Intervista su Ciao, Vita e altro
Rosalia Baccinelli, Francesca Barone, Letizia Chiale, Rossella Dicorato, Maria Grazia Vece[1]
Scrittura come emersione di un relitto. Su Ciao, Vita e altro.
Intervista a Giampiero Rigosi
D.: Ciao, Vita è un romanzo ampio, dalla struttura complessa: i capitoli del libro si intrecciano tra loro con piani di narrazione differenti, inglobando anche le parti di quello che tu intitoli il Piccolo libro di traditi e traditori, inserti quasi saggistici che raccontano rapporti ambigui di tradimento tra personaggi della letteratura (solo alla fine del romanzo si viene a scoprire che si tratta di una raccolta a cui il protagonista, Sergio, sta lavorando). Questa struttura ti è balenata in mente da subito? Cosa ti affascina di strutture così complesse?
R.: L’architettura delle storie è una cosa che mi sta molto a cuore e ci lavoro sempre, anche quando si tratta di una costruzione molto semplice. A questo libro ho lavorato per tredici anni e inizialmente non avevo previsto questa struttura. Per la verità ci ho lavorato a singhiozzi perché è una vicenda che mi toccava molto da vicino ed è stato difficile affrontarla. Ciò che mi premeva raccontare era l’amicizia tra i due personaggi principali: da uno di loro, Vitaliano, ho poi tratto il titolo del libro. Nel titolo la V è maiuscola perché c’è un gioco di parole tra l’abbreviazione del nome di Vitaliano e la vita. Ovvero: Ciao, Vita sta a indicare un addio alla vita, ma anche un benvenuto, perché tutto il libro è una sorta di epifania, una rinascita del protagonista. Io ho cominciato a scrivere il romanzo quando avevo in testa già da tempo questo abbozzo di storia: un uomo malato che sul finire della sua vita chiama un vecchio amico per rivederlo un’ultima volta e per chiedergli di rispettare una promessa che si erano fatti in gioventù. Poi una volta ero a Roma, tredici anni fa appunto, e ho incontrato un amico sceneggiatore e scrittore che mi ha chiesto a cosa stessi lavorando in quel momento. Gli ho parlato di quello che avevo in mente, ho fatto quello che in termini cinematografici si chiama “pitch”, cioè una specie di presentazione… a lui è piaciuto, mi ha incoraggiato a scrivere questa storia e così mi sono avviato a farlo. La vicenda inizialmente doveva avvenire tutta in una notte. Nella mia mente doveva essere un romanzo molto più breve e anche dalle atmosfere vagamente noir. A un certo punto però mi sono sentito imprigionato da questo schema, ho buttato via tutto il materiale e ho ricominciato a scrivere.
D.: Intendi dunque che uno scrittore prima di tutto deve individuare il proprio obiettivo prioritario e gettare via quello che è inessenziale?
R.: Esatto, credo che sia fondamentale. Diceva Gabriel Garcia Marquez: «Un bravo scrittore non si riconosce tanto da quello che pubblica quanto da quello che butta nel cestino della carta».
D.: Il romanzo racconta la storia di un’amicizia, ma ha al proprio centro il tema del tradimento. Per te viene prima la storia o l’argomento di cui si vuole narrare?
R.: Penso che questo dipenda dalle attitudini personali. Io sono un narratore di storie, racconto storie con diverse modalità: ho scritto radiodrammi, ho scritto per il cinema, per la televisione... Per me l’importante è raccontare storie, non viene mai prima il tema. Il tema è il motore segreto che tiene in vita la storia, ma a volte si scopre solo a romanzo finito. Nelle serie televisive invece sembra che si possa scrivere un episodio solo se si ha già in mente il tema, ma secondo me rischia di non funzionare. Certo, il Piccolo libro di traditi e traditori ha il ruolo di sottolineare il tema centrale; tuttavia ci sono tanti altri temi e questo è uno dei motivi per cui ho impiegato tredici anni a scrivere questo romanzo. Il motivo del tradimento è sicuramente quello su cui verte la storia: aiutare un amico a morire può essere considerato un tradimento o no? Su questo interrogativo si fonda la mia storia.
