Emilio Pasquini - L'Inferno di Dante Alighieri

A cura di Elisabetta Menetti






Nel primo capitolo del suo libro (Dante e le figure del vero. La fabbrica della Commedia, Milano, Bruno Mondadori, 2001) affronta prima di tutto il problema della datazione della Commedia . L'ipotesi delineata è quella di una sorta di romanzo d’appendice. 

Dante scriveva i canti e li “pubblicava”: doveva farsi conoscere e apprezzare, doveva guadagnarsi il pane, giustificare la sua presenza nelle corti. A Cangrande della Scala dona un gruppo di canti del Paradiso: il che fa pensare che il poeta diffondeva ciò che aveva appena finito di scrivere.

Nel mio libro, forse in maniera troppo spiritosa per i dantisti, ho parlato di un romanzo d’appendice. Dante, quando aveva un canto pronto, lo faceva conoscere: in altre parole dopo averlo letto, lo dettava o ne consentiva una copia che si diffondeva senza il suo controllo. Difatti non esistono varianti sostanziali nel testo della Commedia. E come tutti i romanzieri d’appendice egli aggiustava il tiro: nella prima cantica per due volte dice che l'esilio gli sarà pronosticato per intero da una donna, cioè da Beatrice, ma quando arriva al Paradiso è Cacciaguida , il trisavolo, a fargli la predizione finale. Se, per esempio, Dante presenta nella bolgia degli indovini (Inf. XX 52-93) l’antica profetessa Manto, in seguito cambia parere: nel Purgatorio entro l’episodio di Stazio Manto viene citata come presente nel Limbo (Purg. XXII 94 ss.). E’ evidente, quindi, che tali contraddizioni nascono dal fatto che l’opera si diffondeva per segmenti, per canti isolati o per gruppi di canti. Se Dante avesse potuto avere l’intera Commedia sul tavolo, avrebbe certamente corretto queste discordanze.



Ci sono inoltre alcune novità: alcune testimonianze che dimostrano una ricezione del canto V di Paolo e Francesca, citato a memoria già dal 1304. 



La citazione a memoria di Inf. V 103-105 nella copertina dell’Archivio di Stato di Bologna e l’affresco del palazzo comunale di San Gimignano della scena dei due amanti col libro “galeotto”, sono documenti che confermano nella sostanza come la Commedia fosse opera dell’esilio e non anteriore all’esilio. Le prime date di questi documenti o scritti o figurativi riguardano gli anni 1304 e 1305. Inoltre potrebbe anche darsi che il canto V sia il primo scritto da Dante. Ad ogni modo gli indizi ci suggeriscono una composizione precoce dei primi canti dell’inferno, ma sempre dopo l'esilio. Senza l’esilio Dante non avrebbe scritto la Commedia o per lo meno non l’avrebbe scritta così.



L'inferno dell’esilio, vissuto da Dante, tiene a battesimo la prima cantica infernale: una condizione umana che impregna l’immaginario poetico?



Senz’altro all’epoca di Dante essere esiliati era una cosa infernale: si perdevano tutti i diritti. Andrea Battistini in un bel saggio ( L’estremo approdo in Dante e le città dell’esilio Atti del Convegno internazionale di studi, Ravenna 11-13 settembre 1987) riflette sulla differenza sostanziale tra l’esilio di un uomo del medioevo e quello di un uomo moderno. L’esilio per un uomo del medioevo comportava la perdita di tutti i diritti civili: significava essere esposti a tutte le prepotenze e a tutti i ricatti senza nessuna copertura. Gli esiliati erano in sostanza dei fuggiaschi.



Dante, come si sa, ha molti nemici, ma uno in particolare assume un ruolo centrale nell'Inferno, sebbene vi sia assente in quanto non ancora morto nel 1300, data del viaggio: Bonifacio VIII, il più grande di tutti gli ipocriti.



Dante non può che vedere in Bonifacio il nemico dichiarato non solo della libertà fiorentina e della democrazia fiorentina ma anche di quella personale. Bonifacio VIII nell’Inferno è rappresentato coi caratteri negativi che conserverà per tutto il poema. Solo nel Purgatorio è visto come vicario di Cristo, nell’episodio dello schiaffo di Anagni: in quel caso Dante intendeva colpire il re francese Filippo il Bello e Bonifacio riprendeva la sua dignità di vicario di Cristo. In tutti gli altri casi, Bonifacio è visto nella sua negatività assoluta anche perché l’esilio di Dante in fondo dipende dall’intervento espansionista di Bonifacio a Firenze e dal rovesciamento del governo dei bianchi. Bonifacio è un personaggio che si infernalizza, coprendo varie zone dell'Inferno. Anzi, è un personaggio degno dell’inferno. Infatti Dante condanna un papa ancora vivo, preparando un posto per lui nella stessa buca di Niccolò III.



