Gina Bellomo - «La / parola-ramo / che ci tiene» e «La lingua / che traccia il / proseguire»

Dialogo con Elisa Biagini tra poesia e arti visive

 

Nell’opera di Elisa Biagini il corpo e la parola diventano un unico mezzo che scava e segna la traccia dell’incontro con l’altro, cercato talvolta con sofferenza ma con l’obiettivo di un incontro sempre garante di energia vitale e di sommovimento fisico e intellettuale. L’altro è imprescindibile nella poesia di Biagini: esso è l’orizzonte a cui tendere e l’intimità alla quale anelare; tuttavia, non è mai separato da noi: nel momento in cui iniziamo a essere consapevoli della necessità dell'incontro con l'altro comprendiamo che la realtà attorno a noi si muove e si esprime attraverso un linguaggio che è poroso e incline alla fusione. Il confine tra il dentro e fuori cede e l'avvicinarsi all'altro per toccarlo e percepirlo è il principale e più efficace modo di conoscere egli e noi stessi, in quanto il corpo è, come il linguaggio, un confine permeabile. Da questa consapevolezza – che è apertura all'esperienza fisica, emotiva e intellettuale – scaturiscono emozioni forti come terrore, ansia ed eccitazione, eppure vale la pena abbracciare tale fatica e assumere tale atteggiamento di ascolto se si vuole vivere pianamente e non solo – come precisa Biagini – sopravvivere. Se la realtà è permeabile, se il corpo è permeabile, allora lo sarà anche la qualità espressiva di ogni creatura: da qui la centralità del linguaggio come mezzo fluido e agglomerato di atomi che si incontrano e scontrano cercandosi senza sosta. La parola e la voce, garante del legame della prima con il corpo, riescono a essere una certezza per l'uomo e un punto fermo nella definizione di ciò che è umanità sotto ogni forma espressiva, motivo per cui il lavoro di Elisa Biagini si estende anche alle arti visive e alla musica, all'insegna di un’interdisciplinarità che con impegno politico e civile sceglie di scagliare il proprio messaggio nel mondo tendendo la «parola-ramo» verso l'altro, una parola il cui beneficio non può essere che comunitario. Da qui l’importanza a livello creativo della dimensione laboratoriale, un momento in cui si perdono le tracce di un'identità rigida, monolitica e refrattaria e con gioia e responsabilità si offre a se stessi e all'altro la possibilità di conoscersi e di esprimersi interamente con l’obiettivo di vivificare una conoscenza che ci investe così profondamente da tradursi in costante esperienza del sé, dell’altro e del mondo. L’opera di Elisa Biagini si fa portavoce di un messaggio di umanità che non punta a costruire sovrastrutture che confondano l'altro con una comunicazione sovraffollata, consumista e fittizia, ma a scavare nella pagina attraverso l’ossessivo caos linguistico della contemporaneità per trovare ciò che è autentico, ciò che è schietto, ciò che esiste “verticalmente”. Il valore dell'umano ne viene accresciuto non in senso prevaricatorio ma comunitario poiché attraverso lo scandaglio delle sue componenti più essenziali riparte il circolo della ricerca e della conoscenza. Il corpo, la parola, l'espressione, il contatto con l'altro, l'apertura al confronto non sono talismani o messaggi salvifici ma sono rami a cui aggrapparsi sempre insieme all'altro come mezzo e fine: sono orme dentro le quali trovare il nostro spazio di carta e carne, frammenti di versi da terminare con le nostre parole, suoni e filamenti liberati «di radici e verbi in un'unica scossa».

In quest’intervista svolta su Zoom nel pomeriggio del diciannove novembre 2021 rifletto su questi temi con Elisa Biagini tra arte e poesia concentrandomi soprattutto sulle due raccolte a cui si legano la maggior parte dei suoi lavori artistici, nonché le più recenti, ovvero Da una crepa e Filamenti, sul saggio realizzato con Antonella Anedda e Riccardo Donati Poesia come ossigeno e sulla mostra di Biagini con Sabrina Mezzaqui “c’è qui nell’aria la parola-ramo” in corso fino al quattro dicembre 2021 presso la Galleria Continua di Roma.

 

 

D:        Nella raccolta di poesie Da una crepa il nodo centrale del suo discorso è già sintetizzato nel titolo: la crepa è infatti chiave di lettura e punto di vista privilegiato, spiraglio e fenditura da cui è possibile partire non per cercare un annullamento nell’abisso e nel vuoto, ma per fare un passo avanti verso l’altro, per seguire la traccia dell’oltre fino alla «pausa» di spazio e tempo in cui è possibile riconoscere e incontrare noi stessi e i nostri simili, un luogo sospeso di cui bisogna avere cura e nel quale si sperimenta una sorta di raccoglimento – per usare un termine che ricorre nel saggio da lei scritto insieme ad Antonella Anedda Poesia come ossigeno, di cui si parlerà più avanti – in preparazione di un contatto destinato a cambiarci irreversibilmente. Che valore ha l’incontro con l’altro nella sua poesia? Quali sono le forme di questa attrazione atavica che ci conduce verso uno sconosciuto che tuttavia è tanto simile a noi?

 

