Intervista di Elisabetta Menetti
"Il nemico è una parola che non uso. Nel Sergente nella neve la parola "nemico" non c'è: parlo di "russi", dico "loro" ma "nemico" mai. Per me quelli non erano nemici: quando ero in Grecia o sul fronte francese o in Russia non li consideravo nemici. Il nemico bisogna conoscerlo, bisogna sapere cosa ti ha fatto. Il nemico è uno che ti ha offeso o uno che ti ha fatto del male. Ma loro non mi avevano fatto niente, non mi avevano offeso e allora la parola nemico nei miei libri non c'è."
L'assenza di una parola è segno di una poetica. Nei racconti di Mario Rigoni Stern il silenzio del nemico svela una dimensione umana e disegna i contorni di un immaginario. Per uno scrittore, che dei ricordi di guerra ha fatto uno dei fulcri della propria scrittura, il nemico non esiste. Per l'uomo di neve, che ha raccontato la drammatica ritirata di Russia dei soldati italiani (e tedeschi), il dialogo con l'altro inizia con rispetto, generosità e comprensione. Il nemico, mi dice, è un "termine relativo": il suo significato cambia "a seconda delle prospettive". Durante la guerra in Albania per esempio i nemici "erano quelli che ci avevano mandato a fare la guerra", come aveva già ricordato in un'altra occasione.
Ai nemici si può chiedere permesso: durante la ritirata di Russia (Il sergente nella neve) il sergente maggiore Rigoni chiede di entrare in un'isba, si siede a tavola e condivide con i russi una zuppa. E' un momento rallentato, di magica sospensione.
"E' stata una cosa naturale in quanto non erano nemici: erano persone che stavano mangiando perché avevano fame e io sono entrato a chiedere del cibo e me lo hanno dato. Una cosa molto semplice da spiegare. Me lo ha fatto notare un mio amico che era insegnante in un liceo e che leggeva ogni anno (alla fine del quarto anno) il Sergente e che si è accorto di una cosa molto semplice. Si è accorto che ho scritto: "Busso ed entro". Il fatto sta in quel "busso", perché io ho chiesto di entrare come si fa in una casa di un vicino o di una persona comune: si bussa e si chiede il permesso. E dal momento che si chiede il permesso uno non entra per far del male o per far violenza. Se entra chiedendo permesso entra per essere ospite. Loro lo hanno capito. Sono entrato solo per chiedere qualcosa: ho chiesto da mangiare. E la signora, una giovane sposa russa, ha preso un mestolo di minestra dalla stessa pignatta dove mangiavano i russi e me lo ha dato. Ho ringraziato, ho salutato e sono uscito"
In quella pagina Elio Vittorini ha voluto aggiungere qualcosa: qualche riga di spiegazione. Eraldo Affinati nella prefazione ai Meridiani ha definito quelle frasi come alcune «note di jazz in un coro alpino ». Tuttavia lei ha sempre voluto mantenere la versione redazionata da Vittorini.
"Sì è rimasto così: il Sergente è quello. Così è nato e così rimane."
La memoria mette ordine negli avvenimenti realmente accaduti. Questo nuovo ordine è il racconto: qualcosa di diverso da ciò che è accaduto. Nel ricordare i volti o i corpi dei soldati con i quali si è scontrato che cosa è cambiato e cosa è riuscito a conservare?
"Abbiamo i cinque sensi che ci aiutano a ricordare una immagine o una sensazione. Ha presente l'inizio del Sergente ? "Ho ancora nel naso .ho ancora negli occhi": nessuna situazione è ripetibile in maniera precisa da come è avvenuta però ci sono delle cose che abbiamo recepito in quel momento e che possiamo stimolare nei ricordi in maniera il più possibile precisa ricordando gli odori, un suono o una musica o uno sguardo. Se ne sarà accorta anche lei.se sente una cosa in particolare e che l'ha colpita in un modo particolare, che i suoi sensi hanno recepito, anche lei ritorna immediatamente nel momento in cui l'ha vissuto".
