Intervista di Cosetta Seno a Paolo Cherchi sul suo recente libro "Maestri. Racconti e memorie di un apprendistato" (Longo, Ravenna, 2019)
C. Paolo, ci hai regalato un altro libro che quasi per magia è tutto tuo ma è anche tutto nostro. È tuo perché è una specie di autobiografia intellettuale, quindi sei tu il protagonista principale, la voce del narratore e il personaggio che dice io. Ma quell’io siamo anche tutti noi insegnanti di lingua e letteratura italiana in America. Il focus del tuo libro, infatti, è la tua esperienza di insegnante di letteratura italiana negli USA, e la racconti parlando dei maestri che ti hanno guidato sia in Italia, dove hai avuto la prima formazione, sia in due grandi università americane, la University of California a Berkeley e la University of Chicago. Una parte cospicua degli italianisti americani hanno fatto un’esperienza simile alla tua, e molti si riconosceranno in queste tue pagine. Come rilevi spesso nel libro, la tua esperienza abbraccia un arco di oltre mezzo secolo, mentre molti altri italianisti sono di leve più giovani e quindi molte cose sono cambiate; tuttavia trarranno guida e ispirazione da quello che tu racconti. Inoltre attraverso le tue pagine verranno a sapere quale fosse lo stato dell’italianistica negli anni ’60 e ’70 e, ancora più indietro, nei primi decenni del secolo scorso: per i più giovani sarà un tuffo nella preistoria. Ma prima di parlare del libro, dimmi come e perché hai voluto scriverlo.
P. Grazie, Cosetta, del tuo interesse per questo mio libro, che trova la sua prima causa nel fattore età al quale accenni. Ormai io faccio parte della generazione dei vecchi italianisti in America, e quando si supera una certa età accade che gli affetti contano più dei concetti. Ogni studioso, o quasi tutti, sviluppa negli anni della sua formazione un affetto verso quelli che l’hanno guidato e ispirato. È un affetto particolare che rassomiglia a quello che sentiamo per i genitori, ma ora si tratta di un genitore che noi stessi scegliamo e che riconosciamo quando sentiamo che ha fatto nascere in noi una vocazione o che magari ce l’ha fatta scoprire. Questo è il maestro. E si capisce cosa sia un vero maestro, e non solo dal punto di vista intellettuale ma anche da quello esistenziale, quando la memoria lo rivisita continuamente con gratitudine e affetto e quando nel nostro lavoro riconosciamo la sua presenza, quando nel subconscio sentiamo inconsapevolmente il suo giudizio e cerchiamo la sua approvazione, e questo anche anche quando ce ne siamo allontanati intellettualmente, o “lo superiamo”, come si suol dire in modo positivo.
C. È vero, il libro insiste molto sulla nozione di cosa costituisca la figura di un maestro, ed è un concetto che serve a capire come anche noi dobbiamo pensare di svolgere la nostra professione di insegnanti-maestri: per diventarlo non basta solo trasmettere nozioni e sapere, ma ispirare e far amare la disciplina che professiamo. Ma come è nato concretamente Il libro?
P. Nella mia carriera ho avuto l’occasione triste e bella insieme di scrivere delle necrologie: tristi perché si perdeva un maestro, e felici perché era un’occasione per celebrarne i successi professionali. In questi necrologi si ricorda “ufficialmente” una persona secondo uno schema che è dettato dalla convenzione e dal genere, e non vi è molto spazio per parlarne dal punto di vista personale e affettivo. Quindi, ho raccolto alcuni di questi necrologi, li ho arricchiti di appendici in cui parlo dei commemorati dal punto di vista personale, insistendo soprattutto sulla loro funzione di maestri nella mia formazione. Ad un certo punto mi sono reso conto che queste commemorazioni creavano una specie di discorso continuo, una ricostruzione di quella che è stata la mia carriera professionale, e per questo ho aggiunto vari altri “maestri” dei quali non avevo scritto un necrologio, ma che avevano contato molto nella mia formazione sia intellettuale che morale. E mentre procedevo a creare una galleria di questi personaggi, capivo che, mutatis mutandis, la mia formazione presentava analogie con quella di molti colleghi, alcuni più anziani e altri molto più giovani, i quali sono dovuti passare per simili fasi di adattamento al modo in cui si professa l’italianistica nelle università americane. Quest’esperienza di adattamento, o chiamamolo megli di “acculturazione”, accomuna molti italianisti formatisi in Italia e venuti poi in America ad insegnare letteratura italiana. Avevo così individuato un altro tema che, non solo dava unità al libro, ma ne giustificava in buona parte la nascita.