R:        La tensione verso l’altro è assolutamente centrale. L’altro può essere l’altra parte di se stesso, può essere un altro dell’ambito familiare, può essere un altro apparentemente lontano nel tempo e nella geografia ma che sentiamo molto vicino nella visione del mondo…quindi questa tensione è imprescindibile. Il linguaggio è tensione verso l’altro: si produce proprio perché si vuole creare una relazione o almeno un tentativo di relazione. Questo sarà il nodo centrale, che inequivocabilmente potrebbe essere fallace ma fa sì che nonostante questa consapevolezza noi dobbiamo ricercare l’altro perché nel fare questo usciamo da noi stessi e ci interroghiamo sulla nostra identità proprio nel momento della relazione: io esisto nel momento in cui cerco l’altro e dall’altro sono riconosciuto. Tutto quello che il linguaggio fa in termini di avvicinamento e riconoscimento è una dimensione assolutamente centrale, che nel mio lavoro ha preso varie direzioni: la forma è quasi sempre quella poetica e in parte quella installativa ma principalmente legata alla questione del linguaggio, il quale sappiamo che è un’approssimazione, una convenzione, quindi questo nasce inevitabilmente non preciso e non efficace, ma muta nel procedere perché è creatura viva e nel momento in cui si stabilisce questo tipo di relazione naturalmente la lingua si evolve e prende anche strade impreviste, ed è qui che sta la bellezza: nel momento in cui io scrivo un testo e il testo mi convince, allora io lo licenzio, cioè lo mando nel mondo, allora è chiaro che questo e il suo linguaggio assumono una dimensione e una vita diversa da quella che magari avevo pensato andando incontro agli altri e gli altri – ognuno di loro – ne faranno ciò che credono: io scrivo un testo e su quello ho una mia idea perché su quello voglio agire; nel momento in cui viene recepito giustamente ognuno ne farà quello che crede. La cosa importante è che produca un qualche sommovimento o turbamento; se il testo non lo fa, il testo è morto, cosa che purtroppo accade con moltissima poesia contemporanea. Invece, se un testo è un minimo generatore di pensiero, generatore di dialogo, esso produrrà una serie di domande e di riflessioni che saranno quelle che stanno più a cuore a chi lo riceve, anche data la sua storia personale. Questo è assolutamente centrale. C’è sempre l’altro: anche nel momento della scrittura c’è sempre un “tu”, che sia poi nominato, indicato o meno c’è sempre un “tu”…se non altro gli altri dentro di te: sei l’altro “io”, sei l’altro “tu” dentro di te con cui ti confronti. Poi ci sono tutta una serie di figure: sia in Da una crepa che in Filamenti io ho chiamato in causa persone della mia famiglia ma anche personaggi della storia della letteratura, quindi è ovvio che sono più precisi ma a loro volta non sono mai solo loro. A me interessa chiaramente ragionare con Emily Dickinson perché a sua volta lei è stata generatrice di un certo pensiero, quindi diventa un’amplificazione di “tu”. C’è il momento – se vogliamo – solitario della scrittura ma, come io ho già detto in altri contesti, non si è mai soli nella stanza, c’è sempre un sacco di gente: ci sono le letture antiche, le letture recenti, gli artisti che ci hanno accompagnato, le figure a noi vicine, i desideri sul futuro, le proiezioni…dunque è chiaro che è molto affollato lo spazio: c’è una pluralità di “tu” con un valore e un’intenzione spesso diversi. Potenzialmente si spera di innescare un circolo virtuoso, un effetto valanga in modo che si continuino a generare altri stimoli.

 

D:        Un aspetto fondamentale della raccolta e, in generale, della sua poetica è l’attenzione verso la corporalità. Gli oggetti vengono personificati e viceversa le parti del corpo oggettificate esplicitandone la fisicità, la materialità e la texture con l’intento di ribadire costantemente il potere conoscitivo della percezione, così che si potrebbe individuare una chiave di lettura della sua opera nel binomio paronomastico “carta/carne”. Tutto ciò si lega profondamente alla pratica della scrittura e del fare letteratura, tanto che la parola si concretizza e partecipa di questo corpo-linguaggio che è espressione astratta e concreta dell’uomo e del reale. La consapevolezza di questa consustanzialità non genera confusione identitaria ma accresce la fiducia nel potere del linguaggio e nella sua persistenza: la parola di cui lei ci racconta è infatti un corpo magmatico e permeabile, che porta dunque a confondere la «soglia […] tra parola e corpo», come dice lei stessa in Poesia come ossigeno. Cosa ci dice questa corporalità condivisa tra tutti i componenti del reale del rapporto che siamo chiamati a intrecciare con l’altro? Che conseguenze ha l’affermazione di una tale caduta delle gerarchie e della conseguente “orizzontalità” dell’uomo? Che implicazioni etiche e politiche ha un simile atteggiamento rispetto al fare letteratura?

 

R:        La domanda contiene in sé già la risposta: hai individuato i vari aspetti, ovvero la dimensione porosa sia della lingua che del corpo e quindi una continua contaminazione, un continuo dialogo. Non bisogna porsi assolutamente mai in una dimensione verticale e gerarchica rispetto al racconto del mondo, al racconto del corpo, che comunque è il nostro primo filtro con il mondo e dunque è il nostro filtro di partenza per qualsiasi indagine sul sé, sull’altro e sul mondo. Non può che partire dal corpo. Come sempre poi è inutile parlare del corpo in toto perché se lo facciamo diventa di nuovo astratto, ma partendo dalla concretezza delle singole parti possiamo poi tentare – da qui la dimensione post-moderna del frammento – di ricostruire un intero che sarà – a seconda del contesto, a seconda delle esigenze, a seconda del lettore – un intero diverso e avrà una diversa funzione. Questo è fondamentale. Nella copertina di Filamenti io dico «esserci / nell’assenza, / verticali»: in quel caso la verticalità non è una dimensione gerarchica ma è la dimensione dell’essere pienamente con i piedi sulla terra, una verticalità nel senso di contatto che non è assolutamente un tendere al cielo in termini spirituali. È una dimensione invece politica, è un gesto di responsabilità, di presenza piena: l’esserci con tutti i sensi. Questa è la grande tragedia cartesiana: la conoscenza deve passare attraverso le viscere, deve passare attraverso il cervello per poi trovarsi in un punto centrale che è appunto il cuore. Un sapere attraverso l’osservazione, attraverso l’ascolto, attraverso i tempi lunghi, cosa che oggi è contro i tempi, tanto più nella funzione demenziale di quella che è chiamata “tutto poesia”: non confondiamolo con quello che è un lavoro di tempi lunghi, di osservazione, di sperimentazione, che se si vuol fare in maniera seria e responsabile deve assumere questa visione orizzontale in cui ci si mette al pari delle altre cose che compongono il mondo. L’ascolto ha bisogno dei suoi modi e dei suoi tempi perché si deve anche allineare a una lingua che non è precisamente quella verbale o umana. Sono sempre tentativi che possono essere fallimentari ma va da sé che si debbano fare. L’importante è sempre la dimensione politica: avere la consapevolezza di quello che si fa, il pieno controllo – in senso buono, non in senso di potere – della materia su cui si lavora, quindi avere responsabilità: dal momento in cui io scrivo, pubblico e mando una parola nel mondo io ne sono pienamente responsabile e questa può avere degli effetti. Questo purtroppo oggi non c’è: si legge infatti molto uno spontaneismo fine a se stesso che talvolta nasconde il vuoto dietro. Questo è un grosso problema dei tempi perché generato da una necessità di consumo estremamente rapida, che non è interessata al confronto ma a un individualismo che deve arrivare a possedere qualcosa – il che non sarà mai una conoscenza ma solo il possesso di un oggetto – e tanto meno vuole il momento del guardarsi intorno e orizzontalmente interrogare anche gli altri, cioè creare un discorso di comunità – come cerchiamo di dire in Poesia come ossigeno –, una parola che crea comunità. Questo dev’essere un modo di vedere il mondo, dev’essere il tuo modo di rapportarti col mondo, sennò è finto.

