Gian Mario Anselmi - La letteratura e le terre estreme

In questo mondo del già tutto apparentemente noto ed esplorato, dove la corrosiva critica postcoloniale ci ha costretto a rivisitare categorie ormai consunte come "esotico" ed "estremo"; in questo mondo dove tutto è comunicato ma poco è conosciuto davvero; in questo mondo dove il viaggio non ha più cadenze di lente assimilazioni ma di convulsi spostamenti tra i cieli e i continenti, in questo mondo è ancora la letteratura ad assumere la responsabilità di farci consapevoli, di costringerci a guardare "oltre", di ri-conoscere e "rinominare" i luoghi e i viventi che li abitano, di ridare ai confini impreviste mobilità e costringerci a esplorazioni ben poco ancorate alle tradizioni di tanta "letteratura di viaggio". Conoscere le terre estreme può allora significare, per molti scrittori della nostra età postmoderna, il viaggio nelle periferie metropolitane disadorne e ignote, di cui nulla si sa e dove nessun viaggiatore o turista si reca, territori di confine incerto e ben poco idillico tra agglomerati urbani, confusi "blocchi" industriali e commerciali, prati incolti e scostanti, brume ed acque inquinate (e Baudelaire non aveva già forse a metà Ottocento "delocalizzato" la poesia e la scrittura trasferendone gli statuti nello scenario metropolitano e nei suoi torbidi, ignoti meandri?) : ciò che si guarda è ciò che ci riguarda, è l'assolutamente contiguo geografico altrettanto assolutamente lontano e inesplorato dalle nostre procedure di conoscenza e di "viaggio" e a cui pure occorrerebbe rivolgere la nostra cura. Può essere la Romania desolata e desolante, nella sua archeologia industriale in rovina, scoperta in un inaspettato percorso di stazioni dolenti e di "formazione" dal Responsabile delle risorse umane del bellissimo romanzo di Yehoshua; può essere la sconosciuta banlieau parigina attraversata dalla metropolitana veloce RER e visitata palmo a palmo da François Maspero insieme alla fotografa Anaik Frantz; oppure può essere la grigia, smisurata periferia di Londra (snodata lungo la sua tangenziale velocemente e distrattamente percorsa da milioni di automobilisti) che Iain Sinclair ostinatamente percorre col ritmo lento del viaggio a piedi per riappropriarsi dell'umanità incognita che la coabita ma che è più estrema e lontana della Patagonia; può essere anche l'Istanbul inedita agli occhi dei turisti, disadorna di ogni orpello esotico o retorico e segnata da una sorta di particolare e intrinseca "tristezza", dei quartieri nuovi, convulsi e "inesplorati" fra intrichi di vie spesso spezzate, intorno alla piazza Taksim, riannodata ai fili della memoria autobiografica di Pamuk. O la Maximum City. Bombay città degli eccessi di Suketu Mehta, megalopoli "globale" per eccellenza, per eccellenza indiana e per eccellenza universale, apparentata alla decadente megalopoli futura in cui è ambientato Blade Runner di Ridley Scott (contigua alla caotica e meticciata Los Angeles già cara a Raymond Chandler o a James Ellroy o al Roman Polanski di Chinatown), e come già, con I figli della mezzanotte, Salman Rushdie, nel romanzo appunto al crinale (1980) del postmoderno, ci aveva insegnato a conoscere in aperto contrasto rispetto a ogni orientalismo di maniera, così duro a morire ancora oggi e specie per tutto ciò che "è India" (un orientalismo che ha certo prodotto nel Novecento anche molti testi raffinati, da Maugham a Forster alla Duras ad esempio). Ma estreme e sconosciute sono anche le terre della foce del Po, al confine tra acque, nebbie e ruderi industriali visitate dai racconti di Gianni Celati o le terre tra bassa padana e Appennino connesse a certe prove di grande finezza di Silvio D'Arzo o le montagne, "passeggiate" al ritmo della scrittura, di Dino Buzzati, di Rigoni Stern, di Erri De Luca o il Cilento del dopoguerra, antico e carico di storia eppure selvatico e lontano da tutto, caro ai viaggi e ai ricordi di Ungaretti come di Hemingway. E così sono anche le isole, le vette, le brughiere, le foreste di