Simone Giusti - Imparare

L'insegnante insegna, l'alunno impara. Cosa impara l'alunno? Ciò che l'insegnante insegna, ovviamente. E come insegna l'insegnante? Dipende da come ha imparato a insegnare. L'insegnante, infatti, insegna ciò che ha imparato. Sono frasi di senso comune, che ogni persona scolarizzata può condividere. Insegnare e imparare sono due facce della stessa medaglia, unite e tuttavia distinte. Il compito di chi insegna, in fondo, non è l'insegnare in sé, quanto semmai l'insegnare al fine che un alunno impari. Qualunque sia la concezione dell'apprendimento adottata sulla base delle convinzioni e dei modelli a disposizione, chiunque voglia sottoporre a verifica il lavoro di un insegnante dovrebbe prendere in considerazione almeno due aspetti dell'attività didattica:
1) la quantità e la qualità dell'insegnamento, verificabili attraverso un registro in cui siano indicate le ore di insegnamento e descritte le pratiche didattiche;
2) la quantità e la qualità dell'apprendimento, verificabili attraverso dei registri dell'apprendimento di ciascun alunno, la raccolta o portfolio dei prodotti elaborati durante le diverse pratiche didattiche, eventuali prove o simulazioni da svolgere prima e dopo le attività didattiche, ecc.
In questo momento, a scuola e all'università siamo abituati a verificare l'insegnamento attraverso registri a stampa, registri elettronici, ma anche programmazioni e relazioni di fine attività. Abbiamo invece meno confidenza con gli strumenti per rilevare, misurare e valutare i risultati dell'apprendimento. Il tradizionale sistema di verifica e di valutazione utilizzato – che consiste, in estrema sintesi, in un mix di test, colloqui e esercizi di vario tipo – per quanto sia collaudato nei decenni, rimane affidato all'iniziativa del singolo docente della disciplina, il quale, nella migliore delle ipotesi, si confronta con insegnanti di altre discipline ma non confronta mai le procedure e i risultati delle verifiche e delle valutazioni con altri docenti che possano fornire un termine di paragone. Non c'è stato per lungo tempo un interesse ad avere un quadro puntuale dei risultati di apprendimento degli alunni di un'intera scuola, di un'università, di una città o dell'intera nazione. In sostanza, sappiamo che nostro figlio o nostra figlia hanno preso nove a italiano, o quattro in matematica, ma non siamo in grado di dire esattamente a cosa corrisponda in termini di apprendimento. Il sistema di prove nazionali messo in piedi dall'agenzia Invalsi per conto del Ministero dell'Istruzione cerca di supplire a questa mancanza, ma, come ho cercato di spiegare altrove [1], non è in grado di darci risposte adeguate.
La scuola e l'università dei paesi democratici moderni sono istituzioni deputate alla gestione dei processi di insegnamento e apprendimento finalizzati al raggiungimento di determinati risultati. Esse rappresentano il cosiddetto sistema formale dell'apprendimento, che si è soliti distinguere dal sistema informale (l'ambiente di vita quotidiano, il lavoro e tutte quelle attività da cui si impara qualcosa senza averne piena consapevolezza, in modo non intenzionale) e dal sistema non formale (l'autoaggiornamento, i corsi di formazione e, in generale, le attività svolte con la finalità di apprendere ma senza avere un riconoscimento formale come un titolo di studio). Perché è evidente oggi a tutti gli esperti di formazione che l'apprendimento avviene durante tutto l'arco della vita e in ogni situazione, concetto reso in inglese con l'efficace formula lifelong longwide learning. È in quest'ottica che vanno inquadrati i tentativi di dare vita a sistemi di progettazione e di rendicontazione delle attività didattiche che si basino sui risultati di apprendimento attesi alla fine delle varie tappe del percorso di studio, piuttosto che, come accadeva in passato, sui saperi costitutivi di una disciplina. In estrema sintesi, oggi, una scuola o un'università dovrebbero essere in grado di dire agli studenti e a tutti i cittadini quali risultati si aspettano di ottenere per ciascuno dei loro iscritti. E dovrebbero, inoltre, avere la capacità di certificare, alla fine del percorso o, addirittura, alla fine di ogni tappa dello stesso, i risultati raggiunti.
