È molto nota la frase di Saul Bellow: «Mostratemi il Proust zulu». Ora, qualche anno fa il fiorentino Franco Zeffirelli si lasciò scappar detto che Siena non aveva prodotto più geni dal tempo di Duccio. Gli studenti dell'Ateneo senese (per fortuna la piccola polemica campanilistica non varcò i confini cittadini) ebbero allora il gusto di godersi una delle rare ma acidissime reazioni di Franco Fortini, ormai all'ultimo anno di insegnamento. "Il Fortini" sibilò: «sarà pur vero, ma almeno non ha prodotto bischeri».
È un po' quel che viene in mente quando si pensa alla frase di Bellow, e non tanto sul piano letterario, quanto se lasciamo volare il pensiero all'icona del Sud Africa, Nelson Mandela, che man mano sembra assumere i contorni di una delle icone più rappresentative del secolo scorso. Ma le mitizzazioni portano con sé i rischi che si possono immaginare. Primo fra tutti il crollo del mito non appena ci si accorga che il mito è, o era, un uomo. La lunga strada verso la libertà, la sua autobiografia, è, oltre ogni aspettativa un libro ricco, potente, e soprattutto, è una lucida, spietata, a tratti "machiavellica" testimonianza di una società e della evoluzione politica di uno dei più grandi stati africani da parte di un testimone e artefice che ebbe la fredda intelligenza di saper gestire, imprigionato nell'isola di Robben Island, un grande cambiamento: la rivoluzione e l'instaurazione della democrazia. Ma tutt'altro che un'auto-agiografia. Inoltre la sua forza deriva dall'appartenere a una cultura, a un insieme di valori e pratiche di cui Mandela è una delle infinite incarnazioni – sia pure di speciale carisma e intelligenza: mi riferisco alla cultura "nera" del posto, o, per essere più precisi, alla cultura Nguni-Sotho. E del resto, com'è ovvio, la capacità di questo politico fu quella di saper captare gli umori, persino attraverso i nuovi detenuti che andavano via via a riempire le celle, e sfruttare ogni minima congiuntura e le varie proteste che fuori si andavano avvicendando. Una di queste, quella che interessa più da vicino il periodo che prendiamo in considerazione (gli ultimi quarant'anni) fu la rivolta degli studenti a Soweto: un quartiere che all'epoca – vigendo ancora la cosiddetta apartheid – era abitato da soli neri. Motivo della rivolta fu l'intenzione del governo di sostituire l'inglese con l'afrikaans come lingua delle principali materie scolastiche. L'intenzione fu recepita come un'imposizione destinata a svantaggiare e isolare ulteriormente la popolazione nera.
A questo proposito, diamo un veloce quadro statistico della popolazione e poi delle lingue usate:
79,5 % neri (zulu, xhosa, ecc.)
9,0 % bianchi (soprattutto di origine inglese e origine olandese)
9,0 % coloured (cioè di discendenza mista nera con altri gruppi)
2,5 % asiatici (sostanzialmente associati a questi ultimi nella gerarchia dell' aparthaid, includono i cosiddetti Cape Malay, che di fatto hanno influssi soprattutto europei e dell'arcipleago tailandese)
Dal punto di vista linguistico, l'inglese è sicuramente la lingua della più alta ufficialità, sussiste però l'afrikaans (all'origine un dialetto olandese secentesco con adstrati bantu e orientali), parlato in assoluta prevalenza dagli ultimi tre gruppi, e varie lingue bantu (zulu, xhosa, sotho, pedi, ecc.) parlate dal primo gruppo.
Oltre alla rivolta di Soweto del 1976 (che costò la vita a quasi 600 giovani scolari), dobbiamo tenere conto di due eventi centrali della storia del paese: lo stato di emergenza dal 1985 al 1990, colpo di coda del regime per rimanere al potere a costo di una durissima repressione dei dissidenti; e il primo significativo passo verso la democratizzazione del paese con la legalizzazione della formazione politica dell'ANC e la liberazione di Nelson Mandela del 1990, che condusse alle elezioni democratiche del 1994.
La scena letteraria sudafricana degli Anni Settanta vede la scomparsa della generazione precedente (Abrahms, Brutus, Delius, Head, Hutchinson, La Guma, Macnab, Mphalele, Nakasa, Nkosi, Serote, Stein, Themba ecc.), che aveva scelto di lasciare il paese o il suicidio, il clima è dominato dal terrore di arresti, detenzioni senza processo, assassini.
Eppure un'antologia di poeti africani è da segnalare, The Return of the Amasi Bird (1982), nella quale il critico letterario Tim Couzens applicava la sua osservazione secondo cui: «Gli Africani hanno una ininterrotta tradizione di letteratura, orale e vernacolare che si adatta parzialmente alle forme scritte ed europee». Spiccano alcuni autori come Oswald Mtshali (n. 1940), Geoffrez Haresnape (n.1939), Arthur Nortje (1942-1970), Christopher Hope (n. 1944), Jeni Couzyn (n.1942), Mazisi Kunene (n. 1930).
Mtshali nella sua prima raccolta (Sounds of a Cowhide Drum, 1971) evoca le proprie tradizioni attraverso gli Ancestors (Avi, che nella religione animista alla base della cultura Nguni, costituiscono un elemento centrale), affidandosi a uno stile orale e cantato, ma nello stesso tempo trasforma ogni oggetto o evento in occasione per dipingere la terribile condizione nera. La causa di questa condizione è il colonialismo dei conquistatori e dei missionari. Il fine della sua narrazione è infiammare la ribellione. Nel suo forte immaginario religioso (anch'esso tipico, e mescolato all'animismo) le chiese etiopi del Sud Africa assumono il ruolo positivo del riscatto, e la crocifissione il simbolo della sofferenza nera. I fatti di Soweto del 1976 sono rievocati nella raccolta Fireflames.
Haresnape è poeta letterato e accademico, insieme a molti altri poeti sudafricani, con un retroterra d'insegnamento universitario (sentito nella sua tarda raccolta – New-Born Images, 1999 – come un freno: «insegnare agli studenti… / affina l'intelletto, ma fa di un uomo dai nervi saldi / incapace di vivere facilmente quando sentimenti immediati infiammano la patria»). Aveva cantato sin dalla sua prima raccolta (Drive of the Tide, 1976) la sofferenza quotidiana dell'uomo bianco e i suoi sensi di colpa per un'esistenza privilegiata in una lingua nervosa e raffinata.
Un'affermazione chiave viene compiuta nell'opera di poeta in autoesilio, sebbene moderato e tutt'altro che rivoluzionario, ma certo non allineato con il governo sud africano: Christopher Hope (David Tally), che in White Boy Running (1988) dichiara come il problema era che, sebbene tutti i punti di riferimento fossero sempre europei, era una realtà africana che i bianchi e tutti dovevano affrontare. Questa sorta d'illusione dell'uomo bianco di appartenere a una realtà europea tout court in nome del colore della pelle e di una discendenza ormai lontana e insieme il rifiuto quindi di accettare la propria posizione terza, nuova, altra, svolge – a mio parere – un ruolo decisivo nella psicologia, nella cultura e nella letteratura bianca. Come una sorta di doppio disagio: il rifiuto della realtà africana e il senso d'inferiorità verso la tradizione europea.
La vicenda del coloured Arthur Nortje, trovato morto a ventotto anni nel suo studio a Oxford, sembra essere quella di un suicida come molti altri nella storia del paese. Il fatto che il suo passaporto fosse scaduto e lo forzasse a tornare in Sud Africa ne è un indizio più che forte.
