Giuliana Benvenuti - La letteratura francese oggi

La letteratura francese contemporanea è legata in Italia a un buon numero di scrittori ormai consacrati dalla critica e dal successo di pubblico, dei quali si sono tradotti più titoli. Autori i cui nomi sono legati alle grandi trasformazioni del romanzo non solo francese nel Novecento: si può pensare a un "classico" come Michel Tournier, che debutta nel '67, dopo la tipica carriera filosofica dell'intellectuel francese (studi condotti alla Sorbonne, insieme ai compagni di corso Gilles Deleuze e Michel Butor, e più avanti al Musée de l'Homme sotto la guida di Claude Lévi-Strauss), con Venerdì o il limbo del pacifico, un romanzo-riscrittura in chiave foucoltiana del Robison Crusoe di Defoe. Oppure si può pensare, per fare qualche altro esempio, a Philippe Sollers, frequentatore di Barthes e Kristeva e fondatore nel 1960 della rivista d'avanguardia Tel quel; alla scrittrice e regista Marguerite Duras, alla franco-belga Marguerite Yourcenar, agli esponenti del Nouveau Roman – Nathalie Sarraute, Alain Robbe-Grillet, Michel Butor e Claude Simon (tutti e quattro pubblicati dalle Editions de Minuit); all'esperienza dell'OuLiPo e ai nomi, in Italia ad esso legati, di Raymond Queneau e George Perec. Pensiamo anche a scrittrici e scrittori che hanno raggiunto ampia notorietà, come Françoise Sagan, che, giovanissima, ha ottenuto in Francia un largo successo di vendite con Buongiorno tristezza (1954, traduzione Longanesi 1958), si è subito imposta come modello narrativo per alcuni dei registi nella Nouvelle Vague, e ha poi conquistato il pubblico italiano proponendosi come portatrice, nella vita e nell'opera, di unanticonformismo disilluso che mette in scena situazioni limite(2009 Toxique, traduzione Barbès2010), naufragi e pulsioni distruttive (1959 Le piace Brahms?,traduzione Bompiani 1959).

Grande successo di pubblico, forse maggiore in Italia che in Francia, è stato raggiunto da Daniel Pennac  (nato a Casablanca nel 1944) con il fortunato ciclo di Benjamin Malaussène, caratterizzato da un tono leggero, insieme ironico e grottesco. Le inverosimili peripezie della famiglia Malaussène nel multietnico quartiere parigino Belleville, i rovesciamenti di prospettiva (ad esempio i Babbi Natale idrofili e i grandi magazzini riempiti di bombe nascoste tra i doni nel Paradiso degli orchi – 1985, traduzione Feltrinelli 1991, dal quale anche un film, uscito con lo stesso titolo, in Italia, nel 2013 – o gli anziani del quartiere messi al centro degli interessi del commercio di droga e di misteriosi assassini nella Fata Carabina, 1987, traduzione Feltrinelli 1992) e le trovate visionarie e paradossali hanno fatto di Pennac un autore di grande successo commerciale. Ma Pennac è autore anche di un secondo ciclo, questa volta per ragazzi: quello di Kamo (ricordiamo alcuni titoli tra i più fortunati: Kamo. L'agenzia Babele, 1992 traduzione Emme 1994; Io e Kamo, 1992 traduzione Emme 1995; Kamo. L'idea del secolo, 1993 traduzione Emme 1996) e di un discreto numero di altri libri per bambini e ragazzi (tra i quali L'occhio del lupo 1984 traduzione Salani 1993, e Signori bambini traduzione Feltrinelli 1998, nuovamente giocato su un rovesciamento di prospettiva e di ruoli tra genitori e figli) e di fumetti. Grande successo ha avuto anche il suo libro in difesa dei diritti del lettore Come un romanzo (1991, traduzione Feltrinelli 1993) e, più recentemente, il saggio Chagrin d'école (2007, traduzione Feltrinelli 2008 con il titolo, alquanto 'normalizzato', Diario di scuola), nel quale l'insegnante liceale Pennac tratta la questione della vita scolastica dal punto di vista dell'allievo, e specialmente del cattivo allievo, restituendo a quest'ultimo le ragioni del disagio e della quotidiana "angoscia" scolastica, e intrecciando  ricordi autobiografici (l'autore racconta il proprio passato di pessimo scolaro), riflessioni pedagogiche, analisi del dis-funzionamento della scuola come istituzione e un esame sul ruolo sociale dei genitori e dei figli.

Del tutto diverso, invece, il caso di un autore come Patrick Modiano, non ancora compreso a fondo dal pubblico italiano, il cui esordio letterario data al 1968 (La Place de l'étoile) e che da allora, nei numerosi romanzi e nelle sceneggiature cinematografiche (ha lavorato con Louis Malle e Patrice Leconte) – spesso costruiti, con maniacale precisione e amore per il dettaglio, – si è interrogato sull'enigma del ricordo e sulle complesse, ambigue relazioni esistenti tra vittime e carnefici, tornando a sondare il buco nero della persecuzione antisemita (Dora Bruder, 1997, traduzione Guanda 1998), e con essa la Parigi occupata dai nazisti (già in La Place de l'étoile, e poi in Les Boulevards de ceinture, 1972, traduzione Rusconi 1973), e con ciò ha riportato in auge in Francia – alla fine nell'ultimo trentennio del Novecento – proprio il periodo dell'Occupazione nazista in quanto "scenografia" narrativa dura e misteriosa, abilmente giocata sulla segreta demistificazione di certe atmosfere del noir. Chi può dire se il successo di La Place de l'étoile e Les Boulevards de ceinture abbiano influito, magari anche dall'"esterno", su un regista attento alle letteratura come François Truffaut, che nel 1980 ambienta il film Le dernier métro (in Italia L'ultimo metrò, uscito nel 1981), proprio nella Parigi occupata dai nazisti? Quello che occorre notare, però, è che nei romanzi di Modiano la finzione prende spesso avvio da una solida base documentaria, e lo scrittore raccoglie, enumera e testimonia le proprie ossessioni personali per tramutarle poi in materia della scrittura (persecuzione, colpevolezza, fobia della perdita), giungendo a situazioni limite dal punto di vista narrativo (è quello che accade in Rue de boutique obscure, 1978, traduzione Rusconi 1979, dove il narratore è detective di se stesso). Dai primi romanzi fino a Bijou (2004, traduzione Einaudi 2005) a L'orizzonte (2010, traduzione Einaudi 2012), Modiano tenta di sciogliere il filo di una memoria opaca, nella quale protagonista quasi assoluta sembra essere Parigi: «Sono ricordi enigmatici di luoghi, persone e situazioni che tornano ad ossessionarmi. Io provo a liberarmene attraverso la scrittura, che quindi, più che la ricerca di un tempo perduto, rappresenta il tentativo di risolvere un enigma, cercando di ricostruire pezzo a pezzo un quadro inizialmente confuso e incomprensibile». Ed è proprio sulla scia di questa riscoperta angosciosa di piccoli eventi da indagare che si svolge anche la trilogia di romanzi del 1988-1993 che l'editore Lantana ha recuperato per il pubblico italiano (Remise de peine, traduzione 2011, Riduzione di pena; Fleurs de ruine, traduzione 2012, Fiori di rovina; e Chien de printemps, non ancora tradotto).

