Intervista a Loretto Rafanelli
D: Cominciamo dall’inizio della carriera: lei non è un letterato “di professione”, ha studiato e ha sempre insegnato materie scientifiche. Come è arrivato alla poesia? C’è stato una sorta di apprendistato poetico?
Rafanelli: Non credo che parlare di carriera in relazione alla poesia sia appropriato: si racconta di un poeta a cui venne rivolta, da un giovane scrittore, la domanda: «come si può uscire dall’anonimato attraverso la poesia?» e lui brusco rispose: «i poeti non possono che entrare nell’ombra».
E come si arriva alla poesia? Paul Celan diceva che ogni poeta ha dentro di sé una ferita, e come si sa Celan ebbe una vita segnata da una profonda e irrimediabile tragedia. Il mio essere poeta non segue un passato lacerato. La lettura della poesia ha fatto sì che nascesse la mia passione per tale scrittura, e nei versi di molti poeti ho avvertito le loro ferite. L’esercizio della poesia e la sua inderogabile necessità si affermano attraverso pertugi sconosciuti. Io sono solo uno degli «interroganti viandanti», come diceva Heidegger dei poeti. E questo percorso è un mistero, perché non è chiaro da dove giunge tale voce e quale sia l’approdo. Il poeta è un essere in ‘bilico’, costretto a praticare un passo forzato, camminando senza meta, sapendo che è la poesia ad andargli incontro più che viceversa.
D: Da sempre si discute sulla questione dell’ispirazione in poesia: da una parte abbiamo l’idea che il poeta sia una sorta di “vaso” che viene riempito da un afflato poetico, da una necessità impellente (idea spesso rischiosamente vicina alla retorica e forse un po’ romantica). Dall’altra abbiamo invece il lavoro poetico come, appunto, lavoro, fatica, ars da affinare. Sono questioni molto vive sin dal Rinascimento, e gli approcci sono diversi per ogni poeta. Per esempio di recente ho ascoltato un’intervista fatta a una giovane poetessa, che afferma di lavorare pochissimo sui suoi testi, che li scrive praticamente “già pronti”. Lei ha parlato di come la scrittura le sia venuta incontro: al tempo stesso, visti gli intervalli di tempo abbastanza lunghi tra i suoi vari libri, lei è un autore che probabilmente lima e “lascia decantare” a lungo i suoi testi, lavorandoci parecchio sopra.
Rafanelli: L’ispirazione è un dato da cui partire, per quanto Benn ci avverta che essa «non guida, ma disguida... butta fuori un paio di versi, ma poi viene l’uomo che prende in mano questi versi, li pone sotto il microscopio, li esamina, li colora, cerca punti patologici». Lei dice: il ‘mestiere’, sì rientra certamente nel fare poesia, se consideriamo il fatto che la poesia non è qualcosa di estemporaneo e improvvisato. Eliot parlava di un laboratorio approntato dal poeta, alla stregua del lavoro di un artigiano «teso alla costruzione di una macchina o alla tornitura di una gamba di un tavolo». E García Lorca scriveva: «Se è vero che io sono poeta per grazia di Dio - o del diavolo - lo sono anche grazie alla tecnica e alla fatica, e perché io mi rendo assolutamente conto di che cosa sia una poesia». Mentre sulla severità formale, sia pratica che teorica, bisogna ricordare Valéry, che insisteva sulla necessità di un sistema di regole al fine di sollevarsi dalla spontaneità e dal caos degli spunti creativi. E per dire dell’idea che si ha comunemente della poesia è sufficiente riportare la domanda che spesso, curiosamente, al poeta si rivolge: «in che luogo lei scrive le sue poesie?». Una domanda che presuppone forse l’idea che il poeta sia associato a uno stato di precarietà, o che vaghi tra la bizzarria e la estemporaneità. Allora dico di Penna, uno dei grandi poeti del ‘900 italiano, che scriveva nei bar, sugli autobus, in maniera molto casuale. Ma poi il discorso della marginalità della poesia e del poeta deve finire qui. La poesia sappiamo essere ben altro. Attiene alla solitudine, al raccoglimento, alla ricerca, allo studio, all’approfondimento teorico. Montale parlava di una indispensabile ‘consapevolezza teorica’. La poesia necessita una attenta revisione e se pur giunge come un lampo, ha bisogno poi di una cura quasi maniacale. Nel mio ultimo libro ci sono forse due poesie che non ho modificato; gli altri testi sono stati cambiati più e più volte. Quindi ogni testo non è un solo testo, ma cento testi. La poesia è precisione assoluta, per quanto possa esserlo un lavoro artistico sottoposto alle leggi della creatività e del mistero di un dire che per sua natura non ha regole codificate, se non quelle grammaticali. La parola deve essere preservata come se fosse qualcosa di sacro, come diceva Bigongiari, e ciò è possibile solo se il lavoro è un battere fedele la propria vena, mediato dalla conoscenza. La poesia è un atto che sottintende l’accoglienza di quelle parti segrete, labirintiche che ci attendono a ogni passo, quelle scintille che vagano, che si fermano, che si perdono, nello stupore infantile, nel tragico dell’esistenza, nel segno della verità, nel solco della bellezza. La poesia è ‘tempo interiore’, quello che secondo Rousseau garantisce l’intensità lirica. La lingua diviene così una dimora, come diceva Celan, per quanto egli si sia ‘consegnato’, provocatoriamente, all’idioma (tedesco) degli assassini dei propri genitori e di un popolo, quello ebraico.
