Si offrono allo sguardo del lettore invitandolo ad accostarsi alla pagina con la stessa munifica varietà dei luoghi che le hanno generate, territori che fanno da sfondo e motore alle parole di poeti, drammaturghi, saggisti, narratori. Sono le letterature antillane, fiorite nel corso degli ultimi sessant'anni nelle isole caraibiche e da queste poi diffuse in diverse aree del mondo. Molteplici, plurilingui, interetniche e interculturali, frutto di incroci tra generi e linguaggi, tra oralità e scrittura, così come frutto di incroci - umani, innanzitutto - sono le culture dalle quali hanno avuto origine: indie, africane, europee, che in quell'arcipelago ricco di centinaia di isole, disteso tra nord e sud America sulla antica rotta della tratta degli schiavi creata dal colonialismo europeo, si sono incontrate e scontrate, generando un sincretismo e un ibridismo culturali di singolare forza e creatività. All'origine di tutto questo, vale ricordarlo, sono le numerose lingue indigene, espressione di tradizioni orali che storicamente in quell'arcipelago trovarono la loro più antica e consolidata espressione nella poesia e nella musica, linguaggi che nei Caraibi costituiscono elemento fondante della creatività più diffusa, anche oggi, tra la gente comune. A questi si sommano alcune delle principali lingue europee - prime fra tutte, inglese, francese, spagnolo, olandese, - che secoli addietro e a seguito dell'impresa di Colombo si aprirono un varco in quella parte di mondo, sovrapponendosi e affiancandosi alle lingue locali, conseguenza diretta dell'invasione coloniale della quale accompagnarono le tappe.
Si deve precisamente al complesso e variegato esito di questi incontri l'aver dato vita a una cultura all'interno della quale centinaia di voci e diversità si riconoscono e si intrecciano, al tempo stesso mantenendo intatta, di ciascuna, la singolarità. Voci che per questa singolarità che rivendicano con orgoglio hanno cercato una parola nuova; perché a definire le vicende storiche che hanno segnato quella origine, i termini generalmente usati per indicare incroci razziali, quali meticcio, ibrido, mezzosangue, mulatto, non si addicono. Per circoscrivere la multiforme e al tempo stesso unica, condizione dell'individuo che nasce dal melting pot antillano, occorreva un alfabeto nuovo e una nuova definizione, che all'aspetto fisico e culturale dell'ibridismo unisse quella "visone interiore" che fa la differenza. Per questa, il termine giusto è creolità.
E così, in un saggio-manifesto intitolato per l'appunto Éloge de la créolité, pubblicato a Parigi nel 1989, i martinicani Jean Bernabé, Patrick Chamoiseau e Raphaël Confiant, espongono il concetto di creolità, termine che raccoglie e condensa il complesso percorso storico che dal mar dei Caraibi intreccia le sue vicende con quelle dell'Europa e con le sue conquiste d'oltremare, e attraverso un viaggio di oltre quattro secoli arriva sino a noi. «Noi non siamo europei, né africani, né asiatici», esordiscono gli autori, «noi ci dichiariamo creoli. Il nostro sarà un atteggiamento interiore, una vigilanza, meglio ancora, una specie di involucro mentale, al cui interno noi costruiremo il nostro mondo nella piena consapevolezza del mondo». E più avanti:
Senza visione interiore l'Antillanità non è accessibile. E la visione interiore non è niente
senza la completa accettazione della creolità. Ci proclamiamo creoli. Dichiariamo che la
creolità è il cemento che tiene unita la nostra cultura e deve reggere le fondamenta dell'
Antillanità. La Creolità è l'aggregato in cui interagiscono e transagiscono gli elementi
culturali caraibici, europei, africani, asiatici e levantini che la necessità della Storia ha
riunito sullo stesso suolo […] La nostra Storia è un intreccio di storie. […] Siamo l'Europa
e siamo l'Africa. La Creolità è «il mondo diffratto ma ricomposto», un vortice di significati
in un unico significante: una Totalità.
Il testo trae idealmente ispirazione anche dall'opera di Frantz Fanon (1925-1961), psichiatra e scrittore martinicano che già negli anni '50 aveva iniziato un percorso di conoscenza, confluito ne I dannati della terra, apparso in Francia nel 1961 con un illuminante saggio introduttivo di Jean-Paul Sartre; ma anche dagli scritti di Aimé Césaire (1913-2008), intellettuale e politico militante, primo fra tutti il celebre Discorso sul colonialismo (1955).