 

D:        Vorrei adesso concentrarmi su un aspetto molto interessante della sua produzione: quello grafico-tipografico. Come afferma nella prima poesia di Da una crepa, la parola da ricercare nel “mondo-lingua” è senza dubbio la «parola / verticale», una parola dunque che crei vuoto nella pagina, che sia traccia e frutto di uno scavo e che, nel creare «il bianco dei margini», possa fare spazio sulla pagina alla «pausa» dove sperimentare l’incontro con l’altro. Come ha sviluppato questo aspetto della sua poetica e come si è evoluto nel corso degli anni?

 

R:        La mia scrittura è sempre – l’ultima raccolta lo dimostra, in particolare nella seconda e terza sezione – estremamente sintetica: c’è una parola asciugata, molto interessata alla dimensione dell’immagine. Questa è una strada, poi nella prima sezione Filamenti (maieutica), ci sono anche dei testi più narrativi. Non è necessariamente una strada univoca quella verso la quale sto andando ma sicuramente per me è molto importante il resto della pagina, il bianco della pagina, perché è un luogo di incontro: la pagina diventa una stanza dove ci si incontra con il lettore e per fare questo serve la dimensione paritaria, non gerarchica, non di potere, che è un venirsi incontro, dove io faccio un passo e tu fai un passo, il che si traduce rispetto alla lingua nel fatto che da una parte, se tu devi venire solo verso di me vuol dire che io scrivo una poesia assolutamente chiusa in se stessa e intellettualistica e tu devi fare tutto lo sforzo perché io ho avuto la visione e la verità, concetti pericolosissimi anche dal punto di vista ideologico; se invece io vengo completamente contro di te vuol dire che non ho nessuna fiducia nelle tue capacità intellettive di scardinare una metafora o un’immagine, e si ottengono perciò queste nuove “poesie da Twitter”. Trovarsi a metà vuol dire questo: fare quella minima fatica – che però è una fatica di conoscenza – per poter entrambi imparare qualcosa; quindi la pagina bianca per me è importante. C’è anche sulla poesia una polemica con alcuni colleghi che da un lato devono assolutamente pubblicare un libro all’anno, dall’altro devono avere queste “slavine” di creazione: le cose invece vanno pensate, misurate, calibrate. È una pagina che io trovo francamente ostile: se apro un libro e trovo la prima poesia dove non c’è uno spazio bianco, io sento che non c’è respiro, non c’è fiato possibile. Questo è volutamente impedito perché c’è questa smania di dire tutto, e non si può dire tutto perché io devo anche potere immaginare, devo trovare in parte della tua storia la mia storia, sennò non ci potrà essere dialogo. La dimensione grafica, lo spazio bianco mi danno il silenzio nel quale tutto questo può avvenire. È anche un luogo reale quello che io sfoglio…da qui la ragione di come sono disposte le poesie sulla pagina.

 

D:        La preminenza dell’aspetto grafico-tipografico del testo è un aspetto che spesso viene messo in relazione, soprattutto nella poesia contemporanea, con la mancanza di una struttura metrica o rimica. In modo molto semplificativo, potremmo dire che agli antipodi sta invece l’attività della neometrica, che ripropone spasmodicamente le strutture chiuse e le rime più canoniche. Come gestisce lei il rapporto con il metro e con il sistema rimico? Da cosa deriva e quali obiettivi ha la sua scelta di non focalizzarsi su questo aspetto per privilegiarne invece altri? Crede che, a un livello più generale, la scelta di non prediligere l’aspetto metrico condivisa oggi da molti autori sia portatrice di un significato comune e che, in senso opposto, ciò valga anche per la neometrica?

 

R:        Io non me lo sono mai posto come un problema, non lo trovo come prioritario: per me sono importanti il progetto, oppure un testo autonomo, le immagini… Poi viene anche una musicalità che inevitabilmente è legata all’endecasillabo – ci sono gli enjambement… – ma mi sento molto distante anche come formazione dalla tradizione più lirica italiana legata a un certo modo di fare poesia, non solo dal punto di vista del lessico o delle immagini, ma anche dal punto di vista del suono. È veramente l’ultima cosa. Ci possono essere delle assonanze, ma non c’è il discorso della rima: non me lo sono neanche mai posto come problema. Ho scritto una sestina in inglese…In italiano non ho mai trovato stimolante lavorare in questo senso. Ci sono autori che invece lo trovano importante per il discorso dantesco del “darci una gabbia” per poi essere liberi all’interno della struttura. Non ho quindi una particolare ragione per questa scelta: è stata sempre una cosa istintiva. L’ho sempre percepito…forse perché ero troppo stanca della tradizione da cui venivo, la sentivo troppo carica in quel senso e dunque mi sono dovuta scrollare di dosso questo aspetto e concentrarmi su altre cose. Visto che bisogna comunque fare compromessi, se riesco a lavorare bene sul tema su cui sto lavorando, con le immagini che voglio, con una musicalità interna – la parte su Tesla è molto dura, molto sincopata, molto ritmata – il testo ha una sua logica interna sonoro-ritmica che non è quella tradizionale.

