Intervista di Irene Palladini
Dalla lettura di Mi sono perso a Genova emerge come la città sia, prima di tutto, un corpo, un «corpaccione megalitico», complesso, difficile da conoscere e impossibile da dominare. I corpi dei luoghi, tra persistenza e trasformazione …
Penso che tutto debba essere ricondotto a un particolare disturbo da cui sono affetto e che consiste in una cattiva relazione tra il lobo sinistro e quello destro del cervello. In me prevale il lobo sinistro, inerente l’affettività, e la sfera emotiva domina dunque sull’andatura dei miei sensi e compone la qualità profonda del mio pensiero. Ogni relazione emotiva passa infatti attraverso i sensi e intrattiene una pregnante relazione con il corpo. Penso alla città come a una griglia, a una rete profonda di relazioni, di fatto è la griglia stessa a disegnare e a creare relazioni sempre nuove. E in quella griglia io mi muovo, mi relaziono con altri corpi e con il corpo stesso della città. Genova è dunque un corpaccione, certo non disgregato o privo di eleganza, ma lo è per la sua vastità e complicazione profonde ed è esaltante intrattenere una relazione affettiva con la vastità e la complicazione. La scrittura, poi, non è altro che l’atto fisico della relazione affettiva: quando mi sembra di scrivere bene è perché provo un intenso piacere. Ho iniziato infatti a scrivere non per ragioni specificamente culturali o letterarie, ma perché, nel 1985, in un negozio, ho visto un Machintosh e ne sono rimasto affascinato. Ho provato a usare la tastiera e, sullo schermo luminoso, con grazia ed eleganza, sono apparsi i caratteri neri. Il gesto, molto concreto in verità, di picchiettare con le dita sui tasti mi ha procurato un piacere intenso: ecco, quando scrivo mi sento proprio come Ray Manzarek, il tastierista dei Doors. Ricordo un incubo, tale a causa dei miei stati febbrili, piuttosto ricorrente nella mia infanzia: sognavo di nuotare in un mare di carta stampata e questo mi suscitava piacere. Dunque credo che si debba pensare a Genova come a un corpo, ma anche alla scrittura come a un corpo.
Osservare una donna e scoprire che ha occhi bellissimi e cercare, nel fondo del suo sguardo, «i lumini, le tre barchette fluttuanti nella notte» (Il viaggiatore notturno) mi pare il corrispettivo della creazione artistica. E Il viaggiatore notturno si configura davvero come una poesia dei sensi. Lo sguardo (e il tatto, l’olfatto), sospeso tra verità e immaginazione, nella creazione letteraria.
Penso che anche questo debba essere ricondotto a un mio difetto fisico: siccome ci vedo poco, mi devo avvicinare moltissimo alle cose, alle persone, fin quasi a sfiorarle, e può essere davvero imbarazzante, talvolta. Ho preso l’abitudine, nel tempo, a toccare e odorare tutto: mi sono fatto persino crescere il naso per usarlo con la massima efficacia! Sono nato e cresciuto in campagna, tra gente povera e affaticata dalla vita, ma, nonostante questo, la sera, dopo cena, si toglievano i piatti dalla tavola e si cominciava a raccontare. Ed è stato proprio lì che ho appreso la tecnica complessa e articolata, naturalmente spiraliforme, del racconto. Rimanevo in ascolto e, a poco a poco, scivolavo nel dormiveglia, nell’intimo e raccolto tepore della casa. Poi una delle mie zie, la Carla o la Cesarina, mi portavano a letto. E ancora percepivo, lontano e profondo, questo “pissi pissi”, questo brusio che mi cullava con dolcezza. Ed ecco che le coperte si trasformavano in una grotta tiepida e qui mi addormentavo, con ancora tutti i racconti nella testa. Al mattino ero ancora pieno del mistero e della bellezza di questi racconti e sogni… La mia percezione della realtà, da sempre, è permeata dalla dimensione immaginaria del sogno e del racconto e per questo è complicata ma, non appena ho accettato questo fatto, sono diventato uno scrittore. Quando scrivo un romanzo lavoro anche tre o quattro anni per documentarmi scrupolosamente su dati, fonti, testimonianze, senza tuttavia prendere mai appunti perché desidero che sia la realtà della mia immaginazione a configurare la storia.