A un simile Pantheon hanno avuto via via accesso autori che solo recentemente sono entrati a far parte del novero delle voci ritenute interessanti e innovative in patria, o che si impongono per il successo di vendite presso il pubblico francese. Sono gli scrittori che hanno conquistato la scena a partire dagli anni Ottanta, segnando con la loro opera una sorta di spartiacque  sia perché hanno riscoperto il romanzo di genere (un po' come è avvenuto anche a molti narratori italiani, più o meno negli stessi anni), e più in generale sono tornati al gusto del racconto, dopo la stagione fortemente sperimentale degli anni del Noveau Roman, dell'OuLiPo e dello strutturalismo; sia perché a quella stagione sperimentale si sono comunque ricollegati, portandola però ad esiti imprevisti. Di questa generazione di scrittori, che si affacciano alla scena pubblica in anni di grande trasformazione della scena internazionale (pensiamo anche solo a due date simboliche: il 1989, anno della caduta del muro di Berlino; e il 2001, anno dell'attacco alle Twin Towers di New York) ci occuperemo nelle note seguenti, dal momento che alcuni suoi rappresentanti hanno ottenuto un discreto, a volte notevole, successo di pubblico e di critica nel nostro paese, e hanno contribuito a un dialogo transnazionale che vede ovviamente coinvolta anche la letteratura italiana.

Se consideriamo l'ingente mole di romanzi prodotta in Francia negli ultimi venti-trent'anni, dovremmo subito notare come, nella difficile scelta di quali titoli proporre al pubblico italiano, gli editori italiani si siano fatti guidare essenzialmente (si perdonerà l'approssimazione con cui si accenna a questo punto della questione, ma lo spazio dell'intervento richiede una sintesi estrema) dal successo di pubblico ottenuto in Francia e dall'assegnazione di premi prestigiosi, primo fra tutti il Goncourt. Un altro parametro sembra essere stato l'importazione di romanzi appartenenti a quei generi che in Italia ottengono maggiore successo commerciale (giallo e noir in testa, ma anche autobiografia, romanzo storico,  romanzo di introspezione o di critica sociale), al quale si affianca la scelta di puntare su alcuni autori che hanno segnato una novità anche all'interno delle consuete partizioni di genere, dando vita all'autofinzione o segnalandosi come eredi del Nouveau Roman. L'ingenuità con la quale propongo alcune classificazioni di genere è soltanto apparente e, per così dire, di comodo: non è infatti questa la sede per riprendere l'articolato dibattito sulla vitalità o meno in Francia del "romanzo" nella contemporaneità, che oscilla tra nostalgia del passato ed entusiasmi promozionali, ma certo vede anche voci critiche misurate e ponderate.

Vero è che si è arrivati a parlare di una crisi d'identità del romanzo francese, di una perdita di centralità della produzione romanzesca contemporanea, vero è anche che molti sono al contrario gli autori che hanno ampiamente attraversato i confini nazionali e lasciato il segno, non solo in Italia. Sotto questo aspetto, il "caso Littel" è particolarmente significativo di una certa permanenza – in ambito europeo e mondiale – dell'autorevolezza culturale francese, e insieme però di una trasformazione dei modi di diffusione e delle modalità ormai decisamente transnazionali della circolazione letteraria. Jonathan Littel, infatti, nato a New York nel 1967, ma cresciuto in Francia, debutta non più giovanissimo nel 2006 (ha 39 anni) con un romanzo fluviale scritto in francese che si intitola Les Bienveillantes (traduzione Einaudi 2007), e che ha subito un clamoroso successo mondiale. Il paese capace di generare il grande "caso" letterario è la Francia, ancora una volta, come accadeva fino alla fine degli anni Sessanta; ma lo scrittore è americano, e americano il modello imprenditoriale-editoriale e di pubblicizzazione internazionale del romanzo sul quale si fonda il grande successo delle Benevole.

Su Littel si tornerà tra breve, ma era il caso di citarlo anche qui per far toccare con mano come il panorama francese, e la sua capacità di imporsi sul mercato mondiale (e dunque anche su quello italiano), siano cambiati, senza per forza essere decaduti a paesaggio polveroso o disabitato. E così, degli scrittori francesi che compongono questo panorama, tra loro profondamente diversi, cercheremo di fornire un rapido profilo in queste pagine considerando che, dati i numerosi titoli tradotti, è difficile compito quello di fornirne una mappa credibile. Procederò dunque a colpi d'ascia, per tracciare le linee della fortuna italiana dei romanzieri francesi, ricordando che non mancano, ovviamente, traduzioni di opere poetiche e pièces teatrali, che tuttavia, in questa breve sintesi non potranno essere menzionate. Il privilegio accordato al romanzo è inevitabile, quando l'intenzione sia quella di fornire un quadro degli autori più noti al grande pubblico. Un'ultima parola va spesa sulla traduzione, non per aprire un discorso complesso e complessivo sulle relazioni tra le letterature del mondo oggi, relazioni che vedono nelle politiche di traduzione un punto dirimente, e nelle scelte traduttive – oltre che nelle scelte di quali opere tradurre – una questione cruciale; non per questo, ma invece per ricordare un fatto minimo e ovvio, cioè che tra l'uscita di un libro e quella della sua traduzione in altra lingua possono passare periodi più o meno lunghi, che modificano la percezione della sua attualità entro contesti diversi da quello di origine. Così, come il lettore avrà già notato, si è scelto di fornire l'indicazione della data di pubblicazione francese e accanto ad essa l'editore e la data della prima traduzione italiana, e di rinunciare (anche perché si tratta di notizie che facilmente si reperiscono on-line), all'indicazione  della traduzione attualmente disponibile.

