Guia Risari è una scrittrice che racconta temi importanti in modo semplice e profondo: i pregiudizi e la violenza, le marginalità e le diversità, i personaggi e le questioni di un complesso Novecento. I bambini e le bambine leggono i libri, sorridono, si commuovono, rielaborano queste narrazioni affascinanti. E anche gli adulti sono catturati dai racconti originalissimi di Guia Risari.
Perciò nel novembre 2020 la ho invitata a tenere una lezione nel corso di “Letteratura, pregiudizi e stereotipi” della triennale di “Scienze e tecniche di Psicologia cognitiva” e di “Interfacce e tecnologie della comunicazione” dell’Università di Trento.
Nei giorni precedenti l’incontro un buon numero di ragazze e ragazzi hanno letto alcuni libri della scrittrice e hanno preparato domande stimolanti, autentiche, sorprendenti, anche perché connesse con un percorso di studi non umanistico[1]. Alcune sono generali, altre si riferiscono a singoli libri, altre ancora si interrogano sulle immagini o suggeriscono ipotesi di libri futuri.
Vale la pena leggere questo dialogo incantevole che, dopo la lezione, Guia Risari ha generosamente proseguito per iscritto, aiutando così studentesse e studenti a “vivere” le ipotesi dello psicologo statunitense Jerome Bruner e di numerosi altri studiosi circa la necessità della letteratura per comprendere meglio se stessi e gli altri[2].
Come e quando ha scoperto le sue potenzialità creative e la via di espressione della scrittura?
Da bambina ho ascoltato moltissime fiabe ed ero molto curiosa; sono diventata una lettrice affamata e per mia grande fortuna, la nostra insegnante ci faceva scrivere moltissimo, in libertà, ogni giorno. Avendo beneficiato io della consolazione delle storie, ho voluto sin da piccola comporre le mie per portare felicità, consolazione o anche consapevolezza e tristezza. Per me la letteratura è una scuola di emozioni.
Perché ha intrapreso questa carriera e come mai ha voluto concentrarsi sulla scrittura di libri per bambini?
Sono arrivata alla letteratura per l’infanzia, passando dalla filosofia, dalla letteratura e dall’insegnamento (insegnavo italiano all’estero). Partire da studi di filosofia morale, in cui il centro dell’interesse è la persona, la sua felicità, il rapporto con gli altri e una società giusta, e arrivare a scrivere testi per giovani lettori mi sembra uno sviluppo abbastanza naturale. Mi stava e mi sta a cuore un’infanzia felice, cui si lasci tutto lo spazio di libertà e immaginazione possibili. A questa preoccupazione sono giunta anche per ragioni personali. Io faccio parte di quelle persone la cui vita è stata salvata dalle storie.
Come la letteratura può aiutare gli psicologi, soprattutto con i bambini? Favole e fiabe possono creare un clima di fiducia durante i colloqui?
La letteratura individua sempre, quando è buona letteratura, dei punti nodali dell’esistenza, sui quali si può lavorare anche in sede terapeutica. In questo certi libri sono dei grandi alleati (vedi il libro di Ella Berthoud e Susan Elderkin, Curarsi con i libri). Quanto a fiabe e favole, possono senz’altro costituire uno spunto, da cui partire coi bambini per un dialogo profondo e ludico. Questi due aspetti in una terapia (o in qualunque attività) coi bambini devono per me sempre andare uniti (vedi i volumi di Margot Sunderland, Raccontare storie aiuta i bambini, e di Pierre Lafforgue, Pollicino diventerà grande)[3].
Quali sono i messaggi che devono essere urgentemente veicolati agli adulti e ai bambini?
Urgentemente occorre riappropriarsi di tanti ambiti fondamentali: il pensiero creativo, l’affettività, il valore degli altri, i fatti che meritano di essere ricordati, la forza ineguagliabile della natura, la capacità di accettare gli altri e se stessi e di migliorarsi. È importante non fare le cose automaticamente e non lasciarsi manipolare.
Ha trovato nel lockdown maggiore ispirazione per i suoi scritti? Cosa la motiva generalmente nella loro composizione?
Il confinamento mi ha reso ancora più cosciente di quante cose importanti – il contatto con gli altri, la natura, il cinema, una serata in compagnia, una passeggiata, un incontro, una scena rubata alla vita – possono improvvisamente mancare e impoverire. Il confinamento non mi ha dato nessuna ispirazione; me l’ha portata via perché la mia motivazione nello scrivere sono, direttamente o indirettamente, gli altri.
I personaggi delle storie sono ispirati a individui reali o totalmente inventati?
In letteratura si mescola sempre realtà e invenzione. Direi che si prende la realtà e la si mescola al sogno, all’immaginazione, al desiderio, all’utopia, ai bisogni insomma della narrazione.
A proposito di Mi chiamo Nako (2020), come si è avvicinata alla storia e alla cultura nomade?
Per i ripetuti contatti per la strada, nella vita, ma anche grazie a opere filmiche, musicali che sicuramente idealizzano la vita dei nomadi. Mai, in ogni caso, pur sentendo commenti razzisti e discriminatori, mi è capitato di condividere queste idee.
Cosa la affascina di più della cultura rom?
La sua vitalità, nonostante tutte le difficoltà di vita (precarietà, povertà, mancanza di istruzione e di cure sanitarie). Il fatto di saper godere di ogni istante, la capacità di trasmettersi tradizioni, storie, competenze anche senza una sovrastruttura che le preservi.