Un approfondimento del concetto di creolizzazione non solo in rapporto alla geografia dei luoghi, ma anche ai sistemi linguistici e culturali prodottisi nelle Antille a seguito della tratta degli schiavi ci arriva dallo scrittore e filosofo martinicano Édouard Glissant (1928-2011), che nel volume Poetica del diverso, del 1996, propone un affascinante affresco delle culture caraibiche attraverso il tema della creolizzazione che egli definisce come "meticciato con il valore aggiunto dell'imprevisto", tanto più interessante in quanto accomuna scenari linguistici tra loro diversi e tuttavia uniti dal pensiero della traccia, dalla presenza di un mare, il mar dei Caraibi, che "diffrange e favorisce l'emozione della diversità". A questo pensiero della traccia, a questa emozione della diversità, Glissant darà forma di parola in una serie di importanti riflessioni teoriche, quali La poetica della relazione (2007) e Il pensiero del tremore (2008); ma anche nel romanzo Il quarto secolo (2003) e nel testo-summa del suo pensiero, il ponderoso e affascinante Tutto-Mondo (2009), "romanzo disintegrato, dilatato dalla materia del mondo", come lo definiva il suo autore, più volte candidato al Nobel per la Letteratura. Ma Glissant non è il solo a percorrere questo cammino in forma narrativa.
A Patrick Chamoiseau (1952), teorico della creolità, scrittore, ma anche assistente sociale impegnato nel reinserimento degli ex-carcerati, si deve Texaco, straordinario affresco che ripercorre centocinquant'anni di storia dell'isola di Martinica, un romanzo con il quale l'autore vince nel 1991 il Premio Goncourt. A questo si affiancano, tra altri, Solibo magnifique (1981), Il vecchio schiavo e il molosso (2005) e Una domenica in cella (2010). Di Patrick Chamoiseau e Édouard Glissant è Quando cadono i muri (2007), breve ma intenso pamphlet sul concetto di identità, individuale e collettiva.
Nell'arcipelago della francofonia numerose sono le autrici. Dall'isola di Guadalupa, uno degli attuali "Dipartimenti francesi d'Oltremare", giunge la voce della più internazionalmente nota tra loro, Marise Condé (1937), che da Guadalupa si trasferisce in Francia, poi negli Stati Uniti, dove insegna alla Columbia University. Condé scrive testi che ripercorrono in forma di saga l'intera storia del rapporto tra Africa e Caraibi, dal 1795, data dell'approdo dell'esploratore inglese Mungo Park alle porte di Segù - capitale bambara e punto di partenza, nel Golfo di Guinea, della tratta degli schiavi - fino all'inizio del XX secolo; così fa in Segù. Le muraglie di terra (1984), al quale fa seguito Segù 2. La terra in briciole (1985) con una magistrale capacità di fondere storia ufficiale e grandi storie familiari. Il recupero della memoria, sempre presente nella narrativa di Marise Condé, è centrale anche in opere quali La traversata della mangrovia (1989), dove la scoperta del cadavere di uno straniero giunto da poco a Guadalupa è l'occasione per un fitto intrecciarsi di racconti che tra umoristico e noir ricostruiscono le vite di decine di personaggi dell'isola, in un fantastico incontro di lingue e accenti diversi. Con La vita perfida (1987), Condé affronta la storia della nascita, sull'isola, di una borghesia nera cosmopolita, in un romanzo narrato in prima persona.
Sempre da Guadalupa arriva Pioggia e vento su Télumée (1972) di Simone Schwarz-Bart (1938), storia di una donna che la narrazione colloca "in un villaggio dove si davano il cambio tutti i venti di terra e di mare" e che tira avanti la propria vita con fierezza e gioia pur tra enormi difficoltà; e la voce di due autrici, Fabienne Kanor (1970) e Gisèle Pineau (1956). Alla prima si deve Humus (2009), romanzo ambientato nel 1774 a bordo di una nave negriera dalla quale quattordici schiave tentano di fuggire gettandosi in mare, donne delle quali il racconto ricostruisce le vicende dando voce e volto femminili a una pagina buia della storia dell'umanità; e D'acque dolci (2004), suo romanzo d'esordio, un noir che ha per protagonista una giovane antillana trasferitasi in Francia, nella banlieue parigina, realtà che fa emergere con prepotenza il disagio della sua condizione di immigrata. Stesso tema, in un impasto narrativo che fa risaltare la storia di Guadalupa con il suo passato di schiavitù e con la sua complessa identità culturale, si ritrova in Fuoco (2002), di Gisèle Pineau, che in una vivida narrazione al femminile ribalta la convenzionale e stereotipata immagine turistica dell'isola caraibica. Isola dalla quale proviene anche il primo premio Nobel caraibico per la letteratura, attribuito nel 1960 a Saint-John Perse (1887-1975), pseudonimo di Alexis Léger, poeta, scrittore e diplomatico di origine francese, al quale viene assegnato «per l'ambizioso volo e le evocative immagini della sua poesia».