Da politico emergente a fuggiasco: Dante come rielabora nella sua poesia questa esperienza traumatica?



Nella Commedia e soprattutto nell’Inferno Dante allude all’esilio: ci sono quattro profezie nell’Inferno, quattro nel Purgatorio e una finale nel Paradiso. Si nota però una certa ritrosia di Dante a dichiarare le pene infernali che ha dovuto subire durante l'esilio. Semmai si confessa in qualche epistola o nel Convivio, quando arriva a far profetizzare l'esilio da Cacciaguida con le parole che ricordano molti : tu proverai sì come sa di sale/ lo pane altrui e come è duro calle/ lo scendere e 'l salir per altrui scale (Paradiso XVII 58-60) . Nell’Inferno, nonostante che il trauma fosse vicino, il ricordo è molto più misurato che in altre opere: Dante, come uomo del suo tempo, ovviamente, non riesce a confessare se stesso. Gli accenni più dolorosi sono nelle Epistole e nel Convivio con qualche cedimento nel Paradiso quando rievoca quella amarezza. 



Tuttavia il peccato della frode è riproposto attraverso una visione onirica terrificante: l’apparizione di Gerione. Un vero e proprio incubo per chi era stato condannato in contumacia per baratteria.



Dante era già definito dai suoi amici e colleghi il sognatore. La Vita Nuova è una serie di momenti onirici e di sogni. Ci sono dei sogni dichiarati anche nella Commedia. Il demone infernale Gerione, custode dell’ottavo cerchio (Inf. XVII, 1-18), è un mostro diversissimo dagli antecedenti classici o virgiliani. Raffigura il male nelle sue forme più atroci: la frode verso chi non si fida e la frode verso chi si fida, il tradimento insomma. Gerione è l’incarnazione del male, è una prefigurazione di Lucifero: è un antecedente dell'antitrinità di Lucifero, perché la natura di Gerione è triplice, chiaro rovesciamento della trinità divina. Inoltre segna il momento in cui probabilmente la fantasia di Dante è stimolata da meccanismi onirici. Come Montale ha confessato di non essere l’autore di Iride, ma di esserne solo il medium, così potrebbe essere avvenuto in una raffigurazione così inquietante come quella di Gerione: Dante sembra piuttosto il medium che l’autore dell’immagine di Gerione. La visione di Gerione appare come una trascrizione da un sogno, da un incubo.
Non è da dimenticare, inoltre, che questo personaggio segna il distacco da un inferno ancora virgiliano, da Caronte, da Pluto e dalle Arpie. Gerione non ha più nulla degli antecedenti dell’immaginario virgiliano o ovidiano: è un mostro medievale che ha le caratteristiche dell’onirico. E, insomma, una grande icona medievale, un icona del male. Anche perché Dante si sofferma a lungo sulle sensazioni provate dalla vicinanza con questo mostro: allude per esempio ai brividi della febbre quartana. Dante sente sul suo corpo il contatto con il Male: la percezione diretta. (Inf. XVII 85-93)



Il fantastico dantesco pare sempre sul crinale tra la fictio e la visio, in un confronto serrato con la poesia dei padri. Si tratta di un iperrealismo fantastico?



L’Inferno è senza dubbio la cantica più concreta e più terrestre, nonostante il paesaggio sia quello dell’oltretomba. Il Purgatorio è una montagna che ha i caratteri di una montagna terrestre. L’Inferno è una montagna rovesciata, che ha fiumi, rocce, fiamme e ghiaccio. Sicuramente di fronte all’Inferno nessuno penserebbe a un mistico e ad un’evasione dalla realtà. E, anzi, una iperrealtà, una realtà rafforzata attraverso continui paragoni col mondo esterno, con i suoi paesaggi medievali. Malebolge (Inf. XVIII 1-18) è descritta come un castello con i suoi fossati. Si pensi al richiamo all’arsenale (Inf. XXI 21) dei veneziani, ai continui rinvii a realtà esterne e a paesaggi consueti. In altre parole quella di Dante è una visione che vede predominare i caratteri della finzione e della invenzione realistica. Insomma non c’è nulla di visionario alla maniera delle visioni precedenti, che erano dominate da fantasie mistiche o orripilanti. Nell’Inferno dantesco c’è il tentativo, la scommessa di dare concretezza all’irreale o al fantastico. E l’arte che è piaciuta ai poeti moderni: la capacità di rendere concreto l'astratto.



