Giampiero Bellingeri - Letteratura turca

Lettere in turco, lettere  turche

A delineare alcuni dei tratti salienti della letteratura contemporanea di Turchia, torna ancora opportuna, per fini concettuali e operativi, una distinzione tra quella cangiante "lingua turca", attuale e munita di una storia complessa, e i "linguaggi" adottati nelle lettere turche moderne, almeno dal XIX secolo, quando cioè era vigente, seppur in crisi, una ideologia imperiale ottomana.

Il riferimento va all'impianto di nuovi "eloqui" su una stratificazione culturale caratterizzata dall'incontro e dalla convivenza di tradizioni varie, non solo islamiche, occorse, ovviamente, anche attraverso l'introduzione nel tardo Impero della stampa periodica, sia straniera che in turco-ottomano, con le acquisizioni, accompagnate da traduzioni, di opere straniere, in particolare francesi, o dal francese.

Accanto alle lettere turche d'impronta francese, si collocano poi quelle di essenza, ma non di provenienza, "franca", per così dire. In una accezione in cui l'ottomano svolge il proprio ruolo più autentico di lingua naturalmente franca: adottata cioè da sudditi e autori i quali, pur nelle loro più diverse e coscienti estrazioni culturali, etniche o religiose, si riconoscono e scelgono di esprimersi comunque, oltre i limiti ristretti delle proprie comunità, nell'idioma più "ampio" della compagine imperiale. Idioma non di rado scritto in alfabeti, come quello greco, ebraico, armeno, differenti da quello arabo (l'alfabeto arabo, sottolineiamo, è stato ed è, a rigore, solo uno dei tanti sistemi di resa scritta del turco).

Si affaccia alla mente, in epoca moderna, il romanzo di Hovsep Vartanyan, o Vartan Pasa  (1813-'79), Akabi Hikyayesi, "La storia di Akabi", Istanbul 1851[1]: è la narrazione dell'amore di due giovani armeni, Akabi, ragazza della comunità gregoriana, e Agop, giovane cattolico. Le ostilità religiose tra le due famiglie impediscono inesorabili la loro unione: Akabi si toglie la vita e Agop muore di dolore. Questo racconto, esposto in turco e in caratteri armeni, stando a una convenzione, segnerebbe un inizio del romanzo turco, o in turco. Ripensando a quelle lotte intestine, inasprite, allora, non già da contrasti fra cristiani vittimizzati e musulmani egemoni,  e al contributo del Vartanyan alle lettere di un impero capace di tenere insieme tanti compositi linguaggi, la questione armena, insieme con quella delle borghesie minoritarie tanto radicate sul territorio e bruscamente sradicate, assume toni ancor più tragici. 

Di questo rapido accenno a manifestazioni linguistiche  e introduzioni di generi letterari nuovi, o ancora poco praticati nell'area ottomana (il romanzo), da riconnettersi a un'epoca imperiale, andrebbe per noi tenuto conto quando si ripercorrono i sentieri battuti dalle creazioni letterarie in turco negli scorsi decenni  (fino ai loro approdi eventuali in Italia e in italiano).
Lingua purificata e linguaggi compositi
Usa giustamente attribuirsi una grande importanza al ruolo svolto nella società turca durante il Novecento dalla "purificazione" della lingua nazionale. Operazione, pure questa, attuata secondo le direttive impartite dal condottiero e fondatore della Repubblica, Mustafa Kemal (poi, dal 1934, Atatürk, 1881-1938). Purismo, tracimante dall'argine linguistico, ed equivoca ambizione a una purezza, strettamente intrecciati con le riforme che hanno contrassegnato i primi tempi della istituzione dello stato repubblicano, fondato il 29 ottobre 1923. Uno stato scaturito dal crollo dell'Impero, dopo la vittoriosa Guerra di liberazione dall'occupazione straniera, condotta magistralmente da Mustafa Kemal: una lotta per l'indipendenza che, in sé, presso le masse che ebbero ad aderirvi e presso i dirigenti, non contemplava nitide e univoche prospettive repubblicane e democratiche.[2]

Le riforme volute da Mustafa Kemal, in linea con i principi kemalisti (rivoluzione, nazionalismo, repubblica, laicità, statalismo, populismo), sono essenzialmente rivolte alla occidentalizzazione, ovvero dirette al distacco di quel nuovo stato dall'ambiente islamico e dai lasciti imperiali, ritenuti dannosi per lo spirito puro del popolo turco. Emblematico, in un panorama di eventi in cui risalta l'abolizione del sultanato (novembre 1922), e per la sua pertinenza alle lettere, è il passaggio dall'alfabeto arabo (il segno eccellente del Corano e del contesto cultural-religioso, da ridimensionarsi) a quello latino (1928).

Occidentalizzazione come transito, o rilancio verso l'Europa di un Paese in via di edificazione nonché di collocazione dignitosa nel consesso europeo. Si assiste insomma alla  costruzione, su basi di purezze esaltate e discutibili, di una Nazione degna di occupare una posizione onorevole tra gli stati moderni: un posto imperniato sull'Anatolia.

E' questa la Penisola – dove, dal 1923, è fissata la nuova capitale, Ankara, centro decentrato, distante da una Istanbul troppo compromessa col passato da denigrarsi, e col futuro, verrebbe da dire adesso, alla luce delle rivendicazioni e motivazioni neoottomaniste - che viene elevata al grado di culla e riserva inesauribile di una identità come sempre soggetta a rideterminazioni, riaggiustamenti. Se ne esalta la monoliticità etnica (a scapito di altre presenze, precedenti l'arrivo dei nomadi centrasiatici in quello spazio); e all'occorrenza, in modo contraddittorio, si procede alla riconnessione strumentale dei Turchi ai "conterranei" Ittiti, nel verso di una presenza turca ininterrotta, mai venuta meno nella zona. Quell'azione kemalista di ammodernamento introdotto a tappe forzate, incide, grazie all'uso dei media, oltre che sulla concezione e sull'uso della religione, sui vari settori di una società che deve essere liberata anche da insidiosi discorsi di classe, alla riscoperta di autenticità, emancipata da influssi forestieri.

Un popolo liberato quindi nella sua espressione più alta, la lingua, minacciata nella sua purezza da penetrazioni di elementi lessicali e sintattici "estranei". Estranea infatti viene ad essere considerata la presenza nell'idioma nazionale di cospicui vocabolari e sintagmi arabi e  persiani: testimoni fastidiosi ed eloquenti di una partecipazione ottomana attiva, e interattiva, all'universo islamico e a un ecumenismo culturale. Preposta a fini filogici e  normativi è l'istituzione, nel luglio 1932, della "Società di ricerca della Lingua Turca" (Türk Dili Tetkik Cemiyeti, in seguito Türk Dil Kurumu), sostenuta da Mustafa Kemal.  Si procede dunque a rinnovare, a mondare la lingua da quelle cosiddette incrostazioni, impurità,  sostituendole con parole, morfologia e ristrutturazioni turco-altaiche, attestate, "rastrellate" nei codici antichi, con voci registrate nelle parlate anatoliche, con neologismi che ostentano la ricchezza e varietà di radicali e suffissi formativi, talora applicati in maniera morfologicamente discutibile alla formazione di voci tenute a rispondere ai "concetti europei".
Sennonché, si sottolinea, quei concetti, quei modi espositivi europei si erano da tempo immessi nelle correnti del Bosforo, e da tempo erano entrati nell'orbita espressiva della cultura ottomana: in forza degli intensi scambi intercorsi nei secoli tra le comunità soggette e le potenze occidentali. Ed è giusto qui, in questo snodo più simile a un innesto, che interviene per noi la necessità di introdurre quella distinzione fra lingua e linguaggi. La modernità turca non è una novità repubblicana: costituisce bensì il segmento di un processo in divenire riflesso in una lingua sì "impura", matrigna, nell'ottica nazionalista, ma senz'altro matrice di linguaggi già aperti e flessibili alle varie letterarietà europee (è del 1869 l'inaugurazione del liceo di Galatasaray, improntato ai sistemi educativi francesi, per dire…). Aperture notorie ai francesi nella seconda metà dell'Ottocento (V. Hugo, e Fénélon, Voltaire, Lamartine, e Silvio Pellico, interpretati, si diceva, da autori turchi e musulmani, come Münif Pascià, Yusuf Kamil Pascià, e armeni, ebrei, greci, arabi),[3] e scivolose concessioni a pratiche di quell'esotismo occidentale che ha indotto gli intellettuali turchi a sentirsi e descriversi secondo i canoni altrui, in una sorta di francofilia morbosa. Fino alle artificiose e suggestive riscoperte della "voce" più autentica della poesia turca. Tale, e appena accennata, la nevralgica questione linguistica.

