozioni, destinata a soffrire passivamente; si tratta del resto di tendenze tutt'altro che nuove all'interno di alcune fasce della letteratura popolare giapponese, che hanno avuto, al di fuori dei keitai shōsetsu, esiti altrettanto struggenti, come Sekai no chūshin de ai o sakebu (2001, trad. it. Gridare amore al centro del mondo, 2001) tradotto anche in Italia.
Di fronte a questa produzione molto ampia, che tende a frammentarsi in tanti microambiti, in linea con la moltiplicazione dell'offerta, il mercato editoriale italiano sembra ondeggiare: da una parte resta legato a nomi collaudati, ancorché decisamente di nicchia, come il premio Nobel 1994, Ōe Kenzaburō, di cui sono stati di recente pubblicati Rōtashi Anaberu Rī sōkedachitsu mimakaritsu («Raggelando e uccidendo la mia bella Annabelle Lee», 2007, trad. it. La vergine eterna, 2011) e Torikaeko (2000, trad. it. Il bambino scambiato, 2013); si tratta in entrambi i casi di impegnativi e sofisticati romanzi speculari, dove l'autore torna ad elaborare evidenti allusioni alle proprie personali esperienze, mescolandole con riflessioni sulla vita e i rapporti umani, immagini della realtà presente, con le sue contraddizioni e i suoi drammi, il ritorno, tragico e incantato, agli anni e ai luoghi dell'infanzia nelle valli oscure dello Shikoku: il tutto calato in un'atmosfera e un linguaggio fortemente evocativi. Un secondo nome ormai classico che mantiene una costante presenza sugli scaffali delle librerie italiane resta quello di Mishima Yukio, anche se negli ultimi tempi si è preferito puntare non tanto sulla sua produzione più ideologicamente e letterariamente impegnata – quella stessa che oltre ad averlo reso forse il più famoso autore giapponese tradotto in occidente, ha suscitato infinite polemiche – quanto su opere che pur mantenendo inalterati alcuni inconfondibili segnali mishimiani – l'elogio della bellezza, il rifiuto di un intellettualismo di maniera, l'ambiguità dei personaggi, l'erotismo – tendono a stemperarli attraverso l'ironia e un distaccato pessimismo: appartengono a questo genere Bitoku no yoromeki (1957, trad. it. Una virtù vacillante, 2007), Yakaifuku (1966, trad. it. Abito da sera, 2008) e Nikutai no gakko (1963, trad. it. La scuola della carne, 2013).
Su un altro versante viceversa l'editoria italiana tende a rivolgersi a scrittrici possibilmente giovani e disinibite che, se da una parte offrono un'immagine di trasgressione, dall'altra tranquillizzano il lettore che si trova comunque in contesti a lui riconoscibili. Oltretutto, la dicotomia «geisha – dark Lolita», ancorché mistificante, risponde a uno stereotipo relativo al Giappone piuttosto diffuso.