Ha mai potuto toccare con mano cosa significa essere nomadi? Ha potuto parlare e confrontarsi con loro?
Ho soprattutto incontrato nomadi in giro, per strada. I confronti sono stati limitati, ma sempre su un piano egualitario, da pari. Ho sentito che spesso non ero in grado di cogliere alcune cose e che avevo una visione ingenua della vita dei nomadi, un po’ idealista ed edulcorata.
Quali sono le differenze tra zingari, gitani, romanichels, gypsies, manouches, sinti, rom, nomadi e camminanti?
La maggior parte di questi appellativi sono sinonimi e denigratori. Tra i romanì, esistono tre etnie: i rom, i sinti, i kalé, che condividono una stessa radice linguistica. Dopodiché, zingari è una denominazione dispregiativa; gitani si riferisce ai romanì della Spagna; romanichels è un nome dispregiativo francese per romanì; gypsies è un dispregiativo inglese; manouches è un nome francese per sinti. Nomadi e camminanti sono il tentativo di riferirsi ai popoli romanì in modo politicamente corretto. Non tutti i nomadi sono romanì e per i camminanti vale lo stesso discorso.
C’è stato un proverbio che mi ha colpito: “è duro essere povero, ma è ancora più duro essere solo”. Molti di loro non saranno abbienti, ma non sono mai soli; sono costantemente circondati dalla loro comunità. Mentre noi, presi dalla nostra quotidianità frenetica, molto spesso quando chiudiamo dietro di noi la porta di casa alla sera soffriamo del male più diffuso nella nostra società e nella nostra epoca: la solitudine. Tutto questo mi ha fatto riflettere e mi sono chiesta: i pregiudizi, i preconcetti e il disprezzo che vengono scagliati nei loro confronti potrebbero celare una forte invidia?
Certo: fine e giustissima osservazione! Alla base di molti pregiudizi c’è la consapevolezza della propria inferiorità. Così, per non ammettere quel che manca a noi, proiettiamo sull’altro delle colpe, che altro non sono che un’esagerazione dei loro talenti. Lo stesso accadde nei confronti delle popolazioni ameroindiane, degli africani, degli ebrei, degli orientali e, in quest’ultimo periodo, dei musulmani.
Si possono definire i nomadi un popolo libero?
In un altro mondo, forse. In questo, non direi proprio. La loro libertà è fortemente limitata dagli spazi e dai modi a loro consentiti dalla maggioranza, che non intende certo considerare la cultura romanì come un esempio o come una risorsa da preservare.
Perché dei nomadi si parla così poco? Durante gli anni di scuola non ho mai affrontato questo tema in modo approfondito, ma solo superficialmente (persecuzioni naziste). Perché la scuola non interviene su un argomento così delicato e non aiuta nella comprensione di una cultura così varia e complessa? Cosa si potrebbe fare per rimediare?
Si parla poco dei romanì, come si parla poco di tanti popoli che non costituiscono un modello vincente a livello politico-economico. Perché quello che queste culture propongono è un modo totalmente altro di vivere e questo mette in pericolo un sistema che si vuole forte e omogeneo. Per ricordare la vita e la storia del popolo rom (così come di tanti altri popoli), basterebbe introdurre delle ore di “culture dal mondo” e far parlare vari esperti, anche esterni alla scuola ma invitati nelle classi, di questi popoli. Magari invitare anche qualche romanì, armeno, etiope, nativo americano, ebreo, musulmano potrebbe fornire l’occasione per superare le diffidenze nei confronti delle “minoranze”, degli Altri (così diversi e così lontani) e trovare un modo personale di rapportarsi ad altri mondi (e non la risposta stereotipata di ignoranza e diffidenza).
Infine, desidero ringraziarla perché il suo libro mi ha ricordato come - nonostante le differenze di cultura, lingua ed usanze - i sogni, i desideri, le paure degli esseri umani siano sempre le stesse.
C’è comunque una matrice comune a tutti, che andiamo naturalmente verso la vita, il piacere, l’accrescimento, la diminuzione della pena. Poi però i fattori culturali sono importantissimi e possono apportare modifiche sostanziali al modo di vedere e sentire le cose, come sanno gli etno-psichiatri ed etno-psicologi.
A proposito di Ada al contrario (2019), da dove nasce l'idea?
Forse dalla mia logica sovversiva. Spesso mi capita d’interpretare alcune cose in modo opposto alla maggior parte delle persone che conosco. Può essere un’esperienza anche angosciante, ma permette di vedere quel lato che era sfuggito agli altri. Ho provato a immaginare qualcuno che faceva al contrario tutto. Come poteva essere felice? Solo vedendosi accettata.
In Ada al contrario è presente la figura dello psicologo. Diversi bambini fin dalla primissima infanzia vengono seguiti da figure professionali quali lo psicologo o il logopedista, aspetto che per alcuni bambini potrebbe essere visto come una differenza rispetto agli altri compagni. L'inserimento di una figura del genere cosa comporta nel bambino? Cosa invece comporta nel genitore che legge la storia?
Credo che trovare uno psicologo in una storia per bambini possa normalizzare e per il bambino e per l’adulto che gli sta attorno l’esistenza di questa figura professionale e il ricorso a lui. Molto spesso quel che viene taciuto, al contrario, si trasforma nel tabù. “Shht. Non dire che vai dallo psicologo. Se no, gli altri pensano che sei matto.” In questo libro nessuno parla di follia o devianza di Ada. Andare dallo psicologo è normale.