 

D:        Nella sua ultima raccolta poetica Filamenti, pubblicata per Einaudi nel 2020, luce, vita e racconto procedono appunto per «filamenti»: il principio vitale è unico e indiscriminato ed è da ritrovare nella corrente che attraversa, anima e connette senza alcuna distinzione ogni componente della realtà. In questo groviglio di intercambiabilità tra corpi, oggetti e compagini astratte, il quale certo costituisce uno sviluppo e un approfondimento della ricerca esposta in Da una crepa, quale ruolo ha l’uomo? Il suo linguaggio è esclusivo o egli partecipa di un più grande sistema espressivo comune a ogni costituente di questa peculiare realtà dove interiore ed esteriore si compenetrano e l’azione dell’uno ha effetto ineluttabile sull’altro?

 

R:        L’uomo è creatura fra le creature…Per “creatura” intendo naturalmente anche il titolo originario di Frankenstein, “la creatura”. Assolutamente sì, l’uomo è di nuovo in una dimensione orizzontale, per questo mi piaceva il personaggio di Tesla: a parte il desiderio naturalmente di elettricità gratuita per tutti, mi piaceva molto questa necessità, quindi sono partita dalla storia personale di mia nonna, dell’ostetrica che mi ha fatta nascere: quell’atto lì, quell’atto di elettricità mia nel quale sono partita e ho iniziato a funzionare e il momento nel quale lei ha smesso di funzionare…Mi interessava come funziona la biologia, l’anatomia della questione. Come questo filamento – che è quello genetico, quello legato alla neurologia, quello legato alla lampadina –, come tutto questo sia un filo reale che ci tiene insieme tutti quanti, il fatto che dipendiamo l’uno dall’altro…Quindi questo tentativo di credere che noi siamo meglio, che siamo autonomi e non abbiamo bisogno di nessuno sono chiaramente menzogne; siamo anzi la specie più sciocca, perché siamo la specie che sta distruggendo il proprio habitat. È un modo per dire che c’è questo collegamento fra tutti. Poi chiaramente l’elettricità è vita e morte, quindi è chiaro che – questo è anche un libro uscito per i miei cinquant’anni – uno fa anche due conti su quello che è il percorso di vita e anche sul sentire un’ombra che incalza inevitabilmente. C’è questa fantasia di Mary Shelley che riporta in vita la madre morta – a parte il discorso del legame fra donne ribaltato rispetto a solo principalmente presenze maschili all’interno del libro, a parte la fidanzata di Frankenstein –, c’è questa intensità del fatto che bisogni comunque confrontarsi. Per tutti c’è, ma a una certa età il confronto si fa anche più incalzante: a me interessava questo, cioè qualcosa di così fantastico che è legato alla vita ma che ti può anche uccidere: questo è pieno di fascino. È quello: verso la fine è dove cominci tu, dove finisco io. A parte il discorso genetico tra madre e figlia c’è anche questo confine del corpo. Di quella sezione ho fatto anche una lettura performata con suoni a Roma in questa galleria dove c’è un lavoro con Sabrina Mezzaqui [parla della mostra “c’è qui nell’aria la parola-ramo” in corso presso la Galleria Continua di Roma, ndr.]. Ed è bello con i suoni perché c’è il senso di questa parola, dell’urgenza di Mary che, cercando di riportare in vita sua madre, cerca di capire chi è lei. Siamo legati da questi fili, non possiamo slegarci: nel momento in cui ci sleghiamo cessiamo di esistere. È la nostra presunzione di autonomia e di superiorità che chiaramente è fallace.

 

D:        In Filamenti il discorso sulla corporalità intrapreso in Da una crepa raggiunge uno stadio successivo: la macchina si inserisce nel gioco e, sebbene l’uomo continui a essere rappresentato – e in questo ricorda molto le sculture di Louise Bourgeois, per ribadire lo stretto contatto delle sue opere poetiche con le arti visive – come risultato del montaggio di parti materiche, traslato in oggetti domestici talvolta straniati e rielaborato in corpo e anima attraverso analogie arditissime, egli non resta certo immune all’invasione meccanica che travolge il suo mondo interiore ed esteriore. Si è a lungo parlato dell’evoluzione dell’uomo in senso macchinico e robotico – da Metropolis di Fritz Lang a Manifesto cyborg di Donna Haraway – ora indicando tale processo come compimento della natura umana oltre il binarismo, ora come avanzamento verso una tetra e immiserente disumanizzazione. Lei, nell’affrontare questo tema, è partita dagli albori delle ricerche in merito, ossia dagli esperimenti narrati da Mary Shelley in Frankenstein, proseguendo poi per gli studi di Tesla. Quale è la sua posizione rispetto a questo tema? Come è riuscita a trasportare questo dibattito nella sua poesia senza mitizzarlo o edulcorarlo, fino a farlo diventare sostanza del testo e delle sue trame visive?

 

