Nicola Bonazzi ed Elisabetta Menetti - Una frase intonata è come una cascatella d'acqua. Intervista a Ermanno Cavazzoni

 

Si potrebbe cominciare dicendo che Ermanno Cavazzoni è uno dei più importanti scrittori contemporanei. Ma si direbbe una cosa ovvia. Forse vale la pena dire perché è uno dei più importanti scrittori contemporanei. Ma questo risulterà ovvio alla fine dell’intervista, dove le questioni sollevate sulla letteratura e sul “suono” dei libri dichiarano l’appartenenza di Cavazzoni alla schiera degli scrittori non omologati alle logiche del mercato editoriale, come del resto il grande amico Celati. E allora sarà più semplice riportare l’esperienza del dialogo con lo scrittore reggiano: un dialogo che, per i due autori dell’intervista e di Griselda in generale, continua da molto tempo e che si nutre sempre della meraviglia di improvvisi spiazzamenti e di una cordiale, salutare leggerezza. Abbiamo cominciato chiacchierando dell’ultimo romanzo, La madre assassina, e siamo arrivati a parlare di poemi rinascimentali, di registri linguistici e della “tribù” degli scrittori padani. Insomma, una conversazione a tutto campo sul senso del fare letteratura, a partire dalla necessità della tradizione e dalla vitalità di un anti-canone entro cui operare; un invito a rileggere in modo libero e divertito il nostro passato per avere una visione indiretta, sorprendente ma illuminante del presente. Anche questo, uno spiazzamento non da poco.

 

DOMANDA: La madre assassina sembra, almeno nella parte iniziale, istituire una parentela con il tuo libro precedente, La galassia dei dementi. Non tanto per quanto riguarda l’intreccio o l’ambientazione temporale, quanto perché l’attacco del romanzo (che poi va da tutt’altra parte) ci racconta di un protagonista dotato, almeno in apparenza, di un corpo meccanico, fatto di ingranaggi e parti ferrose, allo stesso modo in cui, nella Galassia, c’era una gran quantità di robot e droidi descritti anche nella loro struttura e nel loro funzionamento. Tutti esseri, quei robot e questo personaggio, inadeguati e strambi. È un’analogia possibile? Ha agito anche per quest’ultimo libro, almeno come idea germinativa, un interesse verso l’inorganico come qualcosa di insensato, senza cervello?

 

RISPOSTA: È vero, non ci avevo pensato. Almeno nella parte iniziale sembra in effetti che il protagonista sia un robot, come quasi tutti i personaggi della Galassia dei dementi. Ma in questo caso la situazione è differente: si tratta cioè, per il protagonista, di sentirsi abitato da un altro essere, un po' come succedeva in Dottor Jekyll e Mr. Hyde di Stevenson, in cui Jekyll, il dottore, si sente abitato da un altro essere che prevale sulla sua volontà. Non credo infatti di usare mai la parola robot nella Madre assassina. C’è piuttosto l’attrazione verso la possibilità di non essere sé stessi. Come in tante storie di fantascienza dove la memoria viene conservata dopo la morte o trasferita da un corpo a un altro. Sono tematiche affascinanti perché danno l’idea di noi uomini come di esseri compositi, dove le esperienze stesse non si sa quanto corrispondano a cose accadute o a cose messe dentro da altri, oppure a suggestioni trasferite. La psicanalisi chiamerebbe tutto questo “inconscio”, che è parola comoda e usuale, ma che a me non piace perché un po’ troppo scontata. Del resto si tratta di sensazioni che tanti provano nella loro vita: penso a certe situazioni imbarazzanti della quotidianità, quando si è sotto osservazione, quando si è intimoriti, in cui uno sente di non essere più lui a parlare, perché gli esce un’altra voce, di cui magari si vergogna, che sopravanza e prevarica la voce e il pensiero ordinario.