Lo spartiacque fra una letteratura giapponese "alta" nella vecchia accezione del termine, che aveva trovato in autori come Kawabata Yasunari, Mishima Yukio, Tanizaki Jun'ichirō, e Ōe Kenzaburō i principali esponenti, ed una "nouvelle vague" di tutt'altro segno, può essere agevolmente fissato alla fine degli anni Ottanta, con l'emergere di scrittori come Yoshimoto Banana e Murakami Haruki, entrambi divenuti ben presto i portavoce della letteratura contemporanea giapponese. Il caso di Yoshimoto Banana (n. 1964), il cui successo clamoroso ottenuto in Italia si è ben presto riverberato in Europa e in America, resta un esempio limite. I suoi libri - da Kitchin (1988, Kitchen, tradotto in italiano nel 1991) fino ai più recenti Chiechan to watashi (2007, trad. it. Chie–chan e io, 2008), High and Dry, Hatsukoi (2007, trad. it. High and dry, Primo amore, 2013), Kanojo ni tsuite (2008, trad. it. A proposito di lei, 2013) – costruiti su storie esili, su immagini quotidiane, stati d'animo fuggevoli, impressioni estemporanee – suggeriscono un'atmosfera che mantiene legami molto diluiti con la realtà, dove anche argomenti di grande impatto, come potrebbero essere quelli del suicidio o dell'incesto, sembrano perdere consistenza. Si può dire che la struttura dei racconti della Yoshimoto si basi su una solida griglia, dove ad alcune coordinate costanti (la presenza di un io narrante quasi sempre femminile, l'insistenza sul cibo e i luoghi deputati alla sua preparazione, la scomparsa di una persona cara, una malinconia di fondo profonda quanto inspiegabile, la fuga dalla città anonima verso il paese natale o comunque un luogo lontano, la riscoperta di confortanti legami familiari o del valore dell'amicizia, l'intervento del sogno o di fenomeni paranormali) si accompagnano a variabili che tuttavia non si discostano mai troppo dal modello di fondo. Con il passare degli anni si avvertono nella scrittrice tentativi di dare spazio ad una maggiore caratterizzazione dell'ambiente urbano, di sviluppare una consapevolezza sociale o vaghe istanze femministe, di far ricorso a più esplicite scene di contenuto erotico, che tuttavia restano astratte e come spaesate. Del resto, nel lontano 1999, la stessa Yoshimoto aveva ammesso di non vedere il mondo attraverso la finestra del sesso.
Al "pensiero positivo", alla capacità di intrecciare storie che, pur non essendo necessariamente consolatorie trasmettono una sensazione di speranza, si accompagna una scrittura caratterizzata da una costante "leggerezza", ricca di metafore, ellittica e allusiva, che sembra rivestire di una vernice moderna figure retoriche e ideali estetici ritrovabili nella prosa e nella poesia classica giapponese; ad esse fanno però da contrappunto aforismi sentenziosi e espressioni incongrue e colloquiali, disinvolte e apparentemente irriverenti, che stabiliscono un immediato contatto con il mondo della letteratura popolare e in particolare del manga. Questi elementi formali sono stati mantenuti e forse anche valorizzati al meglio nella traduzione italiana di Giorgio Amitrano, che ha certamente contribuito in modo consistente a traghettare in Italia quello che già in Giappone era stato definito "fenomeno Banana" (Banana genshō). Ma il debito della scrittrice nei confronti del manga non si limita al solo linguaggio, perché anche nella caratterizzazione dei personaggi la suggestione delle convenzioni grafiche, da tempo codificate, si trasferisce alla parola scritta: l'insistenza sui tratti delicati, lo sguardo luminoso, la grazia efebica, le lunghe ciglia e le gambe esili e slanciate sono un rimando immediato ai protagonisti di quel genere popolarissimo che va sotto il termine generale di shōjo manga (manga per adolescenti, per ragazzine), dal quale derivano anche l'ambiguità sessuale, la dimensione onirica e un certo sentimentalismo. Evocativo del mondo dei manga è anche il rapporto "confidenziale" che si viene a creare fra l'autrice e il suo pubblico: nel manga esso si sviluppa soprattutto attraverso una fitta rete di messaggi disseminati sui risvolti di copertina o nelle ultime pagine del testo e scritti in un linguaggio informale e corrente, che tende a far ampio uso del gergo adolescenziale. Nel caso di Yoshimoto Banana questo legame è sviluppato attraverso i postscripta che spesso concludono i suoi libri. Sono brevi annotazioni, dove ai più convenzionali ringraziamenti ad amici e collaboratori si affiancano ricordi personali, riflessioni, esortazioni dirette ai lettori: «I luoghi citati sono tutti reali, perciò se mai dovesse venirvi voglia di