D: Sempre parlando di autocritica e di continua modifica e sistemazione dei propri testi quando sente di essere soddisfatto della sua poesia? E quando scrive ha un destinatario preciso?
Rafanelli: Il poeta deve capire se i versi hanno una reale urgenza, se sono attraversati da un tratto consuetudinario o invece dallo stupore, se hanno il segno lucente della verità e della originalità oppure no. L’autocritica è indispensabile, credo che stia soprattutto nel percepire se vi è manierismo oppure se si tende a “copiare” il già scritto nel corso del tempo, che pure è un dato abbastanza normale e fisiologico, divenendo un tratto identitario. La poesia è in sé un esercizio di attenzione estrema, un confronto con sé stessi e con la parola che urge. Io quando leggo un poeta cerco la sua straordinaria attesa sull’abisso, il suo quasi precipitare nell’interrogazione assoluta. L’autocritica è costante e doverosa ma non può neppure essere logorante, è sufficiente infine che il poeta sia sincero e onesto con sé e con gli altri, anche sotto un punto di vista etico (la famosa onestà di cui diceva Saba). Scrivere è avere gli occhi puntati sul dubbio, sul dovere di narrare l’estrema verità. Quando Adorno diceva che non si può più scrivere poesia dopo Auschwitz, intendeva dire che dopo Auschwitz non si può più scrivere come prima; il poeta deve porsi in un’ottica distinta. Se egli ha questo senso etico è già sulla buona strada, o addirittura ciò è già sufficiente. E questo ha a che vedere con l’urgenza e con la necessità, diceva Rilke in Lettere a un giovane poeta altrimenti non è poesia.
L’altra questione, ovvero per chi scrivo, è un aspetto importante ma che non rappresenta un risvolto decisivo per il poeta. Onestamente non mi sono mai posto il problema di chi mi leggerà, né di chi deve essere il mio interlocutore, se ci sarà. E questo credo che valga per tutti i poeti. Come ho detto, il poeta scrive per un bisogno, che peraltro non è congiunto per forza col pubblicare. Chi vorrà leggere la poesia è escluso dalla mente del poeta; se io pensassi all’interlocutore sarebbe tutto finito. Chiaro poi che la poesia troverà un proprio ‘spazio’: Salinas diceva che la poesia una volta scritta «non finisce; essa cerca un’altra poesia in se stessa, nell’autore, nel lettore, nel silenzio». E quando c’è un lettore questi si farà metapoeta, e potrà avere anche intuizioni ulteriori. Un certo tipo di narrativa invece deve fare sempre i conti con il mercato; il narratore nello scrivere un libro avrà come punto di riferimento il pubblico, ciò che questo si aspetta e cosa lo può attrarre.
D: Per lei come nasce una raccolta di poesie? Visto il senso di urgenza e necessità che soggiace alla scrittura di ogni singolo testo, come trovare il filo conduttore per raccogliere i testi? Si tratta di un progetto che si sviluppa strada facendo, progressivamente?