Sul versante della francofonia spicca ancora, per ricchezza e varietà di produzione letteraria, l'isola di Haiti, nella sua metà occidentale di dominio francese, considerata a tutt'oggi il paese più povero delle Americhe, a differenza della sua controparte orientale, la Repubblica Dominicana, di lingua spagnola, economicamente più prospera. Isola di grande bellezza, in più occasioni messa alla prova dalla violenza della natura, Haiti è l'antica Hispaniola, terra d'approdo di Cristoforo Colombo, il quale, abbagliato dalla sontuosità del territorio, in una lettera dal suo primo viaggio, scritta a bordo della Niña, ne tratteggia un quadro di totale splendore:
Hispaniola è un miracolo[…] montagne e colline, pianure e pascoli, sono fertili e belli [....] i porti naturali incredibilmente buoni e ci sono molti fiumi ampi, la maggioranza dei quali contiene oro. Ci sono molte spezie e molte miniere d'oro e di altri metalli […]
Isola felice, rigogliosa, traboccante di bellezze naturali e ricchezze del sottosuolo. E felice nell'indole dei suoi abitanti, gli indigeni, i quali, scrive Colombo,
[…] sono tanto ingenui e tanto liberi nei confronti delle cose che possiedono, quanto nessuno potrebbe immaginare, a meno che non ne fosse stato testimone diretto. Quando gli si chiede qualcosa che possiedono, non dicono mai di no. Al contrario, si offrono di dividerla con chiunque [...]
Colombo morirà nel 1506 convinto di aver raggiunto una qualche isola dell'Asia, in un Oriente che si riteneva dovesse essere la sede del Paradiso Terrestre. Da quel momento in poi, la "scoperta" si farà Conquista. Nel 1635 la parte occidentale dell'isola della quale parla Colombo verrà occupata dalla Francia, insieme alle attuali Guadalupa e Martinica; gli indigeni sterminati da lavoro e malattie e sostituiti con schiavi africani trasportati in catene dal Golfo di Guinea; il luogo snaturato, le colture originali distrutte, le ricchezze depredate. Il tutto in un progressivo mescolarsi di razze, lingue, culture, che, nelle parole di Édouard Glissant, nel tempo faranno di Haiti "il punto focale dei Caraibi" e dell'arcipelago caraibico quel crogiolo di straordinaria ricchezza e complessità, di quella creolità, della quale s'è detto.
Non sono poche le opere di autori haitiani arrivate a noi in traduzione italiana. Tra queste, Signori della rugiada, di Jacques Roumain (1907-1944) - il più noto e influente degli intellettuali haitiani - considerato testo fondante la tradizione letteraria caraibica. Scritto in un impasto linguistico di francese e creolo, il romanzo mette in scena la vita dei contadini e dei piccoli villaggi; vite di povertà e fatica, ma anche di grande solidarietà e fiducia in una possibilità di riscatto collettivo.
È tuttavia con Gli alberi musicanti (2004), di Jacques Stephen Alexis (1922-1961), morto di tortura in carcere durante la feroce dittatura di Duvalier, che la Storia entra da protagonista nel romanzo, ambientato negli anni ʼ40, in un periodo particolarmente critico della vita politica di Haiti dove, con il consenso del governo, si va facendo massiccia sull'isola la presenza del capitalismo statunitense che crea piantagioni e latifondi, dei quali il governo si appropria sottraendo terreni e fonte di sostentamento ai piccoli proprietari. Scritto anch'esso in un francese con una forte presenza del creolo, il testo è un potente grido di denuncia contro l'imperialismo occidentale.
E se non mancano le voci di autori che privilegiano il racconto dell'amore nelle sue molte declinazioni – fra tutti René Depestre, classe 1926, con Eros in un treno cinese (1985) e Hadriana in tutti i miei sogni (1999), la gran parte dei testi di autori haitiani non dimentica l'isola e la sua storia. Così, Jacmel al crepuscolo (2000) offre a Jean Métellus l'occasione per mettere in scena, in una cittadina di luminosa bellezza affacciata sul mare, la fulminea ascesa sociale di una giovane analfabeta, nel 1956, anno nel quale si conclude per corruzione una presidenza e si prepara l'ascesa di François Duvalier, il famigerato Papa Doc. Stesso periodo storico si legge in filigrana in Madre Solitudine (1999), di Émile Ollivier (1940), nel quale i destini di varie generazioni di una famiglia haitiana si intrecciano con le vicende storiche dell'isola. Allo stesso modo Echi del Caribe (2001), di Micheline Dusseck (1946) segue la storia di una famiglia haitiana di origine contadina nel corso di quattro generazioni, con una intensa rappresentazione delle figure femminili viste come il vero sostegno di un sistema sociale intriso di vecchi e nuovi valori. Non mancano poi narrazioni nelle quali alla marcata componente orale si affiancano elementi fantastici della cultura caraibica, ricchissima di miti e leggende popolari come ne Gli invasati della luna piena (2000), di Jean-Claude Fignolé (1941), o di elementi noir, come ne Il mistero delle campane mute, di Gary Victor (1958), con tanto di ispettore mandato ad Haiti a risolvere un singolare mistero: la scomparsa dei suoni delle campane della chiesa, a tre giorni dalla festa del santo patrono.