D.: Nel romanzo ci sono due figure femminili, Francesca ed Elena, che non sono protagoniste ma costituiscono una sorta di sfondo emotivo importante per il personaggio principale. Come hai costruito questi due personaggi?
R.: Per ogni personaggio creo una sorta di scheda biografica molto dettagliata. Lo faccio non solo per i personaggi principali, ma anche per quelli cosiddetti “di contorno”. In questo caso si trattava di costruire due personaggi che funzionassero come “reagente” a Sergio e Vitaliano. Tuttavia non sarei mai stato in grado di raccontare un’amicizia così intensa ma al femminile, non avrei osato. Prima di questo invece ho scritto un romanzo, L’ora dell’incontro, in cui le protagoniste sono due donne. Credo che uno scrittore possa abbracciare un punto di vista femminile, ma non possa superare limiti che restano invalicabili, in rapporto per esempio alla diversa sensibilità con cui si affrontano le cose della vita.
D.: Ciao, Vita è un romanzo di ambientazione bolognese. Quanto hai attinto alla tua biografia? E per restare al tema del tradimento: se vi hai attinto, quanto ti sei sentito in obbligo di tradirla? Quanto ti è servita la tua vita per riempire le pagine che, all’interno del romanzo, si possono definire “generazionali”?
R.: Tantissimo. Sono coetaneo di Sergio e di Vitaliano, ma il tema che tu poni, cioè il tradimento nella scrittura, non mi ha sfiorato. Non è un patto che faccio con me stesso, né con eventuali lettori che hanno fatto parte della mia vita: Horacio Quiroga, in un piccolo decalogo sulla scrittura, suggerisce tra le altre cose a un ipotetico autore di non scrivere mai pensando che un amico o un parente possa leggere quello che scrive perché se no la scrittura si paralizza. Philip Roth, per esempio, ha costruito romanzi straordinari raccontando delle sue amanti o di suoi amici e parenti, facendo ovviamente infuriare parecchie persone…
Io penso che nessuno inventi nulla, nemmeno chi scrive di fantascienza: si attinge sempre al proprio vissuto. Io sono un po’ Sergio un po’ Vitaliano e molti miei amici hanno prestato delle loro parti sentimentali, emotive, psicologiche a entrambi i personaggi, o ad altri. Una mia amica quando l’ha letto ha detto: ci siamo tutti dentro, ma spezzettati.
D.: In te ha agito da subito l’idea di fare anche una storia generazionale, raccontare insomma anche un pezzo di storia italiana attraverso il vissuto dei due protagonisti?
R.: No. I due personaggi su cui ho iniziato a scrivere si chiamavano Sergio e Federico, erano più giovani, non avevano quel passato, facevano tutt’altro. Nel momento in cui però ho iniziato a sviluppare la storia ho capito che mi serviva più tempo per far attuare il percorso di cambiamento ai personaggi. La scelta di rappresentare la loro giovinezza è venuta dopo e a quel punto ho avuto necessità di retrodatare la loro storia: per questo la loro adolescenza si svolge in un periodo che conosco bene…
D.: La copertina del libro, molto suggestiva, come nasce?
R.: Gli autori molto spesso non vengono interpellati per la scelta della copertina. Quando ho pubblicato Notturno Bus, la copertina, confesso, non mi piaceva. Mi chiesero cosa ne pensassi, riposi che non ero convinto, e in casa editrice ribatterono che invece si trattava di una scelta azzeccata dal punto di vista commerciale perché molto “pop”… Ma tutt’oggi continuo a non esserne convinto. La copertina di Ciao, Vita, invece, mi è piaciuta subito molto. Mi piace quando le copertine si discostano dal tema del romanzo. E in questo caso trovo che l’immagine rappresentata in copertina suggerisca una dolcezza che è propria della storia.