visitarli, andateci pure. Vi consiglio in particolare di provare il pancake egiziano» (da Sly, trad. italiana 1998); «Stupidamente, nel rileggere le bozze non potevo fare a meno di piangere, ma ho la sensazione che quelle lacrime abbiano fatto un po' sparire il dolore che avevo dentro. Mi auguro che possa accadere lo stesso anche a voi» (da Ricordi di un vicolo cieco, trad. italiana 2006); altrove, il postscriptum è sapientemente indirizzato al pubblico italiano: «L'amore che ho per l'Italia, le ore deliziose che vi trascorro ogni volta che vengo, l'affetto per gli amici che ho nel vostro paese, la bellezza che mi trasmette, l'ispirazione che mi comunica, sono tutte cose che non si possono esprimere a parole» (da Lucertola, trad. italiana 1995); in calce a questi messaggi si trova di frequente un preciso riferimento al momento in cui la stesura dell'opera si era conclusa, secondo una prassi non del tutto estranea al mondo della letteratura giapponese premoderna: «In Giappone, guardando un viale dove le foglie di gingko stanno mutando in un giallo dorato» (da Sonno profondo, trad. italiana 1994); «In un sereno pomeriggio di novembre, con il raffreddore, mangiando un kaki» (da N. P. trad. it. 1992); brevi epigrammi che tendono a creare un "patto" di complicità amichevole, annullando la distanza fra autore e lettore. Allo stesso modo, uno tra i recenti esiti letterari della scrittrice, puntualmente tradotto in italiano, Jinsei tabi wo yuku, ( 2006, trad. it. Un viaggio chiamato vita, 2010) sembra a sua volta volersi inserire in un tipo di saggistica autoconfessionale e intimistica che in Giappone ha una lunga storia.
Non troppo lontana, sotto molti aspetti, dalle convenzioni letterarie che caratterizzano la scrittura della Yoshimoto sembra essere l'opera prima di Ogawa Ito (n. 1973) nota in Giappone anche come autrice di canzoni e libri illustrati per ragazzi. Il suo romanzo Shukudō katatsumuri (2008, Un ristorante chiamato lumaca, trad. it. Il ristorante dell'amore ritrovato, 2010), scritto in prima persona, tradotto in Corea, Cina e Taiwan oltre che in Inghilterra (dove il titolo The Restaurant of Love Regained sembra ricalcare quello della versione italiana), e subito trasformato in un film di successo, punta sulla strategia vincente di sfruttare il tema, non precisamente originale, dell'ambientazione all'interno di un ristorante dove vengono preparate ricette raffinate, capaci di agire "magicamente" sulla psicologia dei protagonisti. In Italia Il ristorante dell'amore ritrovato ha vinto la VI edizione del Premio Bancarella, sezione Cucina, mentre in Giappone la scrittrice ha inaugurato nel 2006 un sito web dove propone non solo ricette di cucina, ma anche un suo personale "pellegrinaggio" in cerca di ristoranti.
La popolarità che Yoshimoto Banana ha conquistato in Italia, soprattutto presso un pubblico di giovani lettrici, sembra essere stata eguagliata o superata soltanto da quella di uno scrittore, Murakami Haruki (n. 1949), il cui successo in Giappone è confermato da una regolare immissione sul mercato di romanzi prodotti con ritmo costante, che diventano immediati best seller: allo stesso tempo, essi ottengono un'accoglienza entusiastica anche in Europa e negli Stati Uniti, in Russia, in Mongolia, a Hong Kong e nella Corea del Sud, dove anzi hanno ispirato un intero gruppo di scrittori (la cosiddetta «generazione Murakami») e un genere di romanzo i cui protagonisti, single rigorosamente soli, nelle loro scelte di vita, nel loro modo di agire (indossare capi firmati, bere whisky o ascoltare dischi jazz elencati con estrema precisione) sono del tutto simili a quelli dello scrittore giapponese. Concentrati sul mondo contemporaneo, i racconti di Murakami fluiscono impercettibilmente in una dimensione fantastica, abitata da figure che sembrano emigrare da un romanzo all'altro; e la ricerca di atmosfere degne di un racconto poliziesco o di un film dell'orrore, la scelta di mescolare banalità quotidiane e problemi filosofici o pseudofilosofici, la manipolazione della nostalgia vengono calate in una realtà che parla un linguaggio "universale" e nella quale si possono riconoscere tutti quei lettori che, grazie alla globalizzazione, con lo scrittore condividono background socioculturale, codici e simbologie. Allo stesso tempo, il successo di questi racconti in Occidente si può spiegare anche con il fatto che essi mantengono una parvenza esotica quanto basta per essere attraenti, rivestendo con essa ciò che è in sostanza una variante dei canoni standard di molta letteratura contemporanea.