Alle reazioni che imputano a quella "Società" linguistica  kemalista una pratica dilettantistica nell'assurda invenzione di neologismi, si oppongono i risultati raggiunti nell'alfabetizzazione del paese. [4]  Resta che  si sarebbe anche dolorosamente osservato:
(…) La pretesa della classe politica di controllare e di guidare il processo linguistico-culturale ha privato la nazione turca di una 'coscienza linguistica'. I continui cambiamenti introdotti nella struttura della lingua hanno impedito che la lingua turca diventasse uno strumento interiorizzato tanto da permettere una naturale elaborazione del pensiero  e la sua espressione. [5]
Effettivamente, nel conciso excursus, va inserita la faticosa rielaborazione delle maniere di concepire, acquisire ed organizzare le idee. Ma sappiamo che rientra nel fare artistico, per non dire nella più quotidiana prassi comunicativa, la gravosa e grata formulazione di linguaggi e messaggi.
Quella consolidata pratica traduttoria – parte integrante dell'osservazione sullo stato dell'istruzione nel paese - sarebbe stata continuata con particolare vigore istituzionale un secolo dopo. Hasan Ali Yücel (1897-1961, ministro alla Pubblica Istruzione dal 1938 al 1946), introdusse in località sparse di quell'Anatolia i Koy  Enstitüleri ("Istituti delle campagne", 1940-'47), destinati all'istruzione di insegnanti assegnati poi alle province remote, a diffondere, con l'ideologia repubblicana, l'alfabetizzazione e una istruzione di base. [6]

Sempre quel ministro, convinto che il fondamento della modernità e della forza dell'Europa consistesse nella nostra classicità, istituiva il Tercüme Bürosu ("Ufficio di Traduzioni", 1940-1966, gestito da letterati e autori di primo piano), con l'intento di realizzare un vagheggiato  umanesimo nazionale, attraverso la sistematica traduzione degli autori stranieri, classici (greci e latini) e moderni, comprese le opere musicali e teatrali, per i conservatori e le accademie. Conati umanistici che si sarebbero spenti contro vari ostacoli: le accuse mosse al ministro di "comunismo", corruttore della vera turcità (secondo i Turanisti, cultori del Turan, ossia dell'idea di un immenso, superiore mondo di stirpe turca, esteso perlomeno dal Pacifico all'Adriatico, e destinato a tornare a dominare su tutti i popoli), e lo scontento islamico di fronte a tanto sbilanciarsi verso l'Occidente, e a tanta chiusura verso l'arabo e il persiano. [7]  Sono queste solo alcune delle doverose segnalazioni delle resistenze alla penetrazione della "miscredenza europea"; ricordando che altre resistenze provengono da quei laici, sedicenti progressivi, diffidenti verso le manifestazioni di un predicato e censurato "libero pensiero".
 
Un pendolo tra i  vuoti di luoghi e tempi

Anatolia, allora, culla della Nazione egemone, brandita, blandita e agitata dalle scosse governative, e percorsa da ideologi, poeti, scrittori in viaggio alla sua scoperta, o verso la sua idealizzazione.


Muri di caravanserragli (frammenti)


Nitrirono i morelli, schioccò il cuoio di frusta,

Per un momento, fermo, esitò il carro,

Poi sotto si riscosse il ferro alle balestre

E i caravanserragli mi scorsero davanti…

Andavo, e mi pungeva il senso del distacco,

Dal Grande Alpeggio al cuore d'Anatolia.

Tale nel primo amore la prima lontananza,

L'anima in fiamme intiepidiva l'aria,

Il cielo d'ocra, ocra la terra, ocra le piante nude…

E dietro s'incatena il Tauro alto,

Falde dinnanzi che un lungo inverno ha stinte,

E gemiti di ruote dentro i vortici  (…) [8]


La strofa è di Faruk Nafiz Çamlibel (1898-1973), esponente del movimento dei "Sillabisti", fautori cioè del metro sillabico, popolare, usato nella poesia antica. Ma ascoltiamo un'altra voce:


Scalzi

Il sole

    un turbante

           di fuoco sul capo.

Sono pallidi i campi

     e scalzi nei sandali i piedi.

Più cadavere ancora     del suo mulo decrepito

     un paesano

           ci è al fianco,

anzi no, non al fianco,

              semmai è nel sangue

                                    che brucia. (…)

E' così che giriamo la landa! (...)
Non è da sonnambuli il giro.

                                           Ipnotico, no,

se passiamo    dallo sporco all'immondo

è così che giriamo la landa!

E noi

ben sappiamo

        il rimpianto

            che piange la landa.

è rimpianto

     irrigato da righe di rughe      al pari di testa

                                                     materialista,

in tale rimpianto si vuol               che consista

                              materia

                                  materia! (...)

Signori

          col morso alla bocca

                                   la penna

                                        alla mano!

Ci siamo stufati di dolci fandonie.

Oramai

nella testa di ognuno di voi

                                    batta

                                     un chiaro

                                            rintocco, vi dica:

il villano rimpiange la terra

                 e piange le macchine

                                            terra! [9]


A incalzare, nel 1922, è uno dei ritmi di Nazim Hikmet (Salonicco 1902- Mosca 1963), e quelle che precedono possono valere da visioni paradigmatiche delle Anatolie, maestose, oleografiche, o più realisticamente misere e in cerca di riscatto, di coltura e cultura. F. N. Çamlibel è ipnotizzato, appagato dal paesaggio, e trova un rifugio intimistico fra i muri dei caravanserragli sui quali si inscrivono i versi della nostalgia incisi dai pellegrini trascorsi. N. Hikmet, già ferito dalla scoperta del paesaggio umano umiliato - in viaggio nei tempi ritrovati della Patria non da sonnambulo, ma sotto il pungolo dell'asperità utopica eppur localizzata del sogno "materialista" - proietta nel futuro una rinascita dei contadini e di quella stessa terra, nella libertà dal grigiore, dalla povertà, sui piedi ben calcati nel discorso ideologico e poetico, altri da quelli estasiati di metriche, popolari o classiche, sillabiche o quantitative.