 

DOMANDA: Come La galassia dei dementi faceva il verso alla fantascienza, La madre assassina sembra alludere al genere giallo. Dico alludere perché naturalmente, se di giallo si tratta, siamo comunque lontanissimi dal codice realistico dentro cui si inscrivono appunto i romanzi cosiddetti “polizieschi”. E però il libro si legge d’un fiato, come appunto si legge quel tipo di romanzi, per arrivare in fondo al mistero su cui si arrovella il protagonista. Ti sei posto il problema del “genere”, anche solo per contraddirlo quando hai cominciato a scrivere questo libro e anche quello precedente? E i romanzi cosiddetti “di genere” ti interessano, anche semplicemente come lettore?

 

RISPOSTA: Il genere è un’enorme comodità, anche se quelli chiaramente codificati non sono poi tanti. Indubbiamente il poliziesco e la fantascienza sono i più marcati, i più forti, ed è per questo che di solito non vengono quasi mai presi in considerazione nei premi o nei concorsi letterari: il genere è considerato qualcosa di leggermente scadente, una forma di letteratura minore. Si tratta invece di una forma comoda; mi verrebbe da dire che il genere è come un portauovo, che può contenere solo l’uovo, la forma dell’uovo: il genere ti obbliga a delle regole e siccome spesso nella narrazione la libertà estrema è dispersiva, rotola via da tutte le parti, avere un portauovo ti aiuta, per stare ben piantato nel racconto. Un po' come succede nella poesia: la metrica, la rima sono produttive proprio perché ti obbligano a percorsi prestabiliti e regolati. Io poi la fantascienza l'ho sempre molto apprezzata, nel cinema soprattutto, dove ha prodotto film meravigliosi, spesso con contenuti filosofici estremamente interessanti. Ecco, mi sono sempre chiesto se sarei stato capace di fare qualcosa all’interno di un genere, e così ho provato prima con la fantascienza e adesso con il poliziesco semi-horror. Un genere che però non leggo. Leggevo i gialli quando ero adolescente, ma sono libri che non mi attraggono più molto perché in genere l’unico scopo è tirare il lettore alla fine, cioè alla soluzione, dopo di che il libro lo puoi lanciare dalla finestra perché tanto, una volta consumato, non lo si rilegge più. Ecco, ho cercato di fare un libro che potesse tenersi in piedi come giallo ma che lo si potesse anche rileggere, perché non sta tutto, credo, nella soluzione finale. Naturalmente sono partito dalla regola che, se giallo dev’essere, devono esserci anche un morto e un detective; ma con questo paradosso, che chi indaga è il morto. Il che ha creato qualche problema, perché, essendo partito a scrivere proprio dall’inizio, a differenza di tante altre volte, ed avendo assecondato lo svolgimento lineare della trama, ogni tanto venivo preso dall’ansia di non riuscire a tenere il paradosso fino alla fine. Il tono generale che ho voluto dare (e per questo il paradosso diventava importante) è quello delle notti febbricitanti, quando uno ripensa alla giornata e certi fatti minimi si ingigantiscono e appaiono spaventosi, insopportabili. Credo sia capitato a tutti di ripensare a certe frasi dette, magari solo vagamente infelici, che nel dormiveglia angoscioso della notte, diventano gigantesche al punto che uno vorrebbe uccidersi per la vergogna. A me capita, e sono notti terribili, di incubi che non fanno dormire. Ecco, ho voluto tenere il libro su questi due tempi che si alternano, il giorno e la notte, dove la notte somiglia sempre a un sogno da sveglio, con l'ingigantimento delle cose, che celano però anche una verità più profonda. E dove è difficile distinguere ciò che è vero da ciò che è allucinazione, incubo, distorsione di fatti. D’altro canto questa è la definizione di fantastico che dà Todorov: un accadimento che non si sa dire se sia soprannaturale o solo allucinatorio. Volevo cimentarmi in questo genere che oggi è il più letto, semplicemente per vedere se ero capace, capace di fare qualcosa di incalzante, che passa di sorpresa in sorpresa, che potesse stuzzicare come un ago l’aspettativa del lettore.