Nella premessa all'edizione Einaudi del 1965 del Sergente nella neve scrive che «in guerra, quando sembra che tutto debba crollare e morire, un gesto, una parola, un fatto è sufficiente a ridare speranza e vita». Bisogna guardare al proprio nemico con generosità e umanità?
"Ma, ripeto, qual è il nemico? Alla parola nemico preferisco dire "quello che ti è di fronte" e che ti può essere avversario. Ma anche io sono a mia volta un nemico: la parola nemico è abbastanza relativa. I nemici sono uomini simili a noi: anzi hanno qualcosa in più di noi. Nel caso di guerra, dove siamo andati noi in quegli anni dal 1940 al 1945 loro avevano qualcosa in più: difendevano la loro terra ed erano dalla parte della ragione. Noi potevamo essere loro nemici. Mentre loro erano nostri nemici nel senso che ci sparavano, ma giustamente anche, non crede?"
Nei suoi racconti si vive attraverso le sue parole la forza dei sentimenti: l'angoscia dell'attesa, la presenza misteriosa dell'altro e la paura.
"Ho provato paura rare volte: si può avere apprensione ma la paura invece è una cosa tremenda che ti fa perdere il senso della ragione. E io nella mia vita di paura durante la guerra l'ho provata solo due volte: una prima volta sul fronte occidentale sulle Alpi e una seconda volta in Russia quando ha sparato la katiuscia. Perché anche quando mi trovavo in momenti difficili l'importante era non perdere la testa. Perché è quando si perde la testa che subentra la paura. E quando subentra la paura si può morire in malo modo. Mentre se uno è cosciente riesce a ragionare: la paura non entra dentro il suo animo, ma non entra neanche quello che stupidamente chiamano eroismo. L'eroismo in realtà è vincere la paura. I gesti eroici non hanno senso."
La generosità e il coraggio di un gesto rispettoso proprio in un momento in cui la violenza o la disperazione sembrano essere le uniche via d'uscita: è un invito a riabilitare se stessi attraverso gli altri?
"Ci sono dei momenti in cui dobbiamo fare i conti con noi stessi oltre che con il prossimo. E in tutte le esperienze drammatiche della vita: la guerra, la prigionia ma anche una crisi economica di una famiglia o un incidente o una malattia. Ci sono degli esami di coscienza che ti portano di fronte ad una realtà e devi essere capace di capire. Ho imparato una cosa: bisogna saper chiedere con le dovute maniere senza violenza. Tornando a quel fatto della ritirata di Russia è molto semplice e chiaro. C'erano alcuni, qualche raro italiano, ma spesso molti tedeschi che quando entravano in un' isba tiravano un calcio alla porta e buttavano una bomba a mano. E i nostri compagni se non buttavano la bomba a mano entravano e cercavano da mangiare in maniera violenta: non uccidevano ma aprivano con dispetto i cassetti di qualche tavolo, guardavano se c'era qualche cosa da mangiare in maniera sgarbata. Ma per me è stato diverso: quando ero bambino mia madre mi ha insegnato che davanti ad una porta chiusa si chiede il permesso."
Il finale del Sergente nella Neve : un'altra magica sospensione. La scrittura è come una cantilena, che incanta. In attesa del treno per l'Italia viene ospitato in un'isba di «gente giovane e semplice». Il sergente maggiore Rigoni, stremato, si sistema una «cuccia» sotto la finestra. Una mamma culla con dolcezza un neonato: canta, parla «armoniosamente» con le sue amiche, sussurra per non disturbare quel ragazzo stanco e svuotato. La voce di quella giovane donna, che si contrappone al rumore della guerra, è come una medicina: «la voce della ragazza era piana e dolce in mezzo a quel rumore». Quella mamma culla il suo bambino e culla anche lei, che è come un bambino.
"Questa è la prima volta che vengo letto così: la mamma cullava il bambino ed io ero come quel bambino. Venivo curato da quella donna che cantava".
Intervista realizzata a Bologna il 9 giugno 2005