Compiamo un salto di trenta anni, e nel 1951 incontriamo in quelle contrade chi sa ascoltare il suono dei passi di una formichina d'Anatolia, non diversa da quelle d'altre parti:
 
La formica di Sivas,

Scorreva/Kizilirmak, grande, schiumoso,/In fondo a un palo del telegrafo,/Senza affanno, né bava, come l'epoche,/Camminava una formica di Sivas.//Lucenti, dalla sponda di là,/Nitrivano,/Cavalli,/Lei non capisce tappe e soste di cavalli.//Beato, pieno, il suono dei suoi passi/Si sentiva./Eroica./Santa secondo i passi di una fame./Camminava,/Da terra.//Dal suo cammino quieto è chiaro,/Conosceva/Il monte, l'acqua, l'erba, deliziata./Sciolta dalle altre formiche,/Camminava/Verso altre formiche.//Solerte, laboriosa, infaticabile,/Somigliava/A quelle d'Africa, di Cina, di Parigi,/Nera, sulla fronte della terra nera/Camminava,/Più libera di sorte scritta in fronte.//Di pensieri, di scontri non sapeva,/Non era in marcia/Mai il suo sogno./A un chicco di frumento/Camminava,/Una formica di Sivas. [10]
Le formichina è la punteggiatura che percorre i versi di Fazil Hüsnü Daglarca (1914-2008), il quale, sebbene non aderisca, come la critica ripete concorde, ad alcuna scuola specifica, frequenta tuttavia quelle parti di Sivas/Sebaste, e le ombre che si allungano sui secoli "nazionali" di Mehmed II, il Conquistatore di Costantinopoli, e di Mustafa Kemal, il Fondatore della Patria.

Tanto possa bastare a fornire un'idea vaga, ancor più che di "scuole", forse di anime, presenze, sensibilità, ambientate sul suolo, sull'orizzonte anatolico.
Sulle tracce di arcipelaghi sommersi

Ora, dopo i rimandi alle otto-novecentesce traduzioni in turco, sarebbe il caso di sfiorare il fenomeno delle traduzioni dalla lingua e dai linguaggi turchi in italiano.

Andrebbe  subito esplicitata, cogliendo lo spunto offerto da quello schivo eppur pervasivo Fazil Hüsnü Daglarca, una difficoltà. O un problema: quello delle modalità da applicarsi, qui e altrove, per delineare i più moderni percorsi creativi turchi, sia seguendo i movimenti del pendolo oscillante tra la Città / Polis eccellente (Costantinopoli-Istanbul) e una genuinità anatolica, sia ripercorrendo gli itinerari  compiuti dalle apparizioni delle espressioni turche in italiano. Ed esattamente quando risultano come cancellate le isoglosse di una storia di scritture, non è facile cancellare l'impressione che tra le diverse personalità che marcano tali cammini permanga una sorta di vuoto, una sospensione di spazi e di tempi della creatività turca quale risulta nelle sue rese italiane. Va ammesso: le responsabilità di quei certi vuoti ricadono su un impianto complesso in cui rientrano anche, con gli interessi del mercato editoriale, gli interessi scientifici dei ricercatori, di frequente rivolti più addietro nei secoli. A quei secoli nei quali peraltro – va pur aggiunto - ci è dato di rintracciare i mutevoli segni  di un'attenzione "strategica" rivolta dagli stati europei alle espressioni culturali ottomane (dall'organizzazione militare, dagli armamenti, ai componimenti, insomma). È seguendo queste movenze storiche, palmari o striscianti, fra quelle pietre definibili miliari e secolari insieme, che a nostro parere andrebbe impostato un tipo di ricerca sulla ricostruzione di paesaggi caratterizzati da presenze letterarie turche, in Italia e in Europa. Grazie a simili metodi si tornerebbe a cogliere, liberi dalle "coincidenze", le sintonie: nel ricomporsi di percezioni, quando ciò sia possibile.  

Se tralasciamo allora quelle prime strofe registrate e interpretate da antichi osservatori occidentali (e spesso italiani, veneziani, in particolare dal Seicento al Settecento [11], notiamo, lungo questo itinerario, certe pietre miliari che scandiscono, piuttosto solitarie ma ben piantate, le tappe compiute dagli autori per giungere ai nostri lettori: da Nazim Hikmet, a Yasar Kemal, a Orhan Pamuk, ai nomi più di recente, e non di rado in ritardo, acquisiti. Ritardo che andrebbe considerato e dall'angolazione di una vana rincorsa delle iniziative editoriali straniere, e per l'assunzione di una visione, e azione culturale meno provinciale.

Quasi che – nella distorsione percettiva che comporta sempre l'arrivo e l'installarsi, o l'imporsi, o l'imposizione all'estero degli autori - quelle personalità, sebbene così nette, finissero per mettere in ombra vuoi un più complesso scenario, in cui agiscono tanti altri attori, vuoi, paradossalmente, se stesse, una volta private del contesto, familiare o internazionale, a cui vanno ricondotte, più consono a distinguerle per le loro peculiarità. Stiamo in pratica auspicando la formazione dello spazio necessario allo svolgimento di considerazioni articolate sui motivi e sul superamento del recidivo chiaroscuro. Davanti a quelle intermittenze, pensiamo a integrazioni che presentino nel nostro paese, in un tracciato critico, opere e individualità trascurate nei decenni scorsi (nel mentre che quelle stesse, in patria, fornivano una promozione, un terreno alle opere arrivate da noi purtroppo avulse da una storia che significa geografia mentale).

Tentiamo un tratteggio che provi a disegnare tenui contorni, a inserire una sorta di collegamento fra le isole letterarie e gli ambiti in cui quelle personalità si trovano, in Italia, a convivere, esprimersi, e collidere, con i loro colleghi, connazionali, contemporanei o predecessori, più o meno noti. Certo è che risulta arduo tradurre, trasferire in un altrove vago una mappa di luoghi che restano sospesi (quasi che si potesse nascere al mondo solo una volta tradotti).
In tale mappa sbiadita, quel Nazim Hikmet, in Occidente e in Russia presentato fino a qualche anno fa soprattutto come poeta marxista tutto d'un pezzo, rivelerà a una lettura meno "partitica" ben altre e fin qui ignorate sfaccettature. Aspetti certo da raccordarsi nel prisma dell'impegno politico, cioè estetico,  riflessi, riecheggiati in forma non sfocata, e contrastati, incrinati ancora nelle intonazioni di uno stesso autore e degli esponenti di un coro, più attuali o più vicini al tramonto dell'Impero e alla nascita della Repubblica. Protestava infatti uno sconosciuto adolescente:

Vendetta  (1331/1915)

Gridano vendetta/Le moschee messe in croce/Gridano vendetta/Gli innocenti trafitti/Gridano vendetta/Gli orfani abbandonati/Gridano vendetta/I nonni e i vecchi/Gemono i cieli/Gridano vendetta/Grida vendetta la Rumelia/E tu, figlio di tanta stirpe/A tanto lamento, taci? [12]
Siamo nel 1331 dell'egira /1915, esposti col giovane Hikmet all'emergenza nazionalista, e razzista ("figlio di tanta stirpe"…, aderendo alle norme escogitate a Occidente). Non si trascuri l'indignazione religiosa, racchiusa in quel sincretismo che viene a rinfacciare ai cristiani invasori, padroni arroganti della vecchia e "onorata" Capitale (è questo l'epiteto col quale il poeta usa accompagnare la citazione del toponimo sacralizzato Istanbul), la blasfema crocifissione di templi e minareti. Così inveiva quel Nazim inviso ai religiosi e definito "traditore della Patria":
Tradisce la Patria
"Nazim Hikmet tradisce la Patria tuttora/Hikmet che affermò che noi siamo all'America una semicolonia/Nazim Hikmet tradisce la Patria tuttora." /(...)  E sì che tradisco la patria, voi siete patrioti, la patria l'amate, io non l'amo tradisco la patria./(...)/se patria vuol dire esser schiavi delle tenebre nostre/allora lo son   traditore (...).[13]
Se quest'ultimo è, nel luglio 1962, l'uomo riconoscibile, riconducibile alle traduzioni riproposte delle sue strofe impegnate e di denuncia, non andrebbe più in ogni caso dimenticato quel primo poeta precoce e sensibile alle ingiustizie. Un adolescente che sfugge e potrebbe non essere riconosciuto, confuso sempre dalle note lasciate risuonare forte nelle scelte più di effetto delle sue poesie d'amore e di lotta, o nelle inclinazioni, a dire il vero non così pronunciate, a un futurismo creduto tutto all'insegna di Vladimir Majakovskij.