Inghilterra, Scozia e Irlanda, veri luoghi selvaggi ancora sopravvissuti nel dominante paesaggio antropomorfico e urbanizzato, esplorate dal passo di Robert MacFarlane o le acque, sempre della Gran Bretagna, percorse dal famoso viaggio a nuoto di Roger Deakin (e del resto già nel 1930, facendo perno su Oxford, Giuseppe Antonio Borgese aveva intessuto fini trame descrittive e metaforiche sulla complessa realtà britannica). E persino l'approdo tragico into the wild del giovane Chris McCandless alla ricerca della libertà assoluta, l'approdo nelle smisurate terre d'Alaska e nel duro agone con una natura leopardianamente matrigna e crudele verso chi non ne conosce le spietate regole si svolge, nell'epilogo, non lontano da agglomerati industriali e commerciali che anche nel paese estremo per eccellenza, l'Alaska appunto, ne stanno corrodendo l'identità di presunto ultimo paradiso incontaminato degli USA: e questa vicenda realmente accaduta, e traendo ispirazione dallo scarno diario rinvenuto accanto al corpo del ragazzo, non a caso ha avuto una ormai famosa trascrizione narrativa nel libro fortunatissimo (e poi nell'omonimo film di Sean Penn) Into the Wild di Jon Kracauer, giornalista, alpinista e abile scrittore. Anche nell'età nostra del disincanto perciò sono la scrittura, la letteratura ad aprirci vie nuove di conoscenza verso le terre estreme di oggi, costringendoci a resoconti duri, a prese di coscienza, a un viaggio nell'ignoto che ha sovente l'angoscia dello straniamento imprevedibile piuttosto che il fascino febbrile dell'avventura romantica (è lo stesso fenomeno che possiamo cogliere nella vastissima produzione letteraria e filmica di fantascienza contemporanea e fin dai grandi romanzi e racconti di Philip K. Dick). Sebbene, in realtà, già tra Sette e Ottocento l'esplorazione e la narrazione dell'estremo limite vadano coniugando un duplice, inquieto statuto: da un lato infatti vi è come l' ansiosa ricerca dell'ignoto geografico e della libertà da ogni vincolo e dall'altro la sua ineludibile contiguità con l'ignoto turbine interiore dell'animo, con l'arcipelago inesplorato delle coscienze agli albori della modernità. Non è casuale che queste esplorazioni artistiche e geografiche si accompagnino, talora negli stessi autori, ad esplorazioni nei reconditi recessi dell'umano al suo confine col ferino o con l'ansia smisurata di sfidare tempo e morte: il Goethe viaggiatore coraggioso e curioso in Italia è lo stesso autore del grandioso Faust; il Mozart attratto dai simbolici regni della luce e della libertà nel Flauto magico è lo stesso creatore del genio libertino del male irredimibile e insolente così come alberga nel Don Giovanni; Mary Shelley mentre testimonia nelle sue lettere il sublime dei paesaggi selvaggi delle Alpi intorno al lago di Ginevra compone il romanzo più affascinante dell'imagérie moderna fondata sull'illusoria pretesa di ogni scienza di sfidare il limite tra vita e morte, ovvero il Frankenstein o il moderno Prometeo; e si potrebbe continuare a lungo fino al pieno Ottocento con quella straordinaria tempra di narratore che fu Robert Louis Stevenson, voce ineguagliabile di avventure su terre e mari lontani (in tanti Racconti come ne L'isola del tesoro) eppure sconvolgente e duro nell'esibire (secoli dopo Machiavelli) il doppio ferino e brutale che alberga nell'umano attraverso il Jekill e Hyde. È in tale mobile contesto sette-ottocentesco perciò che si colloca anche la "scoperta" delle Alpi, dei ghiacciai e delle montagne coi loro silenzi o le loro bufere di neve o gli improvvisi temporali come luoghi sostanzialmente "vicini" e "sconosciuti", assunti a modelli, accanto ai più noti e antichi mari e Oceani in tempesta, a simboli del "sublime" sia in letteratura che in filosofia (Kant) e in pittura: il grande movimento romantico dei pittori norvegesi, ad esempio, nell'accostarsi in modo nuovo al paesaggio dei fiordi, ne mette in luce, proprio all'incrocio, loro precipuo, di vertiginosi monti proiettati su fenditure marine, il carattere esemplare