D.: Nel momento in cui Sergio viene informato della malattia di Vitaliano, la sua indecisione se raggiungere o meno l’amico dipende dal fatto che ricorda subito la promessa fatta anni prima e quindi teme di trovarsi davanti a un problema etico? O nasce dal fatto che non vede Vitaliano da tanto tempo, e per di più si sono allontanati a causa di un litigio?
R.: Io credo che vi siano queste e altre motivazioni. Se anche non ci fosse la promessa, Vitaliano è comunque un amico con cui Sergio non si è lasciato in modo chiaro e che non vede da 30 anni. Ed è già, quella, una seccatura. È una chiamata fastidiosa, una voce dal passato con cui si hanno cose irrisolte, che magari non si ha nemmeno troppa voglia di risolvere. E in più vi è l’elemento di una promessa che fa paura. Del resto Sergio non è un eroe, è un personaggio “normalmente vile”, come tutti. Definizione che ho affibbiato per la prima volta al protagonista di Notturno Bus. Non sai cosa può presentarti la vita. Magari si è agitati per cose che si rivelano meravigliose e ci si tuffa a pesce su determinate cose che poi causano problemi.
D.: Come è nata l’idea del Piccolo di libro di traditi e traditori all’interno del romanzo: hai mai pensato di pubblicare un libro autonomo con queste storie?
R.: Amo molto questo libricino: Elisabetta Sgarbi, l’editrice della “Nave di Teseo” che ha pubblicato il libro, era dubbiosa rispetto alle inserzioni rappresentate dal Libro dei traditori e traditi perché temeva che disorientassero il lettore; in realtà questa faccenda del disorientamento la trovo interessante, perché non voglio sempre dover imboccare il lettore con una pappa pronta. Così ho resistito, replicando che mi parevano un buon contrappunto alla storia. Del resto, Milan Kundera, scrittore che amo tantissimo, usa spesso queste digressioni filosofiche. Alla fine anche la Sgarbi ha accettato. Dopo che il libro è uscito mi è venuto il dubbio però che avesse ragione lei, e ho cominciato a fare dei sondaggi tra i lettori, scoprendo per fortuna che queste deviazioni costituite dal Piccolo libro erano piaciuto molto.
D.: Come sono state scelte le storie di questo Piccolo libro?
R.: Sono arrivate abbastanza tardi nel percorso di scrittura; pensavo che uno dei due protagonisti potesse avere in testa dubbi o racconti sul tradimento. A poco a poco mi sono venuti in mente questi pezzi. Si tratta di avvenimenti ambigui che mi sembravano pertinenti in alcuni snodi fondamentali delle sette parti del romanzo. I primi a cui ho pensato sono stati Pat Garrett e Billy the Kid, Poi mi è venuto in mente Kafka, uno degli scrittori che adoro fin da ragazzino. Ma Kafka si tira ovviamente dietro Max Brod, che ha disatteso la richiesta dell’amico di distruggere i suoi scritti. Ma se non ci fosse stato Brod, noi non avremmo mai letto Kafka. Dunque dove sta il tradimento? Ho pensato insomma ad alcune situazioni narrative di questo tipo, selezionando quelle che mi sembravano più giuste. E mi sono accorto che quello che accadeva in questi tradimenti, o presunti tradimenti, o tradimenti ambigui, si poteva inserire in momenti cardine della rievocazione di Vitaliano e del presente di Sergio, tra una sezione e l’altra delle sette parti.
D.: Mi sembra che ci sia una sorta di percorso in queste storie del Piccolo libro: da una storia chiaramente di tradimento a una che invece non lo è per nulla; questo coincide in qualche modo con lo sviluppo della trama: andando avanti nella lettura ci si chiede continuamente chi abbia tradito chi, fino ad arrivare alla conclusione che nessuno ha tradito nessuno.