 

DOMANDA: Questo tuo ultimo romanzo sembra muoversi su toni talmente allucinati da generare alla lettura una certa angoscia, cosa abbastanza inusuale nella tua produzione: era un effetto che cercavi o è arrivato durante la scrittura? Oppure nulla di tutto questo e semplicemente le intenzioni del testo hanno sopravanzato il loro autore?

 

RISPOSTA: La madre assassina l'ho scritto in poco tempo, in qualche mese, un tempo molto concentrato: non credo ci siano parti che deviano, o percorsi narrativi che si aggiungono lateralmente come fili secondari. La galassia dei dementi invece avevo impiegato sei-sette anni a scriverlo: infatti è un accumulo di diverse vicende, di storie intrecciate, perché la fantascienza con le sue avventure si presta molto a questa possibilità. Anzi, secondo me è la forma moderna del poema cavalleresco. Solo che il poema cavalleresco era riferito al passato: nel Cinquecento Ariosto scrive di fatti accaduto nell'Ottocento dopo Cristo, al tempo di Carlo Magno. Invece la fantascienza è orientata verso il futuro, un futuro che nasce inevitabilmente dai problemi, dalle speranze e dalle minacce del nostro presente. Ma anche il poliziesco è un genere che può esistere solo in epoca moderna; non poteva esistere prima dell'Ottocento, prima di Edgar Allan Poe, e di Conan Doyle, per dire, cioè gli iniziatori del poliziesco. Il giallo può prodursi solo con la società moderna, solo nella grande metropoli dove l'individuo è anonimo. Prima esisteva la comunità di persone note tra loro, mentre la grande metropoli anonima nasce nell'Ottocento, penso a Londra e Parigi prima, e a New York poi.  Il giallo, infatti, deve avere come sfondo una società in cui tutti possono essere colpevoli, perché gli individui sono diventati anonimi, misteriosi, sospettabili in quanto sconosciuti, dove non si sa nulla del vicino di casa, del condominio in cui abito (ho ambientato il romanzo appunto in un condominio), e ogni persona è un mistero, perché ne incrocio la faccia ma ne ignoro la vita, e ogni casa, ogni appartamento può celare qualcosa di orribile. Questa è la condizione tipica del romanzo poliziesco, che prima non era pensabile, perché c’era la comunità e il colpevole era tale già prima del delitto, era semplicemente l'individuo eccentrico, anomalo, oppure l'individuo di passaggio, insomma il non integrato nella comunità, e quindi sospetto. Invece nella nostra condizione contemporanea tutti possono essere potenziali nemici, anche la madre può celare per il figlio un progetto di assassinio o di dominio, in combutta con gli sconosciuti del caseggiato, come appunto nel libro. Anche questa è un’esperienza non così rara: la madre come essere potentissimo, che cova progetti per far maturare la mente del figlio o della figlia in una certa direzione, quella voluta da lei. La forza materna è enorme ma spesso non appariscente: è una forza occulta, lenta, che ogni tanto si serve delle lacrime, per raffigurarsi come essere debole. Un po' come Cristo, la cui forza dipende dal fatto che è vittima. La madre spesso ha questo ruolo potente ma invisibile, o che si palesa successivamente, più tardi, quando il figlio già giovanotto scopre che la madre ha usato il ricatto affettivo per un suo disegno occulto e imperscrutabile che lo riguardava, ad esempio farne un combattente contro la famiglia del padre e marito.

 

DOMANDA: Anche la Storia naturale dei giganti si ricollegava a un genere e a una tradizione, rielaborando la materia cavalleresca, ma da un’angolatura del tutto spiazzante: la genealogia dei giganti dalla nascita alle loro trasformazioni. Opportunisti e un po' tonti, i giganti, come appunto i robot della Galassia dei dementi, rappresentano anch’essi una parte dell'umanità?