Rafanelli: Anche questo è un tema molto sentito da parte dei poeti, ci sono varie testimonianze riguardo il modo di organizzare le loro raccolte. Spesso si vedono libri costruiti in maniera approssimativa, anche se va tenuto a mente che non c’è una regola precisa per ordinare un libro. Si pensi a un grande poeta come Sereni, che amava mescolare le carte e l’ordine delle poesie. Io credo che ci voglia un po’ di attenzione, una progettazione misurata, anche se in questo mio libro nuovo a tratti ho fatto un po’ come Sereni. Trovo difficile dare indicazioni proprio per quello che dicevo prima riguardo al senso di libertà che il poeta ha nello scrivere, tuttavia un filo conduttore bisogna averlo in mente, perché poi l’aspetto cronologico e tematico ha la sua importanza. Serve quindi un’attenzione, un’avvertenza, una consapevolezza, e se dovessi dire qualcosa a un giovane che scrive poesia, gli direi innanzitutto che la fretta di pubblicare non è di per sé una buona idea. Meglio sarebbe passare attraverso una precisa trafila: confrontarsi con altri che scrivono, quindi avvicinarsi a poeti che già hanno un loro percorso consolidato, e pubblicare solo quando si è convinti che ciò che si scrive abbia una propria forza, una propria originalità, per quanto si possa essere originali dopo secoli di scrittura. Bisogna passare attraverso il confronto, mentre spesso vedo giovani assai presuntuosi che ripudiano la figura del maestro e del dialogo in una sorta di delirante autosufficienza, non sostenuta da adeguata preparazione o da reali virtù. I maestri esistono e sono necessari. Poeti tra i più importanti hanno impiegato molto del loro tempo giovanile in proficui colloqui con i loro poeti di riferimento e ne parlano ancor oggi come di qualcosa di decisivo per la loro formazione, come si evince anche dal libro I padri della parola, curato da Tiziano Broggiato, dove diciassette poeti italiani tracciano la mappa dei propri maestri.
D: Lei ha fatto il nome di Bigongiari, ma insieme a lui c’è anche un altro mentore, cioè Mario Luzi, a cui, all’interno di quest’ultimo libro, è dedicato un testo; in una nota alla fine del libro lei racconta come abbia portato sulle spalle la bara di Luzi. In merito al rapporto di chi scrive con i grandi maestri che diventano mentori, c’è il rischio che diventino un po’ ingombranti e rendano difficile trovare la propria voce poetica? Lei quando ha capito di essere pronto a pubblicare qualcosa di autonomo, che non riflettesse in maniera eccessiva la voce dei propri maestri?
Rafanelli: Bigongiari e Luzi sono stati i miei grandi maestri, con l’aggiunta di Roberto Carifi di cui direi di una fratellanza e di una fortunata vicinanza (fummo docenti nel medesimo liceo). Se devo parlare dei poeti che ho conosciuto di persona, che ho frequentato, ascoltato, e con cui ho condiviso di più cito sempre questi tre, pur avendo conosciuto molti poeti dell’ultimo pezzo del Novecento e di questo nuovo millennio (da Zanzotto a Sanguineti, da Maria Luisa Spaziani a Bandini, dalla Merini a Raboni, da Loi a Cappi, per dire solo dei poeti maggiori che ci hanno lasciato). Credo che sia necessario avere dei maestri e dei punti di riferimento, è indispensabile. Poi magari i maestri possono non avere a che vedere con lo stile degli allievi, o magari sono riusciti a favorirne un cammino. Chiaro che per un tratto si sarà troppo vicini ai maestri, si sarà un po’ epigoni, ma mai ci si deve disfare di loro, anzi sarà sempre necessario ritornarvi. Lo scavo, la ricerca, lo studio, il confronto dirà quello che si potrà raggiungere e quando si è pronti a pubblicare.
A proposito di Luzi racconto spesso ciò che mi capitò il giorno del suo funerale, il passaggio con la bara che ho inserito nella nota di una poesia a lui dedicata. Mi trovavo a Firenze per il suo funerale, e invece di recarmi in Duomo, come tutti, andai quasi sopra pensiero presso Palazzo Vecchio, dove c’era la camera ardente, ormai serrata, e notai con molto stupore che c’era pochissima gente, solo familiari e amici intimi. Poco dopo il mio arrivo il feretro fu portato verso la cattedrale, dove si doveva tenere l’orazione funebre, e mi fu chiesto se fossi disponibile a portare sulle spalle, con alcuni familiari, la bara. Accettai subito, e quando entrammo nel Duomo vidi che c’erano tantissime persone, migliaia; e tanti amici poeti che mi guardavano un po’ stupiti. Mi piace pensare che sia stato il destino a portarmi in quel frangente così colmo di onore.
D: Spostiamoci sulla sua ultima raccolta. In A ogni stazione del viaggio ricorre spesso la parola “incrocio”, e a livello tematico il libro sembra vivere tra polarità opposte: la realtà paesana di Porretta Terme, le metropoli e luoghi molto distanti geograficamente (America Latina e piccoli centri italiani); la singolarità di chi scrive e della sua esperienza biografica e la comunità degli amici a cui molti testi sono dedicati; la famiglia, la “cornice degli affetti” a cui ci si stringe in maniera quasi bertolucciana, e la storia che procede con il suo carico di atrocità. Mi chiedevo se e come la sua poesia (e la poesia in generale) viva all’interno di questi incroci e di questa tensione tra poli opposti.