Il caso recente forse più notevole di affermazione di uno scrittore francese entro il nostro panorama letterario è quello Michel Houellebecq. Scrittore, regista e sceneggiatore, si è imposto all'attenzione del pubblico italiano con Le particelle elementari (Bompiani 1999, attualmente tradotto in più di 25 paesi), libro che ha acceso, come altri successivi, un interessante e animato dibattito critico anche in Italia. Pubblicato in Francia nel 1998, esso ha provocato l'esclusione del suo autore dalla rivista letteraria Perpendiculaire, a causa delle idee estreme delle quali sono portatori i suoi personaggi. Nei suoi romanzi Houellebecq tocca questioni destinate a creare scandalo, come il turismo sessuale e la clonazione umana, mantenendo sempre al centro della narrazione l'assoluta miseria affettiva dell'uomo contemporaneo.

Accanto a quelli di François Bon, Emmanuel Carrère, Pierre Bergounioux, Pascal Quignard, Pierre Michon, Leslie Kaplan, il nome di Houellebecq è associato in Francia alla produzione di una "finzione critica", ovvero di una letteratura impegnata a condurre una critica spesso caustica e spietata del proprio tempo in un dialogo costante con l'elaborazione delle scienze umane e delle scienze «dure»  e impegnata a istituire un rapporto peculiare con il grande romanzo francese, visto non come insieme di modelli letterari "alti", ma piuttosto come insieme di opere singolari. Il caso Houellebecq è interessante da molti punti di vista: si tratta di un autore arrivato al successo attraverso canali inusuali e capace di catalizzare una insolita attenzione mediatica: il romanzo d'esordio Estensione del dominio della lotta (traduzione Bompiani 2000), pubblicato da Maurice Nadeau nel 1994, era stato in precedenza rifiutato da numerosi editori, e in Italia è arrivato solo dopo il successo di Le particelle elementari. Opera-sintomo, così è stato definito questo romanzo, costruito per risultare sgradevole al pubblico, italiano non meno che francese, perché calpesta i valori liberali e libertari, borghesi e bohème, accreditati negli anni 2000. Nei libri di Houellebecq l'industria del sesso è posta sotto accusa non più di quanto lo siano il piacere domestico, il benessere materiale e la tolleranza. L'ideologia degli anni Settanta è messa sotto accusa, ma lo è parimenti la svolta new age degli anni Novanta. La critica serrata del presente prosegue in La possibilità di un'isola (2005, traduzione Bompiani 2005) fino a La carta e il territorio (2009 traduzione Bompiani 2010) dove l'autore diventa uno dei protagonisti della narrazione, entra nel filone dell'«autofinzione».

Di autofinzione (autofiction) ha parlato per primo il critico e teorico della letteratura Serge Doubrovsky, poi passato al romanzo con Fils (1977) – testo "letterario" non tradotto in italiano, come è successo ai suoi successivi, e come è successo anche per la maggior parte delle sue scritture critiche (del Doubrovsky teorico, in italiano, si segnala solo la traduzione di Critica e oggettività, uscito da Marsilio nel 1967), – nel quale ha intrapreso una riflessione fondata sulla ricerca psicanalitica e sul valore da essa attribuito alla strutturazione narrativa e verbale dell'identità, mettendo in crisi le tradizionali definizioni dell'autobiografia, smantellando l'impianto narrativo classico e mutuando le scelte stilistiche antiromanzesche del Noveau Roman. Il termine "autofinzione" ha avuto larga risonanza e oggi – in Francia, in Italia e altrove – indica in termini più generali una narrazione che non rispetta il "patto autobiografico", ossia non promette al lettore un racconto "veritiero", ma anzi intreccia programmaticamente e dichiaratamente eventi reali e fiction. L'autofiction ha così avuto diverse e a volte opposte declinazioni: è divenuta lo spazio testuale nel quale il soggetto può creare identità plurime e fittizie, con euforica onnipotenza, e nello stesso tempo il luogo di una riflessione critica sul disorientamento prodotto dalla confusione tra il piano del reale e quello finzionale nell'epoca ipertecnologica. All'interno della vasta area delle scritture del sé, la critica francese opera oggi distinzioni maggiormante articolate: si distingue tra autodizione (Annie Ernaux, Hervé Guibert), autoscrizione (Pierre Bergounioux, Pierre Michon, Jean Rouaud), autofabulazione (Philippe Sollers, Pascal Quignard, Pierre Michon, Gérard Macé, Richard Millet, Jean-Benoît Puech), e così si cerca di dimostrare come la centralità della riflessione sulla soggettività e le sue diffrazioni, e sull'identità socialmente costruita, prenda forme diverse ma resti all'ordine del giorno.

Emmanuel Carrère, scrittore e regista, ha raggiunto il pubblico italiano con la traduzione di varie opere, da Bravura (1984, traduzione Marcos y Marcos 1991) fino a Vite che non sono la mia (2009, traduzione Einaudi 2011) e Limonov (2011, traduzione Adelphi 2012). La fortuna dello scrittore è legata soprattutto a La Moustache (1986, diventato il film di successo L'amore sospetto diretto dallo stesso Carrère), che prende le mosse per una riflessione sull'identità (memore, si direbbe, delle novelle pirandelliane) da un evento apparentemente banale, il taglio dei baffi del protagonista, del quale però né la moglie né gli amici si accorgeranno, negando anzi che Marc abbia mai avuto i baffi. I baffi però compaiono in una foto, che tuttavia non sembra bastare a nessuno come prova. Marc scivola così nella confusione e nella paranoia, la vicenda si fa via via più ambigua e difficile da districare anche per il lettore, che nel finale è lasciato sospeso a un dubbio che non può sciogliere l'enigma. Carrère è autore anche del libro-inchiesta su un macabro caso di cronaca, L'avversario (1993, traduzione Einaudi 2002) e di Facciamo un gioco (titolo originale L'usage du monde, 2002, traduzione Einaudi 2004), esempio, quest'ultimo, di letteratura performativa, ma anche di autofinzione (ripresa poi in La vita come un romanzo russo 2007, traduzione Einaudi 2009), dal momento che la lettera che Carrère scrive alla sua donna, e nel contempo pubblica su Le Monde, ci invita a partecipare al gioco. L'autore chiede al lettore di  raccontargli le sue reazioni e riporta, alla fine del libro, le più interessanti. Il nome di Carrère è legato anche alla singolare biografia di Philip K. Dick, Io sono vivo, voi siete morti (1993, traduzione Hobby&Work 2008), e recentemente ha nuovamente fatto parlare di sé per Limonov (vincitore del Prix Renaudout nel 2011), altra biografia "particolare", ossia romanzo in chiave di etero-fiction, se si passa il termine, nel quale si romanza la vita dello scrittore e uomo politico Eduard Limonov (pseudonimo di Eduard Veniaminovich Savenko), fondatore e leader del partito Nazional-Bolscevico russo, imprigionato nel 2001 con l'accusa di cospirare contro l'ordine nazionale e di praticare il traffico di armi.