 

RISPOSTA: Sì, è vero, c'è una parentela tra i robot della fantascienza e i giganti italiani del Quattro-cinquecento, perché in Pulci, Boiardo e Ariosto (in Ariosto per la verità ce ne sono pochissimi) essi vengono trattati allo stesso modo in cui io tratto i robot nel mio romanzo, come degli enormi coglioni. Mi piacciono queste figure un po' disumane o un po' troppo umane, il gigante che quando cade schiaccia tutti quelli che sono sotto come una specie di torrione: i robot alla fin fine hanno lo stesso tipo di potenza e di ottusità. C’è un bellissimo episodio in Pulci, quando Morgante pesta i nemici col batacchio della campana, Orlando dice di smetterla, però l’ultimo colpo è già partito e non si riesce a fermarlo per via della legge d'inerzia, come se Morgante fosse un motore dotato di volano che prima di fermarsi deve fare ancora per le leggi di fisica un ultimo giro: insomma, una lontanissima parentela tra il gigante e il robot c’è, tra quegli esseri con scarso cervello e questi altri col cervello talmente programmato che sembrano tonti monomaniaci. Mi piace molto dedicarmi ai difetti umani, tutto quello che è difettoso è molto più interessante di ciò che è perfetto. In genere quasi tutti i romanzi girano intorno a esseri difettosi, personaggi che sbagliano, altrimenti ci sarebbe poco da dire.

 

DOMANDA: Pacini Andrea, il protagonista del libro, vive in una realtà fatta di visioni e incubi. Anche se poi a noi lettori non è dato sapere se siano davvero incubi della sua mente spostata o se certe cose esistano davvero. In generale tutta la tua narrativa è fatta di grandi immaginazioni alternative alla realtà: esiste una separazione tra mondo immaginato e mondo reale?

 

RISPOSTA: In effetti nel mondo reale assisto quotidianamente a scene di paranoia, qualcuna la patisco anch’io, e credo sia così per la maggior parte delle persone che mi stanno intorno. Sospetti esagerati, rappresentazioni spesso persecutorie. Il mondo moderno degli uffici è saturo di inimicizie che vengono ingigantite, che diventano battaglie di una vita, battaglie sotterranee coi colleghi, coi vicini, coi parenti, anche se sono spesso battaglie contro il niente, riducibili a paranoie persecutorie. Un buon esempio sono i litigi legati a un’eredità. Nei litigi, ciascuno ha sempre un’interpretazione differente dei fatti. E a quel punto si smarrisce la verità. Se non la si rimette a un giudice, in grado di stabilire una verità giudiziaria, ma non la verità intima che cela rancori antichi e inconfessabili. Credo sia anche il compito della letteratura coltivare e mettere in evidenza le percezioni umane distorte, ricostruire le personalissime e individuali visioni del mondo.

 

DOMANDA: Celati, riprendendo una riflessione di Tozzi, diceva che la novella è come un sonetto. Per la sua geometria, ma, forse, anche per la sua musicalità. Qual è il ritmo del tuo racconto, delle tue narrazioni? Quando scrivi segui una musica che ti risuona nell'orecchio?

 

RISPOSTA: Sì, ci sono frasi che escono stonate e frasi che escono intonate. Anche se nella prosa è difficile individuarle. Direi che una frase intonata, in prosa, è una frase che si pronuncia bene; che esce come una cascatella d'acqua, che segue il suo accidentato percorso naturale fra i sassi, ubbidendo al principio della minor resistenza. Se la frase è faticosa vuol dire che l’acqua sta cercando di andare in salita. La prosa ben fatta, che esce bene, è fatta di versi nascosti che si intrecciano l'uno con l'altro e fanno diventare la lettura più pronunciabile, o appunto scorrevole. Ecco, la pronunciabilità secondo me è un discrimine, ogni scrittura in questo senso ha un suo ritmo interno e un suo grado di viscosità che si può distinguere, che possiamo anche chiamare tono. So per esempio quando una frase mi esce bene e quando male: se la frase è sbagliata, sbaglio a ridirmela e a digitarla, o anche solo a trascriverla a mano.

 

DOMANDA: Tu scrivi a mano e poi ricopi?

