Intervista di Nicola Bonazzi
Il corpo è un tema molto presente nella sua opera, già dal titolo della sua seconda raccolta Nature e venature. Da dove nasce la decisione di dedicare un'intera opera al corpo?
In effetti mi sono divertito a inserire dei richiami ad altri miei testi con citazioni di versi o prose, già presenti in Esercizi di tiptologia del '92. E' evidentemente un tema che mi è sempre appartenuto. In un testo di Nature e venature, per esempio, parlo delle viti infisse nell'osso, e le paragono a un sistema di accordatura dei pianoforti – per altro ho suonato a lungo pianoforte. Insomma ho voluto ribadire, evidenziare questi legami. L'idea del libro nasce in verità intorno al '90, dunque non si tratta di una scelta cronologicamente successiva a Didascalie per la lettura di un giornale, del 1999; è stato piuttosto un lungo sedimentarsi. Inizialmente dovevano essere libri diversi, ma alla fine, secondo un movimento che mi appassiona molto nel suo svolgersi, il lavoro ha finito per inglobare materiali su tre temi differenti: l'infanzia, la malattia e il viaggio. La difficoltà è stata quella di creare questa triangolazione nel segno del corpo.
Il corpo nella società contemporanea è spesso un corpo esibito in senso edonistico, narcisistico, laddove invece nel suo libro è un corpo malato...
Difettoso.
...difettoso. Nella quarta di copertina si citano Ballard, Cronenberg, Bacon...Mi chiedevo però se altri riferimenti possibili fossero la poesia barocca o surrealista, per quel tanto di macabro di cui a volte si compiace
Nel primo caso senz'altro, addirittura attraverso la citazione di una poesia di Nature e venature c'è un omaggio a Ciro di Pers. Sul surrealismo sono più perplesso. Alcuni autori sono per me fondamentali, per primo Michaux, o certi eterodossi come Artaud e Ponge, amo meno Breton ma certi testi li trovo smaglianti, Nadja per esempio; però c'è qualcosa, nel surrealismo, che mi ha sempre insospettito...il senso esclusivo del gruppo, soprattutto, lo trovo molto invecchiato e lontano: Eluard, Aragon sono autori per me letteralmente inerti. Piuttosto sono stato molto suggestionato dalle arti figurative: Giacometti, in questo senso, è un riferimento molto importante.
Il titolo del suo libro, Nel condominio di carne, rimanda a un'idea di corpo che si abita ma non ci appartiene, qualcosa che è "altro" da noi. C'è come la necessità di una fuga, di una liberazione da questo involucro, inteso evidentemente in senso platonico
L'idea della veste, del soma, del carcere è molto presente nel testo. Il titolo, in realtà, è venuto fuori dopo una serie di tentativi piuttosto numerosi, nel desiderio di mettere a fuoco questa disparità molto stridente tra il senso materiale, ma anche glorioso del corpo, e una sua quotidianità miserrima, che ho sempre paragonato a quella di un inquilino. Dopo l'uscita del libro mi sono ricordato di un testo di Ora serrata retinae, la mia prima raccolta, in cui parlavo di un soggetto che abita il suo cervello "come un tranquillo possidente"; era già presente, cioè, quest'idea di spossessamento che è propria anche del Condominio; là c'era un possidente che abitava uno spazio mentale, le terre del cervello per dir così; qui c'è invece un inquilino: è subentrato un senso di precarietà che credo sia il segno più forte di un avvenuto cambiamento.
Tornando ai riferimenti citati nella quarta di copertina: si tratta di autori, quasi tutti, appartenenti all'area anglosassone. Secondo lei manca una tradizione, almeno recente, sul tema del corpo nella letteratura italiana?
Da un lato sì, perché i richiami alla body-art o al cyborg provengono per l'appunto da fuori, è come una nuova tradizione rappresentata da autori come Ballard o Elleroy. Devo dire che pur non essendone un estimatore, li ho sentiti immediatamente vicini. Detto questo credo che la letteratura italiana abbia anche momenti di straordinaria attenzione al corpo. E' sufficiente pensare a Moravia, il Moravia di Agostino per esempio, talmente pieno di carnalità che mi sembra eccessivo parlare di una distanza della nostra letteratura recente da certe tematiche. Diciamo piuttosto che quello che ci arriva da fuori è una forma diversa di discorso sul corpo, mediato in primis dall'insegnamento di Foucault. Credo tuttavia che il tema del corpo sia stato molto presente nell'ambito italiano, magari secondo modalità meno appariscenti, più dissimulate. Penso anche ai film di Pasolini, che hanno una forza che il narratore e il poeta forse hanno perso.
Le cito una poesia di Nature e venature: "Sentirsi male sembra voler dire/che il dolore impedisce/l'ascolto di se stessi./La malattia conduce il suo corpo lontano,/troppo distante per essere udito".
Si tratta di una poesia intraducibile, un gioco di parole. Partendo da quel bisticcio cercavo di spiegare una sensazione, ovvero che il dolore costituisce uno schermo, un ostacolo all'ascolto di sé. Mi rendo conto solo ora che il mio ultimo libro pare sostenere il contrario.
Appunto. E' un cambio di prospettiva
Resta però questa idea dell'ascolto, di una sensazione uditiva associata al dolore. Non a caso ho inserito nel libro una citazione di Leriche, un medico francese, che dice che "la salute è il silenzio degli organi".
Questo esercizio assiduo di autoanalisi, di ascolto del corpo, comporta una fatica di qualche tipo?
No, direi il contrario. Per me la scrittura, almeno questo tipo di scrittura, è sempre una liberazione. Almeno si dà parola alla fatica vera, alla sofferenza. Giocare finalmente con questi materiali è un modo per salvarsene. In un libro che ho scritto per ragioni accademiche su Joubert, un autore minore del Settecento francese, ho inserito come esergo una citazione di Queneau, per me bellissima: "De tous les coups du sort j'ai su faire une fable / le moins deviens le plus, consolante inversion" (Da tutti i colpi del fato ho saputo trarre una favola, il meno diventa più, consolante inversione). Ecco, io ho sempre di fronte l'immagine della scrittura come una specie di ruota del judo, per cui la forza dell'avversario viene usata contro l'avversario. Molti scrittori sono come dei grandi judoka del linguaggio che riescono a sfruttare l'ostilità del reale per trasformarla in scrittura, per ribaltare il meno in più. Mi piacerebbe pormi in questa schiera: in questo modo non c'è fatica, c'è anzi risarcimento.