Eleonora Guidi (a cura) - Scrivere un romanzo tra storia ed elegia. «Nadežda Mandel’štam c’est moi»

Intervista a Giovanni Greco

 

Giovanni Greco, traduttore e scrittore di teatro e di narrativa, nel suo ultimo romanzo, Bruciare da sola. Una notte di Nadja Mandel’štam con i suoi fantasmi, (Ponte alle Grazie, Milano 2022) ha indagato la figura di Nadežda Jakovlevna Mandel’štam (1899-1980) intrecciando tre grandi componenti letterarie: la componente elegiaca nel lamento d’amore, la componente documentaria nella testimonianza storica e la componente epica presente nella poesia del marito Osip Mandel’štam, oppositore del regime staliniano, morto in un gulag a Vladivostok nella Russia orientale il 27 dicembre del 1938.

 

D.: Nella lingua russa nadežda significa “speranza”, uno dei tratti caratteristici di Nadežda Mandel’štam a cui nel suo libro fa citare un verso straordinario dell’Eneide (II, 354): «Una salus victis, nullam sperare» (“l’unica salvezza è di non sperare alcuna salvezza”). Lei ha una formazione classicistica, come si evince da questa citazione: come mai si è avvicinato alla vicenda di due scrittori che appartengono interamente al Novecento, e a una delle grandi tragedie del Novecento, quali Osip e Nadja Mandel’štam?

 

R.: Da appassionato di letteratura russa e di letteratura classica mi sono avvicinato a questa scrittrice grazie a Tony Harrison, grande poeta, drammaturgo di teatro e sceneggiatore di cinema inglese. In particolare ricordo che le parole di una sua maglietta riportavano i versi di Nikos Kazantzakis: «Δεν ελπίζω τίποτα | Δεν φοβούμαι τίποτε | Είμαι λεύτερος» (“Non spero in niente. Non ho paura di niente. Sono libero”). Eravamo in viaggio quando mi regalò quella maglietta e quei versi mi portarono a Nadja, mentre conoscevo già Osip grazie ad Andrea Camilleri. Un giorno mi trovavo per una lettura pubblica a Vercelli con Tony e Sian Thomas, grande attrice shakespeariana, e Harrison iniziò a chiamarla Nadežda. Gliene chiesi il motivo e lui mi raccontò che Nadja imparava a memoria i versi del marito Osip Mandel’štam, ripetendone centinaia sia quando era ancora in vita sia dopo la morte. Perciò è anche grazie a lei che la poesia di Osip è sopravvissuta. Qualche anno prima avevo già avuto un primo contatto con Osip, in Accademia (l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” dove l’autore insegna recitazione in versi ndr) quando Andrea Camilleri, allora mio insegnante di regia, parlando di teatro russo e leggendo alcune pagine dal libro Il trucco e l’anima di Angelo Maria Ripellino, un saggio-romanzo sul teatro russo del Novecento, citò Osip Mandel’stam e Boris Pasternak, l’autore del Dottor Živago, che io già avevo letto. Secondo Camilleri, Pasternak era una figura negativa, un contro-rivoluzionario. Nella celebre telefonata tra Pasternak e Stalin del 1934, originata probabilmente dal fatto che Mandel’štam aveva scritto una poesia piuttosto controversa in cui definiva Stalin «il montanaro del Cremlino», Stalin gli chiese consiglio su come muoversi nei confronti di Osip, e Pasternak rispose senza prenderne le difese. Oggi Pasternak è stato molto studiato da Paolo Nori che ne parla invece positivamente, perché forse grazie a Pasternak venne procrastinata la morte di Osip, arrestato e mandato con Nadja al confino per tre anni a Čerdyn', in condizioni estreme. Prima della condanna i due avevano vissuto a Mosca più o meno fino alla metà degli anni Trenta, cioè fino a quando, nel novembre 1933, Osip scrisse l’Epigramma a Stalin. Per i suoi versi di critica al regime e alla persona di Stalin, Osip morì poi nel 1938 in un gulag nell’estrema Siberia orientale. La moglie lo cercò a lungo dal momento in cui venne allontanato. Nadja va perciò intesa come un essere bifronte, lei era lei, ma anche lui, una sorta di ibrido dove aveva parte anche il marito. Il suo modo di essere mi ricorda il poemetto Elena (1970) di Ghiannis Ritsos, in cui Elena pronuncia queste parole: «Laddove qualcuno resiste senza speranza, è proprio là che inizia la storia umana e la bellezza dell’uomo». Così era la resistenza senza speranza di Nadja in cui risiedeva l’inizio della bellezza, quella bellezza che ha attratto la mia attenzione e da cui parte la storia che il romanzo racconta. Osip non tornò mai più, ma Nadja resistette sempre, nonostante tutto.