Di "Nouveaux Nouveax Romanciers", di "scrittura minimalista" e di "scrittori impassibili" si è parlato a proposito di un gruppo di giovani autori pubblicati dall'editore Minuit. Non si può vedere in essi i rappresentanti di una nuova scuola o corrente letteraria, ma piuttosto un insieme di scritture anche molto diverse che condividono una certa inclinazione al minimalismo e all'impiego di strategie distanzianti. I libri che hanno segnato la nascita di questo raggruppamento sono Il Meridiano di Greenwich (1979) di Jean Echenoz e La stanza da bagno (1985, traduzione Guanda, 1986), dello scrittore e regista belga Jean-Philippe Toussaint, entrambi autori con un discreto numero di titoli tradotti.

A ben guardare, la diversità di questi due scrittori – là dove Toussaint costruisce le sue opere attorno a linee narrative che si intersecano e si biforcano, ricercando l'astrazione geometrica, Echenoz mette in scena il disinganno del romanzesco – si incontra forse nella definizione un po' sfuggente e forse anche fuorviante di "minimalismo", al costo però di intendere, con questa espressione, una certa propensione alla litote piuttosto che alla glossa, e dunque la messa in pagina del discorso narrativo come reticenza protratta, come ironia etica che lavora sui bordi del dettaglio eventuale e narrativo, sopra il sentimento della sua inutilità bio-grafica e – proprio per questo – della sua verità letteraria. Il racconto così concepito, dunque, muove dal basso profilo di una o più esistenze ordinarie, senza tuttavia che a venir meno sia il romanzesco, ma – solo apparentemente – le ragioni più esteriori e più ovviamente vulgate del "romanzesco" genericamente inteso.

L'ironia offre a questi scrittori una possibilità continua di scarto dai sentieri narrativi battuti dagli altri (anche in termini di ironia praticata sui generi o sulle mode letteraria del tempo), e rappresenta la possibile alternativa di una scrittura che procede per spostamenti ludici, parodici e a tratti spudoratamente derisori. Il suo bersaglio sono gli enunciati psicologici, le figure esistenziali, le modalità di pensiero correnti alle quali si oppone una "estetica della disinvoltura" che rappresenta il mondo attuale e l'uomo attraverso una strategia della distanza scientemente calcolata. È quanto accade in Me ne vado (1999, traduzione Einaudi 2000) di Echenoz, che costituisce un dittico con Un anno (1997, traduzione Einaudi 1998), e nel romanzo Al piano (2003, traduzione Einaudi 2008), dove l'ironia non ha soltanto una funzione critica e corrosiva, bensì mira a indurre una riflessione acuta sull'umanità civile. Si stabilisce in tal modo una sorta di paradosso: la scrittura minimale conosce un campo di applicazione molto esteso: non rincorrendo l'unità del fatto combina unità formali a partire dalle quali costruisce finzioni articolate e variazioni minori che si svolgono in forme sofisticate e affrontano questioni complesse.

Scrittore di romanzi brevi e nitidissimi, dal discorso fintamente lineare, la critica ha visto in Jean Echenoz il rappresentante del postmodernismo francese e lo ha considerato uno dei massimi autori della contemporaneità. Questa sua declinazione postmoderna ha trovato motivi di appiglio critico anche nella "trilogia" etero-finzionale (ma diversissima è la modalità di queste etero-fictions, rispetto a quella di un Carrère) di Ravel. Un romanzo (2006, traduzione Adelphi 2007), Correre (2008, traduzione Adelphi 2009) e Lampi (2010, traduzione Adelphi 2012), rispettivamente dedicati al musicista Ravel, all'atleta cecoslovacco Emil Zátopek e allo scienziato Gregor, sotto i panni del quale si nasconde il personaggio storico Nikola Tesla. Che siano esplicitamente inquadrati nella loro personalità storica, o invece travestiti da una condizione anagrafica finzionale (che tuttavia non nasconde la loro origine), questi personaggi di Echenoz sono tutt'altro che biograti nel senso tradizionale. Anche la linea della "biografia romanzata" è qui presa in contropiede: quello che si narra è spesso l'accidentalità, l'enigma delle intenzioni, il fallimento e il destino ciecamente vuoto di una vita che finisce nella dimenticanza e nella miseria. Ma questa vuotezza fatale, e cieca, è raccontata per indizi e piccoli oggetti, per eventi minimali e riduttivi, e allo stesso tempo indagata con la lente dell'ironia. I personaggi "biografati" da Echenoz sono eroi tanto involontariamente buffi, quanto nevrotici e maniacali. Ed è lo stesso rigore di questa messa in scena romanzesca, la medesima maniacalità del discorso narrativo, cioè, ad aver assicurato a Echenoz un grande prestigio internazionale e, allo stesso tempo, un successo selezionato, presso un pubblico a lui affezionato ma non certo di massa.

Un esempio di minimalismo, di una scrittura che pare domandarsi quale sia il senso di attribuire una forma a un mondo che si dà come informe, è La sala da bagno (1985, traduzione Guanda 1986) dello scrittore e regista belga Jean-Philippe Toussaint, nel quale il personaggio-narratore sembra fare il minimo di ciò che gli altri si aspettano da lui (mantenendosi in bilico tra rifiuto e apertura verso la dimensione sociale), così come il romanziere fa il minimo di ciò che da lui si attende il lettore. Verso le linee di un quadro astratto di Mondrian sembrano tendere anche le linee narrative delle opere di Toussain, tra le quali La macchina fotografica (1988, traduzione Guanda, 1991), La televisione (1997, traduzione Einaudi, 2001), Fare l'amore (2002, traduzione nottetempo, 2003), Fuggire (2005, traduzione Fandango, 2008), La malinconia di Zidane (2006, traduzione Casagrande 2007), La verità su Maria (2009, traduzione Barbès 2012) e il saggio L'urgenza e la pazienza (2012, traduzione Clichy 2013), dedicato alle ragioni più intime, più "mentali", più concettuali della scrittura e della lettura.