In questi termini dolorosi aveva infatti descritto un suo possibile ritorno in Sud Africa: «cresco in ostie, in vano, dovrò / sanguinare: sanguinare per le montagne spezzate», dove si scorge la maestosa montagna dalla cima spianata che stringe Cape Town come in un abbraccio verso il mare. E della gioiosa Cape Town le sue misurate poesie a volte hanno lo spirito festoso. La città, va ricordato, durante l'apartheid godeva di una situazione più aperta e libera rispetto ad altre zone dell'entroterra e rispetto a città come Johannesburg o Bloomfontein, grazie alla grande presenza di stranieri, visitatori, turisti, che inducevano le istituzioni ad allentare le regole. E così, anche grazie alla speciale situazione geografica – sulla punta dell'Africa, con da una parte una montagna che sembra tagliata a metà orizzontalmente e dall'altra le spiagge, il mare – allo splendido clima temperato, costituisce una specie di locus amoenus della letteratura sudafricana. Si prenda ad es. l'opera unica di Syney Clouts (1926-1982), One Life (1960). Dall'altra parte si trova invece Johannesburg, la città del lavoro, delle miniere, della più pesante segregazione.
Don Mattera (n.1935) è scrittore di origini italiane: nella sua autobiografia (pubblicata sotto tre titoli nel 1987) traccia le proprie discendenze che ne fanno, nell'era dell'apartheid un coloured: una donna Sotho e un nonno italiano. (Gli immigrati italiani, se non hanno raggiunto numeri come quelli inglesi, olandesi, portoghesi, greci, ecc. hanno comunque contribuito a ingrossare la comunità bianca sudafricana, da cui gli italiani come tutti gli altri europei erano accolti, forniti di lavoro, casa, ecc.). Nella poesia Cry of Cain Don Mattera muove i due filoni delle tradizioni che scorrono nel suo sangue: l'Europa di Giulio Cesare e l'Egitto, e le simboleggia nella scienza astrologica e nell'istituzione del calendario, in cui l'Egitto (non solo per lui simbolo dell'intera Africa) mostra la sua superiorità. Tormentato è il suo sentimento religioso, che all'apparenza sembra ricordare in alcun punti il nostro ultimo Caproni: « Must I fret or care / when he calls a god /who is not there?» (« devo temere o curarmene / quando lui chiama un dio / che non c'è?»), ma con una declinazione più tragica («Andate fratelli miei / e lavatevi le mani / in un lago di indifferenza»), e altrove (I Sing) lambita di nichilismo (« Nothingness is my inheritance»).
Con Sipho Sepamla (1932-2007) irrompe l'atmosfera degli Anni Settanta e della Black Consciusness, che aveva avuto in Fanon il principale ispiratore ideologico. Nelle poesie di Sepamla non incontriamo solo le vicende e i simboli della lotta di liberazione in Soweto ma anche un virtuosistico uso delle lingue sudafricane, il paragergo della township e una sorta di rottura grammaticale. Ad esempio in: «Here I is / Too literate to reads comic and the Bible», dove la manomissione delle regole grammaticali dell'inglese sembra alludere anche al ricorrente problema della identità: l'io trattato come terza persona. Del resto Heywood ricorda la nota affermazione di Fanon: «My Negro consciousness does not hold itself out as a lack. It is. It is its own follower».
Alla lotta degli afroamericani in America guardano le raccolte di Keorapetse Kgositsile (n.1940) che negli USA visse e insegnò: Spirits Unchained (1970), My Name is Africa (1971), Placet and Bloodstains (1975). Notevole è la poesia in quattro pannelli surreali, Point od Departure: Fire Dance Fire Song (nella raccolta del '71), in cui Kgositsile allarga lo sguardo all'Africa intera e poi alla realtà delle miniere e agli interessi spietati che producono gli orrori non solo delle miniere di Johannesburg ma anche del Congo.
Andrà poi ricordato Mongane Serote (n.1944), le cui vicende biografiche (sei mesi di carcere senza processo e poi la scelta dell'esilio volontario) contribuiscono a farne uno degli scrittori di riferimento della generazione degli Anni Settanta. Il suo atteggiamento rifiuta il desiderio di ricacciare l'uomo bianco verso il mare da dove è venuto (atteggiamento che in qualche parte veniva sintetizzato nello slogan del partito PAC, Pan African Congress, "l'Africa agli Africani"). C'è posto anche per lui nell'anima africana "vasta come il mare". Tuttavia gli effetti introiettivi e autodistruttivi dell'apartheid nella psiche delle vittime viene descritta con potente icasticità. Dopo le raccolte Yakal'inkomo (1972) e Tselo (1974), e i poemi No Baby Must Weep (1975) e Behold Mama, Flowers (1978) andrà ricordata anche Freedom Lament and Song (1997), in cui Serote, in uno stile sempre più epico e investito dallo stream of consciousness lamenta il fatto che con la liberazione non tutte le speranze si sono avverate.
Dopo questo periodo possiamo parlare di quella che può essere considerata finora come la penultima ondata letteraria (e che vede una forte attività femminile, registrata anche in antologie come Breaking the Silente. A Century of South African Poetry, 1990, a cura di Cecyl Lockett). Passiamo in rassegna i poeti attivi negli anni '90 e 2000 (n cui spiccano Stephen Gray e Lesego Rampholekeng).
Tra queste andrà certo ricordato Jeremy Cronin (n.1949), che fu incarcerato per sette anni con l'accusa di comunismo. L'attività del partito comunista fu del tutto in linea con quella dei partiti che combattevano l'apartheid (ANC, PAC, UDF, ecc., tutti fuori legge), tanto che anche questi erano combattuti dal regime in nome dell'anticomunismo. Del resto, infatti, anche gli aiuti dell'URSS furono consistenti. Così una delle sue opere, May Day del 1986, in ventotto prose che contano da una a novantanove parole, ricorda la soppressione violenta di un incontro vicino Cape Town con amici russi. Non va dimenticato che Cronin è nelle sue poesie fortemente ma finemente autobiografico (Inside, 1983; Even the Dead, 1997; poi fuse in Inside and Out, 1999), un'autobiografia che spazia dalla sua infanzia alla morte del padre e alla morte dei combattenti per la libertà. L'attenzione alla situazione politica solo unicamente tramite gli effetti sulla quotidianità lo distanziano dalla poetica direttamente politica della Black Consciousness.
Assai interessante è stata la figura e la poesia di Tatamkhulu Africa (1920-2002), come fu ribattezzato dalla comunità xhosa (nell cui linguaa significa 'Vecchio saggio dell'Africa', dove tata è 'nonno', ormai anche uno dei sopranomi di Mandela). Il nuovo nome tornò comodo anche per poter sfuggire alle maglie della censura. Immigrato dall'Egitto da bambino in Sud Africa, da padre egiziano e madre turca, avrebbe potuto scegliere di essere classificato come bianco, e scelse invece di essere un coloured, quindi, a metà della scala razziale, sociale, economica. La scelta non deve sorprendere più di tanto: nel momento in cui si raggiungeva la maggiore età, chi proveniva da famiglia mista poteva scegliere a quale gruppo dei due genitori appartenere, e a volte si evitava di appartenere al gruppo dei bianchi (che, fra l'altro, comportava una leva di due anni). Nonostante la sua intensa attività politica, agli atti nella raccolta The Innocents (1994) che gli guadagnò undici anni di prigione a Roben Island (a tre celle di distanza da Mandela), le sue poesie cantano soprattutto la propria condizione di isolato e il rapporto con la natura potente e selvaggia di Cape Town, le spiagge bianche che si alternano alle scogliere, le dune, le pinete, i piccoli laghi. E avvicenda esplosioni di gioia a riflessioni sofferte (Turning Points¸ 1996 e Mad Old Man under the Morning Star, 2000). Cosicché, soprattutto nell'ultima raccolta, il meraviglioso e accogliente paesaggio della Taverna dei Mari (come fu soprannominata Cape Town per il suo gaudente e rilassato stile di vita) si muta nella mente del poeta nell'unico paesaggio possibile della sua vita, con una nuance di oscura ineluttabilità. Una sottotraccia mitologica s'impadronisce del paesaggio e perfino dei personaggi, come nella mitologica e insieme onirica poesia The Satyr, dove la figura della mitologia greca, metà uomo metà caprone in perenne eccitazione, viene finemente rivissuta come una mescolanza mostruosa della "razza" e del pericolo di riproduzione (il Satiro cerca infatti di violentare o forse mangiare il protagonista della poesia).