Pur nella varietà delle tematiche che attraversano le tante narrazioni, forte rimane, nella letteratura haitiana di oggi, il tema del ricordo, del passato, anche quello più lontano, da rivisitare nel momento in cui si entra nel mondo adulto, e accanto a questo la vita della capitale dell'isola, Port-au-Prince, centro e motore di tanta narrativa. Il tema del ricordo è al centro di La matita del buon Dio non ha la gomma (1997), di Louis-Philippe Dalembert (1962), narratore, poeta e critico letterario in lingua francese e in creolo, il quale, nella postfazione al volumetto bilingue, italiano-francese, Poesia per accompagnare l'assenza, del 2010, attraverso la sua esperienza personale dà voce alle ragioni che nell'arcipelago caraibico hanno visto la nascita e il persistere della poesia come espressione culturale e forma di comunicazione diffusa:
Come la maggior parte dei miei compatrioti scrittori, sono approdato alla letteratura attraverso la poesia. Lascio ai ricercatori il compito di spiegare perché la poesia giochi tale ruolo nell'approdo alla letteratura di varie generazioni di autori presenti in questo pezzo d'isola, sballottato da tutti i venti contrari della Storia, che è Haiti.[…] Nel mio caso ha a che fare con il mio vissuto, una madre maestra elementare che amava declamare, mentre badava alle faccende, le poesie di Hugo e altri, fra cui Lamartine […] Da qui la mia tendenza a dire, scrivendoli, i miei testi ad alta voce, che è anche un modo per tentare il dialogo al di là dell'assenza assoluta […] È attraverso la poesia che sono entrato nella letteratura.
Tra gli autori haitiani di espressione francese spicca la voce – in inglese - di Edwidge Danticat, nata nel 1969 a Port-au-Prince, emigrata nel 1981 negli Stati Uniti dove tuttora risiede, e dove svolge una intensa attività di narratrice. È a seguito della sua esperienza di emigrazione che Danticat sceglie di scrivere in inglese, lingua nella quale pubblica romanzi pluripremiati e tradotti in varie lingue, tra cui l'italiano. Tra questi Parla con la mia stessa voce (1995), Il profumo della rugiada all'alba (2012), La fattoria delle ossa (2005): nell'insieme, una grande narrativa dell'isola e della sua gente, ambedue vittime di una Storia non scelta, partita dall'Europa, stratificatasi nel corso di cinque secoli e resa invivibile dalla lunga, feroce dittatura di François Duvalier 'Papa Doc' e di suo figlio Jean-Claude, fino alla precarietà di un presente piegato dalla violenza degli uragani e dei terremoti. Ma anche saggi e racconti nei quali la scrittrice presenta la vita degli haitiani della diaspora, con le difficoltà di adattamento in culture e lingue diverse; la struggente e mai sopita nostalgia dell'isola lontana, alla quale cerca di tornare con ricordi personali, con racconti tramandati in famiglia; fino al presente di una vita nuova, negli Stati Uniti, i cui passi Danticat racconta in Oltre le montagne (2002), sorta di diario di bordo nel quale i luoghi, Haiti e New York, oltre che le persone, dialogano tra loro attraverso il mare.
Sul versante dell'anglofonia, la letteratura caraibica si presenta ricchissima di voci e presenze diverse, che a partire dai primi decenni del Novecento formano una tradizione ormai consolidata; questo grazie anche ai movimenti migratori, in gran parte verso Gran Bretagna e Stati Uniti, nonché al contributo delle seconde generazioni nate lontano dai Caraibi e che – proprio per questo - mantengono vivo il legame con le rispettive radici culturali attraverso musica, poesia, saggi, romanzi, opere teatrali. Lontano dalle isole d'origine, si rinsaldano con orgoglio rituali e tradizioni, come quella del carnevale caraibico che a Londra da decenni è evento consolidato che mobilita per giorni un intero quartiere della città; o si creano luoghi di incontro e interazione intellettuale, come il George Padmore Institute, fondato a Londra nel 1991, che ospita il grande archivio della memoria storica e culturale dei Caraibi e al tempo stesso incoraggia forme di espressione scritta, molto grazie al lavoro militante della casa editrice New Beacon Books, attiva dal 1966. Originario di Trinidad, teorico dell'antimperialismo e figura di spicco del panafricanismo, George Padmore (1902-1952) rappresenta una delle due grandi figure di riferimento per la cultura antillana in esilio, l'altra essendo quella di C. L. R. James (1901-1989), anch'egli nato a Trinidad, amico di Padmore, autore di un ampio numero di scritti storico-filosofici, sui quali spicca tra tutti I giacobini neri. La prima rivolta contro l'uomo bianco (1968), storia della prima rivolta di schiavi nelle Antille, nel 1791, contro i coloni europei, qui francesi, protrattasi per dodici anni sotto la guida di Toussant L'Ouverture; rivolta vinta nel 1803 con la successiva costituzione dello stato indipendente di Haiti.