 

D.: Il suo romanzo non appare classificabile in un genere preciso. Lo si può tuttavia definire anche un romanzo storico. Come ha aggirato il problema del didascalismo? Il lettore che incontra Nadja potrebbe non avere conoscenze pregresse; forse la scrittura di un monologo che richiama la pratica teatrale può aiutare a entrare nella storia?

 

R.: Questo libro è basato su una storia vera, anche se io detesto questa etichetta posta come un marchio che deresponsabilizza la fantasia, perché parte dalla premessa che l’autore non si è inventato nulla; premessa errata: il verismo si fonda solo in parte su ciò che è successo “realmente”. Il più delle volte, insomma, rischia di ridursi a ideologia, l’ideologia del vero. Al contrario, come diceva Ludwig Wittgenstein nel suo Tractatus Logico-Philosophicus, «il mondo è tutto ciò che accade»: la varietà infinita e la contraddittorietà sono la realtà, non lo è la riproduzione mimetica di quella che identifichiamo come “verità”. Non credo ci sia la necessità di fondare la propria scrittura su qualcosa di realmente accaduto. Secondo gli storici contemporanei la fiction ha addirittura acquisito un valore maggiore rispetto alla realtà della storia: Carlo Ginzburg nel Formaggio e i vermi (Einaudi, 1976) ha ricostruito un processo a uno stregone, scrivendo un libro di storia che sembra un romanzo. Il confine tra ciò che è davvero accaduto e ciò che è racconto è diventato molto labile, persino indistinguibile. Ricordo che, quando avevo sedici anni, leggendo Madame Bovary di Flaubert, incontrai l’espressione «Madame Bovary c’est moi» e non ne capii il significato. Dopo aver scritto questo libro la trovo meno grossolana, non era affatto un’affermazione superficiale, oggi direi «Nadežda Mandel’štam c’est moi». Forse è uno dei libri più personali che ho scritto, perché mi ritrovo in lei e nel suo rapporto con le parole.

 

D.: L’idea di verità e la legittimità che essa dà al prodotto artistico co-esiste dunque con il rischio di ingabbiare le forme espressive in una sorta di paralisi. Anche nel personaggio di Nadja si percepisce una forte ambivalenza: la forza del suo sentimento è però in parte anche la sua debolezza, poiché segnala una sorta di dipendenza affettiva da Osip. Questo tratto della sua vicenda non rischia di far affiorare l’autorialità maschile del suo romanzo? Per dire meglio: non le pare che questa debolezza venga in evidenza proprio perché a narrarla è un uomo?

 

R.: La questione è stata affrontata a lungo dalla filosofia femminista: può un autore uomo dar voce a un personaggio femminile? Volendo superare il topos, cioè proprio al luogo comune della donna che sceglie di stare accanto al suo poeta-piromane, ho fatto riferimento alla categoria del ventriloquismo, per cui un autore può parlare per un altro o per un’altra, non prescindendo dal suo genere, ma mettendosi teatralmente nei suoi panni, senza identificarvisi. Del resto il meccanismo della cosiddetta immedesimazione non può essere totale, nonostante quello che sostiene la scuola cinematografica americana. Si presta sempre qualcosa di sé al personaggio, e nel mio caso io mi ritrovo in Nadja che ripete le poesie ad alta voce, perché risuonando le parole assumono un maggiore significato, prendono corpo, sangue e vita. Perciò «Nadežda Mandel’štam c’est moi», perché per anni, come me, ha ripetuto versi: anche per lei la parola esisteva pienamente solo se pronunciata.