Interessante anche la poesia sul suo ritorno a District Six, il centrale quartiere vittoriano-edoardiano di Cape Town che fu forzosamente evacuato in nome della criminalità, in verità per soffocare la felice convivenza cosmopolita di diversi gruppi etnici: maggioranza coloured ma anche xhosa, cape malay, bianchi, indiani e religiosi (cristiani ebrei, musulmani) – sia pure di estrazione non superiore alla media borghesia. A cavallo degli Anni Sessanta e primi Ottanta, la popolazione fu rimossa in zone periferiche di case popolari (township, da non confondere con le baraccopoli). Tuttora la zona costituisce un vasto buco nel tessuto urbano cosparso dei resti lasciati dai bulldozers. Costituisce un simbolo ancora bruciante nel ricordo della generazione over sixties dei capetownians, la cui popolazione coloured proviene soprattutto da quel quartiere, che ormai incarna un altro topos, una sorta di età dell'oro dell'immaginario sudafricano. Buckingham Palace District Six (1986), il romanzo di Richard Rive (Cape Town 1931-1989), uscito un anno prima la sua visiting professorhip ad Harvard (1986), ne è forse il canto più ricco; District Six del 1986 è il più celebrato musical del vibrante e mai abbastanza compianto Tuliep Peterson, vittima di un omicidio organizzato dalla moglie; ; e District Nine è anche il nome di un recente fortunato film sudafricano passato negli schermi mondiali).
Per la produzione nera ricordiamo James Matthew, che con Cry Rage! apparso nel 1972 e la sua successiva opera poetica (anche lui nega la definizione) mostra quanto le corde siano ormai tese negli Anni Settanta. I fatti di Soweto son là a risvegliarne la coscienza. L'esperienza della Black Consciousness sudafricana e l'uccisione in carcere del suo leader Steve Biko, andranno a rafforzare questa eruzione di sentimenti, con un crescente atteggiamento oratorio.
Eccoci quindi ad autori sempre più vicini a noi nel tempo. L'attività poetica di Stephen Gray (n.1941) comincia negli Anni Sessanta per procedere costante e intensa fino ad oggi, accanto a quella di critico, narratore, autore teatrale (per la poesia: It's About Time 1974; Hottentot Venus, 1979; Love Poems, Hate Poems, 1982; Apollo Caffè and Other Poems, 1989; Season of violence, 1992; Selected Poems 1950-92, 1994; Gabriel's Exibition, 1998; come critico non va dimenticato che è a sua cura l'antlogia The Penguin Book of Southern African Verse, 1988). Filtrata dalla sua cultura accademica è la visione della poesia, che spesso si risolve in parodia. È il caso della visione del nativo secondo il poeta scozzese abolizionista Thomas Pringle (1789-1834), che passò gran parte della sua vita a Cape Town. I Bushman (it. boscimano,così venivano chiamati alcuni gruppi indigeni dell'Africa del Sud, comprendenti i Khoikhoi, i Griqua ecc.), erano infatti stati oggetto di una poesia in cui Pringle ne compativa il silenzio, frutto della sofferenza (furono in effetti quasi sterminati dai bianchi in una letterale caccia al boscimano). L'occhio di Gray si sposta sulle responsabilità dell'uomo bianco, ed è solo nella sordità di questo vede il silenzio del bushman, che: «dice di scrivere poemi di libertà / non ascolta il mio canto in catene». Quella che sembra essere una scelta naturale per il deserto secondo Pringle, per Gray è invece la fuga dove il nativo non può essere raggiunto dal cacciatore di bushman.
È ben chiaro che i tempi sono cambiati. E del resto negli Anni Ottanta, oltre all'antologia di scrittrici segnalata, si distinguono le altre due antologie The Return of the Amasi Bird. Black South African Poetry 1891-1981 (1982), curata da Tim Couzens e Essop Patel e South Africa in Poetry (1988), curata da Johan van Wyk, Pieter Conradie e Nik Constandaras, che cerca di assommare tutte le tradizioni culturali e linguistiche sud africane. Non andrebbe dimenticato che del resto dal punto di vista più propriamente storico-politico, nel 1992 si tenne un referendum sulla condivisione o meno delle scelte di negoziato operate dal nuovo presidente de Klerk con i partiti politici al bando, che aveva come obiettivo esplicito l'abolizione dell'apartheid. Gli unici aventi diritti di voto erano, ricordiamolo, i bianchi, ed il risultato del referendum (per le pressioni della comunità internazionale e dell'embargo, per la pressione politica dei partiti all'opposizione, o per la mutata coscienza sociale) fu 68,73 favorevoli contro il 32,27.
I paesaggi e il clima incantato di Cape Town e il Bushman abitano anche le poesie di Stephen Watson (1959), dalla raccolta Poems 1977-1982 (1982) a The Other City (2000) passando per A Writer's Diary (1997). Senonché, non solo (lo nota Heywood), i miti letterari sono profondamente letterari ed europei (Camus, Cavafy, Marquez, Pessoa), ma proprio l'assenza dell'uomo bianco finisce per risolvere la realtà poetica in idillio (nel solco di Abrahms, Skinner, Maclennan, ecc.). Del tutto risolta in compiaciuto stilismo esistenziale la fattura dei suoi versi, che così ad esempio cantano la Mather City (Città del Capo):
torn between its cloud-light, pine-light, the serene nihilism of its skies,
and its unending, all-negating, word-exhausting human cries
("indecisa fra la sua luce di nuvole, luce di pini, il sereno nichilismo di suoi cieli, / e i suoi pianti infiniti, che negano tutto e sfiniscono le parola")
Non sorprende quindi lo stupore che ha colto il poeta davanti alle rivelazioni della Truth and Reconciliation Commission (una Commissione per la Verità e la Riconciliazione, presieduta dall'arcivescovo Nobel Desmond Tutu, si rifà al principio dell'ubuntu, per cui la propria esistenza è garantita dall'altro e viceversa; cerca la riconciliazione e la pacificazione propria e reciproca nella pubblica espressione della propria esperienza di vittima e/o di carnefice e nell'idea che ogni sentimento di vendetta sia pure soddisfatto fomenterebbe insoddisfazione nella vittima. Chi, autore di reati, non vi abbia preso parte, sarebbe inviato a una vera corte. In tal modo molti che hanno confessato le proprie colpe – omicidi, ecc. – hanno potuto sperare nell'amnistia).
Don Maclennan (1929-2009) si avvicinò tardi alla poesia, compensando in quantità (Reckonings, 1983 ecc.), con esili versi che ruotano attorno ai temi non proprio innovativi di amore e morte, e cicli naturali, fortunatamente in una continua altalena di scetticismo.
Prima di concludere con i poeti emersi negli Anni Novanta, sarà il caso di nominare almeno due poetesse in afrikaans, Antjie Krog e Johan Hambidge. Non solo si tratta di due donne, a rappresentare la liberazione culturale sud africana. Ma, per schematizzare rozzamente, non andrà dimenticato pure che l'afrikaans, sentita dai dissenzienti col precedente regime "la lingua dell'oppressore", ha subito un brusco calo di prestigio (è ad essa che si ricorre per la battuta scurrile). Così si potrà indovinare il contesto in cui la Krog (1952), docente all'Università che più si distinse per la distanza dal regime (UWC) rammenta la scrittrice scozzese Lady Anne Barnard (1750-1825), che fece un viaggio in Sud Africa. La Krog la immagina mentre sale a piedi Table Mountain. Guardando dall'alto tutto si relativizza, e la scrittrice scozzese immagina come scomparirà anche l'inglese (a quel tempo la lingua dell'oppressione a sua volta, con vittima la parte parlante afrikaans). Ma più interessante è la raccolta Gedigte 1989-1995 (Poesie 1989-1995). Vengono elencate con enfasi tutte le forme di libertà che furono il risultato della elezione di Mandela (dal corpo alla società ecc.). È considerata dalla Hambidge, sua collega della Università di Cape Town (UCT), niente di meno che "la Neruda sudafricana". Da parte sua la Hambidge si dedica a poesie che riguardano il ciclo della vita umana ma con accento, oltre che sulla solitudine e sulla morte, soprattutto sull'amore, nella sua declinazione saffica (e a Saffo vuole sicuramente somigliare la sua poesia). Eccentrico è il suo uso dell'afrikaans, violentata come i suoi idoli letterari (e non solo), in un approccio alla vita acido e eccessivo.