Rafanelli: Una recensione al mio libro del giovane critico Alberto Fraccareta sottolinea proprio questo aspetto, quello della pluralità delle voci presenti nella mia poesia. Ma si potrebbe dire anche della pluralità dei luoghi incontrati o vissuti anche solo per un respiro lieve o un tempo più lungo. Il poeta è proprio questo, cioè colui che raccoglie le voci delle tante persone viste o anche di quelle che mai si sono incontrate, eppure sono nel cuore e nell’anima, in una partecipazione sorprendente e segreta. Credo che il poeta debba porsi in ascolto dell’altro, il più vicino, seppure posto nella distanza, come ricordava Henry James, in La belva nella giungla, oppure quello più lontano ma risolto in una vicinanza non pietosa, ma palpitante. E deve esserci una responsabilità, quella che Lévinas considerava «un’esigenza che non mi dà scampo, un’esigenza originaria e che mi precede». La responsabilità verso l’altro mi ha condotto a ‘costruire’ una comunità di voci. Sono gli amici, i familiari, o le persone che non conosco ma di cui volevo comunque parlare, magari persone sofferenti di cui avevo letto o ascoltato distratto il loro dire. O qualcuno morto in una delle tante guerre, volti sconosciuti, vittime che solo Dio, come diceva Manzoni, conosce. Questo è uno degli aspetti del libro, anche perché ho sentito il dovere di tornare più e più volte a queste voci. Accogliere e raccogliere i tanti palpiti e viverli senza timori. Poi c’è il silenzio che ci sorprende, che non è una semplice modalità poetica ma l’essenza della poesia. Quindi la morte che è in agguato o ci attraversa continuamente nel nostro procedere. Quando parlo di Porretta non sto facendo un giro all’interno di questo paese, che ormai in realtà frequento raramente, ma è rivisitare le voci, voci che intervengono e vogliono imprimersi nella mia poesia, come se tante persone dicano: «ci siamo anche noi, ricordaci con le tue parole». È dare voce a chi non può più esprimerla. Così è situarsi nel centro di un bagliore, di un sussulto infinito e rammentare la tensione di un lontano passato in una comunità che è radice e labirinto al medesimo tempo, dimora divenuta esodo, meta, come nel Castello di Kafka, che più appare vicina più si allontana, e, da ultimo, diviene tempo infinito e abisso dell’anima.
D: In questo senso si potrebbe parlare del linguaggio poetico come linguaggio “universale”, che va oltre i confini e le tensioni di cui parlavamo prima, proprio perché più penetrante e meno contaminato dall’usura della conversazione quotidiana?
Rafanelli: Sì certamente, la poesia è un linguaggio universale che supera i confini e i segni del tempo, che si pone in alternativa al dire contingente segnato da un linguaggio che giustamente lei definisce usurato. La poesia ridà il senso perduto delle cose, consegnando una nuova modulazione del respiro, nel senso di una visione altra, quel terzo respiro di cui parlava Celan. O forse ancor meglio, quell’’occhio di troppo’ dell’Edipo di Hölderlin, che si avventura verso ciò che è in ombra, cioè il Principio, il Sacro. La rilevanza della poesia come difesa della lingua è uno dei connotati per cui dovremmo amarla e onorarla, come fosse il virtuoso residuale fortino, l’estrema difesa, l’ultimo giapponese asserragliato nella foresta. Ricordo che Luzi insisteva su questo aspetto, ritenendo la lingua, il nostro italiano, ormai deteriorata dalla tv commerciale, dalla pubblicità, dai giornali e infine da una scuola più attenta a modelli semplici e scontati (es. la canzone che sostituisce la poesia). Ma è bene annotare che quando si dice di salvaguardare la lingua, è da intendersi come riappropriazione del suo «carattere fondativo, dunque nel fondare di nuovo l’apertura verso qualcosa nell’epoca più di ogni altra logorata dal niente», come suggerisce Carifi.
D: Forse si può parlare di questa coralità anche all’interno dei singoli testi, come in Il cielo bianco di vento: ci sono dei punti tra una strofa e l’altra che sono delle elencazioni di nomi, città, luoghi, animali. Qual è il senso di questi elenchi? C’è forse anche un’istanza civile in tutto ciò?
Rafanelli: Sono stato classificato frequentemente come poeta civile, e questa classificazione non sempre rispecchia la mia poesia, perché credo che essa vada ben al di là di tale definizione; come la versione di essere un poeta ‘realista’; a volte peraltro la poesia che si appiattisce sull’istanza sociale suona retorica e ridondante. E bisogna rammentare necessariamente il “disgusto per il reale” di Baudelaire, in quanto la realtà è banale, poiché sono assenti lo spirito e l’anima, da qui l’esigenza di «accendere le immagini di miseria in brivido galvanico, simboleggiando invece quegli stati interiori o quell’indefinito mondo di mistero che riempie il vuoto dell’idealità», come egli dice. Allora, nel momento in cui il poeta vuole parlare, ad esempio, delle emergenze che ci accompagnano, il suo dire avrà un senso se sarà in grado di forzare la realtà fino all’estremo, con la conseguenza che la sua ‘ardente spiritualità’ si potrà sottrarre a ciò che è reale e così individuare e illuminare verità sconosciute.