R:        Tutte queste artiste donne – Mona Hatoum, Kiki Smith, Louise Bourgeois – hanno molto influenzato il lavoro perché non c’è mai un confine: è sempre poroso il rapporto fra il corpo, l’esterno, la pelle, il metallo, il mondo, il sé, il dentro…Però essere a questo livello di porosità e di apertura implica un potenziale dolore, ma stare in apertura è l’unico modo di essere pienamente nel mondo, sennò si deve distinguere tra vivere e sopravvivere, che sono due questioni diverse. Se si fa questo lavoro – presuntuosamente mi piace pensare di farlo in maniera seria – allora però devi immergerti nelle cose, allora è chiaro che il confine-pelle non c’è più. Prima di tutto bisogna partire dal fatto che io ho colto una serie di suggestioni; naturalmente tutto quello che riguarda – particolarmente per Tesla – come funzionano queste cose continua a rimanermi sostanzialmente estraneo. Io sono rimasta affascinata da certe sue invenzioni e da certi termini tecnici – che io inserisco sempre: come c’è il riferimento a parti anatomiche, in altre parti alludo alla corrente alternata, al moto perpetuo, alle bobine…però è chiaro che non mi inoltro in campi che io non conosco. Sicuramente lo spazio che creiamo intorno a noi, poi un altro aspetto fondamentale è la casa, poi il mondo: siamo comunque circondati da oggetti che abbiamo investito dal punto di vista emotivo e intellettuale: abbiamo dunque un’identità diffusa. A me piace molto della cultura giapponese la tecnica del kintsugi: quando una cosa si rompe si rimette insieme, si porta dai maestri che fanno il kintsugi e diventa ancora più bella perché diventa unica e questa stratificazione non si disperde; questo senza scomodare questioni spirituali, ma mi piace il fatto che ci sia una continua fusione: io divento parte del tavolo, il tavolo diventa parte di me, quindi in questo caso anche gli elementi meccanici, perché è un confronto con le varie parti del mondo: prendiamo l’uno parte dell’altro. C’è una momentanea fusione e poi di nuovo una separazione che però non è mai totale perché io ho assorbito una parte di questo, poi vado altrove e ci sarà un’altra fusione, quindi è tutto una stratificazione: questo corpo che diventa macchina, la macchina che diventa corpo…io tendo a preferire materiali caldi: il legno, la pietra, il metallo anche, e quindi questo mi piace molto: in termini molto fisici a me piace molto questo fondersi con le cose perché è un modo attraverso il quale io conosco. Di nuovo torna l’importanza della percezione: come fa il bambino a conoscere il mondo? Se lo mette in bocca, è così che si fa. Io tocco le cose per conoscerle: è chiaro che la conoscenza senza studio può arrivare fino a un certo punto…Io racconto fin dove riesco ad arrivare con questo tipo di conoscenza, però è una continua dimensione di osmosi e di fusione. È sempre lo stare aperti senza velleità mistiche. Invece si deve sempre diffidare da chi ti dà delle risposte; è estremamente problematico. Questi sono tempi difficilissimi, però a maggior ragione dobbiamo essere insieme nel continuare a interrogarci e non a darci delle false risposte, sennò si fa fake news in poesia. A questo veramente ci tengo perché è complicato, tanto più nella cosiddetta “poesia femminile”, perché questa immagine della sacerdotessa, della profetessa, di quella che viene visitata dal dio in questione, tutto questo è deleterio e continua a essere deleterio, perché deresponsabilizza completamente: se tu sei una femmina non sei mai completamente un essere pensante, dev’essere sempre un qualcosa di esterno che entri dentro di te in modo che tu diventi voce, ma anche in questo senso fanno gioco le case editrici, che sono venute meno alla funzione educativa che l’editoria aveva.

 

D:        Sia in Da una crepa che in Filamenti lei intrattiene un sentito e tenace dialogo con alcuni autori a lei molto cari: Paul Celan ed Emily Dickinson nel primo, Mary Shelley nel secondo. Nelle sue opere però lei interagisce anche con altri interlocutori d’eccezione in modo più o meno esplicito, ovvero con artisti di grande rilievo quali Louise Bourgeois, Maria Lai, Medardo Rosso e Graciela Sacco, citata esplicitamente nella serie Sei giorni a Buenos Aires contenuta in Poesia come ossigeno. Quando si tratta degli artisti il loro coinvolgimento diventa tuttavia più criptico e il dialogo non è sempre dichiaratamente esibito sulla pagina, come invece accade con gli scrittori sopra menzionati. C’è una motivazione specifica dietro a questa scelta? Riguarda una metodologia differente di includere nelle proprie poesie gli apporti artistici rispetto a quelli più strettamente poetico-letterari oppure deriva da un accoglimento spontaneo e fortuitamente differente delle influenze durante il processo creativo?

 

R:        Essendo una storica dell’arte contemporanea di formazione, per me è stato sempre importante questo dialogo muto con autori del contemporaneo ma anche del passato – la forza che mi può dare guardare certe tavole di un giottesco…Può essere stimolante che venga tradotto in linguaggio tanto quanto un autore contemporaneo come la Hatoum, Kiki Smith, Boltanski e molti altri. A volte è anche semplice: vado a vedere le mostre, vado nelle gallerie e prendo una serie di appunti, quindi traduco già quello che vedo: alcune suggestioni e aspetti in maniera non didascalica di quello che vedo le traduco già in lavoro poetico; quindi questi autori sono intessuti nel testo. Non c’è come per Celan il prendere un verso e lavorarci intorno: c’è un essere presenti in filigrana in maniera costante ma indiretta perché ci sono tutti – anche se non metto l’esergo, la citazione –, tutti questi artisti continuano ad accompagnare. Ci sono artisti italiani che continuo ad amare molto…Mi viene in mente Penone: c’è stata una mostra recente di Penone e la galleria mi ha regalato il catalogo e da quello di sicuro viene fuori qualcosa. Questi continuano ad esserci: sono persone per quale c’è una risonanza… infatti quando i galleristi hanno detto a Kiki Smith che io avevo il piacere di scrivere qualcosa sulla sua installazione a San Gimignano è stata molto contenta e chiaramente poi i versi le sono anche piaciuti, perché comunque c’è un sentire comune. Questo è il dialogo muto con queste varie figure. Poi ci sono state anche delle collaborazioni concrete per installazioni rispetto a degli spazi, a dei luoghi, anche a dei linguaggi: ad esempio il mese prossimo con Virgilio Sieni si faranno delle coreografie intorno alle poesie di Filamenti (maieutica): quelli sono linguaggi del visivo, del corpo, della danza: quello è veramente un dialogo; gli altri sono un avvicinarsi, un assorbire da leggermente diverso. Ci sono sempre figure…Magari bisogna più andarle a cercare perché sono spesso rielaborate e molto. Questi artisti entrano ed escono costantemente dal testo.

 

D:        Nel corso degli anni, oltre a dedicarsi alla poesia e alla traduzione lei si è stata autrice di numerose opere artistiche di tipo installativo-performativo, nelle quali da sola o in collaborazione con altri poeti e artisti è riuscita a combinare perfettamente i due linguaggi creando opere ibride ed estremamente suggestive. Quasi in tutte le sue installazioni lei mostra un’attenzione particolare per gli oggetti, la quale è del resto un Leitmotiv della sua poesia. Nelle sue opere – tra le quali evidenzierei in questo caso soprattutto Open studios, Federe e Da una crepa: poesie su oggetti – il confine tra parola astratta e oggetto fisico non esiste più: come nelle poesie, gli oggetti prediletti sono quelli che quotidianamente entrano in contatto con l’uomo fino ad acquisirne la corporalità – o forse ne possiedono una propria, intrinseca? –, a divenirne una propaggine – o forse è il contrario? –, un segno della vita fisiologico-percettiva e, dunque, emotiva e intellettuale. Come si è sviluppato il suo studio sulla permeabilità e sulla corporalità degli oggetti rispetto alle sue opere artistiche, le quali necessariamente si legano a quelle poetiche? Come ha sfruttato nel dialogo poesia-arte quella che in Poesia come ossigeno definisce la «lingua […] porosa […] che deve far passare il mondo»?