e perturbante. Una sorta di ulteriore novità sembra poi imporsi nel clima romantico del viaggiare e delle sue narrazioni: una inedita, ansiosa disposizione non solo verso gli estremi dell'Oriente e dell'Occidente, ma verso gli estremi del Mondo a Nord e a Sud, verso i nudi, disameni, disabitati, pericolosi Poli (artico e soprattutto antartico), regni incontrastati dei ghiacci eterni, delle nevi, delle tempeste, degli Oceani indomabili, delle sfide climatiche più dure, come in ulteriore articolazione, e più affascinante ed estrema, della recente riscoperta dei ghiacciai alpini e degli impervi paesaggi montani. Gli stessi animali che abitano quelle lontane plaghe affascinano per la loro singolarità o grandezza o ferocia o maestosità: foche, trichechi, pinguini, balene, orsi polari, lupi, gabbiani ed albatros, renne, alci, tutti forniscono straordinarie suggestioni agli scrittori e narratori, imponendo all'immaginario come un nuovo ed inedito bestiario capace di arricchire di leggendaria fierezza, di ostinata e instancabile lotta col gelo per la sopravvivenza, di ferino e di indomabile i confini dell'"estremo" polare negli stessi viventi che lo abitano. Ghiacci, tempeste, neve, freddo, animali inconsueti o pericolosi e solitudine: certo è ovvio ritrovare contesti cari alla sensibilità romantica per eccellenza, accezioni forti dell'idea di sublime così come è ovvio comprendere l'attrazione fatale verso mondi allora di fatto inesplorati e selvaggi come i Poli. Ma è probabile che in quelle inospitali solitudini di ghiacci, di silenzi e di misteri si potesse dipanare una ricerca utopica di libertà totale, una inquietudine più lacerata, più dissonante, più angosciosa nell'indicare la contiguità dell'inumano gelo con la fragile curiosità umana e la sua vacillante ansia di dominio su una natura al fondo indomabile. È la percezione che genialmente già Alfieri ci comunica, attraverso le bellissime pagine autobiografiche della sua Vita, quando narra la "sfida", del tutto inconsueta per gli scrittori del tempo e più consona semmai agli esploratori/viaggiatori (il viaggio al Capo Nord dell'Acerbi nel 1799), del suo audace e pericoloso girovagare nelle terre nordiche tra Svezia e Russia, tra ghiacci, tormente e fiumi tempestosi, davvero da giovane ribelle, libertario e anticonformista into the wilde. E infatti di lì a poco o contestualmente le rotte mentali di tanti poeti e scrittori punteranno ai regni dei ghiacci e in testi di grande rilevanza letteraria e punteranno soprattutto verso il Polo Sud misterioso, verso quell'Antartide poco noto e perciò così ricco di spunti per poter "conoscere" tramite l'"immaginazione", per poter narrare come articolazione del "viaggiare" e per "viaggiare" per poter "narrare", inestricabile nodo, questo, della letteratura come delle procedure conoscitive nella modernità: e però con radici ineguagliabili nel viaggio dantesco di Ulisse, proprio immaginato come sfida verso quell'emisfero (antico sogno dell'umanità europea di sfidare l'ignoto Ovest e l'ignoto Sud!), o nelle reminescenze classiche dell'ultima, dell'estrema Thule (forse l'Islanda?) ravvivate da Petrarca. Anche il viaggio verso i mondi più inospitali e ignoti è perciò come sempre preceduto da qualche "guida", da qualche suggestione di "già letto e scritto", da qualche sfida in cui la letteratura ha già posto il suo discorso e la sua "narrazione". E così ci balzano innanzi grandi capolavori in cui lo scenario artico o antartico e oceanico domina e nell'accezione che richiamavamo: La ballata del vecchio marinaio di Coleridge, Moby Dick di Melville, Le avventure di Arthur Gordon Pym di Poe, la conclusione stessa nei ghiacci artici del Frankenstein. La temperie è ovviamente diversa da quella che tanti resoconti, racconti, scritti di viaggiatori, geografi, esploratori, narratori ci hanno trasmesso tra i secoli XV e XVII, i secoli delle grandi esplorazioni geografiche e della scoperta dei nuovi mondi : lì davvero si trattava di coniugare l'ansia di descrivere ciò che appariva