Credo che Ada al Contrario possa essere applicato in modo efficace all’ambito psicologico. Si parla di un tema molto caro al terapeuta: la diversità. Lo psicologo deve affrontare e combattere la stigmatizzazione ed i pregiudizi legati alla diversità tra gli individui.
Molto spesso siamo convinti che ci sia un modo “dritto” di stare al mondo ed un modo “al contrario”. Tuttavia dritto non necessariamente significa giusto o felice.
Ada al contrario è perciò un libro utile anche per gli adulti: si comprende come la diversità sia ricchezza e che un mondo monotono, dove tutti sono uguali, sarebbe noioso.
Sempre più spesso i libri per bambini vengono proposti ad adolescenti e ad adulti in sede terapeutica e non. Credo che ciò avvenga per la loro capacità sintetica di fare emergere alcuni temi difficili da digerire. Sono quindi ottimi alleati – penso – per un lavoro di rielaborazione, di discussione, di creazione autonoma.
A proposito di La stella che non brilla. La Shoah raccontata ai bambini (2019), quanto è stato difficile e laborioso scrivere un libro per bambini che tratta un argomento così importante e delicato?
Non è stato difficile, per me, perché mi ricordo, da bambina, l’estrema serietà con la quale mi ponevo certi interrogativi. E a molti incontri ho visto che i bambini affrontano con coraggio, con apertura, fatti tremendi, a patto però di parlarne davvero, di non nascondersi dietro risposte preconfezionate o palesemente false. Anche un “non so” è più onesto e meglio accettato di un’ipocrita risposta convenzionale.
Il nonno parla in modo quasi freddo, soprattutto all’inizio (quando parla della Shoah in generale, non della sua esperienza personale). Questa scelta è stata fatta per mettere il lettore davanti alla crudeltà dei fatti e per suscitare la sua empatia senza tuttavia farlo soffrire troppo, trattandosi di un libro rivolto ai bambini? È il nonno stesso infatti a dire alla bambina che non deve soffrire (già troppi l’hanno fatto) ma che il suo compito è quello di ricordare, per fare in modo che niente del genere possa mai ripetersi.
Ogni protagonista qui rappresenta un modo di ricordare: i genitori hanno paura di ricordare e trasmettere, il nonno si fa testimone e portavoce (da qui il tono solo apparentemente freddo) e la nipotina è quella che accoglie il ricordo col desiderio di fare, di agire, di trasformare. Non è un caso che il nonno le affidi un seme (il seme della memoria) da piantare e che, negli incontri che ho fatto su questo libro, io spinga i bambini a lavorare a un memoriale della Shoà. Individualmente, ma tutti insieme. E questo “ricordo-attivo” libera dal senso – insostenibile – di impotenza.
Nel libro sono riportati, seppur con un linguaggio semplice e comprensibile, episodi alquanto crudi e realistici, capaci di suscitare forti emozioni anche in un lettore adulto. L’immagine del bisnonno che tornato dal campo di concentramento non parla con nessuno e impiega il suo tempo scrivendo lettere ai compagni morti, fa trasparire le profonde ferite che lascia la prigionia vissuta da milioni di persone nel periodo nazista. Come è riuscita a capire qual è la linea di confine da non oltrepassare per poter riportare eventi così emotivamente pesanti, realizzando comunque un’opera che si riconoscesse nell’ambito della narrativa per bambini?
Non posso sapere se avere evocato l’orrore ha oltrepassato o meno una certa linea. Ma ho verificato che i bambini reggono il colpo più degli adulti. Forse perché questi ultimi si sentono più responsabili per non avere cambiato completamente le cose, mentre i bambini si possono ancora dire (e alcuni lo dicono): “Io non sarò mai così. Io mi ricorderò di questo”. La maggior parte degli adulti invece vuole dimenticare.
I colori utilizzati per le immagini di Gioia Marchegiani hanno una funzione/significato oppure è stata una scelta casuale?
Non posso rispondere per lei, ma credo che la scelta cromatica sia stata dettata dal tentativo di creare un’atmosfera storica un po’ distante e rassicurante. Le stesse immagini con colori vivi sarebbero risultate insostenibili.
I bambini, essendo ancora molto ingenui, non potrebbero avere difficoltà a capire eventi storici/artistici così complessi? Da dove nasce la volontà di scrivere un racconto per bambini che tratta di un argomento tanto delicato quanto importante come quello della Shoah?
Io non credo che i bambini siano ingenui. I bambini pensano alla morte, al sesso, ai rapporti di forza, alla tristezza... Ognuno a modo suo, ma questo accade. Il libro mi è stato richiesto dalla casa editrice e io ho accettato con entusiasmo, tanto più che i programmi ministeriali non prevedono più l’insegnamento della storia contemporanea ai più piccoli, ma si fermano ai romani. Quando ero bambina, abbiamo letto alle elementari Se questo è un uomo e Il Diario di Anne Frank. Non credo che in poche generazioni siano cambiati i bambini. Credo che la volontà di renderci più semplici e ignoranti sia pericolosa e che si travesta da “attenzione alla nostra sensibilità”. Un mondo in cui i bambini vengono privati della conoscenza di alcune cose, tragiche e dolorose, è un mondo che non insegna come rispondere al trauma.
Il libro è stato scritto per favorire una maggior consapevolezza e conoscenza nei più piccoli. Dopo aver letto o ascoltato queste storie, quali sono state le loro reazioni?