 

R:        Quand’ero adolescente, quando ero indecisa se impegnarmi di più sulla carriera visiva o sulla poesia poi ho scelto la poesia perché mi sono resa conto che mi apparteneva di più, che forse sarei stata in grado di dire qualcosa di più originale…Quindi ho studiato, ho deciso di laurearmi in arte contemporanea: è un linguaggio che per me è fondamentale perché continuo a scrivere recensioni o testi di arte. Sono tornata in anni recenti a fare delle cose che però vanno sempre a spalla rispetto a quello che è il libro, il testo, cioè non hanno nessuna pretesa…Anche adesso in questo lavoro con la Mezzaqui ho fatto un pezzo audio per la mostra: lei ha preso miei versi per la mostra come titolo e li ha usati in certi lavori. Però io sono assolutamente conscia – proprio perché sono una storica dell’arte – che questo sia fondamentale e lo voglio dire: perché lo faccio? Perché secondo me è un modo interessante di confrontarmi con la mia lingua e anche proprio la sua tridimensionalità, e poi mi permette di entrare in ambiti che la poesia non apriva perché poi le arti sono molto divise a scomparti, per cui per esempio il lavoro delle federe, il lavoro delle camicie è portare la parola poetica in un ambito dove di solito la parola arriva poco e arriva male. Tantissime persone mi hanno detto, di fronte alla proposta di vedere un’installazione di una poesia, che non capiscono la poesia, che non gli interessa. Poi li porti lì, vedono il lavoro e gli piace e io gli dico: «Bene, adesso sai che hai appena letto una poesia». Questo è stato molto interessante come percorso perché le federe che erano in giro per la città, le camicie, tutte queste altre cose portano persone che di solito hanno un rapporto ostile nei confronti della poesia a fare in modo di incontrarci tra le persone, quindi per me di nuovo questa è una dimensione politica del lavoro e poi mi serve perché questi oggetti, queste cose – le camicie, le posate – sono parti del testo, sono concretamente lì, allora vedere come ci si può lavorare col linguaggio lo trovo estremamente interessante: questo è il senso dell’essere tornati a fare queste cose con una piena consapevolezza. Nel caso di Celan sono nate prima le camicie e dopo la serie, poi quando hanno cominciato a essere cinque, sei, sette, otto allora ho continuato a scrivere, quindi in questo caso è arrivata prima l’installazione, poi la sezione del libro; altre volte no: per Emily Dickinson è stata prima la sezione del libro e poi il lavoro installativo.

 

D:        Un tema centrale della sua ricerca poetica e artistica è quello dell’incontro con l’altro, del cammino verso quello spazio di «pausa che / copre l’assenza tra te e me», come scrive in Da una crepa. Nella pratica artistica questa ricerca si lega forse ancora più saldamente al fare comunità attraverso l’arte, alla condivisione concreta di conoscenze e abilità tecniche, come nel progetto Foresta bianca per Rosignano Marittima, in Federe o in Open studios. Tutti questi sono esempi della volontà di diffondere una pratica dell’arte che passa necessariamente attraverso la collaborazione e il riconoscimento dell’altro come alleato insieme al quale poter creare insieme, fino al mescolarsi nell’opera delle mani e dei segni, come nell’“arte relazionale” di cui Maria Lai, un’artista che trovo sia molto prossima alla sua poetica, fu pioniera. Quanto conta per lei la possibilità di tradurre questo messaggio in differenti linguaggi? Può l’interdisciplinarità rafforzare il profondo e sentito invito alla solidarietà e all’empatia che lei sostiene nelle sue opere e insieme avvicinare attraverso la condivisione di storie ed esperienze all’arte e alla poesia?

 

R:        Naturalmente la risposta è sì, perché sostanzialmente questo vale anche per altri ambiti, non solo quello per visivo…Ad esempio penso alla mia collaborazione con musicisti: ho fatto un lavoro alla Biennale Musica di Venezia [parla del progetto di Marta Gentilucci moving still – processional crossing presentato nel settembre 2021, ndr.], collaboro con Virgilio Sieni per la danza. In questo autunno musica, arti visive e danza sono stati i tre linguaggi con cui mi sono confrontata. A livello personale sono dei momenti di crescita fondamentali, di confronto, di uscita dalla dimensione relativamente solitaria della scrittura, perché serve a misurarsi e a confrontarsi con gli altri. Sono appunto momenti politici in cui si creano relazioni, si creano comunità pensanti e quindi questo è assolutamente importante e sono sempre contenta di fare collaborazioni…Io mi lancio in questi lavori sempre assolutamente con grande entusiasmo, talvolta in edizioni collaboratoriali – altra cosa importante per me. Tutto questo è – torno a dire – stare insieme e mettere in discussione il mondo e farsi delle domande e cercare dei modi per capire. Tutto questo è importante. Scrivere anche per i giornali: anche questo per me è un modo nel quale molte persone hanno scoperto certe cose di poesia o certi tipi di riflessioni, è una lingua che raccontava in modo non giornalistico, un colore della lingua assolutamente diverso. Questi sono momenti importanti, questo è l’essere cittadini. Isolare l’arte e la poesia per renderli elitari è un modo reazionario, è un modo stupido, come sempre quando le cose sono separate. Non si può che imparare dal confronto. È una cosa di una tale banalità! Però quando si parla di interdisciplinarità in questo paese…ancora c’è gente che la scopre ora l’interdisciplinarità! In certi linguaggi artistici – tipo i contemporanei – è una vita che si fanno queste cose. Dovrebbero farle tutti. È un discorso proprio di vivacità, di nutrimento, di scoperta.