Uno scrittore che cerca di dare sostanza a una nuova forma romanzesca in quanto sfida all'immaginario dominante non tanto nella forma di una combattiva creazione di contro-cultura, ma semmai nella costruzione di un discorso dolente e amaro, è Antoine Volodine, autore quasi non tradotto in italiano – di lui abbiamo solo il recentissimo Scrittori (2010, traduzione Clichy 2013) – che ha proposto l'interessante concetto di post-esotismo (nello "strano" romanzo intitolato appunto Le Post-exotisme en dix leçons, leçon onze, e pubblicato da Gallimard nel 1998: una sorta di corrosione dell'insolito all'interno di una commistione di territori letterari quali il meraviglioso, il fantastico, la fantascienza riscritta à la Céline, l'horror). Volodine mette in gioco le inquietudini di un mondo caotico, nel quale regnano l'eccesso, la manipolazione e il terrore (detenzione, servizi segreti, interrogatori, raddoppiamenti d'identità), rappresentato in forma allucinatoria attraverso la moltiplicazione dei livelli narrativi, la soppressione delle opposizioni binarie, l'oscillazione tra assenza ed eccesso di memoria. Menzioniamo tra i suoi romanzi Lisbonne, dernière marge (1990), favola politica nella quale, sullo sfondo di ossessioni ritornanti (sensazioni di repulsione e di decomposizione), emergono i temi della demenza, della guerra, del terrore e situazioni limite (lotta armata, incarcerazioni).

La svolta del millennio, i mutamenti in seno all'idea stessa di civilizzazione, il restringersi dei margini di azione: a quali valori può attingere il discorso che voglia interpretare il mondo e costituire un risveglio, non soltanto una provocazione, come accade nei testi di Amélie Nothomb? Scrittrice belga, nata in Giappone, Nothomb si segnala per la vasta produzione: di lei sono tradotte decine di titoli (solo tra i più recenti La nostalgia felice, 2013, traduzione 2014; Barbablù, 2012, traduzione 2013; Uccidere il padre, 2011, traduzione 2012; Una forma di vita 2010, traduzione 2011; Il viaggio d'inverno, 2009, traduzione Voland – come tutte le precedenti – 2010). La vasta produzione, che testimonia del suo largo successo di pubblico, mette in scena una galleria di ossessioni, scavando nel lato oscuro delle relazioni umane. Nerissima è anche la produzione di Thierry Jonquet, il cui libro più noto, dal quale Pedro Almodóvar ha tratto il film La pelle che abito, è La tarantola (traduzione Einaudi 2008), costruito intrecciando storie estreme di orrore e abuso dei corpi.

In questi ultimi anni, si sa, il genere del poliziesco, spesso mescidato con il noir e talora anche con il romanzo storico, ha avuto un largo successo di pubblico. In Italia, ma ancora prima in Scandinavia e anche in Francia. Se ogni paese produce il proprio vivaio di giallisti e scrittori di noir, fruttuoso – dal punto di vista commerciale – è anche il fenomeno dell'importazione, che magari gode della "riscoperta" (diciamo così) di narratori in patria già noti. È questo il caso della trilogia marsigliese di Jean-Claude Izzo (Casino totale 1995, traduzione 1998; Chourmo. Il cuore di Marsiglia 1997, traduzione 1999; Soléa 1998, traduzione 2000), italiano per parte di padre, poeta prima che romanziere, e autore, oltre che di questa trilogia, anche del romanzo Il sole dei morenti (1999, traduzione e/o 2001) e di un volume di scritti sparsi uscito pochi mesi dopo la morte prematura (Marseille 2000, traduzione e/o – come tutti i precedenti – 2006, con il titolo Aglio, menta e basilico. Marsiglia, il noir e il Mediterraneo). Nella trilogia, per la quale si è creata l'etichetta di "noir mediterraneo", non è lo spazio di Parigi ad essere protagonista, bensì quello di una Marsiglia meticcia e mediterranea, percorsa dal singolare poliziotto Fabio Montale (marsigliese di origini salernitane, come l'autore), che analizza la scena criminale e il proprio ruolo in essa con disincanto, consapevole della forza dei nuovi poteri che si impongono nell'età globale, ma al tempo stesso ancora capace di condividere, con indignazione e senza scandalo, il dolore di vite vissute ai margini. La Marsiglia di Izzo, porto cosmopolita, è un una città sospesa tra lo splendore del Mediterraneo e l'oscura trama di interessi criminali che la percorrono. È, come la Sicilia di Sciascia, una metafora. La xenofobia che minaccia una città che nella mescolanza di idiomi e culture ha la sua ricchezza, la violenza che si fa strada tra i più giovani, ma non è solo violenza criminale, bensì anche violenza della legge e degli uomini di una polizia che Montale abbandona perché razzista e corrotta, mostrano quella volontà di denuncia che Izzo ha esercitato anche nelle sue scomode inchieste giornalistiche. L'amore per la città, per il mare che la lambisce, per le contaminazioni di lingue e costumi – esemplificate dai sapori dei cibi e dall'incontro dei corpi – fanno da contraltare alla cupa presenza di intrecci criminali e collusioni di fronte ai quali l'atteggiamento di Montale e del suo autore non è facilmente consolatorio.

Di ambientazione mediterranea, e precisamente italiana, i romanzi di Laurent Gaudé esplorano le contraddizioni del nostro meridione affacciato su un Mediterraneo segnato dalle molte patenti contraddizioni della contemporaneità. Dall'esplorazione del mito di La morte di re Tsongor (2002, traduzione Adelphi 2004), romanzo dall'impianto drammaturgico (Gaudé è anche drammaturgo) dove l'interrogazione riguardava l'universalmente umano, Gaudé – tradotto, dopo La morte di re Tsongor, esclusivamente dall'editore Neri Pozzi, che ha riproposto anche Romain Gary – si è spostato verso la rappresentazione di Napoli, della Puglia, della Sicilia, luoghi nei quali, intrecciata alla tragedia, si riconosce la possibilità di una resistenza affidata alla fraternità, anche di fronte al dramma dell'immigrazione. Ricordiamo, tra i suoi romanzi, Gli Scorta (2004, traduzione 2005), Eldorado (2006, traduzione 2007) e La porta degli inferi (2008, traduzione 2009).