C. Ma il primo maestro di cui parli era un filologo romanzo, non un italianista puro.
P. Verissimo; e questo è un punto nevralgico del libro, del mio “re-inventarmi” come italianista. Inizialmente ho dovuto fare anch’io un PhD come tanti italiani che vogliono insegnare in America, ma ho sempre tenuto vivo il mio interesse per la romanistica nella misura in cui ho potuto farlo, anche perché in America non esiste una disciplina “filologia romanza” come la si pratica in Italia. Quindi sono dovuto passare per un processo di adattamento e di metamorfosi per il quale passano molti italianisti formatisi in Italia, alcuni dei quali erano originariamente linguisti o filosofi, e la nuova situazione li trasformava in Italianisti.
C. Questo passaggio, dici, ti ha reso lo studioso che sei, italianista ma anche ispanista e romanista, medioevalista e con incursioni rilevantissime nella cultura rinascimentale.
P. È vero. Ed è la conseguenza dell’adattamento ricordato. Avrei preferito essere un italianista puro, ma qualcosa me lo impediva, ed è forse il vero dramma degli italianisti come me. Alcuni degli italianisti trapiantati avvertono che l’oggetto dei loro studi, cioè la letteratura italiana, li isola nel mondo americano, a meno che non ci si occupi di alcuni autori o campi che interessano ai lettori anglo-americani. Dante e Boccaccio e Ariosto o anche alcuni moderni come Calvino vanno benissimo, ma chi si occupa di Marino o di Parini o anche di Manzoni e di Leopardi, si trova in un deserto, perché non sono autori che interessano all’accademia americana. Bisogna capire presto che il canone dell’italianistica americana è molto ristretto e questo taglia il respiro. Il trapianto impone altre limitazioni, ad esempio: qual è il pubblico di un italianista che professa in America e in genere all’estero, è quello del paese ospite o quello di origine? Entrambi, certamente, ma poi di fatto non è nessuno dei due, almeno in senso pieno e soddisfacente. Inoltre se si scrive in italiano è difficile che si venga letti in America e se si scrive in inglese si rischia di non esser letti in Italia. Insomma c’è uno sfasamento che può creare un minidramma intellettuale ed esistenziale, e credo che il mio libro parli per molti trapiantati come me. E per questo mi sono deciso a scriverlo. La mia esperienza da sola non merita una “autobiografia”, non avendo titoli per propormi come exemplum. Invece, vedendomi come rappresentante della “categoria” degli italianisti in America, ho pensato che i miei racconti e ricordi potrebbero interessare gli italianisti sparsi per il mondo, e questa dimensione era sufficiente a giustificare la pubblicazione di una sorta di autobiografia professionale.
C. Lo si capisce chiaramente, e molti di noi ci riconosciamo nella tua esperienza. Ma, dimmi, consiglieresti un qualche modo per ovviare al senso di isolamento che mi sembra sia il patema più normale degli italianisti del tuo tipo, e non degli italianisti di formazione americana?
P. In quest’ultima distinzione che fai mi indichi la direzione che potrebbe prendere la mia risposta, ed è una lezione che ho imparato da alcuni dei miei maestri a Berkeley, specialmente Gustavo Costa e Aldo Scaglione. Per sentirsi meno isolati intellettualmente bisogna informarsi e seguire la cultura del paese ospite, perché solo così si può intessere un dialogo costruttivo e riuscire a far contare la nostra cultura un po’ di più di quel che conterebbe se ci ghettizziamo nell’italianistica nostrana, rendendoci stranieri due volte.
C. E questo è un consiglio che dai ai giovani che magari arrivano dall’Italia convinti di essere i soli a sapere le cose, e disdegnano la cultura del mondo che li ospita. Ho apprezzato molto i consigli che dai in questo senso, anche perché, tutto sommato, le culture letterarie sono “locali” o comunque nazionali, e non si possono insegnare come le scienze, il cui discorso è veramente universale. Ma, parliamo un po’ della tua produzione di cui dai una specie di resoconto nella lunghissima lista di pubblicazioni posta in appendice, quasi un mezzo migliaio di titoli. Hai un sistema da poterci insegnare di come essere così produttivi?