 

D:        Nelle sue opere – sia poetiche che visive – lei insiste molto sugli oggetti quotidiani come tracce di identità immateriale e corporea insieme, come veicoli di storie, energia o anche corrente elettrica – Filamenti ne è un chiaro esempio – partecipi come l’uomo di una natura frammentaria, residuale e spesso straniata che anziché sminuire la loro portata simbolica ne accresce la carica empatica e solidale, risemantizzando il groviglio caotico di filamenti come confortante interconnessione. L’attenzione che lei rivolge all’umana capacità di conoscere e riconoscere empaticamente se stesso, l’altro e il mondo intorno a sé fa pensare alle opere di due grandi artisti contemporanei, uno dei quali scomparso poco tempo fa, ovvero Christian Boltanski, che lei stessa ha dichiarato di ammirare molto, e Anselm Kiefer. Nelle loro opere – così come nelle sue, da La parola-ramo che ci tiene, Foresta bianca e Open Studios alla serie di Sei giorni a Buenos Aires, in cui la parola «memoria» torna come appello e monito – è evidente la ricerca profonda sull’umano, indagato non nei termini di superiorità rispetto agli altri esseri viventi ma aspirando alla preservazione dell’idea di comunità. A me tutto questo ricorda la crepa di cui parla lei, il filamento che, come i cavi elettrici di Boltanski, nel permettere all’uomo di esprimersi e nel connetterlo all’espressione dell’altro, uguale e contraria, produce una luce scomoda ma inscalfibile. Lei si rivede in queste considerazioni? In un momento in cui non si parla più di umanità ma di post-umanità, quali sono i valori dell’umano che l’arte e la poesia possono aiutarci a preservare? Cosa ci insegnano questi artisti sull’uomo di oggi e sulla consapevolezza che egli ha di sé come partecipe di una natura più grande e non originariamente antropocentrica?

 

R:        Sono d’accordo con quello che dici, quindi non è c’è molto da aggiungere: mi trovo assolutamente in linea con questo atteggiamento e con questa visione e proprio in questi artisti notiamo quello di cui abbiamo parlato fino adesso, cioè la fluidità: non c’è mai un confine, una barriera, ma c’è sempre un entrare e uscire da identità e da sensazioni, c’è la partecipazione, la dimensione di empatia…É esattamente la condizione di chi fa l’artista, nel mio caso di chi scrive: chi scrive è costantemente con un piede dentro e un piede fuori: tu devi essere nella cosa ma poi devi andare indietro per poterla osservare per poi rientrarci…É una condizione che ha veramente una componente di fatica ma è la sua bellezza perché senti che sei nelle cose. Sì, questi sono dei grandi maestri e hanno una dimensione di un lirismo incredibile talvolta – penso ai bellissimi lavori di Boltanski con le lampadine: è un lavoro di una semplicità incredibile ma con una potenza…Tutte queste emozioni si portano dietro confronti, riflessioni, approfondimenti e questo è il bello: che tutto sia fluido, costantemente in movimento, che si generi, si autorigeneri…Questo lo trovo bellissimo. Per me è sempre una bellissima esperienza andare a vedere le mostre perché c’è sempre questo impatto fisico della presenza, così che io mi dico: «E adesso?». Allora apro il mio quaderno e partono cose anche inaspettate a volte, questo lo trovo importante…Quindi sì, l’atteggiamento è esattamente ancora una volta l’ascolto, la curiosità verso l’altro: questa è la vera “rivoluzione” dell’attenzione verso l’altro…Mi viene in mente appunto Greta Thunberg che giustamente si arrabbia dicendo che nessuno vuole cambiare il proprio modo di vivere e di ragionare, che è rigido e interessato solo a se stesso e assolutamente non a vedere l’altro: questo è il problema del nostro tempo ed è quello che ci porterà all’estinzione. È rarissimo trovare il senso di curiosità – esattamente quello di cui ci racconta Whitman – che ha il bambino, il fanciullino pascoliano, cioè quel tipo di meraviglia vera, quel permettere a tutto il corpo di risuonare con l’opera. La gente è terrorizzata, terrorizzata di lasciarsi penetrare profondamente dal lavoro. Per questo tutti fanno i finti cinici. Questi artisti sono i grandissimi…E dove sta la genialità? Nello stare sempre su quel filo, su quel bilico, avere il coraggio di fare un lavoro del genere. Perché? Perché riesce a toccarti sufficientemente senza però completamente farti sciogliere nel sentimentalismo: tu rimani vigile emotivamente e intellettualmente però hai al contempo un’esperienza di tipo fisico e intellettuale.

 

D:        In Da una crepa leggiamo, nella poesia «Impatient of the fewest words», della «parola-ramo / che ci tiene», un concetto che torna spesso nelle sue poesie articolandosi nelle alternative e affini forme della parola come ponte e della parola che circola come corrente e crea comunità. Non a caso, infatti, in Poesia come ossigeno lei rileva appunto la necessità di trovare oggi una «parola comune» che possa «alimentare questo senso di collettività» inclusivo rispetto a ogni componente della realtà, in linea con una responsabilizzazione attiva dell’uomo nel contrastare un antropocentrismo corrotto, indiscriminato e insaziabile. Queste idee sono nel saggio sopra citato da lei condivise con due interlocutori d’eccezione, ovvero Antonella Anedda e Riccardo Donati, ma sono anche fondative della sua stessa poetica. Alla luce di questa parola sempre in trasformazione che si fa ramo, ponte e portatrice di corrente, profondamente permeabile e aperta verso il mondo esterno, come può la poesia occorrere/soccorrere – in un felice binomio più volte ribadito in Poesia come ossigeno – noi oggi in quanto lettori, scrittori e cittadini?

 

R:        La «parola-ramo» non è assolutamente la parola salvifica: è ripartire, come dicevamo con la Anedda nel libro, dalle scorie di una lingua, da una lingua appesantita – come ogni lingua – da un passato recente e faticoso – penso al fascismo, poi penso alla lingua nella dimensione politica, quella becera tout court, non del fare politica bene, cioè lo stare insieme…Quindi, una lingua che assolutamente non va negata ma riattraversata in tutti i suoi aspetti, in tutte le sue fasi, in tutte le sue componenti e va chiaramente rivitalizzata: attraverso la creazione di immagini nuove rivitalizzo la lingua e compongo le cose in un modo inaspettato e questo chiaramente stimola la riflessione. La lingua è il modo in cui stiamo insieme naturalmente, quindi è fondamentale perché questo possa avvenire nella maniera più profonda possibile, che non ci si perda, che ci si riappropri di questa lingua e che quindi si costruisca un percorso anche insieme ad altri: questa forse è la risposta più bella legata alla questione. La parola nasce civile e politica, nasce così e quindi nel poeta ci dev’essere sin da subito questa dimensione di far parte di un gruppo di persone, di avere la responsabilità e solo allora di proseguire: dev’essere proprio la forma mentis con cui si inizia il viaggio, sennò non si va da nessuna parte.