Un giallo insolito e divertente, che ha come sua ragione d'essere una riflessione acuta sull'editoria, la qualità dei romanzi e la traduzione, è La libreria del buon romanzo della critica letteraria e scrittrice Laurence Cossé (2009, traduzione e/o 2010), che racconta il sogno di una libreria fatta solo di capolavori, difende la letteratura di qualità e mette in evidenza i tanti libri di valore che potrebbero e dovrebbero essere tradotti. Sempre da e/o è stato pubblicato nel 2001 anche il romanzo della Cossé L'incidente, storia di una giovane donna coinvolta casualmente in una vicenda di cronaca nera. La cronaca, con il richiamo alla vicenda di Lady Diana SpencereDodi Al-Fayed, si mescola alla finzione nella narrazione di una vita che deraglia improvvisamente dai soliti binari. Più recenti, poi, le uscite italiane di La prova nascosta (1996, traduzione e/o 2014, ma il titolo originale recita Le coin du voile) e di Mandorle amare (2011, traduzione e/o 2012).

Tra i giallisti si è imposto recentemente all'attenzione di pubblico e critica Antonin Varenne. L'ispettore della sezione suicidi, Guérin, protagonista di Sezione suicidi (traduzione Einaudi 2011), è il tipo dell'ispettore intelligente e scomodo, relegato ad una sezione dove la depressione è garantita, ma non per lui, coinvolto da un'indagine su strani suicidi dai quali Varenne fa emergere la dimensione sociale della scelta estrema di togliersi la vita. Più recente l'uscita del romanzo L'arena dei perdenti (traduzione Einaudi, 2013), ambientato nel 2008 e nel 1957, tra palestre pugilistiche, bordelli algerini, indagini poliziesche e lotte di liberazione nazionale.

Il ricorso a una narrazione rassicurante e di ampio successo caratterizza la produzione di Katherine Pancol (nata a Casablanca) che ha creato con Josephine Cortés un personaggio che vuole incarnare «una donna normale alle prese con le normali vicissitudini della vita normale delle donne normali», che naturalmente vedrà messa in discussione la propria normalità nella trilogia di bestsellers pubblicata da Baldini e Castoldi Dalai Editore nel 2011 Gli occhi gialli dei coccodrilli (2006), Il valzer lento delle tartarughe (2008) e Gli scoiattoli di Central Park sono tristi il lunedì (2010).

Dominique Mainard, traduttrice e scrittrice, si è imposta all'attenzione del pubblico italiano, e prima francese, con un libro divertente e commovente, L'agenzia dei desideri (titolo originale Puor Vous 2008, Bompiani 2010), nel quale i sogni si realizzano a pagamento, con cinica compassione e comprensione delle umane debolezze. L'amore infrangerà il cinismo, ma dalla lettura del libro resta l'impressione che, come afferma l'autrice, «fabbrichiamo le nostre curiosità a comando, su suggerimento dei media». Uscito l'anno dopo, almeno in Italia, Vorrei che anche tu mi ricordassi (2009, traduzione Saecula 2011) è ambientato in una piccola città francese e racconta di un'anziana donna che sente sfuggire la memoria delle cose di tutti i giorni, e per questo trascorre la propria giornata fotografando gli oggetti più minuscoli (le crepe nell'asfalto, i granelli di polvere, le venature delle foglie e così via). Il romanzo risente di certa atmosfere tra Böll e Marquez – quelle di un certo realismo magico – da lei tuttavia depotenziate e convertite in direzione decisamente sentimentale.

Eric-Emmanuel Schmitt, drammaturgo e scrittore, passa dai toni favolistici nel racconto delle vicissitudini e migrazioni dell'iracheno Saad di Ulisse da Baghdad (2008, traduzione e/o 2010) o della Parigi di Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano (2004, traduzione e/o 2006) alle domande inquietanti poste da una narrazione della storia fondata sul modello u-cronico del "what if", sul "cosa sarebbe accaduto se" Hitler fosse stato ammesso, come sperava, all'Accademia di Belle Arti (La parte dell'altro 2001, traduzione e/o 2005). Una biografia romanzata di tutt'altro segno e anch'essa di grande successo di pubblico e di critica è quella scritta da Gilles Leroy, che in Alabama Song (2007, traduzione  Baldini e Castoldi Dalai Editore 2008) narra l'incontro di Zelda con il sottotenente Scott Fitzgerald e in Sole nero (2000, traduzione Baldini e Castoldi Dalai Editore 2009) torna a indagare un universo femminile fatto questa volta più di disperazione che di follia.

Un caso letterario, mezzo milione di copie vendute in Francia in pochi mesi, ma anche attribuzione del Prix Femina, è quello di Dove andiamo papà? (2008, traduzione Rizzoli 2009) di Jean Louis Fournier, autore di serie televisive e scrittore già noto. Il successo ottenuto anche in Italia testimonia di come Fournier sia riuscito nell'arduo compito di raccontare una storia di disabilità con humor, malinconia e tenerezza. Altro caso letterario in Francia (50 ristampe e oltre 600.000 copie vendute) al suo apparire nel 2006, è L'eleganza del riccio (2006, traduzione e/o 2007) di Muriel Barbery, insegnante di filosofia, che ha raggiunto in Italia nel febbraio 2008 il primo posto nella classifica generale delle vendite. Divertente ritratto della borghesia, ambientato in un palazzo parigino, dove abita una singolare portinaia più colta degli inquilini, L'eleganza del riccio è il secondo romanzo di Barbery. Il primo Una golosità (2000, traduzione Garzanti 2001) ha conseguito il premio per il miglior libro di letteratura gastronomica, ed è stato ristampato nel 2008 dall'editore e/o – sull'onda del successo dell'Eleganza del riccio – con il titolo Estasi culinarie. Un discreto successo hanno avuto anche i romanzi erotici di Alina Reyes, sopratutto Il macellaio (1988, traduzione Guanda 1989) dal quale è tratto l'omonimo film diretto da Aurelio Grimaldi.

Lo scrittore e accademico francese Erik Orsenna (autore anche di diverse sceneggiature cinematografiche) si segnala per la rivisitazione ironica e nostalgica dell'esotismo. Orsenna ha fatto del viaggio, reale e immaginario, il centro propulsore della sua narrativa. L'esposizione coloniale (1988, traduzione Rizzoli 1989) narra la peregrinazione di Gabriel Orsenna, figlio di un libraio idealista, in terre lontane, tra nostalgia di un impero perduto ed epopea famigliare. L'Africa è la protagonista di Madame Ba (2003, traduzione Tea 2004), spiegata agli occidentali da una donna che ne incarna il fascino e la lontananza, mentre una Cuba affascinante quanto contraddittoria ci viene raccontata in Melodia cubana (1995, traduzione EDT 1999). Autore anche di libri per ragazzi, come I cavalieri del congiuntivo (2004, traduzione Salani 2004) nel quale gli arcipelaghi per i quali si viaggia sono quelli delle parole.

