Cristina Nesi - L’energia creativa di Ermanno Rea

C'è Napoli, oltre la soglia.  Antiche incisioni sul Vesuvio, un decalogo di Lucio del Pezzo, un libro di Pietro Colletta sulla Storia del reame di Napoli e poi, grandissima, una foto scattata al molo Beverello con l'emigrante che bacia la sua donna. Tanti oggetti messi lì per artigliare un ricordo, per sprigionare una suggestione. E forse, quando l'attimo giusto arriva, per squarciare un lacerto di passato da raccontare.
Eppure, il palazzo dove Ermanno Rea vive non è nella città partenopea ma a Roma. Proprio nel cuore della città, in quella via del Mascherino che sfiora di un soffio il colonnato di San Pietro. Così, a guardarle più attentamente queste Napoli dentro e Roma fuori lasciano l'inquietudine di un assillo. Quello di chi, dopo aver reciso le radici, non rinuncia a conservarle gelosamente nell'acqua, seppure in un vaso da appartamento. Nell'attesa di un germoglio.
«Ancora oggi sono rimasto con la testa in quegli uffici all'Angiporto Galleria. Uffici che sono la mia giovinezza, che per me si chiuse, almeno formalmente, quando decisi di lasciare Napoli, ma che ho ritrovato nella tardiva scrittura di Mistero napoletano, vera e propria ricerca del tempo perduto. Quel libro sollevò molte polemiche e malumori. Sono convinto che la vecchia guardia del Pci sia stata incapace di sottoporre a un esame critico spregiudicato la vicenda vissuta, preferendo rimuoverla, ignorarla. Perché? Il fatto è che molti avevano abbracciato il comunismo in maniera acritica, con un'adesione di tipo fanatico. Ci furono invece, e io tra questi, coloro che la vissero senza sottrarsi alle sue dure contraddizioni» (Noi comunisti letterari della Napoli togliattiana, intervista di A.A. Tristano, «Il Riformista», 26 giugno 2009).
Negli scaffali all'entrata dell'appartamento di Ermanno Rea occhieggiano imponenti alcune copie di Rosso Napoli. Mille pagine di testo su quel che è stata Napoli nell'ultimo sessantennio. Si tratta di una trilogia dei ritorni e degli addii, come recita il sottotitolo, composta appunto da Mistero napoletano (1995)e, via via negli anni, arricchita da La dismissione (2002), una storia sullo smantellamento dell'Ilva di Bagnoli, e da Napoli Ferrovia (2007). Dunque, amore per la città e addii: ma, si sa, essere napoletano è una cosa complessa, alimentata da «una fascinazione e da un rifiuto» (Pensate, buttano meno spazzatura nel Golfo, intervista di C. Valentini, «L'Espresso», 26 novembre 1995).
Varcato l'ingresso, davanti a una finestra troneggia il tavolo da pranzo del soggiorno e, al di là della bianca libreria che suddivide la sala in due spazi, si allunga fra i divani come un gatto un basso tavolino con i giornali e gli ultimi libri da leggere. Oltre le modanature liberty di un'imponente vetrage s'intravedeuno studio con uno scrittoio d'epoca e un comodo tavolo d'appoggio.  Tutte porzioni di spazio strategiche alla scrittura, prima ancora che al vivere quotidiano.
Per documentarsi su una vicenda che lo interessa, Ermanno distende i documenti, le foto, gli articoli sul tavolo da pranzo, il più grande e spazioso di casa, mentre affida alla sua testa la prima costruzione della storia, sprofondato sui cuscini. «Provo a raccontarmi il romanzo: seduto in poltrona immagino quel che succederà al personaggio» (Rea: ho visto la vera storia di Napoli attraverso i cancelli di una fabbrica, intervista di M. Mancuso, «Corriere della Sera», 23 aprile 2002).
Tavoli e divani si arrogano un loro ruolo nel suddividere l'impazienza fisica dalla riflessione, nell'assicurare al testo scritto la distanza necessaria dalla prevaricazione dei ricordi e nel bilanciare l'irruenza caratteriale ai momenti di sedimentazione meditativa.
Quando alla fine Ermanno si decide a scrivere, lo fa su fogli di carta e a mano, con stilografiche di pregio dal segno deciso e scorrevole. Una passione, quella per le penne, coltivata negli anni.
L'ora più propizia è il «tardo pomeriggio, mai di notte», e la stilografica, dopo aver steso scalette su scalette, va incontro alle maggiori asperità negli incipit, perché non è facile «trovare il passo giusto per fondere le parti tecniche e documentalistiche con la trama romanzesca» (Rea: ho visto la vera storia di Napoli attraverso i cancelli di una fabbrica, intervista di M. Mancuso, «Corriere della Sera», 23 aprile 2002).
