Andrea Tarabbia – Trasfigurare il reale

Intervista di Raffaello Palumbo Mosca

 

RPM: Vorrei cominciare con una citazione: l’invenzione, scriveva Manzoni nella Lettera a Monsieur Chauvet, è un «completare la storia, restituire, per così dire, ciò che è andato perduto» e il romanziere, all’occorrenza, potrà persino «inventare dei personaggi», immaginare ciò che manca, ma solo per «far risaltare» la storia stessa. Come sappiamo, poi Manzoni muterà parere, rifiutando tutti i componimenti misti di storia e di invenzione; e tuttavia, mi sembra che questo sia un buon punto da cui iniziare a guardare la tua opera nel suo complesso. Il demone a Beslan (Mondadori 2011), Il giardino delle mosche (Ponte alle Grazie, 2015) e Madrigale senza suono (Bollati Boringhieri, 2019, vincitore del Premio Campiello) partono tutti da un dato storico e reale e da una lunga ricerca documentaria eppure non sono, in senso stretto, nonfiction novel: la parte dell’invenzione, quel «completare la storia» di cui parlava Manzoni, con tutta la sua potenza simbolica, è preponderante. Sei d’accordo?

 

AT: Sì, sono d’accordo. C’è qualche studioso che, proprio facendo leva sulle basi storiche e documentali da cui partono i miei lavori, mi annovera tra gli autori che si occupano di non-fiction, ma io non sento di farne parte. O meglio, sento di farne parte, ma non in virtù dei miei romanzi: ho scritto opere di non-fiction – penso soprattutto a La buona morte e a Il peso del legno, che hanno parti decisamente saggistiche, autobiografiche e riflessive, e che dunque sono in tutto e per tutto non-fictional. La cosa è piuttosto curiosa: di fatto, sono un autore che ha frequentato e frequenta la non-fiction, ma non nelle opere grazie a cui qualcuno lo ritiene un autore di non-fiction. Nei tre romanzi che nomini, e che in un certo senso, insieme a Il peso del legno e a La ventinovesima ora, costituiscono un mio “canone” del tutto personale, non vado molto più in là di quanto diceva il primo Manzoni sul romanzo storico. Prendo biografie, storie vere, fatti di cronaca, trovo un punto di vista particolare e li riscrivo, avendo cura di tappare i “buchi” e le falle della documentazione con l’immaginazione. Tempo fa, ragionando proprio su questi temi, e stimolato dalla lettura, tra gli altri, di Le benevole di Jonathan Littell e HhHH di Laurent Binet, avevo scritto un lungo pezzo intitolato Il sopravvento nel quale arrivavo a dire che, per certi scrittori – me compreso, anche se ovviamente non mi citavo –, il cosiddetto romanzesco finisce per prendere il sopravvento anche laddove il dato storico, di realtà, è molto forte. È come se la fiction ti chiamasse a sé, mentre scrivi, perché in fondo è l’unico modo che abbiamo per non limitarci a descrivere un nudo fatto, ma per provare a rendere universale ciò che nasce particolare.

 

RPM: Mi piace questa idea del romanzesco che “prende il sopravvento”. Questo è vero, mi pare, anche per Littell, che citi, mentre molto meno lo è per il Binet di HhHH, un libro che è - o tenta di essere –senza invenzione e forse persino un atto di accusa contro il romanzesco, o almeno contro il romanzesco e l’invenzione nell’ambito di un evento storico come l’olocausto. Tu, invece, dimostri una fiducia non comune e non scontata nel genere-romanzo, inteso proprio come costruzione simbolica. Oggi viviamo in un’epoca nella quale alla grande proliferazione di romanzi fa da contraltare anche una progressiva – irreversibile? – marginalità della letteratura: da cosa ti deriva la fiducia nel genere?

 Ritornando, invece, alla dimensione simbolica: Il demone a Beslan, pur raccontando un fatto di cronaca relativamente recente, spinge immediatamente sul pedale della trasfigurazione della realtà mostrando i personaggi principali in un anfiteatro. È, mi pare, un indizio per il lettore, al quale tu immediatamente dici: ‘ciò che stai leggendo è una rappresentazione’. Sei d’accordo?