Un cenno ora al variegatissimo panorama degli ultimi anni. La sperimentazione che presiede a molti lavori di quest'ultima fase si connettono molto spesso con la musica. Chris Mann (1948) (simile, per intendersi alla grossa, al nostro Lello Voce, ma se ne veda il website) si dedica alle letture di poesie fuse alla musica, col tentativo di impostare una seria comunicazione col pubblico. Prendiamo una delle sue poesie più note da Mann Alive, con gioco di parole che porta a 'uomo vivo' e 'Mann dal vivo', comprensibile data l'attività di performer delle sue proprie "canzoni". Le violenze e le insistenti ingiustizie, che facevano timidamente capolino anche nelle poesie della Krog, diventano un motivo di riflessione e di scetticismo (se non proprio di delusione) nella poesia Is This the Freedom for Which we Died? Certo qui si fa spazio la constatazione che in 2 anni dalla fondazione della democrazia persistano violenze all'interno delle township. La violenza in Sud Africa (per lo più interna ai gruppi neri) è a tutt'oggi (dopo 15 anni di democrazia) un costante e talora ossessivo argomento di giornali e discussioni private. Il timore del crimine è però talora la faccia che può assumere la difficoltà di mescolarsi con l'altro e di accettare la rottura delle barriere razziali portata dalla democrazia; e la paura, usata ad arte, può così essere sottilmente ma facilmente utilizzata dai gruppi meno propensi al cambiamento.
Lesego Rampholokeng (1965) offre uno dei più vibranti e pirotecnici esempi di poesia del nuovo Sud Africa. Nei suoi versi molte culture si condensano ed esplodono (da quella europea a quella africana) senza rinunciare a una profondità di campo notevole, che svaria dalla psicoanalisi a Fanon (scrittore e pensatore che vediamo ricorrere nell'immaginario nero). La struttura sociale del Sud Africa e l'intreccio con la questione razziale sono finalmente messe a nudo con intelligenza e coraggio. In altri termini, Rampholokeng non si ferma al colore delle divisioni, alla questione razziale, o pigmentocrazia (come fu definita anche l'aparthaid) ma ne vede la chiara matrice economica e sociale (forza lavoro nera, borghesia media o medio-bassa coloured, e classe dominante bianca). Ed è in quest'ottica che vede le persistenti ingiustizie e violenze che non cessano di affiorare nel paese. La stessa visione della schiavitù non vede soluzioni di continuità, e gli effetti dell'ingiustizia e dell'oppressione passati ma inevitabilmente sopravvissuti in una società non perfetta vengono potentemente rimescolati nelle sue poesie, che attingono a potenti, inedite, immagini di oltranza corporale e consumismo laido. Molte le tecniche a cui ricorre, dal rap allo stream of consciousness, alle rime ribatture ecc. (in in'oralità che continua la tradizione di Mzwahhe Mbuli e Alfred Tabula).
La narrativa così come la poesia trovano nella rivolta del 1976 in Soweto una fonte inesauribile di temi narrativi. Fu questo l'evento che accelerò l'affermarsi della Black Consciousness Movement. In questo contesto le forme narrative più diffuse e che meglio si confacevano alle esigenze espressive degli autori di colore furono il racconto breve e l'autobiografia. Forme letterarie versatili che si prestano particolarmente bene a quella che Ndebele definisce the literature of the powerless: un modo per trascrivere il racconto orale, la tradizione, per descrivere il quotidiano, la vita di strada, il mondo di coloro che erano stati esclusi, e che sopratutto sentivano l'esigenza immediata di raccontarsi e di raccontare la quotidianità a tratti assurda in cui vivevano. Attraverso una retorica abbastanza chiara di opposizione tra bianchi e neri, a cui sottese una forma di razzismo antirazzista, il recupero delle loro storie e delle loro tradizioni furono il mezzo per ricostruire la traccia di un'identità culturale perdutasi nei secoli di colonizzazione.
Un ruolo di primo piano in questo contesto ebbe fin dagli Anni Cinquanta Es'kia Mphahlele (1919- 2008). Contrario al principio della négritude, che si proponeva al tempo come formula magica per la nascita di una coscienza nera, Mphalele era convinto che la letteratura avesse senso solo quando descrive fatti realmente accaduti. Una letteratura realista, che fungesse da denuncia e da viatico per la politica. Fu lui ad animare la rivista "Drum" (1951) negli Anni Cinquanta, punto di riferimento per due generazioni di autori non solo a Johannesburg, ma anche a Cape Town, dove fu la premessa per la nascita del gruppo che si formò intorno a Jake Cope tra gli Anni Sessanta e Settanta. I racconti di Cope sono stati raccolti nel 1981 in The Unbroken Song. Tra questi interessante Mrs Plum, l'ultimo e il più lungo racconto della raccolta, dove la relazione fatta di emozioni e di stati d'animo complessi tra bianchi e neri è analizzata in forma di monologo interiore e attraverso una narrazione frammentata. Si potrebbe dire che la volontà di denuncia attraverso una narrazione di stampo realista ebbe qui la sua genesi.
Le storie di rivolta, di ribellione scritte dagli autori di colore dagli Anni Settanta fino alla caduta del regime dell'apartheid hanno una caratteristica comune, la spettacolarizzazione del momento topico della svolta, della battaglia per la libertà. Sono queste le storie che riempiono le pagine della rivista mensile "Staffrider", scritta in lingua inglese, pubblicata per la prima volta nel marzo del 1978, dove molti giovani autori ebbero modo di esprimersi. L'idea sottesa all'iniziativa era quella che esprime molto bene un noto slogan del tempo: literature as a weapon. Il fatto che le storie pubblicate fossero scritte in inglese sanzionò questa come lingua letteraria tra le nuove generazioni. Il promotore dell'iniziativa fu Mike Kirkwood professore dell'Università di Durban, che durante la protesta in Soweto si ribellò apertamente al potere accademico, in collaborazione con la casa editrice Ravan Press, nata da un progetto autofinanziato contro l'aparthaeid. Ad accumunare gli scrittori di "Staffrider" è il riferimento ad esperienze personali, il rifiuto della segregazione razziale, il ricorso alla tradizione orale e la volontà di sperimentazione stilistica. Il loro atteggiamento politico fu definito solidarity criticism, la letteratura doveva essere un viatico per l'azione politica, un supporto concreto per la presa di coscienza da parte dei sudafricani di ciò che stava accadendo nel paese.
Nel 1979 verrà pubblicato Call Me Not a Man di Mtutuzeli Matshoba (n.1950-) sicuramente uno dei contributi più interessanti usciti dall'esperienza di "Staffrider". Il volume, che raccoglie molti lavori già pubblicati nella rivista, fu prontamente proibito dal regime. Lo si può considerare una forma romanzata di autobiografia; la narrazione in prima persona racconta della politica oppressiva del regime, in un tono oralizzante, rimanendo così vicino alla comunità di Soweto di cui si fa porta voce. In uno dei suoi libri più interessanti Seed of War il tema ricorrente della ricerca di un'identità si riflette sulla volontà di sperimentare vari generi letterari, fino a provare una mistura di poesia prosa e dramma. Un modo, questo, di trascrivere una serie di conflitti interiori difficili da relegare in una sola lineare forma di scrittura.