inaudito con la necessità di dare corpo ad un'altra spazialità del Mondo e delle molteplici "umanità" che lo abitavano, in parallelo con quanto da Copernico e Galilei in poi si venne dispiegando per l'esplorazione del Cosmo. Senza per altro che si dimenticasse allora l'altro emisfero, quello già un po' noto da sempre, l'orientale. Si pensi in tal senso, fra i tanti, nel Cinquecento (1510), a quello straordinario resoconto di viaggio, da Bologna ai confini estremi del mondo, di Ludovico de Vartema in esplorazione tra Medio Oriente, Egitto, Arabia, India ed Etiopia o alle pagine celebri delle Navigazioni e viaggi di Giovan Battista Ramusio, verso cui fu debitore forse il Tasso cantore nella Liberata di Armida e delle sue magiche e lussureggianti Isole Fortunate . Gli interi "confini" di Mondo e Cosmo furono cioè stravolti e la "scrittura" (con l'ausilio straordinario della recente invenzione della stampa) ne fu l'araldo decisivo, scrittura di esploratori, geografi e scienziati ma anche scrittura di narratori, filosofi e poeti, compresi i più grandi (dal Cusano a Guicciardini a Tasso appunto a Shakespeare a Giordano Bruno a Marino a Giovio a Cervantes). La stessa cultura religiosa rapidamente dovette adeguarsi: agli antichi e tradizionali, fin dal Medioevo, resoconti di pellegrinaggi in terre note eppure talora inospiti e pericolose nel cuore dell'Europa come verso la Terrasanta, si aggiungono i resoconti di missionari e ordini religiosi (in particolare domenicani, francescani e gesuiti) nei mondi nuovi dell'Ovest come nel "misterioso Oriente". Si aggiungono anche scritture d'arte storiografica come quelle del gesuita Daniello Bartoli che, mai muovendosi dalla Biblioteca dell'Ordine a Roma e documentandosi con precisione sui resoconti dei confratelli missionari "sul campo", pure saprà dar voce nel Seicento con la sua Istoria della Compagnia di Gesù a una sorta di un nuovo epos di stampo religioso, quello del gesuita missionario fra terre e popoli estremi (straordinarie per la novità della documentazione e per la forza descrittiva ad esempio le pagine del Giappone, fra le prime scritture occidentali su quel mondo allora pressoché ignoto come ignoto e impenetrabile resterà a lungo). Si apriva insomma l'immane compito di ricomprendere nell'ecumene cristiana popoli del tutto lontani da quella Rivelazione: la storia dell'evangelizzazione spesso forzata, spesso non riuscita (in Oriente ad esempio), talora invece ampia per luci ed ombre (come in America) è intrinseca all'aporia di una Rivelazione cristiana che si presumeva in Europa e nel Mediterraneo universale e che invece si infrangeva con interi continenti da essa lontanissimi; prima tappa di quel tramonto così a noi oggi chiaro dell'"eurocentrismo" e dei suoi paradigmi culturali che si volevano invece intoccabili fin dalla stessa eredità classica e dalla centralità dell'imperium romano e romano-cristiano eppure così clamorosamente smentiti dalle scoperte geografiche e dai nuovi "Mappamondi". Ma, in definitiva, l'Oriente e in particolare le "terre dell'Indo", fin dal mondo antico, greco, egizio, persiano avevano avuto luogo nelle conoscenze, pure frammentarie, circolanti, grazie anche all'impresa di Alessandro Magno, grazie all'ellenismo, ai resoconti e ai rapporti commerciali continui tra bacino mediterraneo e grandi imperi d'Oriente : tutto si accentuerà nell'epoca medievale sulle vie del commercio per opera della mediazione araba-musulmana, poi ottomana e delle loro potenti "letterature di viaggio" e per opera dei mercanti italici e delle loro spregiudicate Repubbliche come Venezia, Genova, Pisa con le loro "scritture", i loro report , da Marco Polo alle reminescenze nella novellistica di cui è esemplare il Decameron di Boccaccio e che troveranno ancora magica eco nelle straordinarie Città invisibili di Italo Calvino (1972). La grande novità che si apre con l'impresa di Colombo è in effetti lo sconosciutissimo, l'estremo Ovest. A lungo nell'immaginario (e sino alla saga filmica del mai tramontato genere western) la "frontiera" per eccellenza resterà l'Ovest, il passaggio ad Ovest tra Oceano e nuove terre, miraggio di ricchezza ed espansione illimitata, forse ancora oggi costitutivo del DNA più profondo della nazione statunitense (basti rammentare la "nuova frontiera" come fulcro del programma di Kennedy negli anni Sessanta del Novecento). Del classico coast to coast da est a ovest negli USA ma attraverso le vie d'acqua, i fiumi, i canali interni e spesso poco noti fornisce ancora oggi un resoconto originale e inaspettato Nikawa. Diario di bordo di una navigazione attraverso l'America (1999 e Torino, Einaudi, 2000) di William Least Heat-Moon, vera "mappa fluviale" e antropologica degli States più inconsueti (States "riesplorati" dal medesimo autore in altri originali testi, Strade blu e Prateria, sempre editi da Einaudi in Italia). Ma non va dimenticato che se la corsa all'Ovest resterà il mito nuovo del viaggiatore, dell'esploratore e dello scrittore (si pensi in tal senso nel Novecento italiano a scrittori in fuga irresistibile verso gli States come Mario Soldati o Emanuel Carnevali o al grande "viaggiatore" Giuseppe Antonio Borgese o al mito americano di Pavese e Vittorini), contestualmente, specie nel cuore dell'Ottocento, l'"estremo" esotico e sognato poteva allogarsi nei viaggi e nella fantasia di artisti e scrittori nel cuore stesso d'Europa: non è forse l'Italia, meta obbligata del Grand Tour, essa stessa vissuta come misterioso e irresistibile impasto di tangibili e monumentali memorie classiche e cristiane e al tempo stesso sconosciuta e pericolosa nei suoi borghi e nei suoi rustici e poveri agglomerati urbani e rurali? (basta avvicinarsi agli scritti di Shelley, di Stendhal, di Goethe, di Chateaubriand , la lista è inesauribile…); e altrettanto potrebbe dirsi di Istanbul e del mondo turco che tanto intrigarono una serie cospicua di scrittori importanti, da Flaubert a Gautier al nostro grande maestro di reportàges di alto livello come De Amicis, attratto da Istanbul come dal Marocco o dal viaggio sull'Oceano verso il Sudamerica. Insomma, i confini si dilatano in direzioni molteplici dal più apparentemente contiguo e noto all'ignoto ed estremo. Del resto negli Stati Uniti l'esplorazione dell'Ovest non preclude il rapido affermarsi dell'avventura nelle terre artiche del Nord, al confine con le immense foreste canadesi o con i ghiacci dell'Alaska, così come immortalate dagli straordinari e popolarissimi romanzi e racconti di Jack London (Il richiamo della foresta, Zanna bianca, Nelle terre del grande Nord…) in una trafila che non casualmente approda al drammatico epilogo Into the Wild narrato da Kracauer e di cui dicevamo. Nel Novecento e ancora oggi la bussola degli scrittori infatti torna ad essere irresistibilmente attratta dal Sud e dal Nord estremi, dai Poli, dai geli, dai ghiacci, dalle terre solitarie e inospiti, battute dai venti, come la Patagonia: non più un sogno romantico di titanismo e di libertà ma un bisogno di lontananza assoluta, di silenzi, di ricerca di ciò che è scabro ed essenziale, di sfida per provare non tanto la propria forza ma semmai il proprio limite presso scenari maestosi e al tempo stesso disadorni, quasi metafora della fine dei tempi, dell'apocalisse che da tempo coabita la percezione di tanti autori, registi, scienziati: forse solo questo può spiegare la fortuna straordinaria che, fin dal suo apparire nel 1977, ebbe il resoconto per antonomasia verso l'estremo, In Patagonia di Bruce Chatwin. È lo stesso mondo che domina ne Il Mondo alla fine del mondo di un noto romanzo del 1989 di Luis Sepulveda, cileno che riscopre, in una partitura di drammatica "inchiesta" sulla frattura tra natura, animali (le balene cacciate e uccise) e uomini alla fine puniti nel loro delirio persecutorio, l'estremo confine della sua patria, sempre l'estrema Patagonia. E così il nostro Daniele Del Giudice con Orizzonte mobile del 2009 si mette sulle tracce di Chatwin (come in altri romanzi si era involato nell'etere sulle tracce di Saint-Exupery) per