Del resto, ogni ibridazione tra il taglio saggistico e quello narrativo in Rea è sempre sorvegliata, sia che la scrittura d'inchiesta s'inoltri in stati d'eccezione, sia che persegua il lungo corso della vita quotidiana. Andare oltre la rigidità dei dati oggettivi e dei fatti accertati non è per niente semplice, se non fosse che i documenti sono soltanto scheletri e vanno comunque nutriti di carne, come sostiene Corrado Stajano ne La stanza dei fantasmi.
Negli anni, a ritmare la scrittura non è più il fumo delle indispensabili sigarette. Ora, lo scrittore si limita ad ascoltare musica classica o jazz, spesso anche lo stesso disco per giorni interi, e a bere acqua. Quasi per incanto, al varco dei sessant'anni, la scrittura ha cominciato a fluire e sono nati i primi libri: «Quando smisi di fumare, ero angosciato appunto da un luogo comune: che, cioè, senza la sigaretta fra le labbra non sarei più stato capace di scrivere una parola. Invece, almeno per quantità, il numero di parole che ho scritto senza fumare fa spavento. Tutti i libri che ho scritto li ho scritti da non fumatore, contraddicendo quella vecchia immagine secondo la quale, senza la sigaretta pendula fra le labbra, un giornalista o uno scrittore non sono più capaci di fare il loro mestiere» (Palcoscenico per chi ha voglia di fare, intervista di P. Lotito, «Il Giorno», 27 novembre 2000).
Concluso il testo manoscritto, Rea comincia a trascriverlo sul Mac, che svetta bianco e squadrato come un totem sul vecchio scrittoio dello studio.
Rilegge più volte, sposta e taglia con frequenza parti del testo. Difficilmente riscrive.
Non sarebbe possibile immaginare in quelle stanze di via del Mascherino altre persone oltre a Ermanno, perché tutto ha la sua impronta. In effetti, il figlio Carlo, musicista e pittore, vive nelle Marche e occhieggia attraverso i quadri astratti che ha regalato al padre, la figlia abita all'estero da anni, anche se mantiene contatti quotidiani e ombelicali con il padre, i numerosi nipoti e pronipoti chiamano spesso, ma non vivono a Roma e l'ex moglie, un avvocato impegnatissimo, vive nell'appartamento di Milano, dove Rea soggiorna qualche volta.
Combinazione fortuita ha voluto che via del Mascherino sia rimasta, miracolosamente, una strada da centro storico di una volta, con il parrucchiere, la libreria Paoline, la tenda verde della vecchia trattoria e a poca distanza, in piazza delle Vaschette, le panchine di pietra affollate dagli studenti della Lumsa. Certo, «l'impersonale incombe e ci insegue», riflette Rea, e le strade non sono più luoghi affidabili che le persone vivono come un fatto di appartenenza. Talvolta, una strada può trasformarsi «in qualcosa di amorfo, di non familiare e ci rende simili a piccole isole, sempre di più relegati nelle nostre 'case-nicchie' rigidamente chiuse». A Napoli, negli anni in cui era redattore a «L'Unità», la strada «soprattutto per chi lavorava in un quotidiano comunista, significava scarpinare, andare nei tuguri, vivere nelle strade dei quartieri più esposti, più a rischio. Era una città con ferite gravissime, ma comunque più rassicuranti di oggi». Per questo, le vecchie strade sono per Rea cariche «di immagini affettuose, di suggestioni, di umanità» e a suo giudizio sono «forse uno dei temi più belli e più forti della nostra letteratura» (tutte le citazioni da Il carattere della città? Si gioca nei vicoli, intervista di L. Vaccari, «Avvenire», 20 agosto 2004).
Ci si avventura anche Rea su questo tema intrigante e in un incipit esordisce con «Via del Mascherino: non so perché si chiami così, ma quel nome mi piace, così frivolo e forse furbo come suona. Dalla mia finestra non si vede nulla di speciale: una fetta della Città del Vaticano e, in primo piano, una serie di altre finestre, a loro volta senz'anima proprio come la mia, tutte squadrate da un burocratico compasso preoccupato soprattutto di celare ogni forma di vita al loro interno».