Dopo la lettura c’è un gran silenzio, ci sono tante domande, reazioni commosse e la voglia, quasi spasmodica, di fare qualcosa. È in quel momento che convoglio la loro energia verso la costruzione di un memoriale, fatto di disegni, collage, lavori manuali che testimoniano questa tragedia, ma anche il valore del ricordo.
La difficoltà di affrontare questi argomenti si osserva nei genitori di Eva. La loro figura è anche una critica verso chi non favorisce la consapevolezza e la conoscenza del passato con i più piccoli?
Certo: chi pensa che, per non far soffrire qualcuno, deve occultare la verità, è un incosciente perché sta contribuendo a creare una società di persone emotivamente impreparate. Piangere e interrogarsi insieme fa bene, quanto ridere e divertirsi.
Come definisce il finale del racconto? Si può parlare di un libro aperto con un finale aperto che favorisce la riflessione dei bambini e l’atto creativo del ricordare?
Io cerco sempre di creare finali aperti, porte di passaggio alla dimensione personale e creativa. L’idea è proprio questa. Come la bambina pianta il suo seme che diventerà una pianticella, i bambini che hanno letto o ascoltato questa storia, trasformano le loro emozioni in un modo concreto di ricordare: facendo un memoriale tutti insieme, un segnale che il tempo non ha cancellato tutto.
In quale contesto consiglia la lettura di questo libro?
Credo che questo libro andrebbe letto a scuola, ma anche a casa o in biblioteca. Credo che, per questo come per qualsiasi altro libro, si debba creare un’atmosfera complice di ascolto e di fiducia. Credo infine che non si debba leggerlo con la paura di infliggere una sofferenza, ma con il coraggio di far scoprire un pezzo di mondo. Non il più allegro, ma reale anche lui.
Ritiene che la lettura di questo libro possa essere adatta anche a bambini con disturbi dell’apprendimento, autismo o ADHD?
Perché no? Ognuno col suo ritmo e col suo sguardo. La lettura deve essere inclusiva e per fortuna ne ha la possibilità.
Uno degli aspetti più interessanti del libro è l’accostamento insolito delle parole “pianto” e “in silenzio (silenzioso)”. Forse tale accostamento vuole suscitare lo stupore di un lettore adulto, piuttosto che di un lettore più giovane?
Non mi sono rivolta a un lettore adulto. Il pianto silenzioso è quello di un uomo gravato da una tragica consapevolezza da anni. Non scoppia a piangere come chi apprende la verità, come la nipotina, ma cede a una tristezza sommessa, irresistibile. Silenziosa anche per non sconvolgere la nipote e per una forma di pudore.
A proposito di Una gallina nello zaino (2019), la scelta della gallina, e non di un comune animale domestico, ha a che fare con la volontà di “trasgredire” e abbattere i pregiudizi (solitamente la gallina non è considerata particolarmente intelligente, tanto che spesso si usa la metafora “cervello di gallina” per indicare una persona non troppo intelligente)? Oppure la gallina era più semplice da gestire all’interno della storia per le sue caratteristiche (piccola, non particolarmente impegnativa)? Oppure c’è qualche altro motivo?
Un po’ tutti questi motivi sono presenti: far rivalutare l’intelligenza di una gallina è già un piccolo atto contro i pregiudizi e consentire a un bambino di città di nascondere un animale mi obbligava a sceglierne uno piccolo. In più c’è l’aspetto della gallina che è buffo e, se la rende per tante cose diversissima da noi, ne fa anche una sorta di doppio (pensate al suo essere bipede).
Perché la scelta di introdurre nel testo vari discorsi diretti in cui anche la gallina, attraverso il suo linguaggio non del tutto comprensibile, si esprime? C’è una volontà nascosta di coinvolgere il bambino, ad esempio immaginando la voce della gallina?
In letteratura, un discorso diretto rende immediatamente partecipi dell’azione che si svolge sotto i nostri occhi. Questo libro volevo costituisse un’avventura in campagna e in città. Per questo ho usato il presente e tanti discorsi diretti che, in più, hanno dato voce all’ultimo animale che si penserebbe parlante. Mi piaceva anche pensare che il piccolo lettore potesse vedere che, anche se uno parla male o si sbaglia, quel che dice può essere vero e saggio.
Mi chiedevo inoltre perché le immagini che accompagnano la storia sono così caricaturali
Sulle immagini, un’autrice di testi può fare ben poco. Per politica editoriale, è l’editore che sceglie l’illustratore e ne cura il lavoro. Anche io non vedevo i miei personaggi come caricaturali e, in generale, non sono d’accordo col ricorso a un tratto grottesco. Trovo che sia come fare una battuta grossolana invece di parlare. Spero comunque che, al di là delle immagini che accompagnano un libro, un lettore sappia sempre evocare una propria visione delle storie senza essere succube rispetto ad un’interpretazione visiva data. Questa era d’altronde la ragione per cui Bruno Bettelheim era contrario alle illustrazioni[4].
A proposito di I tre porcellini d’India (2017), l’obiettivo è insegnare ai giovani lettori che la violenza non è necessaria per affrontare le difficoltà e che per sconfiggere i cattivi (o quelli che semplicemente si atteggiano da cattivi, come questo lupo) sono molto più utili la creatività e il lavoro di squadra?