Ritroviamolo nel 1921, quel futurista, rivolto al passato della sua Polis:


Ottocentocinquantasette (= 1453)

È questo il giorno più solenne atteso dall'Islam:

Costantinopoli Romana è diventata Istanbul Turca!

Padiscià di una schiera che il mondo intero sfida,

Dei Turchi il giovane Sovrano, quasi un cielo si squarciasse,

Sopra il cavallo grigio entrò da Egrikapi.

Tre giorni e otto settimane: ecco, presa è Istanbul!

Di Dio felice, augusto servitore egli era…

Del Padiscià che conquistò l'Urbe Venusta

Ha coronato Iddio il voto più elevato:

Dopo il meriggio, in Aya Sofya si prostrò egli a pregare.

Istanbul appartiene al Turco da quel dì,

Se d'altro essa sarà, si perisca Istanbul! [14]
 
Già anni prima di quel 1962 – quando Hikmet maturo, esule a Mosca e col pensiero fisso alla morte - risentiva offeso l'accusa di traditore della Patria -, e poi ancora in precedenza, quando, durante la sua reclusione più lunga, tra il 1938 e il 1950, alla voce di Hikmet era messa la sordina, nell'aria risuonavano altri motivi:


Non  dentro il tempo io  sono…
Non dentro il tempo io sono,

Né da lui fuori, avulso:

Lungo il flusso perenne

Di un ampio, intero istante.
Le forme tutte paiono assopite

In sogno strano che le tinge,

La piuma che nel vento vola

Non ha di me la levità (…). [15]


Stiamo ascoltando l'onirico e lucido dire di Ahmet Hamdi Tanpinar (1901-1962), poeta, romanziere, saggista e docente di letteratura, che viene a collocarsi con discrezione e sofferenza fra le quinte del teatro del mondo,  fra nostalgie ottomane e perfezione alla Paul Valéry. Parlando di poetica, egli comunica a una giovane amica: "[…] La mia estetica si è formata essenzialmente dopo aver conosciuto Valéry (negli anni 1928-'30). È possibile raccogliere tale estetica, o tale concezione poetica, intorno alla parola sogno, e alle idee di un lavoro cosciente." [16]

Avviciniamo le sue sinestesie di luce e voce:

[…] Il sole, sul Bosforo, non sorge né cala. Ricorda un'opera lirica che si ascolta all'esterno, dall'altoparlante: tutta l'azione resta al di fuori della nostra lente. Voi sentite solo la musica. Le due sponde sorreggono l'una all'altra lo specchio delle ore. A Beylerbeyi, Emirgan o Istiniye ogni ora del giorno è qualcosa d'altro. Beykoz, Çubuklu cercano di scrollarsi di dosso il torpore dei sogni all'ombra degli alberi, e Yenikoy o Büyükdere si svegliano presto col sole che affonda loro nelle pupille […]. E le sere poi… Sulla riva d'Europa l'imbrunire si assapora sempre di lontano, e sempre che pare impastato nelle cose. Ma sulla riva di fronte la sera ha infiammato d'un rimpianto sanguigno i pini degli orti […].

"Il passato del Bosforo ci attrae più di altri trascorsi forse perché quello che andiamo cercando non riusciamo a trovarlo nel suo posto autentico, originale… No, è certo che queste vecchie cose non le amiamo di per sé. Ad attrarci verso di loro è il vuoto che hanno lasciato […]. Io passo di miraggio in miraggio. Da ogni fontana emergono volti enigmatici… «Anche noi eravamo come te –mi dicono.- Non troverai risposta alcuna a tutte le tue domande. Ciò che conta è il tuo rimpianto sincero; cerca di non lasciarlo spegnere…». [17]
Nostalgia, enigmi, ispirazione che alitano sul passato e dal passato: è la scrittura di A. H. Tanpinar, ancora poco noto in Italia. Ripassando le linee convergenti e divergenti delle lettere turche contemporanee, risulta confermata una convergenza: maestro a Tanpinar, [18] e a N. Hikmet, è colui che "riscopre" la vera voce della poesia turca, Yahya Kemal Beyatli (1884-1958).
Con Yahya Kemal si assiste all'invenzione di una classicità turca e ottomana che si direbbe metastorica, assoluta, sciolta da periodizzazioni. A quella si ricongiunge per ristabilire quel rapporto diretto con la tradizione, scavalcando le ottocentesche Riforme/Tanzimat. È una invenzione maturata durante il soggiorno francese di Yahya (a Parigi dal 1903 al 1912), con le letture di Le Conte de Lisle, Heredia, Moréas, Baudelaire, e lo studio dei canzonieri ottomani e persiani "ritrovati" alla Bibliothèque Nationale. Carico di un bagaglio tanto ricco, il poeta, originario della Macedonia, sprovincializzato, rientra a Istanbul e procede nei suoi versi alla ricomposizione armonizzata, e teorizzata, di Territorio santificato e Nazione (trasferendo al turco una visione antropomorfica, storica e letteraria, di J. Michelet). Eccone un esempio:

Da una collina

Tu una sera di sogno eri venuta a contemplare

Su ogni colle del Paese cui tu tanto somigli.

Parlavi e ti guardai: sempre più eri bella,

Sempre più nella tua voce io sentivo Istanbul  […]. [19]


Siamo ritornati intanto sul Bosforo, dominato dai Sette Colli, alla romana, nell'ottomana, bruciante memoria, finalmente ritrovata. Insieme con il ritrovamento della voce poetica autentica, come a vedere esaudita una preghiera:

Quartina sulla voce

Non darmi libertà, né l'uguaglianza,

Né quella fama che di là verrebbe.

Ma melodia d'amore che dà perenne gioia,

Forza che crei voce, dammi, o Signore. [20]


Quel poeta ricrea con questa voce un suo Oriente rintracciato a Occidente, negli anfratti dell'Orientalismo voluttuoso, dalla parola e forma ineccepibili, sul modello di Heredia:

Città Chimera

Va' in questa stagione, al tramonto, e guarda da Cihangir! […]

Palazzi crea l'illusione del sole dai vetri.