In Meccanica celeste mi ha colpito questa pagina, in cui si racconta di una giovane di perlacea bellezza e del suo disperato amore: «iniziò a piangere e non smise più. Pianse l’estate e si allagarono i prativi, pianse l’inverno e le lacrime si fecero cumulo di ghiaccio. Una montagna di lacrime rapprese in candido ghiaccio». La più struggente metamorfosi è quando il dolore si fa pianto e il pianto montagna. Ma un volto piangente può trasformarsi in una «invereconda maschera brunastra» (La regina disadorna). Le metamorfosi del dolore e del pianto …
Quando ero bambino e piangevo perché mi ero fatto male o perché ero stato sgridato prendevo le mie lacrime in mano e le offrivo, dicendo: “i gocciolini”. Toccavo le mie lacrime, i gocciolini appunto, come un’offerta affettiva, o almeno avrei desiderato che lo fossero. Penso sia intollerabile la sofferenza che si consuma in se stessa, senza consolazione. Provengo da una realtà in cui il dolore era talmente diffuso che sarebbe stato intollerabile lasciarlo così, abbandonato nella solitudine più angosciosa. Era necessario, allora come oggi, trasformare, metamorfizzare la sofferenza. Anche quando muore la persona più buona e amabile bisogna saper trasformare il dolore in qualcosa d’altro. Può apparire sciocco o banale, ma non è così. Non so se questo significhi essere più fragili o avere una forza diversa. Ma credo che anche il dolore possa divenire una cosa bella, come il Pisanino nelle Apuane, una montagna che si valica, cosa buona e feconda. E se penso al cimitero dove è sepolta la mia famiglia.. beh, è tutt’altro che tetro. E, quando è morta mia madre, ho assistito al rito concreto e necessario del muratore che, con cura e precisione, stendeva la malta con la cazzuola. E, all’ultimo, è arrivata una tromba d’aria … Ho pensato che fosse molto attinente al carattere di mia madre. E poi, ultima consolazione, ricordo i cappelletti in brodo di mia zia. Senza troppe architetture verbali, il dolore e il pianto devono essere trasformati in una cosa buona, semplice, necessaria.
Dalle civette e capinere di via Oberdan (E’ stata una vertigine) alla cocca (Felice alla guerra) alla orsa e alla hirundo (Il viaggiatore notturno), al monumentale elefante (La regina disadorna) allo slancio libertario del pettirosso (Il coraggio del pettirosso), alle infaticabili formiche (Meccanica celeste)… La tua narrativa si configura come un bestiario ricchissimo. Si ha l’impressione che le bestie, nella loro mite umanità, siano autentiche ierofanie …
Gli animali esistono e sono ovunque tra noi. E se non riusciamo ad intrattenere una relazione pregante con loro, saremo sempre deboli di sguardo. Gli animali sono mistero e familiarità, in questo davvero simili agli esseri umani. Ma forse il mistero della bestia è più profondo, insondabile perché con gli animali non ci fai l’amore. Per questo il mistero di un animale rimane oscuro, e questa distanza ha una sua intrinseca bellezza, che è quella dello stupore sempre rinnovato. Dunque non ha alcun senso cercare di umanizzare gli animali, anzi penso si tratti di un’autentica perversione. La signora tutta imbellettata con il cagnolino in braccio vede solo se stessa, e al cane è preclusa ogni possibilità di comunicazione. Quando scrivo, gli animali sono sempre presenti nel mio orizzonte, forse anche per l’educazione che ho ricevuto. Gli animali mi osservano, mi interrogano con le loro mute domande. A La Spezia, quando mi sveglio, sento almeno otto varietà di uccelli che cinguettano, a volte sono davvero impertinenti! E se non vedo almeno una vipera, al principio dell’estate, lo interpreto come un cattivo presagio. Poco fa ho visto una salamandra e sono rimasto a lungo a osservarla, mi ritengo molto fortunato perché lei si è rivelata a me. A La Spezia le vespe costruttrici hanno realizzato i loro perfetti nidi nei miei libri, imponendo così, in alcuni casi, un vero e proprio veto alla lettura. Vedi bene che le bestie sono ovunque e penso che ci si debba fidare degli animali, confidando nel loro mistero e nella loro familiarità, consapevoli di trovarci, tutti, nella medesima barca.
