Nicola Bonazzi - La lezione di Machiavelli. Dialogo con Patrick Fogli

Strano dialogare con uno scrittore di “noir” a partire da un trattato rinascimentale di politica? Non troppo, se si riflette che quel trattato è il Principe e che la riflessione che gli dà forma (e dà forma a tutto il pensiero di Machiavelli) è stata definita da qualcuno “antropologia negativa”: insomma, una visione che sembra escludere qualunque possibilità di speranza o redenzione per il genere umano, sopraffatto dalla violenza e dall’istinto di prevaricare sull’altro. E allora proviamo a girare alcune questioni poste dal capolavoro di Machiavelli a Patrick Fogli, che, dentro e fuori il genere “noir”, ha comunque sempre bordeggiato atmosfere buie di menzogne e disinganni, per verificare quanto la “lezione” dell’autore fiorentino sia attuale anche sul piano narrativo.

 

Mi sembra che nessun classico della letteratura italiana sia più indicato del Principe di Machiavelli per parlare della tua produzione narrativa. Il mondo che dipinge Machiavelli è dominato dalla violenza e dalla sopraffazione reciproca. Un notissimo passaggio del capitolo 15 recita: «uno uomo che voglia fare in tutte le parti professione di buono, conviene rovini infra tanti che non sono buoni». Anche i tuoi romanzi raffigurano una dimensione umana a cui il bene sembra alieno, e non a caso parecchi tra essi attingono al genere noir. A questo punto, per parafrasare Gadda che, a chi gli rimproverava di essere barocco, rispondeva che barocco è il mondo: sei tu che, volendo rispettare i clichès del genere, dipingi il mondo a tinte così cupe o è il mondo stesso a essere un luogo che non dà adito alla speranza?

 

Credo sia difficile negare che viviamo un’epoca violenta. Una violenza che non è soltanto fisica, ma sociale. Lo sfruttamento del più debole, la sopraffazione, la difficoltà di trovare uno sbocco adeguato alle capacità personali e al talento, la negazione dei diritti - spesso addirittura elementari -, la regressione prossima all’azzeramento del senso civico, la crescita esponenziale degli invisibili, gente di cui nessuno si occupa, che vivono ai margini se non al di fuori del nostro mondo, la riduzione della comunità a singolo - viviamo in un mondo in cui le nazioni sono di fatto raggruppamenti di singoli e di interessi privati o personali - mi pare disegnino uno scenario che è difficile raccontare colorando. Siamo oltre Darwin, ormai. La rabbia è il sentimento prevalente, la caratteristica fondante dei nostri giorni, così difficili non solo da vivere, ma da classificare e descrivere. Piuttosto comincio a pensare che il noir o qualcosa di simile abbia la capacità di raccontare un mondo di questo genere. Temo che la realtà sia sfuggita chilometri avanti ogni possibilità di catturarla in una storia.

 

Dietro il discorso politico che muove le pagine del Principe, c’è la constatazione della debolezza degli stati italiani all’epoca in cui Machiavelli scrive. È una situazione che produce un continuo stato di allerta, o di vera e propria guerra, perché questi piccoli principati sono continuamente in lotta tra loro o sono preda delle mire espansionistiche dei grandi stati nazionali europei. Molti tuoi romanzi hanno come sfondo la situazione sociale odierna, dominata dalla paura (penso soprattutto a Io sono Alfa, ma anche all’ultima tua fatica, Il signore delle maschere). Insomma, non è cambiato niente? Per tornare alla domanda di prima: la paura è l’altra faccia della sopraffazione, sono questi i sentimenti che ci dominano?

Non ci siamo mossi di molto perché i meccanismi che regolano le relazioni umane, il potere e il consenso sono più o meno gli stessi di sempre. Si sono adeguati all’epoca, ma restano immutati. La paura è il metodo migliore per generare una reazione. I terrorismi di tutte le poche lo sanno e applicano di fatto schemi identici nei secoli. La vera differenza della nostra epoca è la richiesta, a volte ossessiva e impossibile, di sicurezza. Una sicurezza che non significa più ricerca della serenità, ma si declina con il desiderio irrealizzabile di totale immunità da ogni influenza esterna. Una società aperta come la nostra è per forza di cose esposta a pericoli. E la consapevolezza che non si può restare al sicuro come vorremmo porta a un avvitamento da cui non si esce e che fa la fortuna di tutti coloro che sulla paura vivono. Dai terroristi a una certa classe politica.