Intorno al tema dell'identità, privata e collettiva, ruota la raccolta di storie Life at Home and Other Stories del 1980, di Joel Matlou (n.1953-). I vari racconti sembrano comporre un'autobiografia dai modi surrealisti, ricca di elementi della tradizione orale, di cui conserva le continue digressioni; la narrazione fantastica si mischia con la realtà ottenendo un potente ritratto della deprivazione e dell'oppressione cui fu vittima la gran parte della popolazione.
Le storie di vita nelle township, luoghi da cui molti di questi autori provenivano, furono un soggetto privilegiato per molti collaboratori di "Staffrider". Oltre a Call Me Not a Man di Matshoba e Life at Home and Other Stories va ricordata un'altra antologia, Mzala del 1980 di Mbulelo Mzamane (n.1948-). Anche in questo caso la narrazione si rifà alla lingua parlata e non manca l'ironia che mette in luce le contraddizioni dei divieti imposti dal regime. Mzamane nel 1979 andò in esilio volontario, prima nel Regno Unito e poi negli Stati Uniti. L'esperienza dell'esilio (tema chiave di molte voci letterarie sudafricane) diventerà successivamente tema centrale della sua poetica, che lo porterà alla pubblicazione nel 1996 di una raccolta di storie brevi The Children of the Diaspora and Other Stories of Exile.
La storia di District Six, il quartiere di Cape Town da cui negli Anni Settanta furono cacciati con la forza gli abitanti è il tema del romanzo di esordio (Waiting for Leila, 1981) di Achmt Dangor (n.1948-) anche'egli proveniente dall'esprienza di "Staffrider". Il tentativo di distruzione della comunità dei Cape Malay, che viene evocata dalla storia del protagonista, dedito all'alcool e alla droga, si confronta con la lotta per la libertà, mettendone in risalto le ambiguità.
Sempre in questo contesto acquistano un valore aggiunto le voci femminili che affiancano al tema della violenza pubblica e delle discriminazioni razziali quello della violenza, dei divieti, delle restrizioni nel privato, nella famiglia. Andando leggermente indietro nel tempo va ricordata Bessie Head (1937-1986), che può essere considerata un punto di riferimento sempre presente per le scrittrici di colore. Nata in Sudafrica da una relazione proibita tra una ricca donna bianca e un uomo di colore, viene data in adozione dopo che la madre, scoperta la gravidanza, impazzisce. All'età di ventisette anni la Head si trasferisce in Botswana per sottrarsi alla discriminazione razziale e lì vive da rifugiata occupandosi di progetti umanitari per combattere la fame. I suoi testi sono scritti da una prospettiva tutta femminile in cui si analizzano le ingiustizie contro le donne e l'alienazione che deriva dall'essere donna in Sudafrica. The Collector of Treasure e Other Botswana Village Tales del 1977 sono le raccolte del primo periodo, dove si sente la necessità di raccontare la vita dei villaggi, delle zone rurali del paese. Lo stile si plasma su quello orale della tradizione rurale sudafricana e molti dei temi nascono dalle interviste che la Head raccoglie nel villaggio di Serowe. Le sue successive raccolte di racconti Tales of Tenderness and Power del 1989 e The Cardinals, with Meditations and Short Stories del 1993, si potrebbero considerare le sue opere della maturità. In questa seconda fase il displacement, la ricerca di un'identità, la discriminazione razziale e la condizione della donna sono descritte con cura, fornendo al lettore un quadro della cultura sudafricana popolare di grande valore.
Il primo romanzo scritto in lingua inglese da un'autrice di colore fu Muriel at Metropolitan del 1975 di Miriam Tlali (n.1933-), collaboratrice della rivista "Staffrider", immediatamente proibito in Sudafrica. Al tema della lotta e della segregazione razziale, si aggiunge la famiglia e la vita domestica. L'autrice si confronta con le problematiche dell'essere donna in una società patriarcale e con i problemi derivanti dalla politica razzista del paese. Il suo secondo romanzo Amandla del 1981 racconta delle vicende di Soweto e la situazione che si venne a creare dopo la rivolta. Anche questo romanzo fu proibito e nonostante ciò riscosse un grande successo di pubblico. Tlali continuò per tutto il corso degli Anni Ottanta a collaborare con "Staffrider", attraverso reportage sulla donna e sulla realtà urbana.
Attivista politica di primo piano fu Ellen Kurzwayo (1914-2006), segretaria del Youth League dell'ANC nel 1946, reclusa per cinque mesi in prigione tra il 1977 e il 1978. La sua autobiografia Call me not a Women, racconta la sua storia di donna ed è un interessante documento storico. Nel 1990 pubblica una raccolta di racconti Sit Down and Listen in cinque parti, con l'obiettivo di trasmettere la conoscenza dei tradizionali modi di vita africani. La testimonianza di quest'autrice ci aiuta ad esplorare la psiche di donne del tutto isolate dal punto di vista sociale e il loro modo di affrontare e combattere questo stato di cose.
Testimonianza importante della vita della comunità indiana in Sudafrica è il volume di racconti The Hajjj and Other Stories (1978), di Ahmed Essop (n.1931). Le problematiche dell'apatheid sono viste dalla prospettiva di un appartenente al gruppo coulored. Il tema della vita quotidiana del singolo, che è parte di una comunità sentita dall'autore come assediata, sospesa nel mezzo di un contenzioso, quello tra bianchi e neri, rimane ancora oggi al centro dei suoi interessi. Nel suo ultimo romanzo The Third Prophecy del 2004 si confronta con l'assurdità della società sudafricana odierna.
Gli autori bianchi vivono l'evolversi degli eventi, dai fatti di Soweto fino al 1990, in maniera parzialmente diversa dagli scrittori di colore. Molti di essi andarono volontariamente in esilio, spesso per un rifiuto etico delle leggi razziali, perorando la causa sudafricana nel mondo e si impegnarono attivamente per un cambiamento; altri decisero di rimanere e provare a cambiare le cose dall'interno; altri ancora non vollero prendere posizione. In tutti indiscriminatamente però si registrano quelli che Nadin Gordimer chiama morbid symptoms, ovvero i segni di una patologia: frustrazione, senso di colpa, alienazione; essi si trovano come in uno stato di perenne attesa dell'apocalisse, caratterizzato dalla paura.
Molti di loro, come detto, presero una posizione forte a sostegno della causa dei sudafricani di colore, nonostante ciò vennero spesso guardati con sospetto nel paese e molto apprezzati invece all'estero: valgano ad esempio J.M. Coetzee e la N. Gordimer, premiati con il Nobel. Il conflitto psicologico individuale e di gruppo, dovuto a questo senso di non appartenenza a nessun luogo, non a caso è un tema ricorrente nelle loro opere. Il disagio, la perdita delle origini e la paura sono temi che sottendono alla loro produzione. Una parte degli autori afrikaaners si confrontò invece con la tradizione, in particolare con il plaasroman. Un tipo di romanzo che dagli Anni Venti del ventesimo secolo in poi fu molto diffuso ed ebbe come base simbolica ciò che la popolazione afrikaaner subì durante la guerra anglo-boera del 1899-1901. I temi più ricorrenti sono la memoria di un mondo antico e perduto, la protesta contro gli inglesi (i colonizzatori di allora) e una forma di idealizzazione della vita rurale prospera e serena. Altri autori, come vedremo, hanno preso sopratutto negli ultimi due decenni, delle vie del tutto autonome, espressione di una rinnovata creatività della Raibow Nation (come venne definito il Sudafrica post apartheid dall'arcivescovo Desmond Tutu).