Quel dio la pensò distrazione al suo padiglione di sogno […]

Con quei castelli di fuoco massiccio l'intera riva dinanzi,

Somiglia all'Oriente fastoso d'or son tre millenni […]

L'architetto di luce d'Oriente, da secoli antichi

Così edifica, quella, nel mentre che Scutari sogna […]. [21]

Ruotiamo ovviamente intorno all'idea non così autoctona di "arte pura". Per Recaizade Mahmud Ekrem, 1847-1914,  "il bello è poesia", mentre per il poeta di origini arabe Ahmed Hasim (1885-1933) "... in poesia il soggetto è solo un pretesto per il canto e l'immaginazione. Se alla base sta il canto, la musica passa immediatamente in primo piano, mentre il significato resta su un piano arretrato. […] Vera poesia è infatti quella che offre a ciascuno più possibilità interpretative". [22]
A tutte quelle concezioni dell'arte si sarebbe opposto Garip, il movimento dal nome che significa "strano", o "estraneo" agli usi versificatorii precedenti e coevi. Garip è anche il titolo di una raccolta maturata dal 1936-'37, pubblicata nel 1941, che presenta le composizioni di tre amici, Orhan Veli Kanik (1914-1950), Oktay Rifat (1914-1988), Melih Cevdet Anday (1915-2002), concordi su quanto afferma il loro portavoce, Orhan Veli, presentando la nuova poetica:
 […] Spero tanto che paragone metafora iperbole abbiano ormai saziato l'occhio affamato della storia […].Non approvo la compenetrazione delle arti. Si deve accettare e accogliere la poesia come poesia, la pittura come pittura, la musica come musica […]. La musica nella poesia, la pittura nella musica, la letteratura nella pittura non sono che artifici cui ricorre chi non sa vincere le difficoltà […]. La poesia è l'arte della parola […] costituita completamente dal significato [che] si rivolge all'intelletto umano. […] Per quanto ci riguarda, riteniamo che la schiettezza e la semplicità siano i principali risultati ottenuti nell'opera di dilatazione dei limiti della poesia, [mettendoci in contatto con] il subconscio […] Non si tratta di svuotare il subconscio, ma di imitarlo. […] L'artista è un imitatore tanto perfetto da non sembrare tale, giacché ciò che imita è originale. […] La parola bella non rende un servigio alla poesia. […] Quanto poi a chi non digerisce l'inserimento di parole come «callo» […] in poesia, beh, si tratta di chi sa sopportare quel certo poeticismo, di chi anzi va a cercarselo […]. [23]
 
Leggiamo allora un "Epitaffio":


Niente lo fece mai soffrire al mondo

Più del callo;

Neanche la sua bruttezza lo rattristava tanto;

Se la scarpa non stringeva,

Non scomodava Dio,

Dunque, blasfemo non era.

Commiseriamo Süleyman Efendi. [24]


Col tempo, quegli stessi Garipçi /cultori dello "Strano" si faranno consapevoli dei limiti di questa rivolta, ormai adagiata sulla superficialità ripetitiva.  Sfilacciato ed estenuato, quel movimento, e il suo stesso fondatore doveva lamentare che troppi giovani avessero creduto che la poesia consistesse nel raccontare con la lingua della strada i piccoli fatti quotidiani.

Insorgeva dunque il rigetto espresso da un altro gruppo non precostituito di giovani, agli inizi degli anni Cinquanta (per proseguire fino ai tempi attuali, secondo alcuni critici). Poeti diversi l'uno dall'altro, per estrazione, concezioni estetiche, tuttavia raccolti in una "zona" poetica che li avvicina: le pagine culturali del giornale «Pazar Postasi» ("La posta della domenica"). È il movimento Ikinci Yeni, (il "Secondo Nuovo"; [25] il "Primo Nuovo" sarebbe stato quello introdotto da Garip). Ancora un "Nuovo", sensibile all'urgenza di abbandonare la funzione di "portavoce" delle istanze sociali,  spinto alla ricerca di una indipendenza intellettuale. Ma sempre per ribadire che con la lingua poetica si può evadere dall'espressione prefabbricata del potere e dell'affaticata abitudine: talora sulla scorta del surrealismo (già richiamato, associato al subconscio, da Orhan Veli). Seguono alcuni famosi, ma da noi sconosciuti esempi di quella sintassi da "secondo nuovo", ora sconnessa, ora rivitalizzante:
 
da Ilhan Berk (1918-2008)


Un bosco

Chi è che di voi lo tiene a mente?

Un giorno viene che   l' umanità di me la prendo

Fino alle piante agli animali

Ad allargarla un giorno

E poi tutto ne avvolgo questo mondo (…). 332
 
Sono arrivato al tuo reame tuo paese

Sono arrivato al tuo reame tuo paese

Sono rimasto con la bellezza tua    ignara d'ombra.

Ad allevar così quel nostro mare ogni mattina

Era il sorriso tuo in quel paese so ben io (...)
Inattinta, tu sei quella contrada dove andai

Senza un dopo   come colpì l'acqua più bella

La tua bellezza pari ai pesci d'Istanbul.
Ora dovunque   quanto eravate   bella ciò è rimasto

I mari riecheggiò con le altre donne

Con voi c'era una volta al mondo farsi Istanbul. 336


Edip Cansever (1928-1986)

Dal Garofano di gravità terrestre (1957)


Lo sai? Tu poco poco vivi in me

Eppur con te c'è l'esser belli

Beviamo anice ad esempio, come un garofano in noi cade.

Un albero picchietta ticchettante accanto a noi

Era il mio stomaco era la mente mia   tanto così resta (…) 488

 

Cemal Süreya (1931-1990)

da Ǜvercinka (1958)

Ora ci dividiamo il volo di un colombo

In quell'azzurro celebre del cielo

Con le sue donne a crini lunghi e grossi seni

Potrebbe uscirne   una città mediterranea

Se laceriamo il cuore

Di un colombo adesso ora (…). 506


Sezai Karakoç (1933)
Il Balcone (1957)

Muore se cade il bimbo ché il balcone

E' nelle case il golfo prode della morte

Sorriso che svanisce estremo ai bimbi in volto

Mamme le  mamme mani sul ferro alla ringhiera

Dentro di me il balcone e nelle case

Tiene lo stesso spazio di una bara

Pronto il sudario dei vostri panni appesi

E voi morti distesi sulla sdraio (…)

Non dirmi dov'è che vai così di corsa

Sai mi precipito affannato

A stampare un bacio in fronte

A chi fa case senza quei balconi. [26] 527


Il poeta rivive in seno all'islam un senso religioso,  e chiama a frequentare, anche in versi, i luoghi di culto, come recita questo suo  distico:


(…) Fa' credere alla mamma che vai al cinema, oggi è festa,

E andiamo alla preghiera del Venerdì in moschea... [27]


È il capovolgimento confessionale e ardito del malizioso, o gaudioso, celeberrimo invito rivolto alla persona amata dall'indimenticabile Nedim, entro il 1730:


Vieni a elargire gioia al cuore afflitto,

Mio cipresso vezzoso, andiamo a Sa´d-abad.

Il caicco a sei remi è pronto giù allo scalo,

Mio cipresso vezzoso, andiamo a Sa´d-abad. (…)


Fa' credere alla mamma che il Venerdì vai in moschea

E strappiamo una giornata alla ruota del destino.

Infrattiamoci, a spasso sui sentieri tra le selve,

Mio cipresso vezzoso, andiamo a Sa´d-abad (...)


E tu, e io, e una voce limpida che canta,

E poi, se tu lo vuoi, quel tuo Nedim pazzo di te.

Per un giorno lascia stare gli altri amanti,

Mio cipresso vezzoso, andiamo a Sa´d-abad". [28]
 
Siamo ritornati, con il rovesciamento dei segni in un'ampia e ingannevole isoglossa, a quell'epoca "dei Tulipani" (1720-'30), in cui dalla parte religiosa, dotata "di voce in capitolo",  si vuol vedere l'inizio di una corruzione dei costumi: possano le citazioni ravvicinate dar conto delle istanze islamiche, a una percezione della misura religiosa dei versi. (Del resto, dire "verso" e "strofa" vuol dire movimento di righe, linee, in gruppo, sul brano, sul tessuto sociale che è sempre un testo).
Prose
I racconti, i romanzi, i brani turchi tradotti in italiano nei decenni scorsi, sebbene numericamente ridotti, ci offrono comunque scorci dai quali osservare i tratti  di un più ampio paesaggio narrativo, ormai ben integrato nel panorama internazionale.