Per quanto riguarda la dipendenza affettiva di Nadja verso Osip… si tratta in realtà di una dipendenza reciproca. Addirittura nella versione teatrale che ho tratto dal romanzo sono io a interpretare Nadja. In un altro romanzo, L’ultima madre (Feltrinelli 2014  ndr), ho raccontato la storia dei figli dei desparecidos in Argentina, i figli di trentamila persone che, schieratesi contro il regime della giunta militare, sparirono in pochi anni, in gran parte lanciate dagli aerei, ricercate poi dalle loro madri attraverso l’Asociación Madres de Plaza de Mayo e l’Asociación Civil Abuelas de Plaza de Mayo. I figli dei dissidenti rimasti furono poi affidati a famiglie di militari con principi patriottici in linea con il regime. Nel 2011 a Buenos Aires ho incontrato uno di questi ragazzi che aveva recuperato i suoi genitori biologici, perseguitati e uccisi dai militari, e ho conosciuto anche alcune donne, una delle quali è divenuta la protagonista del romanzo, che dal 1977 hanno sfilato attorno all’obelisco di plaza de la República, trasformandosi nel corso del tempo in militanti rivoluzionarie. Alcune hanno ritrovato i figli sottratti e quello che mi ha colpito di più è stato sentire nelle loro parole la voce dei figli rivoluzionari degli anni Settanta. Le madri si sono trasformate nei loro figli. Penso che l’operazione di prestare la propria voce ai personaggi sia simile a questa sorta di transfert a cui mi è capitato di assistere allora.

 

D.: La grande attenzione per le fonti è importante ma può anche rappresentare, narrativamente, un limite. Come si può mantenere l’equilibrio tra l’aspetto storico e quello elegiaco-narrativo?

 

R.: A vent’anni ero un filologo; oggi invece mi definirei un «filologo inselvatichito»; non più filologo, ma sempre con la necessità di confrontarmi con le fonti (devo questa definizione a un amico, il drammaturgo spagnolo José Sanchis Sinisterra, che si dichiara un «marxista inselvatichito»). Ho fatto una ricerca ossessiva, ho letto tutte le memorie di Nadežda tradotte in italiano, e su YouTube ho trovato anche un’intervista a un’anziana Nadja in cui lei parla dell’amore per Osip in questo modo: «Era un grande uomo, ridevamo tanto insieme, non ci si annoiava mai con lui ed eravamo molto felici, anche nei tempi più orribili, non grazie a me, ma grazie a lui. Durante la giornata discutevamo spesso, avevamo entrambi caratteri insopportabili, ma di notte facevamo l’amore, ed era un grande successo. È comico parlarne a 73 anni, ma lo era. Era la ragione per cui vivevamo insieme, non avremmo potuto vivere l’uno senza l’altro. Lui mi tradiva, ma, se io non l’ho mai tradito, è perché tutti erano peggiori di lui.»

Ma gli storici e i filologi non possono mai arrivare alla consultazione di tutto. E nella scrittura narrativa ci sono tratti che trascendono l’aspetto storico, legati in modo specifico alla forma e allo stile. Si può anche andare in direzione contraria, essere trasgressivi verso il documento. E a volte diventa persino difficile distinguere verità e invenzione romanzesca, come dicevo prima. In una recensione al libro, comparsa sul Corriere della Sera, Daniele Giglioli mi rinfaccia un rapporto equivoco con la Storia, e sostiene che un personaggio verso la fine pronunci addirittura una battuta volgare, totalmente inventata, ovvero: «È il dolore che dà legittimità alla poesia: prima di soffrire, vagare, subire torti e ingiustizie quei versi sono versi qualunque, versi incompresi come tanti altri, quel poeta è lo stesso misconosciuto, dimenticato, ignorato come tanti altri. Il vibrato inconfondibile di Mandel’štam dipende dalla sua peculiare sofferenza e dal futuro rovinoso che si è confezionato con le sue stesse mani» (p. 125 ndr). In realtà il personaggio pronuncia una citazione letterale, le ipsissima verba, di cui non ho segnalato la citazione, e che significa semplicemente «se non fosse morto così, leggeremmo diversamente le sue poesie», un concetto che mi sembra persino scontato.