È interessante fare un paragone tra le tante poesie “civili”, per notare il diverso modo in cui la materia viene trattata. Ad esempio le poesie di Quasimodo sulla guerra mi paiono perfette, così come quelle di Sereni in Diario di Algeria: in entrambi i casi si avverte l’andare oltre il contingente. In me preme la necessità di parlare di alcune cose che hanno una rilevanza non rinviabile, come fossimo nel resoconto di una fine. Ho scritto tre poemetti che ho messo sotto il ‘patrocinio’ di Walt Whitman, il grande poeta americano. Si tratta di tre “storie” che attengono alla nostra vita quotidiana e al nostro futuro: una sull’Occidente e sulla sua valenza culturale che non possiamo ignorare e che si trova “incisa” profondamente in noi, e sulla condizione dell’uomo di oggi; un’altra, abbastanza lunga, è dedicata all’acqua; la terza, di cui lei accennava nella domanda, è uno scritto che avevo pensato in modo diverso, e che poi pian piano ha preso una forma ‘dialogica’, ma soprattutto angosciante, perché si sofferma sulla condizione del nostro mondo che, come è stato detto da alcuni scienziati, non è certo che possa sopravvivere, date le ferite arrecate. Ho fatto un’elencazione di luoghi, animali, piante che presto spariranno o vivranno situazioni terribili, e che sono l’espressione di una voce che cerca di ricordare ciò che sta miseramente perdendosi. Dico della distruzione dell’ambiente, della fragilità del nostro habitat, del degrado che viviamo. Cercavo anche di annotare che esiste un’oggettività fatta di animali, cose e persone che in un certo senso ci guardano e ci dicono che tutto sta rischiando di finire per sempre. Una poesia che vuole dare a loro voce: e sono animali, cose e luoghi immersi in grida moribonde.
D: Il primo poemetto a cui ha accennato si intitola Occidente, una storia: qual è allora questa storia?
Rafanelli: È un tema delicato, assai delicato, difficile da raccontare in versi. È una storia millenaria, quella di noi che viviamo in questa parte del mondo, con tutte le innumerevoli profondità filosofiche ed esistenziali, e i valori fissati nel terreno solido del tempo, con le istanze religiose, specie cristiane, con le tante conquiste scientifiche, e la storia dell’arte, e la letteratura, e la costruzione delle città, e anche le tante violenze compiute. Ecco a fronte di tutto questo, quale è oggi lo scenario che abbiamo davanti, quale tema culturale, morale e umano possiamo ancora proporre, allorché molti dei nostri modelli appaiono fragili, eppure sempre decisivi, perché mediati da valori universali profondi: pensiamo ai concetti di libertà e di democrazia. Ecco, quale mondo riusciamo ancora a delineare, quale aspetto umano e culturale riusciamo a porre nella vetrina della storia, e quanto possiamo ancora salvare delle idee, delle esperienze, delle attività sociali e delle parole che ci hanno formato.
D: Ricollegandoci a queste tematiche (una poesia che dia voce all’altro e una poesia che si incontra con istanze civili), mi chiedevo quale fosse il suo grado di fiducia nella possibilità della parola poetica di far suo il dolore e di restituirlo a chi legge, soprattutto in virtù della necessità di un assoluto controllo del testo e del “bisogno” effettivo di ogni singola parola.
Rafanelli: Brancoliamo in una palude di segni, di sollecitazioni e soprattutto di dubbi, necessari e profondi. Quanto ci giunge di doloroso tendiamo a non trattenerlo, eppure sarebbe indispensabile, perché solo nominando il male, possiamo pensare di superarlo, o più semplicemente di alleviarlo. E nel caso userei la parola angoscia, più che termini come paura e dolore, perché, con Heidegger, così si intende il disagio di essere nel mondo, col suo nulla, nella sua totalità abissale. Poi il poeta non è che un semplice soggetto che vive in questa società, con le sue mille fragilità, ma indubbiamente è chiamato a cercare una verità smarrita, una parola misteriosa, un segreto. E cerca tutto ciò chinandosi nell’umiltà di una preghiera o nel sorriso di un bimbo, serbando lo stupore e quell’attenzione che non sono così facili da conservare. E portando un briciolo di speranza. Il poeta non può adattarsi a un presente che incalza nella dimensione del nichilismo, deve avere uno sguardo compassionevole e di accoglienza verso l’altro. Detto ciò, ogni poeta parteciperà e si confronterà in base a ciò che riesce a cogliere la propria fragile intimità. Non so se così muteranno le sorti del mondo, ma sarà comunque questa una forma di resistenza, almeno sul versante della lingua, quindi determinando la salvaguardia della comunicazione tra le persone, del ragionamento e dell’identità.