Di una ripresa del realismo magico la critica ha parlato a proposito di un gruppo di autori francesi, tra i quali la scrittrice Véronique Ovaldé. Con un linguaggio digressivo e un uso ironico delle parentetiche in Quello che so di Vera Candida (2009, traduzione Ponte alle Grazie 2011)quattro generazioni di donne raccontano la complessità del mondo femminile e dell'esperienza della maternità. Anche in questo caso la narrazione prende i toni della saga e dell'epopea, richiamando alla mente il modello di Gabriel Garcia Marquez. Di Ovaldé, è da poco uscito, in Italia, anche il romanzo Vivere come gli uccelli (2011, traduzione Ponte alle Grazie 2012).

Spicca tra le opere più recenti per qualità della scrittura e orginale intarsio di storia e memoria il romanzo di Laurent Binet HHhH, Il cervello di Himmler si chiama Hey­drich (2010, traduzione Einaudi 2011), vincitore del premio Goncourt lo scorso anno, il cui spunto potrebbe essere avvicinato – sia pure solo esteriormente – all'Hitler dell'italiano Giuseppe Genna (Mondadori, 2009). Un libro che non è solo un romanzo, con componenti autobiografiche, ma anche una sorta di saggio storico, frutto di un lavoro di documentazione notevole. La vicenda è quella dell'eroismo resistenziale dei due partigiani, Jozef Gabčik e Jan Kubiš, protagonisti dell'attentato che portò all'esecuzione di Reinhard Heydrich nel maggio del 1942. Heydrich (la Bestia Bionda, il Boia o il Macellaio di Praga), braccio destro di Himmler, Reichsprotektor ad interim di Boemia e Moravia dal settembre 1941 e ispiratore della Soluzione finale, è, insieme ai suoi esecutori, il protagonista di un "romanzo" nel quale la ricerca storiografica si salda a un originale impianto narrativo. Uno dei meriti del libro è quello di richiamare l'attenzione sulla centralità della storia ceca e slovacca (non solo in quegli anni). Se il gerarca nazista, l'eroismo dei partigiani e l'Operazione Antropoide (nome che sottolinea l'inumanità di Heydrich) – organizzata con l'appoggio di Churchill dal governo ceco in esilio a Londra, – sono il fulcro attorno al quale si organizza il racconto, la ricostruzione storica delinea con precisione l'intero scenario nel quale Heydrich ha operato. HHhH (acronimo di Himmlers Hirn heisst Heydrich) è una riflessione sulla relazione tra memoria, storia e romanzo. Binet inserisce nel racconto le proprie interrogazioni sulle parole e la loro capacità di restituire il passato, mette in scena le difficoltà di trascrivere la ricerca storica, trasformandola in narrazione: così facendo coinvolge il lettore in una riflessione che tocca il piano dell'etica della narrazione storica e dell'uso della storia in opere di finzione. Dei precedenti e dei successivi libri di Binet (Forces et faiblesses de nos muqueuses, 2000; La Vie professionnelle de Laurent B., 2004 e Rien ne se passe comme prévu, 2012), nessuno per ora è uscito in Italia. Occorrerà per questo cercare di capire, lasciando passare ancora il tempo, se il suo sbarco da noi si debba solamente all'ambientazione storico-fantastica di HHhH, e.

Vi è infine un settore che si è fino ad ora mantenuto distinto della produzione letteraria ed è quello della cosiddetta "francofonia". La lingua francese è utilizzata ampiamente al di fuori dei confini della nazione, anche in virtù di complessi rapporti postcoloniali. Esistono letterature scritte in lingua francese in diversi paesi africani, nel mondo arabo (nel Maghreb in particolare), in Canada, Belgio, Svizzera e nelle Antille. Con l'affermarsi entro i confini nazionali di una letteratura beur (prodotta da scrittori magrebini) e la proposta delle tante voci di autori e autrici migranti o figlie di migranti è sorto in Francia un dibattito critico rilevante, basti pensare alle nozioni di antillanità e creolizzazione venute dallo scrittore e saggista Éduard Glissant (1928-2011). Autore di riferimento per quanto riguarda la creazione di una letteratura nuova e ibridata, ossia di una letteratura-mondo, Glissant è saggista, poeta e romanziere. In italiano, sebbene tradotte tardivamente, sono ora disponibili, oltre a importanti opere saggistiche, quali Poetica del diverso (1996, traduzione Meltemi 1998) e Poetica della relazione (1990, traduzione Quodlibet 2005) e anche raccolte di poesie e romanzi come Il quarto secolo, (1964, traduzione Edizioni Lavoro 2003). Il registro scelto da Glissant è tuttavia, anche nella produzione saggistica, fortemente lirico e letterario: un buon esempio delle commistioni glissantiane è Tutto-mondo (1993, Edizioni Lavoro 2009), opera vertiginosa, intessuta di relazioni plurime e aperte verso le infinite possibilità del dialogo tra uomini, dal quale Glissant vorrebbe espungere solo i due estremi, inutili e dannosi, dell'integrazione e della segregazione, muovendosi sul difficile terreno che articola i due termini "relazione" e "opacità". Di un recupero dell'"antico" – per dire così – si tratta invece riguardo al romanzo La lézarde ("La crepa", uscito in Francia nel 1958 da Seuil e vincitore del Prix Renaudot di quell'anno, ristampato da Gallimard nel '97 e finalmente tradotto in italiano – con il titolo originale – da Jaca Book nel 2013), di ambientazione coloniale e rivoluzionaria.

Il più noto tra gli scrittori francofoni è senz'altro lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun, uno degli autori postcoloniali che ha riscosso maggior successo internazionale. Poeta prima che romanziere, giunge in Francia nel 1971 e si specializza in psichiatria sociale, occupandosi in particolare dei problemi psichiatrici degli immigrati ospedalizzati. Da questa esperienza di psicoterapeuta nasce una tesi di dottorato pubblicata col titolo L'estrema solitudine (1977, traduzione Milvia 1988). La medesima esperienza sarà centrale anche nel romanzo La Réclusion solitaire(1976). Nel 1987 è il primo scrittore francofono a vincere con La notte fatale (traduzione Einaudi 1988) il Premio Goncourt. Questo romanzo prosegue la narrazione avviata in La creatura di sabbia (1983, traduzione Einaudi 1985), racconto che affronta, con la storia di una bambina che dovrà crescere come maschio, Ahmed, i temi dell'identità di genere in una società posta sotto il dominio maschile. Tradotto in numerosissime lingue, Ben Jelloun è anche in Italia uno scrittore di grandissimo successo commerciale, e i suoi romanzi escono da noi quasi contemporaneamente alla prima apparizione francese. È questo il caso, per stare all'attualità più stretta, di Ablazione (2014, traduzione Bompiani 2014), nel quale si raccontano le inquietudini interiori di un uomo che scopre di avere un tumore alla prostata e deve così affrontare un'operazione che mette a repentaglio la sua vita sessuale e, più importante ancora, l'immagine che ha di se stesso come uomo.