 

D.: Jules Laforgue, nel racconto Hamlet ou les suites de la piété filiales, contenuto nelle Moralités légendaires, fa dire ad Amleto «Non ho un amici, un amico, non un amico in grado di raccontare la mia storia», lamentando che nemmeno una «samaritana per l’amor dell’arte» abbia cura di farlo. Si può pensare che Nadežda svolga la funzione di «samaritana» nei confronti di Osip, ripetendone continuamente i versi? Anche le citazioni da Petrarca, in fin dei conti, si possono inserire in questa idea ossessiva di amore.

 

R.: Nadja ha un rapporto consustanziale con la parola e con il marito. L’idea di devozione per Osip va intesa in termini egoistici, perché dedicarsi a una persona non è per forza una scelta altruistica, contiene un tratto narcisistico. Come in tutte le forme d’amore, Nadežda cerca qualcosa che le faccia bene. Quando dice «il mio amore, anche nella forma più perversa, è il mio peso, la mia gravità» (p. 97 ndr) cita la frase di Sant’Agostino «Pondus meum amor meus» delle Confessioni. Una frase che indica schiacciamento, ma anche la forza di gravità che tiene ancorati a terra: l’amore insomma è estremamente contraddittorio. Antonella Anedda, poetessa appassionata di Mandel’stam, ha ri-tradotto in italiano la traduzione russa di Osip della poesia di Petrarca Or che ‘l ciel e la terra e ‘l vento tace. Anche in questo c’è una forma di devozione: Mandel’stam aveva un rapporto con la poesia italiana molto stretto, studiò e tradusse molte poesie di Petrarca.

 

D.: La lettura genera sicuramente emozioni contrastanti, Nadežda è una donna sola, ma anche un’eroide ovidiana abbandonata dal suo eroe. Tuttavia, il rischio è limitare la figura di Nadja al suo annullamento nei confronti del marito: qual è stata la sua prima impressione quando ha incontrato la sua storia?

 

R.: All’inizio anch’io l’ho sentita come una storia gerarchica in cui Nadežda è su un altro piano rispetto al grande scrittore oggi amato, studiato e tradotto in tutto il mondo. Solo leggendo concretamente ciò che lei fece dal 1938, anno di morte di Osip, al 1980, anno in cui lei morì, ho colto la sua storia completa. Dalla fine degli anni Trenta agli anni Cinquanta, Nadežda ha vissuto un periodo complicato di persecuzione, attorniata da nemici, poi negli anni seguenti ha raccontato il suo amore per Osip nelle interviste fornendo anche diverse interpretazioni alle sue poesie. Negli anni Sessanta e Settanta, in un periodo di grande fermento culturale, le chiesero in tanti i significati dei versi di Osip, ma Nadja ne Le mie memorie (tradotte presso Garzanti nel 1972) dice «Io so di non capire». Non ha necessità di capire in profondità l’oscurità e l’acmeismo, il movimento d’avanguardia in cui si collocava Osip. Nadja, nell’interpretazione della poesia, era precorritrice del senso comune odierno. La razionalità può generare grande frustrazione nella lettura della poesia contemporanea.

 

D.: Alcune considerazioni nel libro segnalano il ruolo che può avere la poesia nel colmare il vuoto, nel lenire la sofferenza: in questo ha fatto per caso appello alla sua esperienza personale?