Anche per poeti e scrittori dell'area anglofona, siano essi di Barbados o Jamaica, di Guyana, St. Lucia, Trinidad o Monserrat – per non citare che alcune di quelle West Indies a lungo parte dell'ex-impero britannico - i temi della memoria, della storia, del rapporto con il passato, con l'esperienza lontana della schiavitù e con quella più vicina della diaspora, rappresentano altrettanti richiami sottili a una storia condivisa che non si vuole dimenticare perché costituisce la linfa vitale che nutre e sostiene il presente. Perché «il futuro non è che passato che aspetta di accadere», come dice lo schiavo caraibico trasportato in una piantagione della Virginia, io-narrante di La memoria più lunga (1994), di Fred D'Aguiar (1960), della Guyana:
Non volete conoscere il mio passato e non volete conoscere il mio nome per la semplice ragione che non ce l'ho e dovrei inventarmene uno per farvi piacere […] Dimenticare. Ricordare è un dolore che cerca di resuscitare se stesso. […] Non costringetemi a ricordare. Dimentico con tutta la forza di cui sono capace.
Questo sentimento forte di una storia lontana non ancora del tutto elaborata, che a tratti emerge a interrogare un presente vissuto con tempi e modi di una cultura diversa sebbene assimilata, è una costante nella produzione narrativa di D'Aguiar, come in quella di gran parte degli autori antillani. Questi, pur nella varietà di temi e storie raccontate, nella diversità di ambientazioni e registri linguistici, tornano con frequenza a nuclei tematici condivisi: al tema dell'identità, del ricordo, al tema di una storia che li accomuna, pur se profondamente variegata; e a quello dell'esilio, al quale le vicende storiche paiono aver condannato molti di loro.
Tornano, questi scrittori, a quella "memoria della traccia" della quale il mar dei Caraibi sembra essere divenuto, nei secoli, depositario e geloso custode, a un tempo palcoscenico, grande contenitore, ma anche testimone di storia e storie, come era stato, per gli antichi greci, il Mediterraneo. Nell'opera di alcuni di loro, il mar dei Caraibi non è più solo un luogo di passaggio ma uno spazio vivo che reclama una sua propria voce. È quanto accade nell'opera di Derek Walcott (1939), saggista, drammaturgo, ma soprattutto grande poeta, dalla scrittura esuberante e ricca ai limiti dell'incontenibile, che troverà la sua espressione più compiuta nel 1990 con Omeros che nel 1992 varrà a Walcott il Nobel per la letteratura. Un'opera nella quale il mare regna sovrano. Poema in terzine che imita lo schema dantesco, quasi ottomila versi di una narrazione che unisce il ritmo poetico alla forza della prosa, il testo è una miniera di riferimenti a culture e figure le più diverse, da Dante a Omero, dal Leviatano alla mitologia greca e latina, mentre rimandi a Joyce, Conrad, T.S. Eliot fanno eco alle parole del pescatore della minuscola isola caraibica, emblema di un arcipelago intero che assiste impotente alla rapina della Storia. In Omeros, come in tutta l'opera di Walcott, Europa, Africa a Caraibi, si incontrano e si confrontano, consapevoli del tratto di passato doloroso che li unisce, ma che solo attraverso una elaborazione individuale e collettiva potrà dare i suoi frutti. Questo perché, commenta amaro il poeta nel saggio La musa della storia, dalla raccolta La voce del crepuscolo (2013):
L'esperienza comune a tutto il Nuovo Mondo, inclusi i suoi scrittori patrizi la cui reverenza
per il Vecchio Mondo è considerata idolatria da meticcio, è il colonialismo. Anche loro sono
vittime della tradizione, ma ci ricordano il nostro debito verso i grandi morti, ci ricordano
che per ripudiare una cultura bisogna prima averla venerata […] ma alla maggior parte degli
scrittori dell'arcipelago che contemplano unicamente il naufragio, il Nuovo Mondo non
offre esaltazione, bensì cinismo; una disperazione per i vizi del Vecchio Mondo che essi
sostengono destinati a ripetersi […]
Di simili aporie della storia, che formano parte integrante della cultura caraibica, Walcott – nato nell'isola di St.Lucia nel 1930, meticcio, che parlando di sé ne La goletta «Flight» (1992) aveva detto: «Io sono solamente un negro rosso che ama il mare, ho avuto una buona istruzione coloniale, ho in me dell'olandese, del negro e dell'inglese, sono nessuno, o sono una nazione» - si fa straordinario interprete di questo melting pot, di cui si appropria e sapientemente rielabora in opere poetico-letterarie di grande spessore, quali Mappa del Nuovo Mondo (1992), Prima luce (2001), Il levriero di Tiepolo (2005) e in testi teatrali quali Ti-Jean e i suoi fratelli e Sogno sul Monte della Scimmia (1993). Opere imbevute di luce come nei quadri che Walcott dipinge e in quelli dei pittori che ama.