Sicuro, ma poi ci sono delle frecciate anche alla logica xenofoba del lupo che va ad assalire i nuovi arrivati, stranieri, perché sicuramente non sono informati delle storie che lo riguardano. C’è anche una piccola utopica nota finale: cambiando aspetto, colori, atmosfera, compagnia, il lupo può dimenticare la sua vocazione di predatore.
A proposito di Il viaggio di Lea (2016), mi chiedo se la scelta di fare incontrare a Lea personaggi accoglienti e positivi sia diretta ai bambini affinché crescano con la fiducia nell’umanità o piuttosto agli adulti che, leggendo il racconto, ritrovano quella speranza e positività che ormai da anni avevano dimenticato e che contraddistingue la genuinità dei più piccoli.
Questo è un libro rivolto ad adolescenti o preadolescenti. È una fase della vita nella quale spesso non ci si fida più degli adulti. Anche per Lea vale la stessa cosa, perché né il nonno né altri rispondono alle sue domande fondamentali. E allora io ho sottolineato come solo una cosa possa consolare la giovane protagonista: l’incontro e le risposte libere e sincere di sconosciuti. Sono tutti o quasi personaggi positivi e disponibili e questo, come osservavi giustamente tu, è finalizzato a ricostruire quella delicata trama che è la fiducia negli altri.
Perché è proprio la figura della morte, che rappresenta ciò che più spaventa e intristisce Lea, a spiegarle l’essenzialità della sofferenza nella nostra vita? Vuole forse intendere che della vita dobbiamo cogliere ed apprezzare tutto? Che la felicità e la sofferenza sono due parti di una stessa medaglia che risulterebbe incompleta se una delle due facce venisse a mancare?
Sono vere tutte le tue ipotesi. La morte, in filosofia si dice spesso, è la verità dell’esistenza. Ogni cosa è viva perché muore e muore perché è viva. Le due opzioni sono la stessa verità. E a volte si parte da quella che ci fa meno paura per interrogarci. Mentre dovremmo partire dalla fine per capire il senso di tutto.
Perché ha scelto proprio il gatto come “animale guida” e compagno di viaggio di Lea? Potrebbe essere un riferimento alla credenza che i gatti abbiano sette vite e che proprio per questo Porfirio non abbia un’unica visione delle cose e del mondo?
Ho scelto il gatto come “animale-guida” perché ho vissuto tanti anni con i gatti e li conosco bene. Possono essere animali amorevoli, ma c’è sempre una parte in loro, materialista e indomabile, che li porta a farsi i fatti loro e a infischiarsene degli altri. Mi piaceva un personaggio così, un po’ cinico, maneggevole, e in fondo più sensibile di quel che voleva. Nel viaggio di Lea, lei diventa più adulta e disincantata, lui più affettuoso e sensibile. Ho pensato anche al lato magico e un po’ eterno del gatto e mi è parso il perfetto viaggiatore, nel tempo e nello spazio.
Pensa che ognuno di noi possa riuscire ad intraprendere un viaggio come quello di Lea? O che solo alcune persone ci riescano davvero?
Credo che ognuno di noi faccia continuamente dei viaggi. Anche quelli nella quotidianità o per andare incontro a un altro sono viaggi. E sì, penso che sarebbe una bella esperienza per tutti preparare uno zaino e partire incontro alle proprie domande. Qualche risposta sono certa che ognuno la troverebbe.
Per quanto riguarda Il viaggio di Lea, si può definire la sua avventura come un viaggio interiore verso una maggior consapevolezza della vita? Una crescita che avviene grazie all’esplorazione, alla curiosità e alla voglia di confrontarsi? Si può parlare di una specie di processo di agnizione, in cui Lea è un personaggio tondo che matura?
Sì. È quel che in gergo letterario si chiama “romanzo di formazione” che è un grande alleato quando si ha a che fare con lettori in crescita o soggetti turbati da qualcosa. Il protagonista, in questo caso Lea, all’inizio e alla fine della sua avventura è cresciuto, non è più la stessa persona. Anche se il viaggio è durato mesi o giorni, il tempo di maturazione è stato accelerato.
A proposito di Il Decamerino (2015), la storia di Mario mi ha colpito profondamente e l’ho subito interpretata alla luce di un disturbo del comportamento alimentare (DCA). Una fame insaziabile è sintomo di una mancanza, di un vuoto, che viene solo momentaneamente colmato da grandi quantità di cibo, ma che resta latente perché la causa non è fisica ma psicologica. Immedesimandomi in un bambino con un DCA a cui viene letta questa storia, la mia reazione è la paura: “finirò anch’io per distruggere tutto quello che ho e a cui voglio bene se continuo ad abbuffarmi?”
Forse. Ma forse il bambino affetto da DCA potrebbe elaborare una strategia alternativa che gli permettesse di evitare l’autodistruzione. Bisognerebbe che riscrivesse la storia con la consegna di far sopravvivere il Principe Gandolfo.
Se da una parte vedo in questa inquietudine un’opportunità per comprendere di avere un problema e chiedere aiuto, dall’altra temo la distruzione dell’autostima del bambino. Quella che sembra una fiaba non finisce con un lieto fine e una soluzione che faccia vivere tutti felici e contenti! Come può il bambino trarre speranza ed elaborare in modo funzionale la storia?
Le storie non finiscono tutte in modo rassicurante. Anche in quelle classiche, magari c’è un trionfo da una parte e un massacro dall’altra. Poi c’è la possibilità di fare rielaborare il finale che si trova disturbante. Ma prima conviene chiedersi e chiedere: è davvero disturbante per il bambino?