 

R.: Io stesso mi sono sentito per anni un esiliato. Nel mio ultimo anno di università, mentre scrivevo la tesi, ho fatto il provino come regista in Accademia e sono stato scelto, perciò di giorno stavo in Accademia e di notte scrivevo. È stata fondamentale per me la questione dell’esilio inteso come ferita decisiva, sradicamento, perché è in questa condizione che spesso comincia la scrittura. Come sosteneva nel 1977 Iosif Brodskji, poeta russo, vincitore del premio Nobel per la letteratura nel 1987, nel suo discorso di accettazione e nel discorso The Condition We Call Exile, l’esilio è una categoria metafisica. Tanti scrittori e artisti hanno vissuto sradicati dalla propria heimat (casa-patria) e hanno iniziato a scrivere per riempire il vuoto e la nostalgia. Fu un medico del Seicento, Johannes Hofer, che per descrivere i soldati di ritorno dalla guerra coniò il termine “nostalgia”, che nasce appunto dall’unione di due parole greche, νόστος «ritorno», e -αλγία, da ἄλγος «dolore»: perciò nostalgia significa letteralmente «dolore per un mancato ritorno». È una condizione di allontanamento violento che scatena un vuoto da colmare. Un esempio celebre è quello di Dante nella Divina Commedia, nel canto XVII del Paradiso: «Tu proverai sì come sa di sale / lo pane altrui, e come è duro calle / lo scendere e 'l salir per l'altrui scale. / E quel che più ti graverà le spalle, / sarà la compagnia malvagia e scempia / con la qual tu cadrai in questa valle; / che tutta ingrata, tutta matta ed empia / si farà contr’ a te; ma, poco appresso, / ella, non tu, n’avrà rossa la tempia.» L’esilio per Dante e così anche per Ovidio, è condizione di partenza per la scrittura. Infatti Ovidio scrisse i Tristia a cui si ispirò Osip nel titolo della sua seconda raccolta di poesie Tristia, del 1922. L’esilio può essere anche auto-inflitto, come nel caso di Samuel Beckett che. dopo la Seconda Guerra Mondiale, si trasferì a Parigi e scrisse in francese En attendant Godot, sentendo di poter scrivere solo in una seconda lingua, senza necessità di stile, cosa a cui avrebbe prestato attenzione se avesse scritto in inglese.

 

D.: Bruciare da sola è una narrazione nella quale assistiamo a un progressivo sfumarsi dei contorni: dapprima Nadežda ci racconta lucidamente la sua storia, ma nel finale domina la dimensione allucinatoria, che culmina in una sorta di banchetto che Nadežda allestisce per i suoi fantasmi. Tutto ciò pone nuovamente il problema del rapporto verità/finzione. Possiamo noi lettori credere alle parole di Nadežda? Le sue parole sono affidabili?

 

R.: Federico Fellini diceva «Nulla si sa, tutto si immagina». La notte trascorsa da Nadja con i suoi fantasmi diventa così il momento in cui si affacciano visioni più concrete delle presenze fisiche. Ma vi sono occasioni in cui la realtà onirica supera la realtà fisica, e i sogni possono sembrare (o essere) profondamente autentici. Diceva Cicerone nel De officiis, «numquam minus solus quam cum solus sum» (“non sono mai meno solo di quando sono solo”): è la solitudine di Bruciare da sola. Il titolo, declinato sulla solitudine, è nato dal mio editore, in origine si intitolava La cena, e poi Banchetto in tempo di peste, una citazione da Puškin che usavano Nadežda e Osip per chiamare le cene con i loro amici, indicando con la peste l’imperversare di Stalin e della repressione fuori dal loro simposio privato, in cui avevano il privilegio di poter creare e raccontare una storia alternativa. La conclusione del romanzo si svolge in questa dimensione allucinatoria, che può essere anche l’anticamera della morte, senza però asserirlo con certezza.

 

D.: Quando si comincia a scrivere si effettuano delle scelte, per esempio in rapporto alla trama o alla voce narrante: in questo caso le scelte non sembrano essere state facili. C’è una voce femminile che parla in prima persona, c’è un plot attento alla verità storica ma capace di contraddirla, c’è un tempo da cui parla Nadežda che non appare così identificabile…

 