R.: È così. C’è una climax, anzi meglio un’anticlimax, un percorso al contrario. È una dinamica che in genere narrativamente non funziona, mentre qui il percorso dentro a questi piccoli saggi avviene al contrario. E secondo me questa volta funziona bene, perché si va dal tradimento più definito a quello meno chiaro, in cui forse il tradimento non esiste nemmeno. Tutto anziché disambiguarsi si ambigua: volevo che fosse questo il percorso.
D.: Elena, uno dei pochi personaggi femminili del romanzo, porta il nome della traditrice per antonomasia della mitologia: è un nome che volutamente richiama quella figura o è un caso?
R.: No, l’unico nome davvero cercato è quello di Vitaliano. Riguardo a questo c’è un aneddoto: un’amica che organizza un gruppo di lettura si chiama Vita e una volta per salutarla le ho detto «Ciao Vita!»; in quel momento ho avuto l’illuminazione di chiamare il mio personaggio Vitaliano, è un nome vitalistico e così in quel momento ho deciso sia il nome che il titolo del romanzo. Elena invece mi sembrava un nome dolce, solo in corsa ho pensato ad Elena di Troia. Confesso che sono stato anche tentato di cambiarlo, poi ho desistito.
D.: Mi è sembrato di notare che nei ricordi di Vitaliano aleggi una specie di sentimento amoroso viscerale nei confronti di Sergio. È così?
R.: Può essere una particolare affezione, senza avere per forza un risvolto erotico. C’è però un indizio che ho disseminato nel testo, quasi inconsciamente: mi sono reso conto che stavo mettendo nel romanzo, e stava funzionando, il rapporto di Vitaliano con Pasolini, un rapporto di amore e odio. I suoi compagni di pugilato, ad esempio, gli trovano un libro di Pasolini nella borsa, lo prendono in giro e lui reagisce in maniera molto violenta. E questo è ciò che poi provoca in maniera del tutto irrazionale il suo rifiuto di scrivere un film noir su Pasolini. Insomma, sì, questa questione è un nodo che nel romanzo esiste. Tant’è che da vecchio, ormai malato, Vitaliano si chiede se avesse ragione Elena nel pensare che il sentimento tra lui e Sergio non fosse di sola amicizia. È un tema che però non affiora consapevolmente nemmeno in Vitaliano stesso.
D.: Quando parli di Bologna ci sono descrizioni estremamente dettagliate dei luoghi. Quanta nostalgia e malinconia c’è in questo romanzo per il tempo e per il posto narri?
R.: Ho fatto per dieci anni l’autista di autobus; quindi le strade le conosco davvero bene. Ho letto molti romanzi che hanno al centro dei luoghi, ma se devo essere sincero mi sembra che non sia una prerogativa italiana. Sono sempre stato innamorato della narrativa americana, in cui ci sono indicazioni molto precise delle vie. Quindi è un aspetto voluto: i nomi dei luoghi sono evocativi, anche se non si conoscono. Per quanto riguarda la nostalgia… ce n’è tanta, purtroppo. Ho vissuto quell’epoca in maniera turbolenta, anche se ne ho preso le distanze, altrimenti non sarei qua a chiacchierare con voi. Perciò è una nostalgia controversa: non solo per come era bello, ma anche per come è stato brutto quel periodo. Ci si sparava per strada, e ho avuto molti amici morti di overdose…
D.: Prediligi la scrittura cinematografica o quella narrativa? Come è nato il tuo rapporto con il cinema?