Come si può spiegare la contrapposizione tra adulti e bambini? I primi ripetono le storie a memoria, sempre nelle stesse sequenze e con le stesse parole. Sembra che non credano a ciò che raccontano e tale finzione è trasmessa ai bambini. Questi, invece, sono più flessibili, perché inventano storie diverse, incomplete, che nascono dalla propria esperienza, ad esempio da un incontro. Inoltre sono loro che pongono le domande più importanti, che applicano la storia alla loro vita, che fanno ipotesi su come potrebbe continuare e come avrebbero agito al posto del protagonista.
Gli adulti si irrigidiscono. Pur possedendo tutte le capacità emotive, psicologiche, intellettuali per affrontare qualsiasi ipotesi, finiscono per privilegiare pochi moduli comunicativi poco “dispendiosi” (in termini psichici) e sclerotizzare le loro capacità. I bambini si giocano interamente, non si tengono buoni per dopo. Mobilitano tutte le loro energie e facoltà e si pongono al servizio di una storia che sentono o che inventano. Certi miei libri sono stati capiti prima di tutto e meglio dai bambini che dagli adulti. E quando chiedevo ai bambini che tipo di storia volessero ascoltare (comica, storica, fantastica, tragica), spesso mi rispondevano in coro e contenti: “Tragica!”. La sofferenza non li spaventa: è nient’altro che una possibilità.
Ritiene che introdurre esercizi di riscrittura in età scolare possa essere utile nella prevenzione di alcuni disturbi psicologici?
Riscrivere delle storie o scriverne e inventarne delle nuove è un grande esercizio di liberazione e di esternazione delle difficoltà. Credo che la scrittura creativa dovrebbe far parte integrante dei programmi scolastici e che l’animatore potrebbe lavorare insieme a uno psicologo per individuare disagi e problemi.
Demonizzare completamente gli stereotipi non credo sia però la soluzione: questi sono semplificazioni della realtà e per questo di facile comprensione. Ritiene sia possibile strumentalizzare gli stereotipi per renderli funzionali?
Gli stereotipi non vanno demonizzati, vanno però individuali e valutati. Sono utili? Mi portano avanti? O mi precludono un accesso libero alla realtà? Per me, già sostituire a stereotipi pericolosi stereotipi più “maneggevoli” è un grande risultato. La consapevolezza dei propri e altrui pregiudizi è o dovrebbe essere alla basa di un’autentica formazione.
Nella sezione Per saperne di più lei afferma che una storia è autentica, se è capace di ricreare un mondo e trasportarvi chi legge. Questo è ciò che accade a tutti i bambini durante l’ascolto delle storie. Infatti, poi pongono molte domande che nascono dal loro profondo interesse per la storia in sé e per i personaggi e per i luoghi. Secondo lei, più risposte si danno e si ascoltano più ci si avvicina alla verità? Questo scambio di domande e risposte alla fine di una storia può davvero aiutare a combattere gli stereotipi così impressi nella mentalità collettiva? Un esempio è il racconto del Capitan Eola, al termine del quale i bambini discutono sullo stereotipo della tipica principessa in contrapposizione alla figura nuova di una piratessa.
Secondo me da un dialogo intenso, sincero, fatto anche di opposizioni e liti, ma sempre animato da interesse e rispetto, nascono grandi cose. Prima di tutto, alcuni dubbi rispetto alla propria visione del mondo e a quella degli altri. E da lì, quando il castello inespugnabile vacilla, può nascere una visione del mondo forse più modesta ma più reale. Più i punti di vista aumentano, maggiore è lo scambio e la possibilità che una mediazione tra le varie opzioni porti tutti più in là.
A proposito di Il taccuino di Simone Weil (2014), Simone Weil afferma che “senza pensiero libero vince la forza”. Le volevo chiedere qual è il ruolo del suo libro, o più in generale il ruolo della letteratura e dei romanzi filosofici, nell’avere un pensiero libero, un pensiero non stereotipato?
La filosofia o i romanzi filosofici dovrebbero insegnare indirettamente la relatività di ogni pensiero e la possibilità di concepirne altri altrettanto validi. È insomma una scuola di ascolto e di rispetto degli altri. Senza libero pensiero, non ci resta che obbedire al comando del più forte ed è la tirannia a vincere.
Weil è una persona unica, singolare, eccezionale non solo sul piano filosofico e religioso ma anche sul piano umano: ha dimostrato attraverso i suoi gesti (il lavoro in fabbrica, la rivoluzione, la resistenza) una straordinaria coerenza tra il pensare e l'agire. Weil quindi insegna che la filosofia è un genere, uno stile di vita. E non che sia soltanto qualcosa che si faccia a “tavolino”, che rimanga tra i banchi di scuola o nelle biblioteche. Volevo chiederLe anzitutto se concorda con la mia riflessione.
Ci sono pensatori che hanno trascorso tutta l’esistenza a tavolino (e hanno magari detto e scritto splendide cose) e altri, come Weil, che si sono gettati nella mischia della vita. Altri sono stati incoerenti nella loro esistenza; altri hanno agito in pieno accordo col loro pensiero. Credo che tutti noi dobbiamo muoverci verso un’ideale coerenza, ma non essere fedeli a un sistema di pensiero al di là e al di sopra delle nostre forze. Si deve anche prendere in conto la nostra debolezza, che fa parte di una vita umana.