L'amore per la citazione, indiretta o esplicita, il ricorso a paragoni paradossali («… dormivo profondamente, come una vecchia incudine coperta di ragnatele» da Dance Dance Dance) dove è impossibile non avvertire il debito contratto con Raymond Chandler, e, infine, l'interesse per la musica, da quella classica al jazz, al rock, sono motivi dominanti nei romanzi di Murakami: Kaze no koe o kike (1979, Ascolta la voce del vento) che resta ingiustamente fra i meno conosciuti, Hitsuji o meguru bōken (1982, trad. it. Sotto il segno della pecora, 1992, e Nel segno della pecora, 2010), Noruwei no mori (1987, trad. it. Tokyo blues, 1993; Norwegian Wood, 2006), Dansu, Dansu, Dansu (1988, trad. it. Dance Dance Dance, 2005), Supūtoniku no koibito (1999, trad. it. La ragazza dello sputnik, 2001), Umibe no Kafuka (2002, trad. it. Kafka sulla spiaggia, 2008).
Anche il più recente romanzo dello scrittore, 1Q84, in tre volumi pubblicati tra il 2009 e il 2010 (e tradotti in italiano in due volumi, nel 2011 e nel 2013), ha avuto in Giappone un successo immediato. I primi due libri, apparsi nel maggio del 2009, hanno raggiunto, nel luglio dello stesso anno, un totale di due milioni di copie vendute, mentre la lunga citazione di L'isola di Sahalin di Cechov, inserita nelle pagine del romanzo, ha sollecitato la ristampa di due differenti traduzioni in giapponese dell'opera dello scrittore russo; al contempo si è materializzata una nutrita letteratura esegetica, volta a interpretare il testo di 1Q84, a spiegarne metafore e parafrasi, illustrarne la genesi e guidare il lettore nel labirinto dei suoi misteri.
1Q84 si presenta come uno straordinario agglomerato di eventi e personaggi, che procede incalzante, sfruttando tutte le risorse messe a disposizione da vari filoni letterari, dal noir al thriller, dalla fantascienza al romanzo d'azione, con qualche sporadico cedimento al tema sentimentale dell'amore inseguito e perduto e un accompagnamento di intermezzi erotici che vanno dal sesso di gruppo a tentazioni saffiche. La storia procede lungo due linee parallele, dove tuttavia una serie di indizi rivela con sempre maggior chiarezza che esse sono destinate a confluire in uno stesso alveo. Fedele al suo clichè, Murakami seguita a proporre citazioni su citazioni, a cominciare dal titolo stesso, chiaramente ispirato a 1984 di Orwell, che peraltro viene evocato anche nel corso del romanzo, per evidenziare la contrapposizione fra il Grande Fratello orwelliano da una parte e gli speculari e inquietanti Little People che popolano il 1Q84 dall'altra; ma tra le raffiche di citazioni non mancano Aristotele e Platone, Anton Cechov e Dostoevskij, Winston Churchill e Carl G. Jung, affiancati dalla presenza, puntigliosa ma discreta, di un classico della letteratura medioevale giapponese, lo Heike monogatari (La storia degli Heike). E se la protagonista, Aomame, bella e spietata, paragona se stessa a Faye Dunaway del Caso Thomas Crown, la sua perfetta forma fisica e la sua determinazione implacabile possono vagamente ricordare Modesty Blaise, sebbene Aomame appaia molto più spregiudicata e sessualmente spigliata della controparte inglese.