Ripartiamo dall'Anatolia. Fin da Terra matrigna (o "Lo straniero", Yaban, edito in Italia nel 1941, in una versione dal tedesco), di Yakup Kadri Karaosmanoglu (1889-1974), leggiamo delle difficoltà di comunicazione tra intellettuali e contadini nell'Anatolia degli anni della guerra di liberazione e della edificazione nazionale. Dal suo Nur Baba (1945 e 1995) sappiamo di baba / "santoni" che perturbano visioni più terse, "neo-ellenistiche" del Bosforo. Giudicati  pesi gravi che schiacciavano l'avvenire della Turchia laica, i conventi e quei baba venivano messi fuori legge da Atatürk, e noi possiamo constatare quanto quel romanzo "di regime", risalente giusto agli anni della proclamazione della Repubblica (1922-'23), fosse inteso a rendere un servigio alla politica culturale kemalista. Testimone e protagonista della vita culturale e della Guerra d'indipendenza è Halide Edip Adivar (1883-1964), distinta scrittrice nazionalista e metropolitana (La figlia d'Istanbul, 2010).
Volendo per un momento seguire una cronologia aderente all'ordine di apparizione delle opere in Turchia - estranea dunque alla loro più tarda comparsa in Italia -,  potremmo notare, negli ultimi anni di vita del sullodato Yakup Kadri, quanto fosse ben al passo con i tempi "postmoderni" l'opera di Oguz Atay (1934-1977), l'autore di un capolavoro, Tutunamayanlar (1971-'72): un titolo traducibile all'incirca in "Quelli per i quali risulta impossibile connettersi", demotivati, disadattati, inadatti a stabilire qualche rapporto positivo col mondo e i propri simili.

Era quello un complesso di testualità  composte di prefazioni, premesse, introduzioni, versi e restituzioni di strofe all'immaginario o attestato poeta: pagine perdute, poi ritrovate e incorniciate. Sfogliando il libro, si finiva ingoiati dalla macchina narrativa non più solo e perché attratti nella sfera espositiva della realtà, o travolti dalle correnti realistiche, sollecite ai richiami delle campagne d'Anatolia: il lettore provava invece  un senso di smarrimento davanti alle varie, "già sentite" forme discorsive, e si avviava all'inseguimento dei testi cangianti che lo pungolavano come interlocutore.

Parole, sequenze, frasi saltellavano sugli schemi dei linguaggi,  alla ricerca della lingua in sé, nelle risonanze di Joyce, Kafka, Gončarov, Dostoevskij, Čechov, Nabokov, Borges... (e in questo senso le connessioni si realizzavano). Oguz Atay è dunque accolto nella storia e critica letteraria come l'autore che per primo ha diffuso nella cultura di Turchia la percezione più precisa di una essenza testuale organica e composita nel nuovo concetto di romanzo, nella scrittura che "disorienta" il lettore. Resta da aggiungere che quei personaggi/testi, travolti dal caos del linguaggio, sono dolorosamente segnati dal blocco comunicativo, dal senso di incompiutezza che li lascia soli e li respinge ai margini della società, o del contesto. Fenomeni simili si ritrovano nei racconti dello stesso autore, finalmente apparsi da noi, composti e pubblicati fra il 1972 e il 1975 (Aspettando la paura, 2011). Non diversamente dal romanzo, anche in essi sono dominanti l'astrazione kafkiana e la venatura allegorica, ma, nell'espressione di una penosa realtà mediante le iperboli, è pregnante l'idea, espressa dal narratore e dai personaggi, di sentirsi una "imitazione di un qualcosa di cui sfugge l'originale", declinati da variazioni sulla solitudine.
A un senso di solitudine, o meglio di isolamento, pare di assistere anche leggendo altre opere. Resta forte in Turchia, a dispetto delle censure e dei procedimenti giudiziari, l'espressione coraggiosa di pensieri invisi a regimi, partiti, maggioranze. Sono infiniti gli autori incarcerati, perseguitati, torturati nelle carceri, e tormentati dalla propria ricerca di una verità sfuggente, da esprimersi nell'angoscioso monologo che percorre i volumi.

Oya Baydar, in Ritorno a nessun dove (2010) sembra ricomporre le proprie parole e frasi sulle rovine di quel Muro a Berlino, che un tempo divideva illusorio i "dove" di uguaglianza e ingiustizia. Amori e persecuzioni, illusioni, dunque, nei ritorni sconsolati e bisognosi del sostegno della rassegnazione, raccolta tra gli ulivi di un'isola mediterranea. È un'altra forma di isolamento, che rinvia all'esilio, al rifugio vitale e scomodo in URSS di Nazim Hikmet, raccontato in Gran bella cosa è vivere, miei cari: romanzo autobiografico, anzi autobibliografico, dal momento che questa sua prosa (Mosca, 1962), da poco nota in Italia, si snoda e riannoda sul filo dei ricordi e degli eventi già esposti in versi dal poeta.

Al seguito dell'inurbamento massiccio iniziato negli anni '50, come a riprendere le mosse di quel pendolo tra l'Anatolia, l'esilio, l'emigrazione e la Città, è la campagna che viene a raccontare nei suoi dialetti le dure storie del disadattamento, nell'affabulazione di Latife Tekin, autrice che non segue le inflessioni realistiche di tipo europeo, [29] (Cara spudorata morte, 1988,  Fiabe dalle colline dei rifiuti, 1995).

Da Parigi, risuona viva la lingua turca migrante di Nedim Gürsel, disponibile agli stilemi "franchi", pieghevole alle esperienze di viaggio nei Balcani già ottomani, inarcata alla sensualità, e pacata nella collocazione fra tempi e luoghi (La prima donna, 1989, Ritorno ai Balcani, 1996, Il romanzo del Conquistatore, 1997, L'ultimo tramwai, 2002; Nel paese dei pesci prigionieri. Un'infanzia turca, 2007). In Germania, tra gli autori turchi figli di emigranti c'è anche chi opta per la lingua tedesca, dando luogo a interessanti ibridazioni, con l'arricchimento delle inflessioni della letterature di Germania, [30] (Feridun Zaimoglu, Schiuma, 1999, e Leyla, 2007). Da Cipro, s'installa nel nostro più familiare zodiaco Mehmet Yasin, con Il vostro fratello del segno dei pesci (2010). E in Turchia, ma fra i Curdi, trascorreva Un inverno ad Hakkari (1995) F. Edgü, "marinaio" turco sulla nave incagliata ancora (1977) sulle rocce dell'Ararat.
Yasar Kemal, di origini curde, scrive bene in turco, sì, ma senza alternative linguistiche (non doveva esistere una lingua, né un'etnia curda, in Turchia). Sulle cadenze dei cicli cavallereschi antichi, egli racconta la rivolta contro la prepotenza, reincarnandosi bardo di quella Cilicia già trattata da Orhan Kemal (del quale ultimo si vedano La casa del babbo, 1969, e Gemile, 2007, La lotta per il pane, 2008). Cilicia emblema del mondo, tra gli oppressi dalla storia. Nelle valli e sui monti del Tauro noi vediamo agire un bandito, Memet il ribelle, che volge in elargitore d'abbondanza, in cantore dei riflessi dell'età dell'oro. [31] A constatare come, nello stesso cantore, possano convivere il rimpianto di un passato sconvolto dal capitalismo e la nostalgia di un futuro che promette una maggiore giustizia sociale, nel nome di quella terra amata, [32]  descritta nelle opere di Yasar Kemal, tutte tradotte in italiano.