D: Nonostante il susseguirsi di tante diverse località che costellano la raccolta, Porretta, la città dove lei è nato, ritorna in maniera ripetuta senza però assumere mai i connotati di un luogo dal quale non si può fuggire o limitante. Il rapporto con il proprio luogo di nascita può essere ambivalente (pensiamo a Montale che dopo aver lasciato Genova non volle più tornarvi, a Bertolucci e al valore quasi mitico che Casarola assume nella sua poesia, o a Zanzotto e al suo legame fisico e linguistico con Pieve di Soligo): che ruolo riveste per lei Porretta Terme?
Rafanelli: Sì, il poeta si porta appresso un crocevia di spazi che mette in poesia, e gli esempi citati sono opportuni e ne potremmo aggiungere una infinità riguardo altri poeti. Tanti luoghi incontrati o vissuti in una fantasia a volte incantata: però in fondo il poeta insegue sempre un instabile centro, e questo non può che essere il luogo dove è nato, o ha vissuto, o in cui ha sviluppato quella tela di relazioni che fanno la propria esistenza. Parlare di Porretta per me è parlare dell’infanzia e dell’adolescenza, quindi di mille affetti, di mille passaggi, di svariati scenari, anche naturali, dato l’incanto di alcuni squarci, col fiume Reno che fa da sfondo o le montagne che insistono come un imponente messaggio. Le tante poesie che da lì hanno preso il via sono le cartoline di una vita, specie oggi che vivo come un esiliato, non abitandoci, ma pure come un estraneo, perché quando vi torno non ritrovo ciò che ho lasciato. Ma impellente si ripresenta il respiro di ciò che sotterraneo e invadente Porretta mi consegna. E ritorna in ogni libro come fosse un ordine preciso che si impone.
D: Nel libro sono spesso presenti riferimenti alla religione, alla preghiera, e il penultimo testo, dal titolo Invocazione, sembra confrontarsi proprio con una presenza divina. Alla luce dei suoi riferimenti a grandi poeti “religiosi” del ‘900, quale ruolo gioca la fede religiosa nella sua scrittura?
Rafanelli: In verità non sono frequenti i riferimenti alla religione, se non come ‘cimeli’ di un tempo passato, più vissuto con i suoi segni cerimoniali e rituali, allorché la Chiesa aveva un ruolo enorme, che coinvolgeva tutti. Ho ricordato in alcuni versi: il cinema parrocchiale, le processioni affollate, il pane benedetto dei Padri Cappuccini, con la ‘Chiesa dei frati’ che frequentavo. Ma appunto è il ricordo che preme, più che la religione in sé che urge, dove i rituali sono il ‘corredo’ di un periodo della mia vita. Certamente presente invece vi è nella mia poesia una istanza spirituale, raramente appagante e piuttosto dolorosa. O potremmo dire un’attenzione al sacro, che è qualcosa di vicino e allo stesso tempo inavvicinabile, presenza primordiale, «il più intimo a noi, ma più anteriore di ogni anteriorità» come dice Blanchot. Credo peraltro che i poeti che lei definisce ‘religiosi’ difficilmente hanno espresso alta poesia, però la religione, e mi riferisco a quella cristiana, è, senza esagerare, la vita di tanti anni, e molto della nostra cultura: una fede che, per quanto oggi sbiadita, preme e si fa presenza e si fa volto, quello di Cristo, con quella umanità radicale che rappresenta, con la sua tragicità, con il suo dolore, come dice il filosofo Unamuno, quell’essenza di una dimensione da cui non si può sconfinare.
D: Prima ha citato Sereni: qual è il suo rapporto con l’esperienza personale nell’ambito della ricerca poetica? Lo intende in un modo esclusivo come lo intendeva Sereni, che arrivò a dire di non poter scrivere nulla di cui non aveva avuto un’esperienza diretta?