Il passo successivo è consistito nell'individuazione di un linguaggio comune per esprimere i risultati di apprendimento. L'approccio valutativo e didattico centrato sulle competenze è la risposta data a livello comunitario a questo bisogno. È per questo che la scuola e l'università oggi devono fare i conti con concetti nuovi e, soprattutto, con un ribaltamento del punto di vista tradizionale sulla didattica. Una volta, infatti, erano le discipline a comporre il quadro dei saperi, costruito come un puzzle, a partire da pochi pezzi fondamentali, quelli comuni a tutti gli indirizzi e agli ordini di scuola, a cui vanno aggiunti alcuni pezzi utili a specificare e, appunto, indirizzare il corso di studi dell'alunno. Tutto ciò senza mai preoccuparsi – per lo meno non al punto da dover misurare i livelli di apprendimento in modo da renderli comprensibili a comparabili – se quel collage di saperi riuscisse a ricomporsi in qualche modo nella vita dello studente, trasformandolo in una persona più capace, in un cittadino in grado di esercitare diritti e doveri. Oggi, pur rimanendo pressoché immutate le discipline di insegnamento, che continuano ad assestarsi e a specializzarsi sulla base dello stato della ricerca, la scuola e l'università sono chiamate a lavorare alla formazione di cittadini che siano in grado, alla fine di ciascuna fase del loro percorso di istruzione, di esercitare delle competenze che devono essere descritte nel rispetto di alcuni princìpi operativi e che, come nel caso della scuola pubblica, possono essere individuate a livello nazionale sulla base di raccomandazioni ricevute da organismi sovranazionali. Per facilitare il lavoro dei diversi attori impegnati a favorire o anche solo a certificare i livelli di apprendimento di ciascun cittadino, molti stati e – in Italia – regioni, si sono preoccupati di definire degli standard di competenze che, ovviamente, sono utilizzati per progettare e realizzare le attività didattiche.
Tutto ciò, naturalmente, ha delle conseguenze sul lavoro degli insegnanti di lingua e letteratura italiana, i quali dovrebbero anch'essi progettare i percorsi didattici in termini di competenze, e, di conseguenza, mettere in pratica una didattica adeguata alla mobilitazione delle risorse degli alunni, i quali a loro volta dovrebbero saper agire in modo autonomo, in determinate situazioni di vita o di lavoro, grazie alle conoscenze e alle capacità acquisite durante il percorso di studi. In linea teorica, l'insegnante dovrebbe smettere di domandarsi che cosa e se l'alunno impara da quello che gli viene insegnato. La domanda giusta, oggi, dovrebbe essere: che cosa e come devo insegnare affinché l'alunno, grazie al contributo dei saperi della mia disciplina e di adeguate azioni didattiche, apprenda a fare ciò che è definito dalle indicazioni nazionali?
Nel caso dell'università, pur in assenza di indicazioni nazionali o di standard, dovrebbe valere lo stesso principio. Con la differenza che i risultati di apprendimento possono essere definiti dall'università stessa, che può a questo fine decidere di coinvolgere chi vuole. Non sarebbe utile e democratico, riuscire a sapere, prima di intraprendere un qualsiasi percorso di studio, che ciascuno studente sappia cosa ci si aspetta che impari a fare con ciò che ha imparato?
Allo scopo di aiutare gli insegnanti e gli stessi decisori del sistema scolastico e universitario a spostare il focus del loro lavoro dall'insegnamento della lingua e della letteratura dai contenuti disciplinari agli apprendimenti degli alunni, sarebbe utile da parte degli esperti di didattica della letteratura intraprendere alcune azioni:
- studiare – avvalendosi del contributo di altre discipline e con specifiche ricerche interdisciplinari – il contributo che può dare la fruizione delle opere letterarie e l'apprendimento di strumenti di lavoro tipici degli studi letterari all'esercizio delle competenze individuate dalle indicazioni nazionali;
- favorire il dibattito anche con esperti di didattica delle altre discipline, per condividere e trovare pratiche di insegnamento funzionali allo sviluppo delle competenze indipendentemente dall'ambito di insegnamento a cui vengano applicate;
- formare i nuovi insegnanti (anche universitari, come accade in altre parti del mondo) utilizzando, nella pratica didattica, l'approccio centrato sulle competenze, in modo che essi, cresciuti soprattutto nella scuola e nell'università dei contenuti disciplinari, possano fare esperienza diretta di cosa significhi imparare con metodi attivi e sapendo in anticipo quali sono i risultati attesi in termini di competenze alla fine del percorso;
- introdurre all'interno delle università umanistiche strumenti per la verifica, la valutazione, la certificazione e il riconoscimento delle competenze acquisite attraverso lo studio della lingua e della letteratura.