Modernamente, post-modernamente in posizione arretrata, in disparte, nascosto dovrebbe restare lo scrittore, con le proprie opinioni, nel mentre che scrive: questo ci dice Orhan Pamuk a proposito di romanzi, dei suoi romanzi, premiati con i riconoscimenti più alti.

Con l'eccezione di Cevdet Bey e i suoi figli, 1982, ancora ascrivibile al racconto realistico che espone un sessantennio di vita di una famiglia e di una nazione sullo sfondo - la tecnica che sembra contraddistinguere gli altri romanzi del Nobel turco è la frammentarietà nella pluralità del raccontare gli stessi eventi da parte di vari personaggi (come ne La casa del silenzio, del 1983). Il castello bianco (2006, già Roccalba, 1992, scritto nel 1985), rielabora l'artificio del manoscritto ritrovato, con una variante del motivo del doppio: lo schiavo veneziano e il suo padrone/gemello sul Bosforo. Alleviata maniera di affrontare, sdrammatizzandolo, l'assillo dell'identità, dell'incontro/scontro Oriente/Occidente, con l'auspicio a uscire, almeno nei luoghi delle lettere, da tale dualismo tormentoso venendosi incontro, rovistando reciprocamente tra gli aspetti più reconditi dell'animo, con allusioni al generarsi di un racconto che solo all'apparenza, per via  della pretestuosa collocazione temporale (il XVII secolo) risulta storico. Nel Libro nero (1990) l'intertestualità avanza attraverso il rimando agli antichi usi letterari locali, nel processo lungo il quale si diventa scrittori: magari cercando di immergersi nei colori di un genere giornalistico diffuso, collocabile fra la cultura popolare e quella più elevata [33]. Secondo Berna Moran è possibile stabilire un raffronto tra questo romanzo e quel primo esempio, succitato, d'intertestualità moderna instaurata in turco da Oguz Atay (supra) con Tutunamayanlar. Solo che Pamuk, in seguito, viene a stabilire un più forte legame con la tradizione turco-persiana [34]. Ne La nuova vita (1994) si mimetizzano il viaggio ricognitivo in Turchia e la ricerca dell'amata Canan (un nome parlante di denso sapore mistico, manifestazione divina alla quale aneliamo a ricongiungerci) e dell'autore di un romanzo, "La nuova vita", la cui lettura ha cambiato l'esistenza del narratore: il libro che si legge  e quello di cui si rincorre l'autore, come i due scrittori, vengono a sovrapporsi fra gli intricati rinvii alle nostre comuni tradizioni (e a Dante…).

La vicenda de Il mio nome è Rosso (1998) si svolge tra i miniaturisti del Palazzo imperiale, nel XVI secolo. Nell'esplicarsi della delicata e profonda teoria che illustra le differenti visioni filosofiche e le maniere pittoriche nelle diverse e concrete geografie di Persia, Turchia ed Europa, ci si domanda più superficialmente chi sia il colpevole di un omicidio, e più profondamente si cerca d'individuare il Narratore. La voce narrante ben riposta, a detta dell'autore, di altri non è se non del vecchio meddah, quel narratore pubblico di storie, il quale, sulle piazze e nelle strade dei centri abitati, (ossia, metaforicamente,  presso gli snodi e gli slarghi narrativi), torna a permeare coi suoi toni di oralità riscoperta e registrata la scrittura del romanzo turco.

Neve, del 2002, è il romanzo "politico" di Pamuk ambientato nella città di Kars, là in fondo all'Anatolia, un tempo nevralgico crocevia di scambi tra gl'imperi ottomano, russo e persiano: là dove si aggirano gli spettri della storia passata e ossessiva e i fantasmi della politica contingente. È questa una scrittura disposta sugli assi di un fiocco di neve, secondo quell'artificio che, a nostro modo di vedere, si fa una delle cifre di Pamuk: il dipanarsi del racconto a partire e ritornare a un puntino, nascosto in qualche piega della narrazione.

Autobiografia urbana è quella d'Istanbul (2003), Città cara con le sue mestizie, nostalgie e irritazioni condivise: un corpo urbano dolente, rispecchiato nelle proprie articolazioni mentali, cordiali, nervose, insomma somatizzato. Esattamente quanto è somatizzata da Pamuk – artista che pur riserverebbe alla politica un posto scontato ma non di primo piano nella sua arte - la scrittura dei propri libri, noti, e dei propri saggi (Altri colori, 2009), testimoni di un antico impegno in una prima persona con valenze da cittadino sensibile, provato dalla fatica e passione di appartenere a quel mondo. Un senso critico e civico che rode la coscienza, continuando a denunciare il disagio di una società, e che ha richiamato da tempo l'attenzione dei censori del regime su questo celebre autore. Alla luce delle sue prese di posizione, nonché a proposito del suo Museo dell'innocenza (2010) vien da chiedersi provocatoriamente se non sia lecito pensare a un museo delle "responsabilità" (passate e future) di un "traditore della Patria" (si ricordi N. Hikmet), come il Nobel viene considerato dai suoi nemici.
Emerge un'insolita Istanbul – già torbida, insanguinata e illanguidita insieme, nel quadro storico di Ahmet Altan, L'amore è come la ferita di una spada, 2008 - dal genere poliziesco praticato da Mehmet Murat Somer (Scandaloso omicidio a Istanbul, 2009, Gli assassini dei profeti, 2010) e di Esmahan Aykol (Hotel Bosforo, e Appartamento a Istanbul, 2010): testi e pretesti utili a una rivisitazione, guidati da Kati Hirschel e da un detective trasgressivo, della vecchia Capitale (cfr. anche, in tema, Mehmet Coral, I diari segreti di Costantinopoli, 2009) e, di più, a una ricognizione delle potenzialità di lingua e linguaggi di Turchia.

Su tale preciso punto, dal quale muovevamo all'inizio di questo nostro percorso, ritorniamo adesso grazie alle opere di autori, turchi o meno, che del turco si servono nelle loro narrazioni imperniate sulle preziose presenze minoritarie.
In Istanbul era una favola, di Mario Levi (2007), la Città – formata anche da minoranze tanto antiche quanto ridimensionate nel numero dei loro rappresentanti; sparuti resti del vecchio cosmopolitismo, latente ma non cospiratore, né parassita corrosivo. Quell'Istanbul era, e non è più "Favola", quando favola rende masal del titolo originale che affonda le radici nel terreno di "esempio", esemplarità, succo e lezione da distillarsi amari, (di Mario Levi cfr. anche La nostra più bella storia d'amore, 2008, e La vita è un bagaglio a mano, 2010).

Kemal Yalçin compie un viaggio tra i cripto-armeni della Turchia; si vorrebbe poter parlare di una missione dei Turchi alla ricerca delle proprie origini armene (Con te sorride il mio cuore, 2006); itinerario affettivo ribadito da Fethiye Çetin, in Heranush mia nonna (2007). Hrant Dink (1954-2007), morto assassinato, ha fatto in tempo a trattare con equilibrio la complessità delle identità (L'inquietudine della colomba: essere armeni in Turchia, 2008).