Rafanelli: Non so se è necessario avere esperienza diretta delle situazioni per scrivere poesia; io ho scritto molte poesie che esulano dalla mia esperienza personale, e si affacciano piuttosto a una determinata sensibilità. Penso che il poeta debba estendere il proprio sguardo e confrontarsi con ciò che accade anche lontano da sé. Ad esempio in passato ho parlato in poesia della guerra in Bosnia; in quest’ultimo libro ho scritto degli studenti della scuola di Ayotzinapa, in Messico, uccisi perché oppositori del narcotraffico e del governo. Per quanto riguarda questa storia, mi trovavo proprio in quei giorni in Messico: aprii il giornale e trovai i volti di tutti questi 43 ragazzi trucidati, e ciò mi suscitò un dolore fortissimo e una particolare rabbia. A Città del Messico vidi molti altarini dedicati a questi studenti, e in alcuni di essi vi erano anche poesie scritte da persone comuni; e da lì è nata la mia poesia. Non ho visto la tragedia direttamente, ma attraverso i volti dei giovani uccisi e il dolore di tanta gente, quella ferita collettiva di molti messicani diventava anche mia.
Poi ci si può interrogare sul ruolo del poeta. Le famose parole di Keats, allorché diceva che il poeta «non esiste in sé, non ha un sé, è tutto e niente», riprendendo peraltro la lezione di Shakespeare, sono già una riflessione che porta lontano, come sottolinea Mussapi, giungendo alla configurazione della natura impoetica del poeta, in quanto strettamente legata al proprio stare totalmente al servizio della poesia. Sono sollecitazioni a pensare che mai si potrà ritenere che quello del poeta sia un semplice affacciarsi a un proprio vissuto interiore (come peraltro la grande lezione di Dante ci ha insegnato).
D: Rimaniamo sul confronto con i grandi del Novecento: anche Zanzotto, volendo essere molto schematici, ricerca una parola onesta e sincera che possa descrivere il reale e fare sue le ferite del paesaggio e della società, passando anche per forme sperimentali nell’approccio a questa complessità. Perché scegliere la parola poetica nel confronto con il dramma, qual è la natura della prospettiva inedita di cui parlava prima?
Rafanelli: Quando citiamo Zanzotto parliamo ovviamente di un poeta importante, ma un po’ lontano dalle mie preferenze. Ma Zanzotto, come lei dice, è anche da ricordare oltre che per il suo attento studio sulla lingua, a partire dal suo dialetto, per i versi dedicati all’ambiente, per il suo grido di allarme riguardo la ferita profonda e irreversibile apportata dall’industrializzazione alla terra veneta, che lui ricordava ancora vergine. E proprio dicendo di Zanzotto ci si può chiedere perché scegliere la poesia per raccontare un dramma o una storia o una emozione forte? Ma al contrario si potrebbe dire: come avrebbe potuto Zanzotto raccontare quel mondo che miseramente era stato cancellato? E gli odori del grano o dell’erba tagliata, e i regolari cicli delle coltivazioni, e le campagne con poche case coloniche, e la comunità contadina che viveva come una grande famiglia, il dialetto, le aie con gli animali da cortile, le miserie di quei contadini, e le stalle, e le veglie, e i filò, le chiacchiere che si facevano nelle stalle, come avrebbe potuto riproporre Zanzotto questo scenario del cuore, dell’anima se non appellandosi alla poesia?
D: Lei è un conoscitore della letteratura latinoamericana; ha viaggiato spesso in America Latina, ha tradotto Ramón López Velarde e curato antologie di poesia dell’America Latina. Come si è avvicinato a questa realtà e cosa la attrae di questo mondo?
Rafanelli: L’America Latina è un continente che ho scoperto recentemente, con la partecipazione al festival di poesia del Nicaragua, nel 2012, in cui vi erano decine di poeti internazionali, tra cui il Nobel Derek Walcott. Poi sono stato invitato in altri grandi festival, in Perù, Ecuador, Colombia e più volte in Messico, e ho visto, ho vissuto la magia di quella terra. L’America Latina è una terra complessa, in cui emergono svariati scenari, in cui forte è il senso di identità, specie dove il ‘sentire’ indigeno è presente, per quanto sia stato fortemente lacerato nei secoli. Il grande scrittore uruguayano Eduardo Galeano ne traccia una guida esauriente, mettendo in evidenza quanto male fu fatto a quei popoli dai conquistatori, per quanto la traccia coloniale ci regali bellezze come Cuzco, l’antica capitale del continente voluta dagli spagnoli. Oggi quelle pagine di storia sono il crocevia con cui molti poeti e scrittori si confrontano. Ma l’America Latina è un continente alle prese perennemente con dittature e violenze (quanti scrittori costretti all’esilio: Neruda, García Márquez, Benedetti, Gelman, Cortazar, Fuentes, Vargas Llosa, Dalton, Mutis, etc. e, ancora oggi, due amici: Gioconda Belli e Jorge Galán), con governi corrotti e fragili. La povertà è senz’altro un dato evidente, così come la presenza del narcotraffico, soprattutto in Messico, con le conseguenze immaginabili. Ma questo quadro non inficia il fermento straordinario di una comunità poetica ampia e solidale. Ciò è dovuto a una lingua comune, ma non solo. La relazione fra i poeti di quel continente è un dato che va al di là di ogni immaginazione. Un fermento che si sviluppa in vari modi: festival, tanti editori (tra cui Valparaiso, le mie edizioni), riviste, blog (‘Circulo de poesia’ conta 11 milioni di visualizzazioni), premi, università. La mia amicizia con numerosi poeti di quel mondo è una ricchezza che conservo con affetto e rispetto, così come l’impegno nella traduzione di alcune di quelle voci. Rimane così il desiderio di rinnovare continuamente l’abbraccio a quella terra, generosa e vitale, complessa e luminosa, derelitta eppure gioiosa, musicale e mitologica.