Il mondo in cui vivono i protagonisti di 1Q84, in fondo non molto dissimile da quello che viene presentato in altri romanzi, come Kafka sulla spiaggia, è descritto come «pieno di smagliature, difformità, anticlimax», dove semplici dicotomie come buono e cattivo, morale e immorale perdono il loro valore. Ma per evitare un eccesso di astrazione che ne farebbe un'opera troppo fictional, l'autore sparge qua e là altri indizi che possono collegare 1Q84 alla realtà contemporanea: la guerra del Pacifico, i gruppi armati dei primi anni Settanta, il fanatismo delle sette religiose, inevitabilmente evocativo, quest'ultimo, degli attacchi terroristici compiuti in Giappone nel 1995 dal gruppo Aum shinrikyō. Inoltre, pur intersecandosi con aspetti fumettistici poco convincenti, basati sul populistico mito del "vendicatore solitario" qui in versione femminile, acquista rilevanza anche il tema del rapporto uomo-donna, che assume i caratteri di una denuncia delle violenze perpetrate all'interno delle mura domestiche. Il collegamento, per non dire la fusione, tra dimensione sociale e libero volo dell'immaginazione appare quindi come la nuova frontiera a cui Murakami aspira e forse ritiene di essere approdato. Difficile dire se egli intenda proporre un modello di società contando sui presupposti positivi di quella attuale o se invece la sua critica, talvolta feroce, sottintenda un pessimismo in qualche modo incernierato su un senso di impotenza. Ma quale che sia la prospettiva di fondo, si intravede o si sogna una comunità umana dove regnino la libertà non meno che i buoni sentimenti, dato che all'effetto taumaturgico dell'amore romantico l'autore sembra non voler rinunciare; una comunità da cui sia bandito l'estremismo, religioso in primo luogo, e in cui sia una concreta realtà la parità tra i sessi e si dia peso alla sostanza dei rapporti umani e non solo al rispetto della forma, senza i condizionamenti di Grandi Fratelli o Little People, immateriali "poteri forti", pericolosi più per la loro subdola ambiguità che per un esplicito autoritarismo. Su questo mondo si spalma quello che potremmo definire il trade mark di Murakami: l'onnipresenza di brani musicali e di autori che vanno da Leoš Janáček a Johann Sebastian Bach, o di musicisti come Louis Armstrong o Barney Bigard; la meticolosa tassonomia di abiti e accessori indossati dai protagonisti (Gucci e Ferragamo in testa, ma anche griffe giapponesi come Shimada Junko e Comme des Garcons), l' ostinato elenco di bevande: Daiquiri, Martini, Tom Collins e Cutty Sark. In sintonia con l'ormai collaudato stile dello scrittore, 1Q84 si chiude lasciando un buon numero di interrogativi. Anche nell'ultima parte, che si apre con un colpo di scena di sconcertante banalità, molte risposte continuano a essere eluse, lasciando lettori e critici intenti a chiedersi se il libro abbia fornito un finale soddisfacente e se la storia debba considerarsi del tutto conclusa.