Alla prorompente ricchezza lessicale e compositiva della poesia di Walcott fa da contraltare la scrittura lucida e controllata di un altro autore della stessa generazione, tutto impegnato sul versante della prosa, V.S. Naipaul. Nato a Trinidad nel 1932 da genitori indiani di casta braminica, Naipaul si trasferisce in Inghilterra nel 1950 e lì rimane, dapprima come giornalista, poi dedicandosi interamente alla narrativa, con una produzione copiosa e ininterrotta che nel 2001 gli vale il Nobel e numerosi altri riconoscimenti. Due autori assai diversi tra loro: se Walcott mantiene una devozione totale alle proprie origini culturali e alle isole che le hanno generate e di questo racconta in versi pieni di luce, Naipaul segue nella scrittura il percorso più ombroso e critico del "mistero dell'eredità", come scrive in Una via nel mondo (1991). Non è a suo agio con le proprie radici indiane, cariche di riti che sente estranei. Visita il subcontinente da adulto, e quello che vede lo delude. L'India è una terra di sconfitte, difficile, in disfacimento, scrive in Una civiltà ferita:L'India (1977), che gli alienerà molte simpatie; toni severi riserva nel volume Fedeli a oltranza (2001) a Indonesia, Iran, Pakistan, Malesia, che in taluni casi gli paiono «fuori dalla mappa della Storia». Ma a partire da Una casa per Mr Biswas (2005) con cui esordisce nel 1961, a Miguel Street (1991) di ambiente caraibico, a In uno Stato libero (1966) che si muove tra Mediterraneo, Stati Uniti, Egitto, a Mr. Stone (1990), di ambiente inglese, a La maschera dell'Africa (2011), la narrativa di Naipaul sembra comporre un lungo percorso di viaggio, narrato con sguardo critico, inquieto, non sempre benevolo.
Tra le autrici più prolifiche e amate dell'area anglofona spicca la voce di Jamaica Kincaid, nata Elaine Potter Richardson ad Antigua nel 1949, emigrata presto negli Stati Uniti dove lavora come giornalista presso il New Yorker, per poi passare alla narrativa, dopo aver assunto un nome nuovo. Dalla iniziale raccolta di racconti In fondo al fiume (2011), intrisi di nostalgia per un'infanzia lontana e il suo mondo perduto, a narrative quali Lucy (1990), Autobiografia di mia madre (1997), Mio fratello (1999), Mr Potter(2002), tutte con radici profonde nella storia familiare, ripercorre con una gamma di sentimenti diversi, dalla rabbia all'amore, al rancore; e poi Un posto piccolo (2000) riflessione dura e intensa dedicata all'isola di Antigua, alla sua storia, alla presenza del colonialismo britannico con la sua pervasiva nefasta influenza in ogni aspetto della vita degli isolani, che gli estranei, oggi turisti e visitatori, normalmente non vedono, perché non sono interessati a vedere e capire. Quella di Kincaid è una prosa intensa, carica di energia, la stessa che si ritrova nella saggistica dell'autrice e nei suoi scritti su piante e giardini, tema su cui lavora a lungo e con successo.
Da Giamaica proviene la famiglia di Andrea Levy, emigrata in cerca di fortuna a Londra, dove Andrea nasce nel 1956. Levy scrive romanzi pieni di vivacità e ironia, che restituiscono un'immagine della società britannica attraverso lo sguardo di una bambina, Andrea stessa, giamaicana di seconda generazione, che di questa sua condizione si rende conto soltanto a scuola, dove per la prima volta si sente una "diversa" perché di pelle scura. Di questo parla ne Il frutto del limone (2006), bel romanzo di esordio, nel quale con divertente ironia racconta la storia della sua famiglia nel percorso che dai Caraibi l'aveva condotta in Inghilterra. Stessi temi riprende in Un'isola di stranieri (2005), nel quale l'incontro tra giamaicani e inglesi viene narrato a partire dal 1948, quando la guerra finisce e i sudditi delle ex-colonie che pure avevano combattuto sotto la bandiera britannica tornano a casa, in Inghilterra, alla difficile condizione di invisibili, e in Tutte le luci accese (2008), mentre con La lunga canzone (2011) Levy torna al racconto della schiavitù in Giamaica, nelle piantagioni di canna da zucchero.