Apprezzatissimo in occidente J. M. Coetzee (n.1940-) nasce a Cape Town, studia in Inghilterra e poi lavora tra l'Inghilterra e gli Stati Uniti. Considerato il padre del romanzo postmoderno sudafricano, Coetzee pubblica il suo primo romanzo Dusklands nel 1974 e già da allora si sente il respiro internazionale dell'autore che, parlando della guerra in Vietnam, affronta i temi della colonizzazione e quella che lui ritiene una vera patologia della vita occidentale: un dualismo sempre presente in ogni tipo di relazione. Coetzee rifiuta la via realista della narrazione, rielabora la Grande Storia alla luce della fine delle "grandi narrazioni", procede spesso senza riferimenti di luogo e tempo, attraverso la frantumazione dei punti di vista e ricorrendo a una chiara ironia. Direttamente del Sudafrica e dell'assurdità del mondo coloniale si occuperà in uno dei suoi primi grandi successi Waiting for the Barbarians, del 1980, toccando il tema della crisi di coscienza dei bianchi nel periodo coloniale. Sin da questo primo romanzo ambientato in Sudafrica l'autore farà poco uso di una narrazione realista, di cui rifiuta la presunzione di verità e l'onniscienza dell'autore. Questo allontanarsi dalla storia ufficiale, il guardare con sospetto ad una letteratura ideologizzata, sopratutto dopo il 1976, non fu ben visto in Sudafrica, dove la letteratura e l'arte in generale dovevano essere mezzi politici di cambiamento. Un vero e proprio attacco alla credibilità di Coetzee come autore fu scagliato dall'autorevole critico Michael Chapman a proposito del romanzo Foe, del 1986, una riscrittura del Robinson Crusoe di Defoe, al quale si imputa un punto di vista troppo europeo e per niente empatico con le realtà del suo paese. Coetzee si rifece direttamente ad Adorno per difendersi dalle accuse e un'accorata protesta si sollevò da parte del mondo intellettuale occidentale. I romanzi che fanno direttamente riferimento allo stato di emergenza degli Anni Ottanta in Sudafrica sono Age of Iron, del 1990 e il premiato Disgrace del 1999, e sono anche tra i più conosciuti. In essi i dilemmi etici, pur se relativi alle condizioni del paese, hanno un respiro universale. Più di recente l'autore si è occupato del tema della mancanza di solidarietà, di amore, di empatia causata dagli abusi di potere a più livelli, relativamente ai rapporti tra colonizzatori e colonizzati, tra uomini e donne, tra l'uomo e gli altri esseri viventi.
A differenza di Coetzee, Nadine Gordimer appartiene a quegli autori sudafricani che hanno fatto del realismo, nelle sue varie forme, il loro segno distintivo. Nella sua prima fase vi ricorre, in linea con la tradizione, per descrivere il mondo da cui proviene, il mondo della sua infanzia e adolescenza. In un Sudafrica coloniale, in un secondo momento, attraverso i rapporti con la rivista "Drum", il suo impegno per la causa di liberazione del paese acquista un ruolo predominante nella sua produzione. La Gordimer, attraverso una forma letteraria che è stata definita liberal realism, attua una svolta nella sua poetica; questa forma narrativa fu molto diffusa tra gli autori bianchi, servì per manifestare apertamente, trattando storie vere, il rifiuto delle leggi razziali in nome di valori umanistici universali. La Gordimer si sforza da questo momento in poi di esprimere le contraddizioni in cui spesso si trovarono i così detti white liberal in Sudafrica, i loro problemi nel trovarsi in continuo contrasto con se stessi, divisi tra una vita fatta di privilegi e una coscienza critica che li obbligava a rifiutare lo status quo. In un secondo momento, prenderà le distanze dai liberal, ritenendone la posizione privilegiata in cui si trovavano un elemento di ambiguità insostenibile. La sua produzione successiva a questa presa di distanza è volta a spiegare questo conflitto interno che vivono gli intellettuali bianchi sudafricani, sia durante la lotta per l'abolizione del regime dell'apartheid che successivamente. La Gordimer indaga l'angoscia, la paura e la tormentata ricerca di una nuova identità di gruppo. A fine Anni Sessanta la svolta marxista la porta alla stesura del romanzo The Late Bourgeois World, del 1966, che risente delle influenze del diffondersi del Black Consciousness Movement. L'impegno sempre maggiore per la causa di liberazione del paese è visibile in alcuni suoi romanzi successivi: The Conservationist del 1974, July's people del 1981 e il suo romanzo di maggior successo Burger's doughter del 1979. Memorabile l'epigrafe di July's people che cita la celebre frase di Antonio Gramsci sull'interregnum dove il vecchio mondo è morto e il nuovo stenta a nascere. L'espressione living in a interregnum verrà poi riutilizzata per descrivere il Sudafrica dagli Anni Ottanta fino ai fatidici momenti della liberazione degli Anni Novanta, dalla liberazione di Mandela fino alla sua elezione a Presidente, in cui i bianchi vissero in una specie di attesa dell'apocalisse. In una fase successiva vedremo l'autrice confrontarsi con temi che l'aiutano a penetrare la nuova realtà del paese. Ad esempio The House Gun (2000) ci narra la storia di una coppia gay, il che è riconducibile all'influsso che la comunità omosessuale ebbe nei cambiamenti sociali che avvennero nel paese. Negli ultimissimi anni abbiamo assistito ad un sempre maggiore interesse della Gordimer per l'ecologia, che campeggia nel suo romanzo del 2005 Get a Life. L'Ultima raccolta di racconti è del 2007 e si intitola Beethoven Was One-Sixteenth Black.
Apprezzatissimo all'estero così come Coetzee e la Gordimer André Brink (n.1935-) fu insieme con la poetessa Ingri Jonker e il poeta Breyten Breytenbach l'anima del movimento Die Sestigers, originatosi negli Anni Sessanta e che continuò a condizionare la produzione letteraria nel paese per parecchie decadi. Il movimento aveva come obiettivo la denuncia dell'apartheid e la diffusione e rivalutazione della letteratura in lingua afrikaans. Brink studia per lungo tempo in Francia, vivendo in prima persona il Sessantotto parigino. Agli inizi degli Anni Settanta acquista una certa notorietà a livello internazionale con Kennis van die aand, del 1973, poi tradotto in inglese nel 1974 con il titolo Looking on Darkness. I romanzi di questo periodo vengono quasi simultaneamente pubblicati anche in lingua inglese e questo fu uno dei motivi della loro larga diffusione e del loro successo. In A Chain of voices (1982) utilizza la lingua inglese per i personaggi di colore e quella afrikaans per i bianchi a sottolineare l'incomunicabilità tra colonizzatori e colonizzati. La narrazione bilingue è un modo per opporre al discorso monologico della storia ufficiale un discorso dialogico che consenta di riscrivere le voci dissidenti dei protagonisti di colore. Cambiata la situazione politica Brink si confronta con la marginalizzazione della voce delle donne nella storia del Sudafrica dovuta alla narrazione storica dei bianchi, che gestivano il potere e il sapere. Questo il tema principale di Imaginings of Sand del 1998 e Befor i Forget del 2004. Critico nei confronti della Storia, considerata non come descrittrice di eventi bensì come creatrice di storie del tutto arbitrarie, quando si occupa direttamente di eventi storici lo fa attraverso collegamenti del tutto personali, arricchendoli di miti e leggende. On the Cauntry (1994), ad esempio, narra della vita del personaggio storico Estienne Barbier che è la voce narrante, ma il personaggio è costretto a reinventarsi di continuo attraverso chiari riferimenti al Don Quixote. Nel romanzo The blu Door del 2007 si allontana per un momento dalle questioni politiche, per riflettere sulle sue responsabilità personali e scelte ideologiche, attraverso uno stile che ricalca il monologo interiore kafkiano. L'ultimo romanzo del 2009 A fork in the Road, si rioccupa di temi politici, descrivendo la delusione nei confronti dell'incapacità dell'ANC di cambiare lo stato delle cose.