L’immaginario infernale è una potente trasfigurazione del reale: Dante restituisce all’Aldilà uno spessore ed una concretezza maggiore rispetto ai modelli letterari precedenti. Ma se questo appare chiaro nell’Inferno e nel Purgatorio, risulta più complesso comprendere in questa soglia interpretativa anche il Paradiso. Tuttavia lei suggerisce un’ipotesi attraverso l’analisi di un’immagine-chiave del Paradiso: l’immagine dell’orologio.



Rispetto ai suoi modelli Dante esprime un nuovo realismo drammatico, plastico e non descrittivo. Dante è un realista sintetico, capace di teatralizzare e di mettere sulla scena vicende scorciate, di cogliere elementi dell’oralità e della mimica L’immagine dell’orologio, che si riferisce al Paradiso, ci fa capire come Dante non sia un mistico nè un visionario alla maniera dei visionari precedenti. Rispetto a Beda il Venerabile molto è cambiato: nella Historia di Beda l’inferno non ha nulla di reale: è semplicemente una giustapposizione di cose estreme senza giustificazione. Dante è riuscito a dare un’idea dell’oltretomba senza distaccarsi dalla realtà quotidiana.



Il rapporto di Dante con i suoi modelli è complesso e stratificato: le citazioni costituiscono un sistema multiplo di rimandi. In questo sistema rientra il caso speciale della storia di un’amicizia: quella con Cavalcanti. 



Dante si sente ancora parte della civiltà classica: un continuatore di Virgilio. Intrattiene un rapporto quasi materno con i testi classici: perciò ho parlato nel mio libro di sanguificatio, di passaggio di sangue. Ora, proprio per questo, mi sono sentito autorizzato, forse in maniera abusiva, a chiamare in causa quel concetto di claritas di San Tommaso, che Joyce ripropone con il termine radiance (radiosità). In vari punti alcune citazioni dantesche creano un alone profondo di realtà non superficiale ma interiore: creano delle costellazioni di simboli. Anche l’amicizia con Cavalcanti lascia il segno attraverso una serie di citazioni, che raccontano il rapporto conflittuale tra i due. Ho cercato di ricostruire questa storia partendo dalla citazione di un verso cavalcantiano sulla neve. Ho seguito il tragitto di questa neve nella poesia di Dante, dal rovesciamento delle posizioni di Cavalcanti al recupero finale dell'antico amico. Dante, infatti, nel Paradiso arriva all’idea di una superiore conciliazione tra le persone che in vita si sono combattute. E la tolleranza culturale, prefigurata nel mito delle “Atene celestiali”: una sorta di città del sapere dove si trovano anche gli antichi avversari.


D’altronde il conflitto con Cavalcanti era già avvertibile nella Vita Nuova perché l’elevazione al cielo di Beatrice e la spiritualizzazione di quell’amore si scontravano con la concezione materialistica dell’amore propria di Cavalcanti. Quando, poi, Cavalcanti scrive quella terribile canzone sulla natura dell’amore (Donna me prega) in cui esclude da amore il mondo della virtù ed ogni possibile spiritualizzazione, Dante sembra apparentemente tacere. Risponderà solo nel Purgatorio (Purg. XVIII 28-33). Nell’Inferno ci sono tracce di questo dissidio già nel fatto che nel canto degli eretici si adombra in qualche maniera la dannazione di Cavalcanti. D’altronde i due erano divisi da questioni di grande spessore: l’immortalità dell’anima individuale (acquisita per Dante e negata de Cavalcanti), la possibilità di conciliare l’amore e la virtù. Il recupero dell’amico si ha solo nel Paradiso con il personaggio di Sigieri di Brabante che è una sorta di controfigura di Cavalcanti. Dante, inoltre, gioca sul fatto che nel 1300, quando si colloca il viaggio, Cavalcanti non è ancora morto. Dante si giova di questa libertà: prima conduce una forte polemica con l’amico, poi lo recupera in una nuova prospettiva di tolleranza culturale.



La storia di un’amicizia, celata e dissimulata sotto il velo poetico, rivela un aspetto inedito della personalità di Dante. Nel suo libro lei ha anche cercato di ricostruire gli echi di una sofferenza per la mancanza di affetti familiari. 