Chi si aggira dietro quei vetri? Una donna seminuda? Un vecchio? Una filippina intenta ad affettare cipolle? Chissà? Tanta separatezza «sa di scandalo», ma «tutto cambia allorché l'occhio raggiunge il selciato, rincorrendo le eterne maschere di Roma (dall'oste al salumaio, dalla fioraia al tintore, al portiere) assieme allo sciamare degli infiniti pellegrini, ansiosi di andarsi a meravigliare davanti alla cupola di San Pietro». Dunque, tutta «una questione di quote» (tutte le citazioni da Scandalo in Vaticano, in Le finestre sul cortile: frammenti d'Italia in 49 racconti, a cura di S. Scateni, introduzione di G. Ferroni, Roma, Quiritta, 2005, p. 77). In alto, le persone si nascondono dietro serrande ostinatamente abbassate, a una quota che per questo si ammanta di peccaminosità, in basso, c'è chi affida lo sguardo allo sguardo altrui e non disdegna modi cordiali.
Se «i romanzi» sono «inventari di cose perdute», come leggiamo ne La dismissione, il più dissipato (e per questo il più raccontato da Rea) è proprio il paesaggio campano, con una costa alterata che non ha risparmiato niente, neppure quel «ventre materno» (Napoli Ferrovia, p. 793) denominato Seiano, dove la famiglia villeggiava e dove Ermanno ha imparato a pescare: «il Golfo di Napoli che ricordo è quello degli anni Trenta ed era di una bellezza delirante. Ebbene, io mi porto dentro il suo ricordo ossessionante, ma so che è qualcosa di definitivamente perduto. Certo, i miei figli questo ricordo non ce l'hanno, ma anche loro sentono che qualcosa è stato perduto in modo irrecuperabile. Quel che voglio dire è che per me e per loro la perdita è vissuta con un diverso sentimento di dolore» (La fabbrica dismessa è un sogno infranto, Intervista di N. Adragna, «Stilos», 2 aprile 2002).
Ma, esiste uno spicchio di paesaggio che non sia stato brutalizzato? Sembra di sì, per Ermanno, ed è quello dei primi contatti con il mondo, quel «paesaggio che contiene, come una scatola, la nostra infanzia e la nostra prima giovinezza, quando si forma la personalità e maturano i sentimenti». Soprattutto quello, dove si sono avuti i primi contatti con la letteratura. Dunque, un paesaggio mentale che riaffiora nella memoria continuamente. «Io ricordo per esempio di aver divorato, ragazzo, la Montagna incantata di Thomas Mann a Capri. Ebbene, ancora oggi, a tanta distanza di tempo, io non riesco a dissociare le emozioni suscitate in me da questo libro dall'ambiente in cui tali emozioni sono state vissute. E dire che nulla è tanto lontano, almeno apparentemente, dal paesaggio evocato in quel romanzo dal paesaggio caprese» (Ermanno Rea, Intervista di F. Pietrangeli, «Sincronie», n. 6, 1999, pp. 76-77).
Convivere con gli ambienti cristallizzati nella memoria è abitudine diffusa, ma per Rea non si tratta di spazi pacificati. Al contrario. Arriva perfino a tutelare con spirito combattivo l'onorabilità compromessa di quei luoghi ormai dimenticati e di chi ci ha vissuto. Non si spiegherebbe altrimenti perché l'Io narrante di Mistero napoletano concluda la sua quête dicendo: «mi illudo di aver estinto un debito contratto con me stesso tanto tempo fa, nella convinzione che non si può amare né una città né un amico – nessuno – senza essere poi disposti a mettere in gioco noi stessi in nome della loro innocenza» (Mistero Napoletano, p. 397). Né si spiegherebbe perché l'Io narrante ormai ottantenne di Napoli Ferrovia s'imbarchi «in un viaggio nella città che non c'è più» per non  «tradire la città-ossessione che ha occupato con sorniona invadenza la maggior parte dei tuoi pensieri da quando eri un ragazzo» (Napoli Ferrovia, p. 757).
La distanza fisica da Napoli ha il vantaggio comunque, di offrire una focale nitida allo sguardo: «Credo che essere andati via significa conquistare la dimensione della lontananza che produce un ripensare sé e la propria terra, affrancandosi dalla sindrome della recita collettiva, dell'autocelebrazione che viene dall'avere scarsi rapporti con l'esterno. Del resto, Raffaele La Capria ce lo ha spiegato splendidamente ne L'armonia perduta, libro fondamentale», ma anche testi come «L'abusivo e Via Gemito: sono libri bellissimi, e il romanzo di Starnone ha pagine di grande poesia». Per altro, la vicenda è ambientata negli anni Cinquanta, come lo è Mistero Napoletano o come lo è «Posillipo di Elisabetta Rasy. Evidentemente gli anni '50 corrispondono a una situazione oggettiva comune ai molti che hanno lasciato Napoli portandosi dentro una identità forte e pesante»  (Romanzi civili, tra realtà e finzione, intervista di G. Picone, «Il Mattino», 2 novembre 2001).

 

Pubblicato il 22/10/2014