Nel variegato mondo della narrativa caraibica e per effetto della complessa storia dell'arcipelago, non mancano narrazioni che prendono forma in un bilinguismo dei loro autori, come Josephina Rosario Ferré, che nasce nel 1938 nell'isola di Portorico, terra di lussureggianti piantagioni di canna da zucchero e strapotere delle banche americane, universi politici e linguistici storicamente tesi a contendersi un'isola senza che i legittimi proprietari, i creoli, avessero molta voce in capitolo. È su questo sfondo che Ferré ambienta Maldito Amor (1995), romanzo che scrive in spagnolo nel 1986 e successivamente lei stessa - bilingue, come molti portoricani - riscrive in inglese con il titolo di Sweet Diamond Dust, dal nome della piantagione nella quale la storia è ambientata. Capita tuttavia che nella compresenza delle due lingue, l'autrice cominci a narrare in una lingua, ad esempio lo spagnolo, e che a un tratto la narrazione possa proseguire solo in inglese, come nel caso di La casa della laguna (2004) ricca saga familiare di amore e morte che segue l'albero genealogico dei protagonisti. Guidata dalla lingua, per così dire, l'autrice passa dall'inglese allo spagnolo, per poi tornare sui suoi passi e ritradursi in ambedue le lingue. Bilinguismo presente anche nella storia familiare di Dionne Brand, che nasce a Trinidad nel 1953 in una famiglia nella quale, accanto all'inglese e al creolo è forte la presenza dello spagnolo, lingua parlata dalla nonna proveniente dal vicino Venezuela, la figura familiare a lei più vicina negli anni dell'infanzia. Così i due mondi che le lingue veicolano, Trinidad e Venezuela, si ritrovano in romanzi quali Di luna piena e di luna calante (2004), storia di una schiava ribelle in una piantagione nel 1824, al quale fa seguito Il libro dei desideri (2005), racconto di immigrazione tra Vietnam e Canada, dove risiede l'autrice che si è a lungo espressa sul tema del plurilinguismo, perché, dice, «gli esseri umani vivono nelle lingue, le ereditano, imparano a usarle. La lingua è flessibile mente gli Stati non lo sono; la lingua è cultura, è fatta di persone, non puoi metterle confini».
Uno dei molti significativi tasselli nella costruzione di quel grande mosaico che è la storia, e con essa l'identità caraibica, ci arriva da Cuba - con Portorico e Repubblica Dominicana, una delle tre isole ispanofone, ma di queste la più estesa, la più popolosa, la più complessa da un punto di vista storico e culturale - un universo di storia e narrativa talmente ricco da non poter essere facilmente riassunto. [1] Cuba è isola, ma al tempo stesso frontiera politica e culturale, sin da quando, con la rivoluzione del 1959, comincia a guardare a se stessa come emblema dell'identità culturale latinoamericana e a investire in progetti di natura letteraria. È in questo periodo che nascono importanti istituzioni quali la Casa de las Americas, L'Istituto cubano del cinema (Icaic), l'Unione degli scrittori e degli artisti cubani (Uneac), e nel 1962 la prima casa editrice, che inaugura il suo catalogo stampando in centinaia di migliaia di copie il Don Chisciotte, di Miguel Cervantes, mentre numerosi sono gli intellettuali espatriati che rientrano a Cuba dagli Stati Uniti per offrire il loro contributo alla rinascita culturale del paese. Spiccano figure dal grande respiro teorico-culturale come Roberto Fernández Retamar (1930) che in Cuba defendida (2001) traccia la storia dell'isola fino all'avvento di Fidel Castro, ponendo al centro il dibattito sulla difesa dell'identità cubana in relazione al tormentato rapporto con gli Stati Uniti; discorso che continua e si arricchisce con il volume Calibano.Saggi sull'identità culturale dell'America Latina (2002), che si serve del personaggio shakespeariano come emblema del meticciato, fondamento dell'identità cubana; una dimensione, questa, fortemente messa alla prova dalla rapacità del colonialismo culturale, oltre che economico, fin da quando, al principio del sedicesimo secolo, i castigliani conquistarono il paese rimanendo impressionati da due piante gigantesche, la pianta del tabacco e quella dello zucchero, come scriveva Fernando Ortiz (1881-1869) in Contrappunto cubano del tabacco e dello zucchero (2007), per il quale «il tabacco e lo zucchero sono i personaggi più importanti della storia di Cuba».
Quanto a personaggi realmente esistiti, interessante la figura di Esteban Montejo, che nel 1963, all'età di centotre anni, racconta la sua vita da schiavo di piantagione a Miguel Barnet (1940), che la raccoglie con i metodi della ricerca etnologica e la trascrive in Autobiografia di uno schiavo (Cimarrón) (1998), al quale fa seguito, tra altri, la raccolta di racconti Le regine dell'Avana (2007), altrettanti ritratti femminili che narrano storie legate alla Cuba della rivoluzione castrista. Alla prima generazione dei grandi autori cubani appartengono di diritto due intellettuali molto noti e amati anche in Italia, figure attive non solo sul piano della produzione narrativa e saggistica, ma anche su quello dell'impegno politico-culturale in senso ampio: José Lezama Lima (1910-1976), il cui romanzo Paradiso(2001) è considerato dalla critica uno dei grandi capolavori in lingua spagnola del secolo scorso; e Alejo Carpentier (1904-1980), scrittore, giornalista, uno dei maggiori rappresentanti della corrente latino-americana del cosiddetto "realismo magico", al quale si deve Il secolo dei lumi (2001) considerato dagli studiosi un vero capolavoro. Ma non vanno dimenticati L'Avana, amore mio (2004), L'ufficio di tenebre e altri cuentos (2000), che compongono un affascinante ritratto de L'Avana, città che è al centro della narrativa di numerosi tra questi autori, primo fra tutti Guillermo Cabrera Infante (1929-2005), che ne parla ne Il libro delle città (2001), in Mea Cuba (2000), Tre tristi tigri (2006), e in La ninfa incostante (2012), apparso postumo con un saggio di Mario Vargas Llosa.