P. Pensi forse di farmi un complimento, e invece la mia produttività, essendo forse troppo varia, mi deprime. Mi considero un dispersivo. Sento un po’ di invidia per quegli studiosi che legano il proprio nome a uno o due autori: forse finiscono per annoiarsi ma diventano quelle che nel mondo accademico si chiamano “autorità”, anche se di fatto non devono quasi mai dirimere questioni controverse. Comunque, per quanto riguarda il metodo, non ne conosco altri se non quello della lettura nella quale si trovano i problemi. Ho sempre pensato che i lavori migliori nascono quando i problemi “si trovano” e non quando “si cercano”. Penso anche che la produttività sia legata al temperamento in misura pari al sapere e alla ricerca. Lo si vede anche nella galleria dei miei maestri: alcuni come Segre, Momigliano, Varvaro e Costa hanno prodotto moltissimo, mentre altri come Silverstein o Weinberg hanno prodotto in misura meno ampia, ma non per questo sono studiosi di livello inferiore. Sotto questo rispetto, gli studiosi non sono tutti uguali: Spitzer produsse migliaia di saggi ma mai un vero libro organico e di una mole che lo distingua dalla meno voluminosa “monografia” tipica; Auerbach, invece, scrisse pochissimi articoli ma un paio di libri epocali. L’immaginazione critica, il vero asset degli studiosi, si manifesta in forme diverse. Credo che la finezza di un critico si possa rivelare in una nota, e magari non emergere mai da lavori ponderosi. Forse il segreto sta nella profondità e nella varietà delle letture, ma ammetto che questo può essere il “mio” segreto, pertanto non è valido per tutti. Per quel che mi riguarda posso dare un esempio. Una volta leggendo un’antologia di poesia latina medievale mi sono soffermato su un testo che un certo intuito — non so se chiamarlo istinto o memoria remota —, mi portava a credere di essermi imbattuto in un frammento di un vangelo apocrifo. La ricerca poi confermò questa intuizione e capii di aver trovato un frammento sconosciuto del Vangelo di San Bartolomeo, e lo pubblicai nella prestigiosissima Revue Biblique. Una volta pubblicai un saggio intitolato “Le nozze di filologia e fortuna” in cui illustravo con esempi personali il ruolo che la Fortuna o il caso giocano nella ricerca filologica. E la fortuna non ha sistemi, per cui non sarei in grado di “razionalizzarla” e trasmetterla in forma di insegnamento. Devo anche aggiungere che spesso si legge senza “trovare” niente, e non sempre le “intuizioni” sono giuste.
C. Ci sono, comunque dei nuclei sui quali hai lavorato per lunghi periodi. Mi pare che uno di questi sia il mondo dei minori del Cinquecento, al quale hai dedicato alcuni lavori ormai classici come Polimatia di riuso che ha rivelato il “segreto” della vasta erudizione classica dei nostri scrittori del Cinquecento e anche del Seicento: la loro erudizione era riconducibile ad alcuni repertori di luoghi comuni che nessuno però citava. Un altro tuo grande lavoro in questo campo è la tua edizione einaudiana della Piazza universale di tutte le professioni del mondo di Tomaso Garzoni. In un paragrafo in cui enumeri alcune “disavventure” professionali, tocchi en passant anche questa edizione e dici di averla curata in collaborazione con una persona che non nomini. Scrivi letteralmente: “ E non fu forse una disavventura imbarcarmi in questo lavoro immane con una collaboratrice che di fatto poi collaborò pochissimo?” Cosa intendi dire?
P. Esattamente ciò che il testo dice, ossia che la collaboratrice non collaborò strettamente con me se non per un periodo limitato. Ci fu un periodo di vari anni in cui non sapevo se e a che cosa e come stesse lavorando o se fosse ancora interessata al lavoro. Comunque è un argomento che preferisco non toccare, anche se i disagi e i problemi che ne derivarono non furono di poco conto. Chi vuole saperne di più può consultare tutti i materiali riguardanti questa collaborazione, materiali che sono depositati presso la sezione dei rari della Regenstein Library dell’University of Chicago. Lì c’è tutta la corrispondenza con la collaboratrice, con l’editore e tutti i miei quaderni di lavoro.
C. Perché hai pubblicato questo libro con l’editore Longo e non con un editore americano?
P. Per varie ragione di cui alcune sono personali e altre intellettuali e professionali. L’editore Alfio Longo è un amico di vecchia data. Con lui ho pubblicato vari libri, incluso l’edizione delle opere minori di Garzoni, molti volumi del “Seminario Mazzoni” in collaborazione con gli studenti dell’University of Chicago. Ma non è solo questo il motivo: oltre all’amicizia, ritengo che sia un editore eccellente per la puntualità, per la cura e per la scelta dei titoli che pubblica. Un’altra ragione, infine, è quella indicata nel mio libro: Longo è stato il più importante editore per gli italianisti d’America, e per molti anni ha dominato questo mercato. E, dato l’argomento del mio libro, era solo normale che lui ne fosse l’editore. Un editore americano non avrebbe accolto volentieri un libro del genere anche perché le leggi del mercato non lo consigliano. Pubblicarlo in Italia significa anche far conoscere ai colleghi italiani lo status degli italianisti operanti all’estero.
C. Il libro parla quasi esclusivamente di persone scomparse, e contiene solo rari cenni a persone ancora in piena attività. Perché?