narrare con scarna scrittura, unica possibile per l'indicibile estremo del nostro peregrinare di deboli umani, l'approdo in Antartide attraverso la Patagonia: "…e intanto in una scatola nell'armadio di cucina c'è un uovo di pinguino, bucato e svuotato dal bianco e dal tuorlo, riportato dal Sud più profondo, il più profondo e radicale dei Sud, un gelido Meridione […..]e c'è un silenzio attonito e glaciale, e dov'è la calma allora, dov'è la tua calma, dov'è il governo, dove la composta malinconia dell'imperscrutabile capitano, un po' distratto, un po' silenzioso, colui che tiene le fila, un uomo sui fili che ha voluto tendersi da sé?" (pp. 3-4). Ed è sempre in quell'estremo Meridione, in quella Patagonia argentina che non a caso si dipana la parte più drammatica ed intensa del film "sperimentale" in bianco e nero del 2009 (stessa data del romanzo di Del Giudice) Segreti di famiglia di Francis Ford Coppola. È lì che il dramma tra fratelli si squaderna definitivamente e in una terra che non concede risarcimenti. La durezza e il mistero propri del ghiaccio, dell'inverno, della neve, dei venti gelidi che sembrano amplificare i silenzi la fanno da padroni anche nelle più recenti (e molto fortunate nell'impatto col pubblico) prove narrative di scrittori e scrittrici del Nord Europa, scandinavi e danesi soprattutto, profondi e grandi rielaboratori "in chiave nordica" del genere giallistico contemporaneo. Basti pensare a Il senso di Smilla per la neve (1992, ed.it. Milano, Mondadori, 1996), del danese Peter Hoeg, che si dipana tra Copenhagen e la Groenlandia e dove la protagonista/investigatrice di origine inuit sa "sentire" appunto ogni tipologia di neve (dettaglio che sarà decisivo per condurre la sua "inchiesta"); o ancora si ponga attenzione alla fortunatissima trilogia Millenium dello svedese Stieg Larsson uscita postuma tra il 2005 e il 2007 (ed.it. Venezia, Marsilio, 2007-2009) ; o si legga la ricca produzione di Henning Mankell, svedese ( creatore fra l'altro della fortunata serie del Commissario Wallander) e di cui, per quel che qui argomentiamo, basterebbe citare Il cinese (Venezia, Marsilio, 2009; ed. sv. 2008), ambientato tra gli "estremi" emblematici del Nord Europa, del Nevada, della Cina e dell'Africa. E in questa rassegna non può certo mancare la menzione del giallista dell'ultima Thule, l'islandese Arnaldur Indridason, autore di apprezzati romanzi (pubblicati tra il 1997 e il 2009) ambientati appunto nella sua terra, "estrema" per eccellenza (ed editi in Italia da Guanda) e non a caso etichettati sotto la dizione "ice trhiller". Una caratteristica comune balza agli occhi: il Nord scandinavo avanzato, civile, ricco di conquiste sociali e agiato (almeno come è concepito dal resto d'Europa) viene quasi rovesciato nelle pagine spesso crude e violente o amare di questi narratori. Ne emerge come una sorta di controcanto antidillico e rude di paesaggi ghiacciati e innevati, scabri, spogli e ben poco ameni che avvolgono atmosfere torbide di corruzioni, violenze efferate, egoismi e solitudini disperanti : "il paese di Babbo Natale" con le sue zuccherose immagini di nevi benigne, di renne e giocattoli caro ai bambini (e già "sconsacrato" dall'irriverente e agrodolce film d'animazione Nightmare Before Christmas di Henry Selick e Tim Burton del 1993) scompare per lasciare il posto a un ben più drammatico e inospitale contesto dove il mondo degli adulti rivela tutta la sua irredimibile violenza e i suoi spietati interessi di potere e di denaro (in parallelo è qualcosa di simile a ciò che Roberto Saviano ha fatto nel 2006 per il "Mediterraneo" con Gomorra, ribaltando totalmente i logori clichés su Napoli e la napoletanità da cartolina, tutta sole, mare, canzoni e mandolini, nel mettere in scena la sanguinaria e dominante realtà della camorra). Gli stessi animali artici che avevano alimentato di ancestrali paure le fantasie millenarie di infinite generazioni e di tanti scrittori e viaggiatori (si pensi a London o Melville appunto), dalla balena all'orso bianco