 

AT: Non so da dove derivi quella che tu definisci «fiducia nel genere». Non so nemmeno, a dirla tutta, se si possa parlare di fiducia. Ho la sensazione, come lettore, di trovarmi sempre più a mio agio con le forme ibride, parasaggistiche: mi dico che la narrativa pura – posto che sia mai esistita – ha ormai fatto il suo tempo, vado a cercare biografie, saggi narrativi, reportages e mi sembra che sia quella la dimensione in cui ha senso per me muovermi anche come scrittore. Poi, però, leggo una pagina di Vargas Llosa e faccio fatica a prendere sonno. Ecco, funziona così anche quando scrivo, quando immagino come il personaggio X può andare da A a B: c’è un modo narrativo di immaginare, di vedere le cose, e io in qualche modo lo possiedo. Dunque, quando mi ritrovo con X e devo fargli fare qualcosa, immediatamente comincio a pensare plasticamente, per scene, e inevitabilmente divento un narratore puro. Prendi Il peso del legno: per molti aspetti, lo considero il mio libro migliore – è il più personale, quello dove ho sciolto maggiormente le briglie e mi sono messo a nudo, ma dove ho anche reso esplicita, grossomodo, la mia idea di letteratura; è un libro che ha parti saggistiche, autobiografiche, di pensiero. C’è tutto e mi ci riconosco, mi dà piacere averlo scritto. Ma quali sono, dentro questo tutto, le parti migliori? Senza dubbio i due momenti narrativi: il racconto su Giuda che c’è a metà libro e il finale, con il racconto sul ladrone cattivo. Credo che, con il riferimento a Il peso del legno, possa darti una risposta anche alla seconda parte della domanda, quella relativa al piano simbolico: a un certo punto, mentre scrivevo il libro e mi districavo tra Scritture, commenti, visioni teologiche e imprese letterarie compiute da altri, ho capito una cosa: c’erano alcune cose molto profonde, molto mie, che, se fossero state espresse con una tecnica saggistica, sarebbero risultate in definitiva banali, sciocche; avevano bisogno, per essere dette senza che venissero svilite da un’argomentazione trita, di fare un salto, di diventare qualcos’altro. Quel che è successo allora è stato abbastanza stupefacente anche per me: ho messo un punto, sono andato a capo, e ho cominciato a raccontare. Fino a un secondo prima, non avevo idea che avrei scritto un racconto su Giuda, né che ne avrei scritto uno sul ladrone. Non erano previsti dal piano dell’opera, per così dire. Ma certe cose sulla pietà, sull’amore, sul credere e sul non credere, sul dolore e così via, non possono essere dette con un testo argomentativo: si impoveriscono. Dentro una narrazione, dentro una storia, acquistano un livello ulteriore, la loro portata metaforica e umana si moltiplica, si moltiplicano i significati, ogni frase acquista senso e profondità. Non so spiegarmi in altro modo. Però, se ci pensi, quello che sto cercando di dire ha qualcosa di ancestrale: la stessa religione cristiana – argomento di cui si parla nel Peso del legno – è stata edificata e tramandata non tramite dei precetti (o non solo), ma tramite delle storie, dei racconti – le parabole, le vite esemplari dei santi e così via. È così che ci scambiamo informazioni, noi umani: raccontandoci qualcosa.

 

RPM: Se sei d’accordo, vorrei chiederti dei tuoi modelli, o comunque di quegli scrittori che in qualche modo consideri importanti. Forse è una considerazione banale, ma mi pare che, soprattutto per i tuoi testi non-finzionali, un autore al quale hai guardato è Emmanuel Carrère: La vita come un romanzo russo e, al di là di una certa consonanza di argomento, anche Il Regno. Mentre in Madrigale io ho sentito forte la presenza di un altro autore di «componimenti misti di storia e di invenzione» come Pomilio.

 