D: Infine potrebbe parlare del festival nazionale dell’acqua, da lei ideato e diretto ogni anno a Porretta Terme, e dell’importanza che questo elemento ha nella sua poesia?
Rafanelli: Il festival dell’acqua è un evento voluto per porre al centro dell’attenzione ciò che di più semplice e prezioso abbiamo, e che invece non è tra i nostri discorsi, quasi come fosse una ricchezza scontata. E pensare che già Talete, il ‘filosofo primo’ riteneva l’acqua il principio trascendentale dell’esistere. L’acqua è stata fondamentale per l’economia della Valle del Reno, e peraltro le acque termali di Porretta sono un bene prezioso, conosciute fin dall’epoca romana. Quale luogo poteva accogliere un tale festival, pensai. Nel corso del tempo varie personalità vi hanno partecipato: scienziati e scrittori giunti nell’Appennino per raccontare le tante storie, le tante emergenze legate all’acqua, con un’attenzione per l’ambiente prima che divenisse tema dominante.
Nella mia poesia compare spesso l’acqua, ma soprattutto nel senso dei fiumi che mi hanno accompagnato nel tempo, come il Reno, che è stato il fiume della mia infanzia. Nel poemetto La luce dell’acqua, che compare nel mio recente libro, il prezioso elemento diviene voce di un percorso personale e collettivo, un tentativo di parlare di una comunità, ma pure del mondo, con il dramma della siccità, dei migranti che attraversano i mari, o, ancora, l’acqua come l’Oceano che gli italiani solcavano per raggiungere l’America nel primo Novecento, quindi l’acqua che raccoglie le voci dei morti e le porta verso il presente, quindi le tante mie ore passate al mare a osservare il flusso continuo delle onde o l’immergersi e il nuotare. È un percorso in cui l’acqua diviene storia, ricordo, gioia, dolore, scenario aperto e universale. Poesia.
Loretto Rafanelli, è nato a Porretta Terme (BO), ha pubblicato libri di poesia: I confini del Viso, Forum, 1987, Il silenzio dei nomi, Jaca Book, 2002 (Premi: Gozzano, Metauro, Aleramo, Caput Gauri, Ministero dei Beni Culturali), Il tempo dell'attesa, Jaca Book, 2007 (Premi: Cassola Ultima frontiera Volterra, Foligno, Fabriano, Morosini), L’indice delle distanze (Jaca Book, 2013), Ad ogni stazione del viaggio (Jaca Book, 2021); di teatro (Artemisia, I ciclamini di Bosnia, Nelle buie stanze, Le voci del Filadelfia-Il Grande Torino); di saggistica (Il sangue della ricordanza). Dirige la casa editrice I Quaderni del Battello Ebbro di cui ha curato numerosi volumi. Ha partecipato con M. N. Rotelli alla Biennale di Venezia (2001, 2005, 2007, 2011). Tradotto in varie lingue e traduttore a sua volta dallo spagnolo, ha scritto il volume La nuova poesia dell’America Latina (Algra, 2015). Collabora con giornali, riviste e blog, relativamente a questa attività, di prossima pubblicazione una raccolta di saggi e recensioni. Dirige il festival dell’Utopia a Biancavilla di Sicilia e il Festival nazionale dell’acqua a Porretta Terme, ha ideato e segue la rete scolastica "Scrittori nelle scuole". È stato invitato da vari Istituti di Cultura italiani nel mondo (Londra, New York, Pechino, Belgrado, Lubiana, Zagabria, Rabat), ha rappresentato l'Italia, nel febbraio 2012, al Festival mondiale di poesia in Nicaragua, nell'ottobre 2012 all’Encuentro de los poetas latinos, in varie città del Messico, nel luglio 2013 al Festival internazionale di poesia di Lima in Perù.
L’intervista è stata realizzata da Alessandro Farris nell’ambito del Laboratorio di scrittura creativa curato da Andrea Severi presso il Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica dell’Università di Bologna.
28 settembre 2022