E poi volevo chiederLe se secondo lei la letteratura può essere utilizzata come cura? Non è forse un insegnamento psicologico, oltre che filosofico e sociale, quello di Weil?
Voi certo sapete che c’è chi fa della musicoterapia, chi utilizza percorsi cinematografici per arrecare sollievo ai pazienti-spettatori. Aristotele parlava dell’effetto catartico delle tragedie. E anche i libri, come forma di narrazione, possono curare o “coscientizzare” i suoi fruitori. Credo che importante sia la fase rielaborativa: essere in un contesto che favorisca l’emergere di certe paure, fragilità, angosce, senza demonizzarle. Quanto a Weil, è una figura molto complessa non solo come pensatrice, ma come essere umano. La sua infanzia e adolescenza offrono chiavi interpretative che mi spingono a pensare a lei come a una vittima del proprio pensiero, che non ha mai avuto una vita sentimentale e cui è mancata la volontà di sopravvivere. Un insegnamento psicologico, quindi, da maneggiare con grande cura...
A proposito di La coda canterina (2010), nel libro viene affrontata la tematica delle ambiguità fisiche da parte di persone povere. Mi chiedevo se lo stesso problema avrebbe potuto essere affrontato diversamente da parte di una famiglia ricca... per esempio ricorrendo a una tematica molto in voga negli ultimi anni: la chirurgia estetica! Non penso ci sia una risposta chiara e precisa a questa domanda, ma ritengo che ai nostri giorni lo stereotipo della perfezione estetica sia un pregiudizio ancora troppo forte.
Affrontiamo indirettamente la chirurgia estetica con questo testo perché i bambini mi chiedono sempre se non si poteva tagliare la coda e io rispondo di no e spiego i motivi (violenza, dolore, coda dei cani...). La povertà di questo paesino è quello che forse induce gli abitanti a cercare una risposta fuori di sé, a mettersi in gioco e a riconoscere tranquillamente poi che si erano sbagliati (anche se non lo formulano). Comunque uno degli insegnamenti indiretti di questo libro è proprio accettarsi anche con piccole mostruosità.
A proposito di Il cavaliere che pestò la coda al drago (2008), ritengo questo racconto molto utile in ambito psicologico soprattutto nel momento finale di "laboratorio" (quando si chiede ai bambini di rappresentare quello che per loro potrebbe essere un mostro). Infatti, la rappresentazione di un mostro dal volto umano potrebbe essere in grado, secondo il mio parere, di rivelare abusi e/o violenze; subite su di sé o su persona vicina.
Verissimo. Perché dietro l’apparenza di una storia divertente e di una carrellata di mostri, si nasconde un vero e proprio lavoro sulle paure, su quel che ci perseguita. E in vari laboratori ho visto un po’ di tutto: grande serenità e grandi tormenti.
E ancora: in quanto futura psicologa tengo anche a chiedere se ha delle suggestioni da lasciare a noi futuri specialisti. E, inoltre, quali filosofi, letterati o quali racconti, possono essere particolarmente utili per stimolare delle nostre riflessioni?
È fondamentale per uno psicologo avere accesso alla filosofia, alla letteratura e in generale all’arte per tutte le corde profonde che queste discipline toccano, per come insegnano ad affrontare i problemi o descrivono situazioni limite. Tra i filosofi, consiglio pensatori singolari più che i costruttori di sistemi: Nietzsche, Kierkegaard, Schopenhauer, Bergson, Buber; tra gli scrittori, Steinbeck, Faulkner, Mansfield, Poe, Wolf, London, Dostoevskji, Svevo, Ortese... Ma poi ci sono scoperte che si fanno da sé, passando da un libro all’altro, e rendendosi conto che magari un libro trascurabile, per nulla famoso, dice e contiene tanto.
Dopo aver ascoltato la presentazione mi sono chiesta... Come mai scrive su temi tanto complessi e di attualità? Il diverso, l'ecologia, i traumi o la shoah sono argomenti difficili da affrontare persino agli adulti; eppure con leggerezza velata li sfiora e ne parla ai bambini. Queste scelte tematiche sono richieste dalle case editrici per avvicinare i bimbi a questi mondi oscuri o sono una sua scelta? Sono temi a lei cari e che in qualche modo l'hanno toccata in prima persona?"
I temi di cui mi occupo mi sono particolarmente cari e non sono, tranne un paio di eccezioni, una richiesta da parte delle case editrici. Quando ero piccola e vivevo una situazione molto difficile, alcuni racconti mi hanno parlato come le persone non hanno saputo fare, in modo diretto ma al tempo stesso metaforico, e chiedendomi in cambio solo di rielaborare in modo personale quel che mi arrivava alla mente e al cuore. Ho saputo da allora che si poteva parlare con la stessa intensità, ovvero si può scrivere. Io penso che ognuno tenga particolarmente a certe cose. Quando se ne rende conto, deve impegnarsi a dedicarsi a ciò che ama con grande slancio e autenticità. Qui è il segreto di una vera trasmissione.
Durante la presentazione Lei ha detto chiaramente che le illustrazioni sono un valore aggiunto. Però il disegnatore è un'altra persona, non è lei... Riesce a parlare con colui/colei che disegna per spiegare la sua visione? O a volte si è ritrovata con illustrazioni completamente diverse da come immaginava e le è parso non fossero giuste per il suo lavoro? O ancora al contrario ha avuto esperienze molto positive con illustratori che hanno compreso a pieno il significato che voleva trasmettere? Ho notato che le illustrazioni, di accompagnamento ai suoi racconti, sono molto importanti e spesso sono particolari. Questo più per i libri esteri (dalle altre lingue) rispetto ai libri prodotti in italiano... Crede ci sia una differenza a livello editoriale tra l'Italia e gli altri paesi?