Mi ha colpito, ne Il coraggio del pettirosso, la descrizione dell’accoppiamento tra due scorpioni nel deserto, che pare prefigurare il destino di Pascal, condannato a morte dalla crudele insensatezza umana. I nemici di allora sono i nemici di oggi … E se il porto sepolto custodisse, al fondo di ogni cosa, ancora e sempre il volto di un nemico?
Al fondo del porto sepolto è la ricerca. Quando mi metto in strada e non so dove andrò: questo è per me lo spirito autentico di ogni ricerca. Altrimenti io oggi sarei un vecchio anafettivo che pubblica, compiaciuto, articoli di trenta anni fa. Qualcuno ha affermato che nei miei romanzi manca il cattivo tradizionalmente inteso. Io non ho in effetti molta voglia di raccontare i cosiddetti cattivi perché ci sono centinaia di romanzi che lo fanno, e anche piuttosto bene. La mia cultura e la mia anima mi portano alla constatazione del nemico come della morte. Nella Bibbia, nel Libro dei Profeti, sta scritto che nulla nel creato è morte, e che è in verità l’uomo a costruirla. Ebbene, l’esistenza della morte è un fatto, come è un fatto l’esistenza del nemico. Penso che il vero nemico sia il destino che ci viene imposto. E credo che la mia vita somigli un poco a questo, a uno sforzo costante per conquistare il destino che mi è stato imposto, quello che ho visto appena sono nato. Infine credo che non possa esistere un Pascal senza un Inquisitore, c’è solo da augurarsi che non tutti i Pascal facciano la sua stessa fine, incontrando il medesimo destino.
La regina disadorna è una favola storica in cui al centro è l’incontro e il riconoscimento dell’altro. Penso all’incontro tra Paride e Sciascia, a quello tra Sciascia e l’immagine dell’Ecce homo, sino all’incontro tra Giacomo e gli abitanti di Moku Iti. L’altro tra comprensione, amore, ostilità e sacrificio di sé …
La regina disadorna è la storia di un porto che, in quanto tale, mette in relazione gli sconosciuti tra loro. In un porto se non hai la capacità e il coraggio di offrirti, non puoi certo fare buoni affari. E non puoi presumere di presentarti lì stolidamente come sei. I genovesi hanno dunque geneticamente appreso a trasformarsi nell’incontro con l’altro. Se penso a me stesso … Beh, io mi vedo sulla strada, sin da quando avevo sei anni. Ho iniziato un viaggio, e da allora non ho mai smesso. Da adulto ho poi imparato che non esiste alcun ritorno possibile. La strada è pericolo, solitudine, a volte. Ma in ogni strada esistono degli incroci e, se ti fermi, puoi incontrare qualcuno. Se ti fermi qualcosa di importante può davvero accadere. Succede qualcosa che è molto simile a un noto principio della fisica: se due elementi si incontrano si genera qualcosa di nuovo e diverso. Se sei disponibile agli incontri, molto potrai cambiare nella vita. Gli incontri e gli incroci servono proprio a questo. Sacrificio è invece una parola che non uso mai: non c’è alcun sacrificio nell’incontro con l’altro. Anzi, credo non esista nulla di più appagante dell’incontro con l’altro.
In Meccanica Celeste mi ha colpito una pagina dedicata ai giovani: «In quei giorni la gioventù era contenta di commuoversi (…). Eppure ce n’erano, ed erano quasi sempre maschi, che restavano appoggiati ai muri, seduti in fondo all’aia, a tenersi in mano un bicchiere per tutta la sera, a darsi l’aria di sapere cosa fare e non fare niente (…) e mettersi a sentire la musica e intanto guardare dall’altra parte, verso il buio (…). Sono giovani che si stanno consumando, come se avessero avuto in corpo una vampata di quelle bombe al fosforo che allignano dentro senza farlo vedere, finché tutto quello che rimane non è che un tizzone nero». I giovani, tra assalti al cielo e disillusione …
Compio sessanta anni il primo di ottobre e una cosa che mi lascia interdetto è che mi comporto come se ne avessi ancora venti, nonostante sia un uomo rotto in molte parti del corpo e dell’anima. Insomma, non mi comporto certo come uno che la sa lunga. Poi, devo dire, io non amo molto i vecchi perché sono spesso egoisti, vogliono vivere ad ogni costo, si danno un gran daffare per non lasciare il posto ai giovani. Quello che so della giovinezza è che è una strada senza una vera intenzione, è una strada contrastante, difforme, con diverse direzioni possibili. Quello che l’età adulta può dare alla giovinezza è l’eleganza: un giovane elegante, se ci pensi bene, è già un adulto. I ragazzi di cui scrivo in Meccanica celeste, goffi e impacciati alla balera, sono stati cacciati dalla strada, e ce ne sono ancora tanti, che girano con il loro bicchiere in mano. Mi fanno molta tenerezza: potrebbero stare lì tutta la vita … Sai, appoggiato a un muro non cadi. La forza della giovinezza è mettersi sulla strada con difformi intenzioni.