 

Imparare a imparare

 

L'apprendimento è un processo che avviene anche in modo non intenzionale, attraverso qualsiasi attività umana. Tuttavia, all'interno di un sistema dell'istruzione si dovrebbe innescare un processo di apprendimento intenzionale, ovvero consapevole e volto a conseguire certi risultati. Abbiamo imparato che non tutte le persone apprendono allo stesso modo e che, soprattutto, anche a imparare su può imparare. La scuola, quindi, specialmente quella dell'obbligo, anziché dare per scontato che ciascun alunno sia in grado di apprendere – specialmente, come è richiesto a scuola, attraverso determinati strumenti e metodi, in tempi definiti e per motivi predefiniti – dovrebbe adottare strategie di insegnamento in grado di allenare le persone a imparare.
"Imparare a imparare" è la definizione di una delle otto competenze chiave per l'apprendimento permanente individuate dal parlamento e dal consiglio europei alla fine del 2006. Si tratta di quelle competenze "di cui tutti hanno bisogno per la realizzazione e lo sviluppo personali, la cittadinanza attiva, l'inclusione sociale e l'occupazione", dice il documento Competenze chiave per l'apprendimento permanente. Quadro di riferimento europeo (Bruxelles, Commissione Europea, 2007), e devono essere sviluppate entro il quindicesimo anno di età: comunicazione nella madrelingua; comunicazione nelle lingue straniere; competenza matematica e competenze di base in scienza e tecnologia; competenza digitale; imparare a imparare; competenze sociali e civiche; spirito di iniziativa e imprenditorialità; consapevolezza ed espressione culturale.
Di seguito riporto la definizione di "imparare a imparare" data nel succitato documento:

Imparare a imparare è l'abilità di perseverare nell'apprendimento, di organizzare il proprio apprendimento anche mediante una gestione efficace del tempo e delle informazioni, sia a livello individuale che in gruppo. Questa competenza comprende la consapevolezza del proprio processo di apprendimento e dei propri bisogni, l'identificazione delle opportunità disponibili e la capacità di sormontare gli ostacoli per apprendere in modo efficace. Questa competenza comporta l'acquisizione, l'elaborazione e l'assimilazione di nuove conoscenze e abilità come anche la ricerca e l'uso delle opportunità di orientamento. Il fatto di imparare a imparare fa sì che i discenti prendano le mosse da quanto hanno appreso in precedenza e dalle loro esperienze di vita per usare e applicare conoscenze e abilità in tutta una serie di contesti: a casa, sul lavoro, nell'istruzione e nella formazione. La motivazione e la fiducia sono elementi essenziali perché una persona possa acquisire tale competenza.

È evidente che si tratta di una competenza trasversale alle varie discipline e che, quindi, riguarda le pratiche di insegnamento di tutti gli insegnanti, i quali dovrebbero, attraverso il loro metodo di lavoro, consentire agli alunni di fare esercizio in tal senso e di riflettere, utilizzando un linguaggio adeguato, sulle loro esperienze di apprendimento. In questo caso, l'insegnamento della lingua e della letteratura italiana potrebbe dare il suo contributo anche attraverso pratiche di scrittura e di narrazione di esperienze di apprendimento e con la lettura di storie di apprendimento. Interessante, in questo senso, sarebbe domandarsi quale contributo potrebbero dare discipline come matematica e scienze all'allenamento della competenza "comunicazione nella madrelingua", che ormai, grazie alle prove Invalsi, è affidata in modo pressoché esclusivo all''insegnante di italiano.
Ma per cambiare direzione e aprirsi davvero – non solo in modo formale e nominalistico – alla logica sottesa all'approccio centrato sulle competenze, il cammino è ancora lungo. Buon apprendimento a tutti.


Pubblicato il 20/06/2013

 

Note:


[1] S. Giusti, Le competenze della letteratura, “Per leggere”, 14, autunno 2008, pp. 139-66.