R.: Io sono nato romanziere e mi considero romanziere e, pur amando fin da bambino la serialità televisiva (per esempio ero ammiratore di sceneggiati come Il segno del comando e Belfagor); in realtà il mio avvicinamento alla sceneggiatura è nato da un colpo di fortuna, ovvero all’incontro con il mio amico Marcello Fois al festival di Mantova parecchi anni fa: lui era impegnato nella sceneggiatura di Distretto di polizia e siccome le mie finanze si stavano estinguendo mi sono proposto per quella serie e sono stato scelto come sceneggiatore per alcune puntate. Lì è cominciato tutto, in un rapporto che riesco a gestire per fortuna con equilibrio. Per esempio: prima era quasi impensabile fare cinema e televisione senza andare a vivere a Roma, io non volevo andarci, è una città con cui ho un rapporto di amore e odio, volevo tenermene alla larga. Così, quell’anno in particolare, il 1999, dovevo recarmici per toccate e fuga in continuazione. La sceneggiatura è diventata un bel mestiere, mi diverte molto.
D.: Quanto ti è stata o ti sta antipatica la definizione di autore “noir”?
R.: Dal punto di vista concreto, è stata controproducente per la mia carriera di scrittore, anche se in realtà i miei colleghi che si occupano di narrativa di genere mi stanno molto più simpatici dei miei colleghi non “di genere”, perché solitamente se la tirano meno. Però a un certo punto questa situazione mi stava stretta, avevo voglia di scrivere altre storie.
D.: Sappiamo che l’editoria paga poco e per uno scrittore spesso è necessario fare altro. Come si fa a tenere tutto in equilibrio?
R.: Quando ho finito di studiare, già lavoravo. E ho sempre fatto molti lavori, per mantenermi. Ad esempio, Notturno Bus nasce proprio da un lavoro che facevo all’epoca, perché io lavoravo sull’autobus e spesso facevo i turni di notte, che mi affascinavano molto. Dopo aver finito Notturno Bus sono andato in vacanza, a Creta, dove sono successe due cose: la mia compagna mi ha rivelato di essere incinta e la mia agente mi ha chiamato e mi ha detto che l’Einaudi avrebbe pubblicato il mio romanzo Nutturno bus. Appena tornato a casa sono andato all’azienda tranviaria e mi sono licenziato. Come ho detto, mi considero romanziere, ma per la maggior parte del tempo faccio lo sceneggiatore e molti dei miei introiti derivano da lì. Questo comporta un equilibrio difficile perché sì, la sceneggiatura è scrittura, ma in quell’ambito si riduce molto il potere autoriale e intervengono tantissime persone: editor, editor di rete, i registi, altri autori, responsabili… Ognuno dice la sua. Si tratta di una pratica molto italiana: negli Stati Uniti, per esempio, c’è lo show runner che ha potere sulla maggior parte dei passaggi della creazione di un programma. Uno sceneggiatore italiano, invece, ha a che fare con un sacco di gente e questo riduce la ricchezza delle storie dal momento che tutti dobbiamo intenderci su un esito finale. Mentre da scrittore io rispondo solo al lettore: ci credi o non ci credi? I miei personaggi ti sembrano vivi o no? In questo l’editing non mi pone problemi, perché in fin dei conti non stravolge il romanzo e toglie molte pagine magari superflue all’ultima versione. Ritengo che asciugare sia sempre una cosa utile.
D.: A livello operativo, dato che abbiamo parlato anche del processo di scrittura, qual è il punto più difficile nella stesura di una storia?
R.: Posso rispondere per me. In generale trovo che i dialoghi siano molto difficili da gestire. Ho visto da poco la prima di un ottimo film, Notte fantasma di Fulvio Risuleo, in cui il protagonista è un poliziotto che costringe un ragazzino obeso e dai tratti asiatici (il quale ha appena comprato del fumo per i suoi amici) a salire sulla sua macchina e poi lo porta a fare un giro in una notte romana molto ansiogena. Nell’incontro di presentazione del film, il regista diceva di aver scoperto quanto gli piaccia scrivere i dialoghi, al punto che adesso, all’inizio di ogni sceneggiatura, non scrive una parola di ambientazione, ma scrive solo i dialoghi, come fosse teatro; solo nelle stesure successive comincia a mettere a fuoco come e dove avverranno le cose. Questo è un procedimento curioso, di uno che sente di avere padronanza sul dialogo. Quindi gli ho chiesto quanta libertà lascia agli attori, proprio perché i dialoghi, in questo film, sembrano estremamente spontanei, non sembrano scritti. E infatti mi ha detto che, nonostante lui scriva i dialoghi in maniera molto precisa, in scena funzionano solo come un canovaccio.