 

RISPOSTA: Sì, io scrivo a mano con una matita dalla punta sottile perché così posso scrivere stando anche sdraiato, posso scrivere ovunque, posso cambiare posto, non sono costretto alla scrivania: per me la matita con punta tenera e sottile è la cosa migliore, la più portatile. E poi è fondamentale scrivere molto in piccolo perché così ho un pezzo lungo di narrazione in un unico foglio e posso permettermi una visione complessiva e dall’alto del movimento di parole che sto mettendo in piedi. Se potessi scriverei come scrive un microbo, e poi tra riga e riga farei delle giunte.

 

DOMANDA: Sempre Celati dice che non esiste l'opera originale che c'è sempre un pullulare di motivi che vengono da tutte le parti. C'è sempre «una tribù di autori che preme dietro alla cosa che stai scrivendo o riscrivendo» (Conversazioni del vento volatore). A quale tribù appartieni?

 

RISPOSTA: Adesso c'è questo giro di amici emiliani che indubbiamente sono un po' figli o figliastri o alunni di Celati, soprattutto del Celati della Banda dei sospiri, con quella maniera di scrivere come si parla, oralmente, con leggere sgrammaticature e un esibito leggero analfabetismo. Alcuni sono rimasti fedeli a questo modo oraleggiante... Io, da parete mia non credo. Credo di essermi un po' scostato, preferisco scrivere o avviarmi a scrivere in un modo più asessuato, più pulito. Mi sembra troppo facile cedere alla finzione di essere un illetterato che scrive, non mi piace più. Preferisco un tono medio, senza che si riproduca come regola fissa l’oralità, o una finta oralità; poi da questo tono medio di base si può variare, come si fosse presi tutt’ad un tratto da un umore storto, o iroso, o tonto, o sdolcinato; e si possa poi anche salire, come fa Manganelli, che sale a preziosità linguistiche, che celano qualcosa di sottilmente buffonesco, una volontà di meravigliare, un fondo di difesa d’ufficio di se stessi, schiacciando il lettore con parole desuete, con una fumata di manierismo. Mi piace avviarmi nel piano della lingua media scritta. Per cui non saprei dire a che tribù appartengo. Poi mi piace cambiare, ecco questo lo so, come ha fatto anche Celati per tutta la vita: non mi piace fissarmi in uno stile, una maniera riconoscibile come un marchio, mi piace cimentarmi in voci e generi diversi. Che è poi quello che succede nell'esperienza quotidiana di chiunque: se uno va allo sportello anagrafe parla in modo diverso che se parlasse con la propria amante, o con suo padre: con ogni persona si cambia leggermente registro. I registri delle lingue sono una cosa bellissima, una risorsa meravigliosa, e ce ne sono tanti; bellissimo sperimentarli. Adoro per esempio il cosiddetto “burocratese”, che spesso è incomprensibile, ma è una fortuna esista, perché in letteratura ci si può ricorrere e produrre frasi acrobatiche o comiche. Non sono le parole a fare la ricchezza di una lingua, sono i registri, la possibilità di usare tante lingue dentro la stessa lingua. E allora, per tornare alla tua domanda, sento di appartenere al mondo emiliano-padano, perché l'Italia effettivamente è divisa in regni linguistici, che non sono solo linguistici ma sono anche attitudini mentali, delle specie di weltanschauung mi verrebbe da dire. Indubbiamente la Toscana è diversa storicamente da altre regioni, e ha una parlata puntigliosa, che sgomita, un po' aggressiva, più dell'emiliano, o del lombardo. Tutto il Nord ha una parlata più morbida, più accomodante, più tendente al fantasioso che al realistico. Poi naturalmente c’è Roma… e Napoli che è un paese a sé stante con una letteratura bellissima, poetica e unica. Per non parlare della Sicilia, che ha una sua tradizione nell’ambito del romanzo, forse la più ammirevole d'Italia, e però è ancora un altro universo linguistico e quindi di mentalità. Io appartengo inevitabilmente a questo mondo nostro del Nord Italia che gira attorno al Po, a cui appartiene anche Celati. In larga parte Il poema dei lunatici deve tanto a Celati. E gli sono riconoscente perché mi ha fatto scoprire un modo diverso di fare letteratura, diverso da quello un po’ stereotipato della letteratura di consumo o da premio, senza essere il modo dell'avanguardia, che si contrapponeva a sua volta alla letteratura precedente, ma che non è stata in grado di produrre niente di interessante nella prosa. Alla fine credo di essere andato verso quella che è la mia personalità, di cui non posso fare a meno, e che non posso forzare in una direzione o nell'altra. La prima recensione che ho avuto da Manganelli (ai Lunatici) conteneva una critica che a distanza di anni ho poi trovato giusta. Il libro gli era piaciuto molto (l’ha detto anche a voce), però diceva che il modo di far parlare i personaggi in un italiano mezzo scemo era troppo facile. Diceva invece che l'episodio di Garibaldi, narrato in tono diverso, diciamo paranoico, con la lucidità del paranoico, era il momento migliore, più autentico per il mio personale modo di narrare. E trovo, a distanza di anni, che avesse ragione; e questa è poi la strada che credo di avere imboccato.