Molti scrittori francofoni meritano attenzione, scrittori come il congolese Alain Mabanckou, che ha raggiunto un notevole successo internazionale raccontando contraddizioni e debolezze di immigrati e nativi parigini con una scrittura satirica e piena di humor. Domani avrò vent'anni parte dall'assunto – condiviso da molti altri scrittori e scrittrici postcoloniali – che «per conoscere l'Africa non basta esserci nato. La sua storia è scritta dagli europei, per riuscire a scriverne una nuova prima bisogna decostruirla». Mabanckou è stato il primo francofono dell'Africa subsahariana a essere pubblicato nella prestigiosa collana Blanche di Gallimard. Il suo libro più famoso è probabilmente il quinto, Verre cassé (2005 traduzione Morellini 2008) ambientato in un singolare bar di Brazzaville e collocato nella linea del precedente African Psycho, nel quale Mabanckou aveva già intrapreso un esame della società congolese attraverso la rappresentazione della quotidianità di vite vissute ai margini. Un discreto successo ha avuto anche Memorie di un porcospino (traduzione Morellini 2009), e da poco è uscito in Italia un suo romanzo di atmosfere poliziesche, Zitto e muori (2012, traduzione 66th and 2nd 2013).

Le figure che qui meriterebbero spazio, d'altro canto, sono davvero numerose. Si tratta di scrittrici e di scrittori che hanno introdotto nel panorama della letteratura francese faglie e fratture, temi e motivi che ne stanno coambiando il volto. Pensiamo alla scrittrice algerina Assia Djebar, a Amin Maaluf, Ahmadou Kouruma, KatebYassin, Calixthe Beyala, Fabienne Kanor, Wilfried N'Sondé, Abdourahman Waberi e ad altri, ai quali dedicano spazio in Italia i cataloghi delle edizioni Epoché e Morellini, ma non solo. Un aggiornamento rispetto alla produzione in lingua francese di autori provenienti da altre realtà geografiche è disponibile on-line a questa pagina. Una riflessione plurale sulla crescente internazionalizzazione della letteratura nell'età globale e sulle relazioni tra letteratura francese e francofona è al centro del numero 3 della Revue critique de fixxion française contemporaine. Anche gli altri fascicoli monografici, e in versione digitale, della rivista sono un utile materiale di consultazione, di approfondimento e di aggiornamento circa il panorama che si è fin qui trattato (vi si tratta o vi si tratterà del poliziesco nella letteratura francese contemporanea, del rapporto tra fiction e virtualità, di racconto e democrazia, di fiction e musica popolare, di auto-fictions, delle trasformazioni nel pubblico del romanzo ecc.).

A mettere in crisi la distinzione tra letteratura francese e letteratura francofona sono stati gli stessi scrittori e scrittrici. Lo ha fatto ad esempio un'autrice di notevole forza e raffinatezza come Marie NDiaye, che ha vinto il premio Goncourt nel 2009 con Tre donne forti (traduzione Giunti 2010) quando aveva al sua attivo già numerosi titoli, alcuni dei quali tradotti in Italia (p. es., Una stretta al cuore, 2007, traduzione 2009; o Fuori stagione, 1994, traduzione Morellini 2007). NDiaye, vincitrice già nel 2001 del Prix Femina con Rosie Carpe (traduzione Morellini 2005), ha più volte dichiarato, rifiutando l'assimilazione della sua scrittura alla francofonia, di non sentirsi affatto appartenente a due culture, di possedere una formazione interamente francese. L'attribuzione, sempre più frequente negli ultimi anni, dei più prestigiosi premi letterari (tra i quali il Goncourt, il Renaudot e il premio Apollinaire) a scrittori francofoni, ha scatenato a più riprese sulla stampa francese roventi polemiche.

Una interrogazione radicale sui limiti della francofonia, ma anche, conseguentemente, della letteratura francese, sono emersi nel manifesto Pour une 'littérature-monde' en français, pubblicato su Le Monde il 16 marzo 2007, e firmato da scrittori che si interrogano sui confini e i confinamenti che queste etichette implicitamente contengono per rifiutarli e promuovere un'idea di letteratura consapevole di vivere nell'età globale. Il manifesto enuncia la necessità di superare la dubbia distinzione tra lettera francese e francofona per muovere verso la consapevolezza delle continue ibridazioni tra lingue e culture all'interno delle quali si colloca tutta la produzione letteraria in lingua francese. Lo sguardo, insomma, deve estendersi a considerare le complesse relazioni tra lingue e letterature, tra immaginari e mercati nell'odierno mondo globalizzato.

Un ultimo appunto, ormai inevitabilmente liminare: a proposito della crescente interconnessione tra immaginari nell'età globale, va almeno segnalata – ma meriterebbe davvero una trattazione tutta per sé – la ragguardevole produzione francese nel settore della graphic novel, nel quale si sono distinti anche autori provenienti dalle ex colonie francesi (ad esempio Yvan Algabé e Olivier Marboeuf). Anche nel fumetto africano molti autori prediligono la ligne claire, ossia lo stile grafico e narrativo ispirato – ormai alla lontana, e dopo una lunga serie di elaborazioni concettuali e critiche – dai fumetti popolari dei due autori belgi Hergé (1907-1983), pseudonimo di Georges Prosper Remi, sceneggiatore e disegnatore del personaggio Tintin); ed Edgar P. Jacobs (1904-1987), creatore della serie di Blake e Mortimer). Riguardo alla penetrazione in Italia della letteratura a fumetti francese in chiave di graphic novel, basterà citare qui la traduzione, sin dagli anni Settanta, delle opere di Moebius (o Gir) o di Enki Bilal; e il più recente successo della graphic novelist iraniana (che scrive in lingua francese) Marjane Satrapi.
 
Riferimenti bibliografici:
 
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Patrik Modiano, numero monografico della rivista "Magazine littéraire", ottobre 2009
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Pubblicato il 20/04/2014