Etienne van Heerden (n.1954-) è uno di quegli scrittori bianchi che videro nella narrazione degli eventi storici invece il mezzo per intervenire concretamente sul necessario cambiamento di mentalità delle comunità bianche sudafricane. Inizia a scrivere giovanissimo; la maggior parte dei suo lavori di narrativa sono romanzi storici che si occupano o di un passato mistificato i cui eventi vengono riscritti, oppure di un presente narrato con accuratezza da reportage. Negli Anni Ottanta fece parte di quel gruppo di scrittori che sostenne l'ANC e partecipò alla celeberrima Victoria Falls Writers' Conference del 1989, in Zimbawe, a cui parteciparono autori in esilio e parte del gruppo dirigente dell'ANC. Van Heerden si impegna nel mostrare i miti e le credenze infondate che erano stati alla base dell'orgoglio afrikaner, che condussero ad un evoluzione in senso razzista della società bianca sudafricana. In uno dei suoi romanzi Tooberg, del 1986 analizza cinque generazioni di una stessa famiglia ripercorrendo gli eventi storici che più degli altri segnarono gli Afrikaners. Partendo dall'evento topico della storia afrikaner le guerre anglo boere del 1880-1881 e del 1899-1902, ci mostra l'evolversi di un sentimento di paura radicato di una popolazione isolata, che fece di questa paura e di questo isolamento la ragione di un nazionalismo sfrenato. Nel 1989, in Ancestral Voices, si confronta con la tradizione del plaaroman. Il forzare la forma tradizionale del plaasroman è un ennesimo modo di destabilizzazione della cultura tradizionale afrikaner. Uno dei suoi ultimi romanzi 30 Nights in Amsterdam, attraversa delle tematiche potremmo dire classiche della letteratura postcoloniale, il displacement, la ricerca di un'identità divisa, complessa e difficilmente identificabile.
A differenza di van Herdeen altri autori considerano ancora valide le forme espressive più in linea con la tradizione afrikaner; è questo il caso della terza generazione di scrittori di plaasroman (in inglese farm novel), in cui viene raccontata la vita delle fattorie, e vengono mostrate credenze e rituali di questo microcosmo. Karel Schoeman (n.1939-) con il suo Promised Land del 1972 ne è un esempio. Nel romanzo viene descritto un futuro incerto, pericoloso e ansiogeno che travolge gli afrikaners alla fine del regime dell'apartheid. In questo romanzo come in molti dello stesso genere viene espresso il senso di angoscia e di paura in cui questo gruppo ha vissuto nell'attesa dei cambiamenti che portarono ad una democratizzazione della società.
Un'attenta analisi dello stato costante di paura e confusione che si vive in Sudafrica durante lo stato d'emergenza ci viene proposta da Menán Du Plessis (n.1952-) nei suoi due romanzi ambientati a Cape Town, A State of Fear, del 1983 e Longlive!, del 1989. La descrizione attenta della vita di tutti giorni dei protagonisti dei due romanzi ci mostra come le necessità umane di relazione del singolo siano in aperto contrasto con le prescrizioni della legge.
Il lavoro della scrittrice Sheila Roberts (1937-2009), contribuì sopratutto con i suoi racconti di stile realista al panorama letterario sudafricano degli Anni Settanta e Ottanta. È un altro esempio di come venne portata avanti dagli stessi autori bianchi una critica alla mentalità afrikaner tradizionale. La sua prima raccolta uscita nel 1975 Outside Life's Feast fu di grande impatto. L'analisi si concentra sulla classe operaia bianca, il cui limite di prospettive e la resistenza ottusa ad una qualche forma di contatto con gli altri ci introducono nel micro-mondo dei colonizzatori.
In questo contesto alcuni autori elaborano una via espressiva personale, sia sul piano formale che tematico, allontanandosi dalla tradizione e intraprendendo progetti sperimentali. È questo il caso di Christopher Hope (n.1944-), già ricordato come poeta, che fa uso di una satira dissacrante. Iniziata la sua carriera negli Anni Settanta in Sudafrica come giornalista, nel 1975 va in esilio volontario a Londra. Il suo primo romanzo A separate Development (1980) riprende nel titolo il gergo della politica populista del National Party, con dichiarata intenzione satirica. Il romanzo è una vera e propria analisi della situazione politica del paese dal punto di vista di un poliziotto, con un umorismo pungente. Pubblicherà successivamente, oltre a raccolte delle sue indagini giornalistiche, altri romanzi, nuovamente ambientati in Sudafrica Love songs of Nathan J. Swirsky del 1994 e Heaven Forbid del 2002.
Ivan Vladislavic (n.1957-), deve molto a Kafka e Borges. La sua scrittura è ricca di elementi surrealisti e umoristici, il suo linguaggio è ibrido, composto da una varietà infinita di idiomi e tradizioni. Vladislavic è un ottimo esempio di come questa nuova generazione di autori sia riuscita ad amalgamare e rendere fertile l'incontro delle diverse culture che in Sud Africa coesistono. La sua prima raccolta di racconti Missing Persons, pubblicata nel 1989, si presenta come un mix di umorismo nero e satira pungente, caratterizzata da un linguaggio del tutto personale. Gli Anni Ottanta, così difficili per il paese, sono il tema della raccolta Propaganda by Monuments and Other Stories, del 1996, il cui scenario è quello dei sobborghi urbani. Nel racconto da cui prende il nome l'intera raccolta si narra dell'acquisto da parte di un nero di monumenti sovietici in disuso, che gli serviranno come decorazione per il suo ristorante dal nome V.I. Lenin. Più di recente Vladislavic, continuando nella sua linea satirico umoristica ha pubblicato il romanzo The Restless Supermarket nel 2001 e nel 2006 The Exploded View, una raccolta di quattro racconti. Nel romanzo racconta di un pignolo correttore di bozze, che attraverso la correzione degli errori grammaticali cerca di creare un ordine per se stesso e simbolicamente per il Sudafrica.
Gli Anni Novanta con le prime elezioni democratiche dell'Aprile del 1994 sono il periodo in cui la situazione in Sudafrica cambiò irreversibilmente. Due fenomeni sono sicuramente importanti sul piano letterario, dopo la caduta del regime, il ritorno in patria di molti intellettuali e l'abolizione della censura. L'abolizione della censura rese accessibili molti testi, anche stranieri, ad un pubblico più vasto e il ritorno in patria di molti esuli contribuì a mettere in contatto due mondi culturali fino ad allora paralleli. Ciò ha condotto ad una forte sperimentazione formale e tematica, temi del passato vengono trattati con nuovi spunti di riflessione, le forme della tradizione vengono rivisitate, il passato si intreccia con il presente e la volontà di non dimenticare si associa ad una forte speranza per un futuro migliore oggi considerato possibile.
Nel 1995 vengono pubblicati due romanzi di Zakes Mda, che gli esempi più compiuti di un nuovo modo di scrivere sviluppatosi dopo la caduta del regime. Ways of Dying e She Plays with The Darkness sono una mistura del classico realismo di denuncia e una varietà di magico realismo che si confonde con la tradizione popolare. I due libri ci introducono in una fase della letteratura sudafricana dove le varie culture si mischiano, le tradizioni si confondono.
Rivelazione degli ultimi anni è Damon Galgut (n.1965-), che esordisce come drammaturgo, ma raggiunge una ragguardevole fama dal 2003, con la pubblicazione del romanzo The Good Doctor, in cui oppone l'idealismo al cinismo facendo confrontare i due protagonisti, che hanno due approcci opposti alla vita. Il suo ultimo romanzo In a Strange Room del 2010 è un melanconico racconto di viaggio tra Lesotho, Africa centrale e India, in cui il protagonista esprime attraverso il continuo cambiamento dalla prima alla terza persona, uno stato di dissociazione interiore. Nonostante l'inquietudine sia sempre presente, la bellezza dei luoghi e il viaggio del protagonista lasciano trasparire una forma di serenità e di speranza.