Ovviamente Dante non si confessa mai apertamente, ma in modo mediato attraverso altri personaggi. Nell’Inferno il tema della paternità insufficiente, lacunosa o colpevole viene fuori attraverso il personaggio di Farinata, le cui colpe responsabilità politiche  ricadono sui figli innocenti. Dante sa benissimo che se i padri restano fermi sulle loro posizioni e non accettano compromessi possono produrre conseguenze negative per figli. Anche Ulisse è l’esempio di un padre che sfugge ai suoi doveri. Il racconto del viaggio di Ulisse (Inf. XXVI 90-102) inizia appunto in chiave di negazione degli affetti familiari: l’affetto verso il figlio, la devozione al padre, il debito amore che doveva alla moglie non poterono vincere l’ardore di divenire esperto del mondo.
Farinata, Ulisse e infine Ugolino: un percorso infernale sulla dimensione della paternità. Tuttavia spesso Dante fa riferimento anche ad una sofferta carenza dell’affetto materno. Senz’altro è un trittico paterno, completato dalla figura di Ugolino.
Implicitamente Ugolino è considerato colpevole di aver trascinato nella sua sorte degli innocenti: le colpe del padre ricadono sui figli innocenti. E' la punizione più crudele per un padre: Ugolino (Inf. XXXIII 37-75) vede morire impotente due figli e due nipoti, sapendo che la responsabilità è sua. Attraverso questi personaggi emerge il problema della paternità che in qualche maniera Dante ha patito su di sè. Il primo ad accorgersene è stato Petrarca che, scrivendo a Boccaccio nel 1359 contrappone il comportamento del proprio padre a quello dello stesso Dante: mentre il padre di Petrarca si preoccupò in primo luogo della famiglia, Dante invece cercò solo di realizzare se stesso. Stranamente Petrarca in quella lettera (Familiare XXI 15) utilizza alcune parole per definire Dante uomo che coincidono con quelle che Dante autore aveva adoperato per il personaggio di Ulisse. Petrarca si era accorto che Ulisse era la controfigura di Dante. Dante non è un moderno, tuttavia ci sono tracce evidenti nella sua poesia di una sorta di trauma familiare: carenza dell’affetto materno e consapevolezza di essere stato un padre inadeguato. La carenza affettiva materna è quasi un tema ossessivo. La madre muore quando Dante è bambino: il rapporto viscerale tra madre e figlio segna, ad esempio, alcuni dei momenti più alti del Purgatorio e del Paradiso. Ma già nell’Inferno Virgilio viene rappresentato come una madre che afferra il bambino e scappa dall’incendio senza preoccuparsi di come è vestita. Nel momento in cui fuggono dai diavoli, Virgilio diventa una mamma che salva il figlio dalle fiamme.



E questa ricerca del padre come viene sviluppata nelle altre cantiche?



E’ sviluppata attraverso una ricerca di padri ideali. Dante rifiuta il padre anagrafico perché non lo considera un uomo degno, andando alla ricerca di grandi padri ideali.
Nello stesso tempo considera se stesso un padre insufficiente o carente. Di fronte al rifiuto del padre anagrafico Dante trova altri modelli: Cacciaguida, Boezio, Virgilio (nella sua duplice veste di madre e padre), Guinizzelli, Brunetto Latini . In particolare Cacciaguida, che è anche icona di una Firenze onesta, è l’archetipo del padre ideale. Quindi l’arco in cui si muove l’universo familiare di Dante è tra Brunetto Latini e Cacciaguida.



Quale messaggio infine un lettore contemporaneo può trarre dalla lettura della Commedia e in particolare dalla lettura dell’Inferno?



E' evidente che nell’idea drammatica della vita, che Dante comunica nel suo Inferno, egli riconosca alcuni momenti essenziali. Questi momenti essenziali decidono della sorte di una persona: ne viene, dunque, un invito a controllarsi, a disciplinarsi. Inoltre è chiaro l’ammonimento alla coerenza: una coerenza di chi ha pagato in prima persona. Il che significa non negare il passato, ma trarre da quel passato gli elementi per costruire il nuovo. La Commedia è, in questo, una costruzione del nuovo. Occorre rivisitare il passato, traendone soltanto un insegnamento positivo per andare avanti. Rivisitare il passato per Dante non è mai un ripartire da zero. Guardiamo, ad esempio, al percorso che egli compie riguardo alla concezione amorosa. Nel Purgatorio non dirà più “Amor, cha nullo amato amar perdona” (Inf. V, 103), ma dirà “Amore acceso di virtù sempre altro accese” (Purg. XXII 11), in altre parole solo l’amore virtuoso costringe a riamare. E una revisione profonda che parte dall’esperienza dell’errore. O come quando rivede se stesso da giovane nell’assedio di Caprona in cui i pisani sconfitti uscivano dal castello impauriti (Inf. XXI 91-96): egli rivive la stessa scena ma questa volta dalla parte dei perdenti. Ora comprende quanta paura avevano allora i poveri pisani in mezzo ai fiorentini vittoriosi, quando si trova minacciato tra i diavoli, nelle stesse condizioni di debolezza. E' una accusa a se stesso per essere stato tracotante di fronte ai poveri pisani.
Dante non perde occasione di colpire in sè il vecchio Pinocchio: gli errori servono a costruire una dimensione nuova, sempre più coerente e morale.



Bologna, 2002