 

Nella dedica del Principe a Lorenzo de’ Medici il giovane, Machiavelli, per fornire una giustificazione al proprio lavoro (ossia, essersi interessato alle azioni dei «grandi»), dice che si è comportato come quelli che si occupano di topografia, i quali «si pongono bassi nel piano a considerare la natura de’ monti e de’ luoghi alti, e per considerare quella de’ bassi si pongono alti sopra e’ monti». Nei tuoi romanzi ti sei occupato spesso di uomini di potere, e in uno (Il tempo infranto, dedicato alla strage alla stazione di Bologna) quegli uomini di potere appartengono alla nostra storia recente o recentissima. Ti sembra una buona indicazione di poetica quella di Machiavelli, adottare il punto di vista di uomo comune per descrivere i «grandi», come li chiama Machiavelli, e mettersi nei panni di un uomo di potere per raccontare il suo rapporto con il «populo», i cittadini comuni, gli altri insomma?

La letteratura dovrebbe, per dirla con Carrère, far vivere vite che non sono la nostra. Pochissimi di noi hanno la possibilità di rivestire posizioni di potere e sposare narrativamente l’ottica di chi le detiene è senza dubbio stimolante. In aggiunta, per le storie di cui mi sono occupato, occorreva per forza di cose una visione interna, che rivelasse i meccanismi rovesciandoli verso l’esterno come un calzino. Oggi è molto difficile usare il punto di vista di un uomo comune per raccontare il potere. La distanza con chi prende le decisioni è spesso così grande che ognuno di noi raccoglie solo le conseguenze di quello che accade e che, spesso, è davvero difficile da intuire. Un punto di vista comune, invece, mi pare utilissimo per descrivere le pulsioni che attraversano la nostra società, a partire dall’imbarbarimento quotidiano a cui accennavo prima.

 

Due concetti attorno ai quali ruota il Principe sono quelli di «virtù» e «fortuna». Fortuna come somma di eventi imponderabili contro i quali il principe si trova a lottare e virtù come capacità umana di prevedere quegli eventi e dominarli. Nella narrativa thriller quanto contano, in quanto elementi capaci di suggerire e far avanzare la trama, questi due concetti? Mi viene subito da pensare a Sherlock Holmes e alle sue capacità analitiche quasi “preveggenti”…

Ogni indagine che si rispetti ha bisogno della capacità di comprendere gli eventi, prevedere le conseguenze, capire i collegamenti. Conoscenza e preveggenza, spesso, vanno di pari passo. Non perché si diventi maghi o streghe, ma perché l’osservazione della realtà porta a intuirne i meccanismi e le evoluzioni. Poi c’è la fortuna, che di fatto oggi decliniamo come caos. E allora bisogna essere buoni marinai, perché spesso il vento tira forte e in modo imprevedibile. D’altra parte sono le regole che, mi pare, fanno parte delle fondamenta di ogni buona storia. Senza conflitto o imprevedibilità ricadiamo nel placido benessere della tranquillità. E con la tranquillità o la felicità non si fa una buona storia.

 

L’ultimo capitolo del Principe rompe improvvisamente con i capitoli precedenti per consegnarci l’utopia di un’Italia finalmente pacificata a opera di un ipotetico “redentore” politico che, sbaragliando tutti gli ostacoli, riesca in qualche modo a unificarla. Una sorta di “happy end” diciamo così. I tuoi romanzi non sempre si chiudono con un finale rassicurante, anzi esso rimane spesso aperto. Il mondo dolente e buio che la tua narrativa raffigura esclude la possibilità di una redenzione?

Esclude la possibilità che sia definitiva. Credo che valga in assoluto, ma ancora di più oggi. Vissero per sempre felici e contenti, non per niente, è il finale delle favole.