AT: Sì, ci sono sia Carrère che Pomilio, tra i miei modelli, e per ragioni solo apparentemente opposte: dal primo ho imparato, per così dire, uno sguardo – l’idea che si possa raccontare qualunque cosa a patto di mettere in gioco sé stessi, di trovare una relazione tra noi, i nostri fatti privati, e le cose del mondo; dal secondo ho imparato un certo uso dell’italiano e l’idea, che avevo già trovato in altri, per la verità, che la letteratura non sia altro che un insieme di scritti apocrifi. Ma non ci sono questi due, tra i miei modelli: io vengo su, come lettore, coi russi. Il mio scrittore di riferimento, quello a cui torno ogni volta desidero “trovarmi a casa” è Dostoevskij; pochi mesi fa ho riletto per la terza o quarta volta le Memorie dal sottosuolo e ricordo che, a ogni pagina, pensavo «Eccomi qui, tutto quello che sono è racchiuso in nuce dentro queste pagine»; poi Bulgakov, Andreev, Platonov, un certo Gogol’, Majakosvkij – insomma molti tra i maggiori russi del xix e xix secolo; poi gli italiani: Parise, Volponi, Malaparte, Piovene, Sciascia, Tobino. Ancora: Sebald, la letteratura yiddish del Novecento; Melville; Elias Canetti e Thomas Bernhard; recentemente mi sono innamorato di Andrzej Szczypiorski, e potrei andare avanti per pagine nominandoti quelli che considero i miei maestri e quelli da cui ho imparato ora un giro di frase, ora la drammaturgia di un dialogo, ora la descrizione di un sentimento, ora una possibilità nuova di creazione di una scena.

 

RPM: Questa che indichi è una costellazione molto varia, in un certo senso una costellazione “esplosa”, che dal centro russo si diparte in direzioni molto differenti. Guardando agli italiani che nomini, però, noto un filo rosso: sono tutti autori realisti in senso largo e tutti autori la cui scrittura nasce da una esperienza personale profonda. Prima di concludere vorrei soffermarmi un momento su Madrigale senza suono. Mi sembra, tra i tuoi libri, quello architettonicamente più complesso, con l’alternarsi delle diverse voci e dei diversi registri linguistici, dalle lettere novecentesche di Stravinskij all’apocrifo cinquecentesco di Gioachino Ardytti. Come in un cerchio torniamo allora a Manzoni, al pastiche delle gride. Madrigale, in maniera molto maggiore o più esplicita rispetto ai tuoi libri precedenti, contiene anche, mi pare, una dichiarazione di poetica. Come scrive Stravinskij «il motivo fondamentale dell’arte non è la creazione, ma il dialogo, o il conflitto, con chi è venuto prima di noi».

 

AT: Sì, c’è parecchio realismo, in quegli italiani. Ma fino a un certo punto: pensa al fantasma di Dostoevskij nelle Stelle fredde, e a quanta importanza riveste in quel romanzo la descrizione e l’immaginazione dell’aldilà; pensa a tutti gli apocrifi inventati da Pomilio, pensa agli episodi – iperrealistici, diciamo oggi, ma realistici solo a uno sguardo superficiale – di Kaputt. Hai ragione quando dici che il realismo e l’esperienza personale contano molto nella poetica di questi autori, ma a volte ho la sensazione che l’amore che nutro per loro sia più figlio della loro capacità di trasfigurazione che dello sguardo che posano sul reale. Una volta, in Sicilia, ho discusso a lungo con un tizio: lui sosteneva che Sciascia – parlavamo di Todo modo, se ricordo bene – fosse un grande realista, io dicevo che era un grande metafisico.

Per quanto riguarda Madrigale: non so se sia il mio libro architettonicamente più complesso. Senza dubbio è quello dove la struttura, la forma, giocano un ruolo più che decisivo e sono, per così dire, più evidenti e più sotto gli occhi del lettore. Ma il movimento con il tempo che si fa nella prima e nella seconda parte del Giardino delle mosche è, per certi versi, molto più complesso di quello di Madrigale – più complesso anche perché più sotterraneo, meno visibile agli occhi del lettore. Di complesso, per me, Madrigale ha una componente di gioco che coinvolge la forma e il tempo della narrazione. E con gioco intendo proprio dire che mi sono divertito a vedere come si potevano combinare due epoche lontane, come potevano dialogare, ma non solo: mi sono divertito a provare a mettere dentro il flusso della narrazione tutti i modi possibili del racconto – l’epistola, il diario, la narrazione in prima, la narrazione in terza, l’appunto biografico, l’aforisma – e differenti stili e linguaggi. In qualche modo, per me, Madrigale è un’opera di sintesi, un riepilogo di quello che ho imparato a fare fin qui. Se la vedi così, ha perfettamente senso che il libro contenga anche un’esplicita dichiarazione di poetica: era necessario, perché la struttura composita di tutto il lavoro tenesse, che fosse sorretta da una presa di posizione piuttosto netta. O almeno ho creduto giusto fosse così.