 

D:        Il mese scorso è stata inaugurata presso la Galleria Continua di Roma la mostra “c’è qui nell’aria la parola-ramo”, aperta fino al prossimo quattro dicembre, nella quale lei, questa volta insieme a Sabrina Mezzaqui, ha avuto nuovamente occasione di misurarsi con il linguaggio delle arti visive e, in particolare, della poesia visiva. Il titolo ha origine da alcuni celebri versi della poesia «Impatient of the fewest words» contenuta nella raccolta Da una crepa, versi che continuano a emanare una forza semantica e visiva intensissima, suggerendo sempre inedite e fruttuose traduzioni e rielaborazioni. In questo caso la «parola-ramo» si concretizza, prende forma e sbuca da un muro bianco, si protende verso di noi chiedendoci di afferrarla, offrendosi di (s)occorrerci e rivolgendosi a noi in un linguaggio vivo e pulsante che è in realtà una pluralità di linguaggi: oltre che delle installazioni, il visitatore fa infatti esperienza della sua voce che ripete alcuni versi della poesia sopracitata e compie su di essi la stessa operazione che nelle poesie lei dedica all’uomo e alla parola in corpo e astrazione: la frantumazione, lo straniamento, la focalizzazione ravvicinata e deformante – tutti, d’altra parte, processi estremamente visivi – così che ogni frammento sonoro diventa un ramo a cui appigliarsi per sfuggire all’abisso dell’incomunicabilità e dell’isolamento, uno sforzo di comunione che la parola rivolge a noi e noi a essa. Mi piacerebbe domandarle com’è nato il progetto della mostra e come si è sviluppata l’idea di ribadire il messaggio della «parola-ramo», questa volta non solo scrivendo la poesia su oggetti o supporti appositi, ma piuttosto ampliando i linguaggi e portando il progetto a un livello successivo, fino all’incarnazione della stessa «parola-ramo» nelle opere esposte. Infine, ricordando proprio attraverso le sue parole la profonda connessione che lega questa mostra alla sua personale poetica, le chiedo: nella dimensione sospesa che ci regala questa struggente esposizione, nel raccolto e insieme comune «spazio / al respiro del pensare» che scava per noi, nella «pausa che / copre l’assenza tra te e me» che ci offre, svelandoci lo sguardo nostro e altrui, cosa potremo trovare?

 

R:        Questa è una domanda complessa. Da un punto di vista pratico, Sabrina Mezzaqui è una grande lettrice di poesia, ha fatto anche dei lavori in passato con dei versi della Anedda, della Gualtieri…Lei aveva letto i miei testi, è venuta a una mia lettura, poi ci siamo rincontrate con un’amica in comune che è Claudia Losi, con cui abbiamo collaborato, che è un’altra fantastica artista piacentina…È nata un’amicizia, una stima reciproca e tutto ciò poi è culminato nel fare una lettura durante una sua residenza. In quell’occasione è venuta fra le persone amiche l’assessora di San Gimignano che è la moglie di uno dei fondatori della Galleria Continua, la quale si è invaghita della mia poesia e mi ha invitata a San Gimignano. Ho fatto una residenza, ho conosciuto anche il marito…Quindi tutte le cose sono venute insieme: ho fatto lì il lavoro su Kiki Smith e poi finalmente Sabrina voleva fare questo lavoro e lo stesso Maurizio, il fondatore della Galleria, ha detto che dovevo assolutamente esserci anche io in questa cosa: quindi è nato da una comunità di persone con una certa visione del mondo che punta ad ampliarla, ad aprirsi, a far diventare la comunità ancora più grande, a tenere vivo il dialogo proprio sul discorso del linguaggio. Lì ci sono letteralmente dei rami che sono delle fusioni in bronzo con dei piccoli uccellini che sono le parole. Sabrina è rimasta particolarmente colpita da questa mia strofa tanto che ha voluto poi far sì che tutta la mostra vi girasse intorno. Di nuovo per tornare al discorso della parola: la parola ci salva non in termini salvifici ma salva la qualità del nostro esistere con gli altri: è il linguaggio, è il confronto, è l’ascolto. Tra l’altro, da «c’è qui / nell’aria», «qui» è diventato il titolo di un documentario del regista Daniele Gaglianone. Lui si avvicinò a me perché aveva trovato questa poesia e ora questa strofa è alla fine del suo film su quelli che lottano nella Val Susa contro la TAV, e s’intitola Qui il film: questo è stato bellissimo. La poesia è legata a Paul Celan ed Emily Dickinson che si conoscono toccandosi, non quindi solo con la testa ma anche con il corpo: in questo affondare – che chiaramente è un affondare che viviamo costantemente in termini metaforico-esistenziali, reali e metaforici al contempo – se c’è una possibilità non a caso ci si salva insieme su quel ramo: io mi salvo solo se ti salvi anche tu.

 

Pubblicato il 24/12/2021

--------------------------------

Elisa Biagini è nata a Firenze, dove attualmente vive e lavora. Dopo aver insegnato e vissuto negli Stati Uniti per diversi anni, al momento insegna Storia dell’Arte e Scrittura Creativa a NYU Florence e all’estero e collabora con la Repubblica. Ha pubblicato sette raccolte poetiche, di cui alcune bilingui, e curato l’antologia Nuovi poeti americani (2006) per Einaudi. Tra le sue ultime opere, sempre pubblicate con Einaudi, L’ospite (2004), Nel bosco (2007), Da una crepa (2014) e Filamenti (2020). Ha realizzato numerose opere installativo-performative, sia da sola che insieme ad altri poeti e artisti, ha curato diverse mostre e ha collaborato con vari musicisti e coreografi italiani e internazionali.