Dalla storia non si sfugge, questi autori paiono ricordarci, anzi, alla storia la narrativa ritorna, in forme sempre nuove e talvolta inconsuete. È il caso di Il mare delle lenticchie, (2005) di Antonio Benítez Rojo (1931-2005): quattro narrazioni diverse ma intrecciate con apparente casualità a comporre la storia della conquista spagnola di Cuba fino alla morte di Filippo II, in una sorta di mappa disegnata su un tratto centrale del mar dei Caraibi che ne è scenario e protagonista. Tra gli autori cubani più tradotti e amati in Italia è Leonardo Padura Fuentes (1955), che esordisce nel giornalismo culturale e storico per poi passare alla narrativa, con una ricca serie di romanzi, vero e proprio filone narrativo, al entro dei quali si colloca il personaggio del tenente Mario Conde, un poliziotto con il segreto desiderio di fare lo scrittore. Narrazioni che attraverso l'uso del genere poliziesco consentono all'autore di tracciare una storia di Cuba nel corso di decenni cruciali per la sua storia e arrivare sino al presente, come in Paesaggio d'autunno (2001), Maschere (2003), La nebbia del passato (2008), Passato remoto (2011), per non citare che alcuni dei numerosi titoli di questa singolare saga letteraria; alla quale si affiancano tuttavia narrative intense e dall'ampio respiro storico quali Il romanzo della mia vita (2005) e L'uomo che amava i cani (2010).
Alla stessa generazione di Padura Fuentes appartengono Abilio Estévez, nato a Cuba nel 1954, da alcuni anni residente in Spagna, autore di opere teatrali, poesie, racconti, di un bel saggio su L'Avana e di due raffinati romanzi apparsi in italiano, Tuo è il regno (1999) e I palazzi lontani(2006); e Senel Paz (1950), intellettuale eclettico, giornalista, sceneggiatore, al quale si deve Nel cielo con i diamanti (2007), appassionato ritratto di Cuba negli anni '70, con i fermenti culturali e generazionali che la attraversano. Uno dei suoi racconti più noti, Fragola e cioccolato, del 1990, tradotto in molte lingue ha avuto numerosi adattamenti teatrali, culminati in una trasposizione cinematografica di grande successo.
Tra le voci femminili cubane spiccano quelle di Ena Lucia Portela, nata a L'Avana nel 1972, da molti ritenuta la figura di maggior talento della sua generazione, autrice di Cento bottiglie sul muretto (2006), premiato dalla critica francese come il miglior romanzo latinoamericano del 2004 per la forza dello stile e l'originalità della costruzione narrativa; Daína Chaviano (1960), autrice di romanzi di fantascienza, mitologici e a sfondo storico, alla quale si deve L'isola degli amori infiniti, pluripremiato nonché pluritradotto; romanzo nel quale attraverso il dialogo tra due donne di età diversa, ambedue rifugiate negli Stati Uniti, si ripercorre attraverso i secoli la lunga e appassionante storia dell'isola di Cuba; la voce di Karla Suárez (1969), della quale sono apparsi in italiano Silenzi (2005), e La viaggiatrice (2007); e quella di Mayra Montero (1952), autrice di narrative che si distinguono per la freschezza di una scrittura fortemente legata alla cultura orale, come scrive Luis Sepúlveda nella introduzione a Come un tuo messaggero (2000), nel quale lo spunto per una storia d'amore viene offerto dal racconto della visita a Cuba, nel 1920, del grande tenore Enrico Caruso, di scena al Teatro Nacional dell'Avana nel ruolo di Radamés, nell'Aida di Verdi. E Tu, L'oscurità (1997), il cui io-narrante, Victor, è un erpetologo americano, studioso di anfibi, approdato ad Haiti alla ricerca dell'ultimo esemplare di una piccola rana color rosso brillante, causa di malasorte per chiunque oda il suo canto. Un romanzo che trabocca di magia, di odori, di rituali, di riferimenti alla natura ma anche di elementi sgradevoli, a tratti ripugnanti; deliberata strategia narrativa, quella di Mayra Montero, per sovvertire l'immagine oleografica e stereotipata di Haiti, come quella dei Caraibi tutti. Perché raccontare crea ordine, riporta la Storia nell'alveo che le compete, ma soprattutto, ti fa sentire in pace. Laddove «in pace vuol dire con il dolore messo al suo posto».
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Pubblicato il 20/04/2014
Note:
[1] Sono grata al prof. Stefano Tedeschi, docente di letterature ispano-americane presso La Sapienza, di Roma, nonché traduttore e curatore del testo di Antonio Benitez-Rojo, per i preziosi suggerimenti nella selezione di autori cubani da citare in questa breve e necessariamente concisa rassegna di voci