 

DOMANDA: Prima si parlava di temi, di generi letterari a cui attingere. Una parte, pur esigua, della tua produzione è fatta di riscritture: I sette cuori da De Amicis, oppure Gli eremiti del deserto in cui hai riscritto la vita di Paolo e di Ilarione scritta d San Girolamo, la vita di Antonio scritta da Atanasio: raccontare e riscrivere è un modo per andare dietro ai pensieri degli altri e insieme per scoprire qualcosa di nuovo?

 

RISPOSTA: Ci sono testi che uno ammira, magari poco conosciuti, testi che uno vorrebbe averli scritti lui, starci lui dentro. Un modo per impossessarsene è quello della riscrittura, che poi è parente della traduzione. Tra le altre cose ho anche provato a tradurre parti del Baldus di Folengo: mi piaceva l’idea di misurarmi con un libro intraducibile, che sfrutta un momento storico-linguistico particolare, in cui il latino era ancora parlato, e insieme esistevano i dialetti ed esisteva l'italiano letterario, il volgare illustre. Un momento in cui Folengo insomma ha potuto mescolare queste lingue differenti, cosa oggi impossibile. Allora ho provato a fare una traduzione usando i registri della lingua italiana, registri alti che confliggessero con i registri bassi, in modo da produrre continui salti e spropositi comici. Ogni tanto mi mettevo lì a tradurre, perché mi dispiace che un poema così grande, importante e potenzialmente molto divertente fosse perduto: le traduzioni che accompagnano il testo nelle edizioni correnti, non fanno mai ridere, sono tristi, mentre il maccheronico del poema è comicissimo. Ho tradotto il primo libro e un po' dell'ultimo. Ma poi non ce l’ho fatta a continuare, non provavo piacere, non sono un traduttore. Anche Gianni aveva fatto una piccola prova di traduzione dal Baldus, pubblicata sul «Caffè» di Vicari: doveva diventare un libro Einaudi, nella serie che comprendeva la Gerusalemme liberata ridotta da Alfredo Giuliani e l’Orlando furioso ridotto da Calvino. Gianni diceva che il Baldus lo ha sempre affascinato perché lo sentiva leggere ad alta voce da un suo professore al liceo, il quale mentre lo leggeva gli scappava da ridere tanto che non si teneva: Gianni non capiva cosa ci fosse da ridere, dal momento che a lui sembrava semplicemente latino, allora ha voluto entrarci dentro per poter ridere alla stessa maniera; questa attrazione me l’ha passata. Ecco, anche tradurre un libro che ti piace è un'enorme soddisfazione, ma nello stesso tempo una frustrazione, perché si è autori solo a metà, o anche meno. È come fare una cosa in collaborazione con qualcun altro, dove il tuo ruolo è però di servizio.

 

15 febbraio 2021