Elif Safak ci presenta - prima del Palazzo delle pulci, delle Quaranta porte e del Latte nero - La bastarda d'Istanbul, 2007, vivace, intelligente intreccio di pensieri e discorsi di donne turche e armene, tenute insieme dai fili fragili di una favola, così armena come turca, la quale, tornata a farsi fabula, con la consumata tecnica e la passione inestinguibile della scrittrice s'incunea delicata nella trama scomoda di una tematica che si vorrebbe muta, irrigidita, e la scioglie, parlandone, recando conforto, e non leggerezza né catarsi, alle coscienze: di turchi, armeni, e di noi tutti, bisognosi di segni per capirci nella reciprocità.

Certo che risulta assolutamente "pura", "nazionale", senza deroghe né concessioni alle disprezzate "minoranze" Una famiglia turca dell'orgoglioso Irfan Orga; scritto in inglese negli anni Cinquanta, esce ora (2007) in italiano. Ma intanto nella polifonia (cioè pure in inglese, come fa Moris Farhi con il suo Giovane Turco, 2006), si è fatto più denso il riflesso di quel cordone identitario e ombelicale che lega i Turchi e le cosiddette "minoranze", meglio e più rispettosamente definibili come presenze indispensabili alla ricostruzione di scenari dell'anima, e della cultura. E già Buket Uzuner, in Ada d'ambra, 2003, raccontava lo scorrere nell'incubo della guerra di personaggi muniti del nome di fiumi verso il multietnico villaggio sul Bosforo, nell'infanzia felice di bimbi turchi, greci, ebrei e armeni.

Si compiaccia dunque la Turchia, per la sua lingua, capace di conservare la venatura "franca": linguaggio comune e particolare, elevato e quotidiano; degno di un proclamato, e tendenzioso, neo-ottomanesimo.


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Pubblicato il 20/04/2014

 

Note:


[1] Cfr. la recente riedizione: Vartan Pasa,  Akabi Hikyayesi, a c. di A.Tietze, Istanbul 1991.

[2] Cfr. L. Nocera, La Turchia contemporanea. Dalla repubblica kemalista al governo dell'AKP, Roma, Carocci 2011, pp. 18-19.

[3] Cfr. A. Bombaci, La letteratura moderna di Turchia, in Id., La letteratura turca, Firenze-Milano 1969, pp. 415-445.

[4] Cfr. G. Lewis, Turkish Language Reform: a Catastrophic Success, Oxford 1999, passim.

[5] A. Saraç gil, La lingua turca tra riforma e rivoluzione, II, «Annali dell'Istituto Orientale di Napoli», 51, 2, 1991, p. 157.

[6] In proposito rimandiamo a Indagine su un villaggio in Anatolia, Milano 1969 (Bizim Köy , 1950), di Mahmut Makal, diplomato presso  tipo di Istituti.

[7] Tahir Gürç aglar, Kapilar, ç eviri tarihine yaklasimlar, Istanbul 2005, pp. 39-82.

[8] L' esempio è tratto da Memet Fuat (a c. di), Cagdas Türk Siiri Antolojisi (in seguito: Antoloji…), Istanbul 1991 (5), p. 63 ( in seguito, per semplificare i rinvii agli originali turchi qui tradotti, si rimanderà direttamente ad voces,  ai nomi e alle pagine degli autori citati).

[9] N. Hikmet, Yalnayak, in Id., Siirler 1, Istanbul, YKY 2006/4, pp. 102-106

[10] F. H. Daglarca, Sivasli Karinca, in Id., Türkç em Benim Ses Bayragim…, Istanbul 1999 (3), pp.3-4.

[11] Cfr. Della Letteratura de' Turchi,Osservationi fatte da Gio: Battista Donado, Senator Veneto, fù Bailo in Costantinopoli, in Venetia, per A. Poletti  MDCXXXVII, pp. 35-39; cfr. anche la Letteratura Turchesca dell'Abate Giambattista Toderini (in 3 tomi), T. I, Venezia 1787,  pp. 200-219.

[12] N. Hikmet,  Intikam in Id., Ilk Siirler (Siirler 8), Istanbul  2006 (4),  p. 21.

[13] N. Hikmet, Vatan Haini, in Id., Siirler 7 (Son Siirleri, 1959-1963), Istanbul 2003 (2), p. 150

[14] N. Hikmet, Sekiz yuz elli yedi , in Id., Ilk siirleri (Siirler 8), Istanbul 1993 (7), p. 107.

[15] Cfr. A. H. Tanpinar, in  Antoloji…, cit., p. 69.

[16] A. H. Tanpinar, Antalyali Genç Kiza Mektup ("Lettera alla ragazza di Antalya"), in M. Kaplan, Tanpinar'in siir dünyasi, Istanbul 1963, p. 177.

[17] Cfr. Ahmet Hamdi Tanpinar, Istanbul, in Id., Bes Sehir, Istanbul, Meb 1994 (II ed. integrata rispetto all'ed 1960; la I ed. è del 1946), pp. 139-260 passim.

[18] Per considerazioni su Yahya Kemal e Ahmet Hamdi Tanpinar, si rilegga Orhan Pamuk, in particolare "Quattro scrittori tristi e solitari", il cap XI di Istanbul. I ricordi e la città, Torino, Einaudi 2006, pp. 106-113, (dove Pamuk scrive, di Tanpinar: "… fra i quattro scrittori è quello che sento più vicino a me").

[19] Yahya Kemal, Bir tepeden (1938), in Id., Kendi Gök Kubbemiz,Istanbul,2002 (16), p. 20; cfr. Yahya Kemal, Nostra CelesteCupola, a c. di G. Bellingeri, Milano 2005, p. 17.

[20] Yahya Kemal, Rubâîler, Istanbul 1969, p.33.

[21] Id., Hayal Sehir (1947), in Kendi Gök Kubbemiz, cit., pp. 30-31, cfr. Yahya Kemal, Nostra CelesteCupola, cit., p. 29.

[22] Ahmed Hasim, Siirde ma´na ("Sul significato in poesia"), «Dergâh», I, n.8, Agosto 1337/1921, pp. 113-114.

[23] Dalla Premessa di Orhan Veli a Garip, Istanbul 1941, passim.

[24] Da Orhan Veli, Bütün siirleri, Istanbul 1970 (11), p. 119. 

[25] È il nome attribuito al movimento da Muzaffer Erdost nell'estate del 1956, cfr. A. Karaca, Ikinci Yeni Poetikasi, Ankara 2005, p. 59.

[26] Tutti gli originali degli esempi presentati sono consultabili in  Antoloji…, cit., ad voces, rispettivamente pp. 332, 336, 488, 506, 527.

[27] Il distico è tratto da H. Yavuz, Sezai Karakoç üzerine, «Kanat», Kis 2007, n. 23, p.3.
 
[28] E. J. W. Gibb, A History of Ottoman Poetry, (edited by Ed. G. Browne), VI, London 1967 (ma I ed. 1905) pp. 246-247.

[29] Cfr. B. Moran, Türk Romanina Elestirel bir Bakis, III, Istanbul 1994 (2), p. 90.

[30] Su questo fenomeno cfr. D. Horrocks-E. Kolinsky (eds), Turkish Culture in German Society Today, Culture and Society in Germany, I, Providence 1996.

[31] Sempre da B. Moran, Türk Romanina Elestirel bir Bakis, II, cit., pp.83-93.

[32] Ibid., pp. 116-129.

[33] Ibid., p.138.

[34] B. Moran, Türk Romanina Elestirel bir Bakis, III, cit., pp.103-104