Un'idea del nuovo approccio alla tradizione afrikaner ci viene da Marlene van Niekerk (n.1954-). Nel 1994 pubblica Triomf in cui ci narra la storia di una famiglia afrikaner disagiata che si trasferisce sulle rovine di Sophiatown; l'abolizione dell'apartheid, evento dalla connotazione sicuramente positiva, viene descritta anche nei suoi aspetti più nascosti. Nel 2004 pubblica Agaat, dove la relazione tra la madre morente e la figlia che la assiste diventa il simbolo del cambiamento avvenuto con il crollo del regime. L'apparente narrazione di stampo naturalistico di questi romanzi nasconde una serie di simboli da scoprire, che porta in un mondo fatto di credenze e tradizioni, troppe volte trascurate e mal interpretate.
Una delle autobiografie più interessanti degli Anni Novanta è quella di Singiwe Magona (n.1945-). Il suo primo volume viene pubblicato nel 1990, To my Children's Children, poi tradotto in xhosa. L'autrice racconta della sua infanzia idilliaca passata prima in Transkei e poi nella township di Guguleto nei pressi di Cape Town; nella seconda parte, Forced to Grow, del 1992, narra dei problemi che dovette affrontare per garantirsi un'educazione, il suo lungo impegno nell'aiuto per le donne, attraverso il suo lavoro per le Nazioni Unite a New York e infine della sua vita attuale divisa tra Guguleto e la grande metropoli statunitense. Il modo di scrivere, caratterizzato da una forte ironia e privo di pietismo, si riflette in tutta la sua produzione, che conta svariati racconti e due romanzi. L'ultimo, del 2009, Beauty's gift si confronta con il tema dell'aids e con il tabù che in proposito ancora esiste in Sudafrica. Ma forse il suo capolavoro è Mother to Mother (1998), dialogo fra due madri: la madre di quattro ragazzi neri uccisi a sangue freddo dalla polizia (che lasciò armi accanto ai corpi per farli passare per terroristi) nella stessa strada di Gugulethy in cui fu uccisa la ragazza americana bianca Amy Biehl durante una rivolta nelle Township, la madre della quale è l'altro personaggio-interlocutore del libro.
Un ruolo rilevante riveste l'autrice coloured Zoe Wicomb (n.1948-), che trascorse ventun anni in esilio e che solo nel 1991 fece ritorno in Sud Africa. La raccolta di racconti You Can't Get Lost in Cape Town ha come protagonista Frieda Shenton, che ci introduce nel mondo della comunità dei cape coloured di Cape Town, attraverso un'analisi tutta al femminile. La problematica dell'essere donna coloured nel Sudafrica degli anni scuri del regime, la volontà di evadere da questo mondo oppressivo e cupo, sono gli ingredienti di questa prima raccolta di racconti. La narrazione oscilla tra un bildungsroman, una biografia e un'analisi interiore costruita con sapienza. Nella più recente raccolta del 2008 The One that Got Away l'esperienza dell'esilio e del ritorno e le problematiche dello splitting dell'individuo, in scissione costante, prendono maggiore spazio, introducendoci in un mondo fatto di contrasti, narrato nella migliore tradizione postmoderna attraverso una narrazione frammentata, che induce ad un continuo cambiamento dei punti di vista.
Tra gli autori più giovani merita un cenno Kopano Matlwa (n.1986-), che con il suo romanzo di esordio Coconut del 2007 pone il problema dell'identità nera nel Sudafrica post apartheid. La metafora consueta della noce di cocco, nera fuori e bianca dentro, descrive la situazione dei neri che acquistano stili di vita dei bianchi. Nel caso specifico le due protagoniste di colore rappresentano le due facce del paese di questi anni. Ofilwe appartiene alla borghesia nera, vive in un ambiente a maggioranza bianca e nonostante ciò è vittima di discriminazione da parte dei bianchi e si sforza di recuperare, riscoprire le sue origini africane, mentre Fiks vive in una township e desidera solo uscire dalla sua condizione di nera ed essere accettata dai bianchi.
Di non minore interesse l'esordiente Megan Voysey-Braig (n.1976-) che nel 2008 pubblica un romanzo di grande attualità, Till We Can Keep Animal, in cui la storia dello stupro e la morte di una donna di mezz'età durante un furto diventano il pretesto per analizzare la violenza che ha caratterizzato il Sudafrica negli ultimi quattrocento anni.
Merita di essere citata la pluripremiata Henrietta Rose-Innes (n.1971-), che nel 2000 pubblica Shark's Egg, accolto molto favorevolmente dalla critica: la storia di una ragazza durante gli Anni Ottanta e Novanta a Cape Town. Un percorso attraverso la vita di tutti i giorni di una ragazza come tante in un periodo storico terribile. Il suo ultimo romanzo Nineveh è del 2011: in esso la scrittrice si confronta con il tema della coabitazione, dello scambio reciproco e del continuo incontrarsi, utilizzando come metafora la vita degli insetti.
Va considerato un fenomeno a sé nel panorama letterario sudafricano degli ultimi dieci anni, Deon Meyer (n.1958-) prima giornalista poi manager della BMW moto e solo dal 2008 scrittore di professione di gialli diventati in breve tempo dei best sellers. La figura di Meyer è interessante per seguire l'evoluzione in senso sempre più cosmopolita della cultura sudafricana degli ultimi anni. I fatti di cui narra sono violenti e inquietanti e si intrecciano con la vita quotidiana in Sudafrica. Devil's Peak del 2004 è un giallo che coinvolge vari aspetti del Sudafrica di quegli anni, ad esempio la trasformazione della violenza da politica in violenza di strada. In Trackers, del 2011, l'ultimo romanzo pubblicato, le storie parallele di più personaggi si ricongiungono attraverso una trama complessa e piena di sorprese.
Federico Della Corte insegna Letteratura Italiana e Letteratura Italiana Contemporanea all'Università Ecampus (Como). A Bologna ha fatto il dottorato in Linguistica Italiana, il postdottorato in Scienze Umane, ha goduto di una borsa con la Scuola Superore di Studi Umanistici di Eco, e ha insegnato Linguistica Italiana. Nella meravigliosa Cape Town, dove spende parte dell'anno, ha insegnato Lingua e Letteratura Italiana come visting Lecturer. Tra le sue pubblicazioni: P. Aretino, L'Orazia, Editrice Salerno, Roma, 2005; F. Sacchetti, Il Pataffio, a cura di F. Della Corte, Commissione per i Testi di Lingua, Bologna, 2005; P.Aretino, La Cortigiana 1534, Editrice Salerno, Roma, 2011 (in Pietro Aretino, La Cortigiana 1525 e La Cortigiana 1534, rispettivamente a cura di P. Trovato e F. Della Corte). Oltre che di Cinquecento si è occupato di lingua contemporanea (Quaderni dell'Osservatorio Linguistico, Franco Angeli, Milano; e curato con altri L'italiano al voto, Accademia della Crusca, Firenze, 2008; ecc.), e di leteratura del Noveceno (La metaorfosi del desiderio. Arbasino attraverso 'La Bella di Lodi', Firenze, Libreria Universitaria, 2013). È inoltre nella redazione di "Ecdotica" (Carocci).
Alessandra Sorrentino è ricercatrice presso il Centro Europeo di Studi Pirandelliani, è assistente, con una borsa di studio della DAAD, della cattedra di Romanische Philologie alla Ludwig Maximilian Universität di Monaco di Baviera, dove si è addottorata con una tesi sull'opera di Luigi Pirandello. Ha pubblicato vari articoli sulla letteratura italiana del XIX e XX secolo su riviste internazionali, e ha curato il volume Pirandello e la traduzione culturale (Roma, Carocci). Attualmente i suoi interessi si rivolgono alla letteratura postcoloniale e alla letteratura delle isole.
Note:
Ringrazio Shaun Viljoen (Stellenbosch University) per gli utili consigli; e Alessandra Sorrentino per aver accettato di contribuire con il suo intervento sulla narrativa; mia è invece la parte relaticva alla poesia (FDC).