Ne La regina disadorna risuonano le note di una canzone, dolente refrain: Don’t know why/there’s no sun up in the sky. L’inferno può essere in terra e può essere quello di un corteo di morte a luglio (E’ stata una vertigine), o quello del tradimento de La Combattuta (La regina disadorna) e l’inferno della guerra (Felice alla guerra). Ma può essere il disarmante inferno del tempo: «Perché? Cos’è che nel transitare del tempo mi ha crocifisso, stagnato su una moltitudine di minuzie, ciottolini di un mosaico da irsuto giardino di riviera?». Gli inferni del tempo e del ricordo.
Tu stai parlando con un altro uomo rispetto a quello che ha scritto Felice alla guerra: a quell’epoca ero molto rattristato perché pensavo di vivere nell’epoca peggiore possibile. Ora che la situazione è di gran lunga peggiorata sono divenuto ottimista perché penso che sia un privilegio che mi è dato vivere. Nel peggio puoi vedere la supernova e io mi trovo sull’orlo di questo orizzonte di eventi e posso essere uno di quei minuscoli granelli che costruirà la massa della supernova. All’epoca poi pensavo di aver fatto molti danni, e che dovevo ripulire tutto. Ora so di non avere natura divina e che i danni che ho fatto si ripuliscono da soli, come accade in un giardino abbandonato, dunque veramente libero di essere. Il tempo che ho davanti è poco, ma non c’è l’inferno devastante dell’attesa. Ricordo che da bambino facevo sempre un gioco: mio papà mi dava dieci lire e con queste compravo un chewing-gum a strisce. Ne mangiavo un pezzettino alla volta, per farlo durare più a lungo. Ho imparato a vivere così, dividendo il tempo in tante piccole parti, come se fosse la striscia di chewing–gum della mia infanzia, per dilatarlo sempre un poco. In fondo il tempo è una relazione, che solo se è attiva può essere davvero costruttiva.
«Ti accorgi di esserti ridotto tale e quale alle vedove, con in più il fatto, non trascurabile, che non hai perso nulla di quello che loro hanno perso, ma lo hai semplicemente lasciato alle spalle, strada facendo. Una strada che ti ha portato fin dove sei (…) a stare bene come stanno bene le ortensie (…) Bene come stanno bene le vedove, cespugliacci di edera dura». E così si comincia a «covare il dolore del reietto» (Felice alla guerra). L’io, ovvero l’identità come lacerto marginale, residuale, scarto di questo tempo e di questa storia …
“Io sono i resti”: questo penso di me stesso. Resti sono quelli del Colosseo e quelli che rimangono sulla tavola, al termine di un cattivo pranzo. L’io-me, la mia soggettività sente con ardore il progetto soggiacente ai resti del Colosseo e prova imbarazzo per gli avanzi di molte cene lasciate lì, senza la premura di lavare i piatti subito dopo. Se l’io-me ha una qualche ricchezza è la stessa complessità del Colosseo, compresi i sacchetti della spazzatura a fianco e i gabbiani sugli spalti più alti. L’io-me, a questo punto, non è molto diverso dal corpaccione di Genova, i cui resti non se ne stanno isolati, ma sono usati per costruire molto altro ancora. Ci sono persone che hanno questa saggia eleganza: hanno la precisa coscienza che il loro gesto è iniziato molte epoche fa … Un’ archeologia dei gesti e dell’anima, appunto, è quella che immagino. L’archeologia è una grande scienza, e non consiste tanto nel riportare in vita, quanto nel mantenere in vita le ragioni soggiacenti. Mantenere in vita le ragioni soggiacenti: questo è anche scrivere.