fino al proverbiale e temutissimo lupo capace di spezzare col suo ululato carico di sinistri presagi il silenzio delle gelide notti nordiche (durante l'inverno di Lara e Zivago nel Dottor Zivago di Boris Pasternak, ad esempio, edito da Feltrinelli in Italia nel 1957 in anteprima mondiale) sembrano lasciare il posto a ben altre e ben più efferate, gratuite violenze degli umani. La candida neve, e non più per colpa dei lupi, è violata dal rosso del sangue umano in un terribile contrasto che da sempre ha colpito la potenza visionaria di artisti, scrittori, registi (straordinaria, in tal senso, nel parallelo contrastivo tra il famelico lupo solitario e la ferocia efferata dell'uomo, la pagina di apertura del già citato Il cinese di Mankell). Inoltre, in tutti i romanzi di questi scrittori nordici, dove gli uomini, i maschi sembrano essere divenuti le vere belve, assumono un ruolo da protagonista, nelle inchieste, personaggi di donne forti e determinate, spesso solitarie e "fuori dal coro", dotate, loro sì, di vero e positivo istinto "animale", delineate quasi in ulteriore contrasto alla ferocia e inattendibilità del mondo maschile e pronte ad affrontare senza timori anche gli sfondi artici più pericolosi ed aspri (Smilla, Lizbeth Salander, Birgitta Roslin) : certamente emerge la posizione emancipata e paritaria della donna scandinava ma anche questo consolidato topos è messo costantemente in discussione nella realtà così com'è colta dagli scrittori e le donne protagoniste devono di volta in volta come riscattarlo dal volto brutale di certi mondi maschili (emblematico del resto il titolo del primo e più famoso romanzo della trilogia di Larsson, Uomini che odiano le donne). L'artico e i ghiacci di questa ultima generazione di scrittori svedesi non hanno perciò nulla di simile agli scenari cari ai romantici e come tali tramandati nell'immaginario collettivo di tutto il mondo. E del resto, ragionando di Ibsen e di fiordi, già Claudio Magris in Infinito viaggiare (Milano, Mondadori, 2005) ha colto bene "il controcanto" aspro del Nord così come la letteratura ha insegnato a scorgerlo: "Nessuna nostalgia, nessuna elegia, bensì irta e severa asprezza, durezza carsica che mostra solo aride pietre e attraverso l'aridità della pietra fa sentire, tanto più forte, la mancanza della dolcezza materna e acquatica della vita. Questa durezza da fiordo, necessaria a ogni vera arte, garantisce la non detta purezza del sentimento…" (pp.194-195). La letteratura del resto, nell'antica Grecia e certo già prima di Omero in tanti racconti orali, aveva da sempre preceduto e accompagnato i viaggi di eroi, di mercanti, di coloni nel loro peregrinare in quelle che sembravano allora plaghe "estreme" (Ovidio inviato in esilio da Augusto a Tomi sul Mar Nero piangerà nei Tristia e nelle Epistulae ex Ponto la sua condizione ai confini ultimi dell'Impero, costretto a finire i suoi giorni agli "estremi" rozzi e barbari del mondo civile e romano del tempo); ed erano i confini del Mediterraneo stesso, raggiunto e colonizzato dai greci-eubei nel loro peregrinare dal mar Egeo e dall'Adriatico verso l'Occidente a cominciare da Pitecussa (Ischia), "l'isola delle scimmie" che pareva ai coloni di quel tempo un remoto approdo nell'ignoto, circondato da mari e terre abitati da leggende, mostri, sirene e ninfe incantatrici, insomma il mondo del poema per eccellenza fondativo in Occidente dell'epos dell'eroe esule e viaggiante, ovvero di Ulisse, l'Odissea. Ma si pensi anche alle storie, ai miti, alle opere connessi all'impresa di Giasone e degli Argonauti nell'"estrema", lontana Colchide in cerca del prodigioso Vello d'oro ( un tema che torna rielaborato nel Medioevo nordico coi cicli dei romanzi arturiani e della ricerca del Sacro Graal). È una lunga storia in definitiva, una storia di cimenti e di audacie, di sogni e di crudeltà, di avventure e di esplorazioni che da millenni ci accompagna e che la letteratura da sempre ci insegna a riconoscere.


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