P. È vero. È un criterio imposto in parte dal ruolo che la “memoria celebrativa” gioca in questo libro, ed è un tipo di memoria che non si applica bene agli amici e ai colleghi vivi. Dico di avere molti maestri fra i miei amici e conoscenti, ma non li ho inclusi perché essi sono semmai i lettori di questo libro e non i personaggi. E questa scelta un po’ mi ha turbato, perché ho molti amici per i quali non avrei riluttanza alcuna a ricordarli con grande rispetto e come maestri. Ma correvo il rischio di ometterne alcuni magari per semplice dimenticanza o caduta di memoria. E il mondo dell’accademia produce una specie di permalosità che è meglio evitare. Era meglio limitarsi al ricordo di quelli che non leggono più.
C. Che lettori pensi di avere?
P. Spero molti giovani italiani che pensano di venire in America per fare quello che io e vari altri abbiamo fatto. E oggi questo numero è molto alto perché le università italiane sono “al completo”, ma purtroppo la situazione in America sta diventando sempre più difficile. Ai miei tempi il problema non era trovare lavoro, ma scegliere la sede dove svolgerlo. Questi potenziali lettori che pensano di “trapiantarsi” potrebbero farsi un’idea di ciò che li aspetta leggendo il mio libro, anche se non è aggiornatissimo, essendomi ormai allontanato alquanto dalla vita quotidiana dei campus americani e dalla politica universitaria. Spero che lo leggano i miei colleghi, perché potrebbe incoraggiarli a raccontare la loro esperienza professionale americana in modo che risulti più chiaro cosa significhi vivere in due mondi senza poter chiamare “mio” nessuno dei due. Forse alcuni di loro potrebbero raccontare dei muutamenti fondamentali avvenuti nelle università americane che sono all’origine della politica delle “identity”, della morale del “politically correct” e di tante tendenze che hanno cambiato la cultura occidentale. Io mi sono astenuto dal parlare di queste materie che hanno fatto parte anche della mia esperienza americana, ma il il mio tema principare era quello del mio apprendistato accademico. Spero, inoltre, che abbia lettori curiosi di conoscere un pochino del mondo accademico che ha le sue tinte e macchiette e titani. Mi auguro di essere riuscito a comunicare un’ “aura” di questo mondo, anche se non ho voluto “analizzarlo”.
C. Credo che proprio questa “aura” sia la parte più godibile del libro. Offri una galleria varia di maestri tuoi, non tutti grandi, ma appunto tuoi per quello che ti hanno insegnato. E lo fai con un tono narrativo avvincente, con una dosatura equilibratissima di osservazioni scientifiche e di un’aneddotica piacevole, curiosa e discorsiva. Spero proprio che siano molti i lettori di questo libro, agile, dotto e informativo come raramente si vede in questo tipo di libri. I lettori di questo tuo libro coglieranno anche un’ombra di pessimismo. Sbaglio, o non sei un po’ pessimista sul futuro dei nostri studi?
P. Lo sono, ma vedo che lo siamo un po’ tutti. Il ruolo e la funzione degli studi umanistici in generale procede ormai da vari anni su una china e non sappiamo se saremo ancora in vita quanto giungeremo al fondo. Ormai è dato per scontato che le nostre discipline stiano passando per una crisi profonda. Semmai si discute sulla causa che l’ha prodotta, ma nessuno ha una risposta, o meglio ce ne sono molte e tutte diverse. Comunque non mi sembra il caso ti tornarvi con una nostra lettura del fenomeno. Bisogna rassegnarsi a capire che davanti a fenomeni così vasti e diffusi, lo sforzo singolare anche di persone qualificatissime non può arrestare il declino. È importante, però, continuare a lavorare con la massima serietà, e quindi anche con passione. Quello che rimarrà lo diranno i posteri, ma noi dobbiamo credere che niente muoia e che al massimo tutto si trasformi: la letteratura e gli italianisti continueranno ad esistere sebbene non sappiamo in che modo ciò avverrà.
C. Caro Paolo, ti ringrazio molto di questa intervista e del tuo bel libro che, ne sono certa, piacerà molto anche a tutti quelli che, come me, sentono nostalgia di un mondo in cui “i maestri” avevano un ruolo importantissimo nel “formare” studenti. Il tuo racconto di quando visitasti un importante studioso a Madrid, mi ha svelato un mondo che non conoscevo e l’episodio mi ha quasi commosso perché dimostra una devozione nei confronti del sapere e della cultura che adesso è quasi sconosciuta. Grazie anche di essere stato, per me e per tanti altri, un autentico “maestro” nel senso più pieno della parola, e di aver condiviso, con tanta generosità, il tuo sapere e le tue esperienze. Il tuo libro, secondo me, ha un grande valore anche per questo. Non sorprenderti però se la tua casa diventerà meta di pellegrinaggi da parte di studiosi di tutte le età.
Pubblicato il 30 giugno 2019