R.: All’inizio ero indeciso se raccontare in prima o terza persona. In altri romanzi ho raccontato sia in prima, sia in seconda sia in terza, tentando diversi esperimenti. Mi sono risolto per la prima proprio per dare forza all’identità di Nadežda. Naturalmente la prima persona crea una serie di problemi: per esempio, nella Recherche, l’io narrante è davvero Marcel Proust? L’io che parla in quale rapporto si trova con l’io storico? L’io esplica funzioni diverse, a partire da una certa tensione emotiva, che è in rapporto consustanziale con la musicalità delle parole. A tal proposito il mio editor mi ha rimproverato una certa propensione alla triade di aggettivi: tre proposizioni spesso sintatticamente coordinate, oppure tre sintagmi di sostantivi e aggettivi in sequenza. In effetti nel tre sento equilibrio e rotondità, e nei miei spettacoli teatrali inserisco spesso i valzer, proprio perché hanno un ritmo in tre quarti. Si tratta di un ritmo che influisce molto sulla mia scrittura, secondo una musicalità che va a riempire un vuoto, con certe cadenze che evidentemente amo. Ma è per questo che in alcuni punti del romanzo si trovano diadi invece che le triadi originali: per venire incontro al mio editor…

 

D.: A proposito di triadi, colpisce durante la narrazione la figura silenziosa di Anna Achmatova che era in stretta relazione con Osip e Nadežda. Come si è immaginato il rapporto tra Nadja e Anna, entrambe muse di Osip?

 

R.: Un po’ l’ho ricostruito dalle due opere autobiografiche di Nadežda, che si soffermano sulla Achmatova, una figura molto presente nella sua vita. Peraltro la Achmatova ha avuto a sua volta una storia tragica. Il marito Nikolaj Stepanovič Gumilëv era stato fucilato, ucciso sommariamente perché dichiaratamente anticomunista e accusato di aver partecipato a un complotto monarchico: di questo parla uno dei più famosi componimenti della Achmatova, Poema senza eroe. Ma Anna per tanti anni fu una figura determinante per la poesia di Osip e rimase in contatto con Nadja anche dopo la morte del poeta. Insomma, una sorta di triangolo amoroso. Come mi è stato spiegato da diversi studiosi di letteratura russa, c’era una specie di “comunione degli uomini e delle donne”, secondo quanto insegnava Marx in alcuni suoi scritti, cioè non c’era separazione tra marito e moglie e il resto della società: erano tanti i casi di comunanza estetica, etica ed erotica. Le relazioni erano molteplici, in una sorta di quello che oggi si chiamerebbe “poliamore”. Era dunque normale, nella Russia degli anni ’10-’20, essere consapevoli dei tradimenti senza per questo incorrere nella gelosia. Osip aveva tradito Nadja subito dopo il matrimonio non perché si annoiasse con lei, ma perché si trattava una possibilità relazionale che coincideva con la sua ricerca poetica.

 

D.: Il suo primo romanzo Malacrianza (Nutrimenti 2012 ndr), è stato vincitore del Premio Calvino nel 2011 e finalista al Premio Strega e al Premio Viareggio. Quel successo ha rappresentato un valore o un’ipoteca per la sua produzione successiva?

 

R.: Entrambi, anche se il premio Calvino mi ha permesso di trovare un editore (Nutrimenti ndr). Poi, quando uscì, il libro fu oggetto di polemiche piuttosto accese, per il modo in cui avevo parlato dei maltrattamenti subiti dai bambini protagonisti del romanzo: un dibattito che andò avanti a lungo. In generale il romanzo venne però molto amato, specialmente dalle donne. In qualche modo fu anche un’ipoteca: venni inserito nella categoria degli esordienti, con il rischio dunque, per me, di rimanere tale, come capita spesso a coloro che scrivono un primo libro magari di auto-fiction, in cui il racconto della propria storia non lascia margini a un percorso successivo nella narrativa di invenzione, o nella ricerca sulla scrittura. Per fortuna il Calvino è un premio particolarmente attento ai valori dello stile. Ecco, se c’è una cosa di cui vado fiero in quell’esordio è proprio l’attenzione che è stata riservata alla scrittura, un aspetto a cui ho cercato di non derogare nei romanzi successivi.

 

Intervista realizzata il 28 novembre 2022 in occasione dell’incontro con l’autore organizzato da Andrea Severi e Nicola Bonazzi all’interno del laboratorio di scrittura creativa per gli studenti della laurea magistrale in Italianistica, culture letterarie europee e scienze linguistiche e della laurea triennale in Lettere.

 

27 gennaio 2023