Non è pratica editoriale purtroppo lasciare che lo scrittore abbia una parte attiva nel processo di illustrazione. E questa è una grossa pecca del sistema. Spesso l’illustratore non ha la stessa preparazione dell’autore: coglie alcuni aspetti, ma non magari quelli che per l’autore sono essenziali. Il risultato è che quasi mai l’illustrazione corrisponde all’immagine mentale che mi ero fatta di una storia e di un racconto. A volte sono comunque contenta del risultato; altre volte francamente delusa e infastidita. Cerco comunque di riappacificarmi anche con quelle immagini che mi sembrano estranee e persino insultanti perché non aprono l’orizzonte, ma lo rimpiccioliscono. Quando sono riuscita a dialogare con l’illustratore/illustratrice, il risultato per me è stato molto più armonioso. All’estero non c’è un sistema diverso. Ci sono casi particolari in cui al testo e all’illustrazione viene dato più peso e si chiede agli autori di motivare le loro scelte.
Frequentando il corso di Interfacce, un percorso di studio più tecnologico e meno psicologico, riflettevo su come le parole riescano ad essere nascondigli... Le parole nascondono metafore e collegamenti intertestuali; le immagini al contrario sono meno oscure, ma sono più libere di interpretazione... A livello del mio corso di studio mi chiedevo se mai sarà possibile rendere la immagini e le interfacce più indirette, per permettere la stessa leggerezza di significato che danno le parole.
Le parole sono polisemiche. Ma anche le immagini possono esserlo. Il problema è che viviamo in un mondo che prende scorciatoie perché non vuole comunicare (a livello profondo), ma dire e indurre rapidamente, per cui la parola rischia di diventare slogan e l’immagine, più manipolabile ancora, si appiattisce a bello specchietto per le allodole. Questo vale enormemente in rete, su Internet e i social, ma vale anche per i libri illustrati. Bisogna quindi costantemente lottare per la profondità: mantenere una parola ricca e ambigua, scegliere un’immagine simbolica e non scontata.
In ultimo punto volevo chiederle se scriverà mai un racconto sulla tecnologia... Credo che ai bambini vadano mostrati anche i pericoli della tecnologia, magari mediante la letteratura. Questo perché più passa il tempo e il mondo diventa informatizzato, più l'età dei bambini in internet è bassa ed è necessario vengano avvertiti dei rischi nel mondo virtuale... Magari lei con la sua scrittura velata riuscirà in questa impresa.
È un ottimo spunto. La tecnologia serve, ma inghiotte e spesso sostituisce. Le ore di gioco, vicinanza e anche (sana) noia, d’invenzione, di pensiero o contemplazione vengono sostituite da una ricezione passiva di stimoli per la maggior parte virtuali. Il rischio è di indebolire non solo la capacità intellettiva (a risolvere veri problemi, ad esempio), ma anche affettiva e relazionale, riducendo l’empatia e la capacità di rispecchiarsi nell’altro. È un rischio che non bisogna correre; quindi le storie raccontate, lette, agite insieme (anche sotto forma di rappresentazione teatrale e di gioco) possono combattere questa tendenza all’isolamento e alla chiusura su se stessi. E prima si comincia a creare il piacere dell’ascolto e del racconto, meglio sarà per delle persone che in futuro non rifiuteranno il dialogo.
Ecco infine il commento dell’autrice:
Le vostre domande, così ricche, diverse e personali testimoniano tutte una grande ricerca di senso e una capacità non comune di mettersi in gioco. Queste due cose sono forse tra le doti più grandi che gli esseri umani possano avere e senza dubbio caratteristiche fondamentali per un terapeuta. Uno psicologo, per me, va verso l’altro, ma senza sventolare una verità preconfezionata. In attesa, invece, di scoprire nella relazione dove sta la verità relativa che creerà un nuovo gioco, un dialogo, un altro livello d’intesa.
La mia non è una definizione tecnica; è più filosofica, più narrativa. Prendetela come una suggestione.
Guia Risari, 13 novembre 2020
[1] Caterina Beltrame, Gianmarco Bruseghini, Chiara Cariolato, Alissa Degiorgio, Sara Delpero, Alessandra Detomas, Laura Franzoi, Asia Scianti Manzini, Valeria Mazzel, Matilde Piccoli, Giulia Polli, Rachele Pretato, Beatrice Rossi, Ilaria Sperotto, Giona Taraschi, Alessia Tormen.
[2] Cfr. almeno J. Bruner, Life as Narrative, in «Social Research», 54 (1987), pp. 11-32; M. Cometa, Perché le storie ci aiutano a vivere, Milano, Cortina Editore, 2017.
[3] Cfr. E. Berthoud, S. Elderkin, Curarsi con i libri. Rimedi letterari per ogni malanno (2013), trad. it. Palermo, Sellerio, 2019; Margot Sunderland, Raccontare storie aiuta i bambini (1997), trad. it. Trento, Erickson, 2004; Pierre Lafforgue, Pollicino diventerà grande.Racconti che fanno crescere (1995), Assago (Mi), Magi, 2005.
[4] Cfr. B. Bettelheim, Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe (1976), trad. it. Milano, Feltrinelli, 2018.