Relativamente meno famoso di Murakami, quanto meno al di fuori dei confini del Giappone, è il suo quasi coetaneo Takahashi Gen'ichirō (n. 1951), che alterna la sua attività di romanziere a quella di saggista, opinionista e traduttore, una delle voci più originali del Giappone d'oggi. Nella sua opera d'esordio, Sayōnara, gyangutachi (1982, Sayonara, gangsters, tradotto in italiano solo nel 2008), condividendo con Murakami i riferimenti alla cultura popolare degli anni Sessanta in poi, alla musica rock e ai manga e utilizzando al meglio i suggerimenti delle avanguardie letterarie occidentali, inserisce questi elementi in un caleidoscopico pastiche, paradossale e ironico, rapsodico e sofisticato, stravagante e esilarante, farcito di citazioni colte e popolari con un attenzione al linguaggio irripetibile nella sua vivacità.
Negli ultimi tempi sul mercato italiano si è fatta strada una generazione di giovani scrittrici, la cui nutrita presenza, non necessariamente costante nel tempo, costituisce a sua volta uno dei fenomeni di maggior rilievo in Giappone. Appaiono assertive e spregiudicate, ma nella sostanza assai meno problematiche e tormentate delle loro colleghe più anziane, al punto da far nascere il sospetto che la loro ribellione contro morale e perbenismo non sia tanto dettata da una convinzione, ma dal desiderio di stupire a tutti i costi. Assai lontani dall'atmosfera che caratterizza le opere di Yoshimoto, i racconti di Yamada Eimi (n. 1959) esplorano senza mezzi termini la sessualità femminile, anche se il linguaggio esplicito e le situazioni disinibite non riescono a coprire del tutto un certo sentimentalismo convenzionale, mentre Uchida Shungiku dopo un fortunato esordio in Giappone come autrice di manga che alternano racconti dell'orrore a squallide situazioni di adolescenti sottoposte a ogni tipo di violenza da parte degli adulti, ha trasferito questi temi all'interno di un romanzo che ha provocato interesse e sconcerto allo stesso tempo: Fazā fakkā (1993, trad. it. Father Fucker, 2003): o ancora Kanehara Hitomi (n. 1983) che è stata subito proclamata «l'icona della cultura underground giapponese» per il suo Hebi ni piasu (2005; trad. it. Serpenti e piercing, 2005), dove la predilezione per situazioni eccentriche, grottesche o anormali trova la sua proiezione fisica nei piercing e nei tatuaggi di cui si compiacciono i giovani protagonisti.
Rimanendo nell'ambito della produzione femminile, Wataya Risa (n. 1984) è autrice di Insutōru (2001; trad. it. Install, 2006) e di Keritai senaka (2004, La schiena che vorresti prendere a calci, trad. it. Solo con gli occhi, 2007), ben presto «tradotti» in film, drammi televisivi o manga, che appaiono come un'ulteriore lettura di un mondo adolescenziale autistico, pronto a rifiutare la scuola per trovare spazio solo nella realtà virtuale di un computer. Wataya, che si presenta come una scrittrice tutt'altro che prolifica ma è considerata una delle voci più rappresentative di una nuova generazione, dopo un lungo periodo di silenzio, è ritornata sulla scena letteraria giapponese con Katte ni furuetero (2010, Trema pure finché ti pare), dove, ricorrendo alla narrazione in prima persona che le è più congeniale, descrive la tormentata psicologia di una giovane donna, introversa e irrazionale, tesa a idealizzare a tutti i costi il passato restando ad esso tenacemente attaccata.
Di sapore diverso, ma suscettibili di ottenere una favorevole risposta di pubblico, sono le opere di Kirino Natsuo (n. 1951), che rappresenta a buon titolo la controparte giapponese di quella agguerrita schiera di scrittrici di mistery e noir che negli ultimi decenni ha visto in Europa una straordinaria fioritura, dalla Francia (Fred Vargas in testa) fino ai paesi scandinavi (Anne Holt e Åsa Larsson). Considerata in Giappone come una delle autrici più innovative degli ultimi decenni, in grado di creare personaggi femminili che rispecchiano la realtà delle donne che lavorano e vivono in Giappone, al di là di stereotipi e pregiudizi, e ben presto definita la «regina del romanzo del crimine», Kirino riesce a sfruttare la natura formulaica di questo popolarissimo genere per esplorare problemi di grande complessità in modo accessibile anche al grosso pubblico. Dopo aver creato la serie dedicata a Murano Miro, un'investigatrice vagamente indebitata a V. I. Warshawsky di Sara Paretsky, single, libera e disinibita, nel 1997 è passata a esaminare, in Out (1997, trad. it. Le quattro casalinghe di Tokyo, 2003), il percorso attraverso cui tranquille casalinghe decidono di uscire dalla loro quotidiana routine per divenire complici di un omicidio, mentre Yawarakana hōhō (1999, trad. it. Morbide guance, 2004) è costruito sul difficile percorso sentimentale di una donna stretta fra adulterio e sensi di colpa.