Racconto questo perché per me è molto diverso. Per esempio, ho sempre posto molta attenzione alle strutture. Adesso invece vorrei scrivere un libro semplice, con una voce narrante, che va dritta dall’inizio alla fine, senza salti temporali o incastri... So però che la mia natura mi tira dall’altra parte. Ognuno, quindi, si deve misurare con quello che gli viene bene e con le proprie difficoltà e magari insistere molto su queste ultime; la scrittura è come andare in palestra: se hai le gambe sviluppate devi fare allenamento per la parte superiore del corpo e viceversa, è inutile continuare a fare solo quello che viene bene, altrimenti si rimane carenti di qualcosa. In Italia c’è un discrimine abbastanza netto tra narratori e scrittori. Nella narrativa anglosassone, inglese e americana, questa cosa è molto meno evidente. La poesia anglosassone per esempio è molto narrativa, così come il teatro, mentre in Italia il teatro è diventato via via sempre meno narrativo e sempre più legato alla messa in scena e alla performance, mentre gli americani soprattutto scrivono ancora adesso teatro narrativo, voglio dire con trama, personaggi e tutto il resto. Tra gli autori italiani, molti secondo me sono scrittori e non narratori, cioè non gli interessa tanto raccontare una storia, gli intessa lo stile. Io sono dall’altra parte, sono un narratore. Sento di dover inventare storie, e fare in modo che dentro la storia i conti tornino.
Poi, lo dico un po’ ironicamente, vivo delle crisi cicliche, con la messa in discussione delle mie capacità di concludere una storia in maniera dignitosa: sono momenti in cui butto via tutto e poi ricomincio; e allo stesso tempo faccio una gran fatica a staccarmi dalle storie che scrivo, mano a mano che arrivo alla fine rallento… questo mi capita anche con i romanzi che leggo e che mi piacciono… così sembra che io non riesca mai a finire perché continuo a tergiversare, a rimandare e poi, non so come, improvvisamente il libro è finito: cioè, non mi rendo conto che è finito, non mi rendo conto di quando ho smesso di tergiversare e di prendermi in giro. Eppure, so quello che devo fare, taglio, cucio, metto insieme, ritaglio, ho un piano preordinato, ho degli appuntamenti fondamentali nella struttura che raramente tradisco. Quando inizio a immaginare una storia intravedo quasi tutta l’opera; è un momento abbastanza magico, è come quando i sommozzatori devono tirare su un relitto: lo riempiono di palloni per farlo venire a galla e quando questo accade spuntano prima alcune parti, poi altre, poi alla fine tutto: dal mare cominciano a uscire prima i pennoni, poi, lentamente, tutto il resto. Come una specie di fantasmagoria, reale ma insieme epifanica. Ecco, quando inizio a immaginare la storia accade qualcosa di simile, però in un tempo abbastanza ristretto, perché i palloni si gonfiano e tutto si inabissa di nuovo, e io so che dovrò immergermi ogni giorno con pazienza e portare fuori una parte alla volta del relitto… però intano l’ho visto e quindi ostinatamente continuo a tirare fuori, pezzo dopo pezzo. Per me la scrittura è questo: avere degli appuntamenti fondamentali e costruire intorno le altre parti. Un processo che piano piano si compie e si realizza. Fino in fondo.
8 maggio 2023
[1] L’intervista nasce come esercitazione da parte di un gruppo di studentesse all’interno del Laboratorio di scrittura creativa coordinato da Nicola Bonazzi, per il corso Magistrale di Italianistica, culture letterarie europee e scienze linguistiche dell’Università di Bologna.