Una weltangshaaung più positiva, anche se mai superficiale o consolatoria, emerge invece nei racconti di Kawakami Hiromi (n. 1958): in Sensei no kaban (2001, La cartella del sensei, trad. it. La cartella del professore, 2011), l'esile, inconsueto rapporto che si viene a creare fra una donna di trentasette anni e il suo insegnante di un tempo, di trent'anni più anziano di lei, sembra offrire il pretesto per descrivere una realtà sommessa, fatta di piccoli locali nascosti in stradine secondarie, mercatini dell'usato, tradizionali gite per ammirare la fioritura dei ciliegi o cercare funghi, un mondo eccentrico e malinconico che trova riscontro nella figura dell'anziano sensei (maestro) che dà il titolo al romanzo, nelle sue piccole manie e idiosincrasie.
Gli ultimi drammatici avvenimenti che hanno colpito il Giappone dopo il disastroso terremoto dell'11 marzo 2011 nella zona nord orientale del paese, hanno avuto un immediato riscontro anche sul mondo letterario: Takahashi Gen'ichirō ha pubblicato, nell'ottobre 2011, sulla rivista Gunzō, Koisuru genpatsu (La centrale atomica dell'amore), mentre Kawakami Hiromi nel suo Kamisama 2011 (La divinità, 2011) riscrive, seguendone fedelmente la falsariga, un racconto che porta lo stesso titolo, da lei già pubblicata nel 1993, agli inizi della sua carriera letteraria: è una breve storia che intreccia fantasia e realtà sullo sfondo di un mondo tranquillo, abitato da orsi sentenziosi e personaggi del folclore; ma la nuova versione, pur senza alterare la struttura di base e il tono quasi fiabesco, inserisce parole diventate drammaticamente attuali: tuta di protezione, cesio, plutonio, μSv (microsievert), livello di emissione di radioattività, contatori geiger, scegliendo deliberatamente di affrontare un problema attuale e di manifestare la sua "indignazione pacata" senza indulgere in catastrofismi, ma esprimendo il suo stupore nel vedere come il procedere della vita quotidiana possa drasticamente cambiare. Il racconto non ha avuto ancora successo fuori dal Giappone, ma quello che oramai viene definito il Grande terremoto del Tōhoku , lo tsunami, il ritorno della paura atomica non potranno non influire profondamente sia sul modo dei giapponesi di concepire se stessi e il loro futuro, sia sulla rappresentazione in chiave letteraria di una tale evoluzione. E se forse negli ultimi anni, malgrado la crisi strisciante che faceva perdere colpi all'economia nazionale, lo sfondo prevalente era quello di un Paese troppo sicuro delle proprie acquisizioni e troppo fiero dei traguardi raggiunti per produrre qualcosa che andasse più in profondità del malumore e della irrequietezza in una prospettiva che l'individualismo crescente rendeva inevitabilmente angusta, forse oggi i grandi interrogativi che i giapponesi si trovano ad affrontare solleciteranno anche un ritorno a quella straordinaria grandezza nella produzione letteraria che ha caratterizzato buona parte del secolo scorso.
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Pubblicato il 20/04/2014