Massimo Riva - Meglio remoti o mascherati?

 

Queste brevi riflessioni sull’esperienza di insegnamento virtuale appena conclusa ma che verrà probabilmente ripetuta ancora e per mesi, se non per anni, a venire si incrociano con una diatriba che rischia di sfuggire di mano a chi ha scagliato la prima pietra: i docenti che, come il sottoscritto, si sono adeguati ad insegnare online, sono stati paragonati addirittura ai professori che “nel 1931 giurarono fedeltà al regime fascista.”[1] Una provocazione, certo, quella di Agamben. Ma che, proprio per il rispetto e la stima di cui gode chi la lancia, rischia di risultare alquanto nociva, nel contesto attuale: per chi scaglia l’accusa e chi in un modo o nell’altro la sostiene, l’insegnamento in absentia – a remoto - non solo sarebbe “desocializzante” ma prefigurerebbe addirittura la barbarie a venire, anzi sarebbe un esempio della barbarie già avvenuta. Si può davvero pensare che l’invito agli studenti sia quello di ribellarsi al nuovo regime profilattico, in nome di un anti-fascismo anti-tecnologico? Ma, qui da noi, lo fanno già i seguaci di Trump, in alcuni casi brandendo i loro AK-47 in nome della libertà...

Sarebbe fin troppo facile replicare che la demonizzazione dell’insegnamento a remoto è perfettamente in linea con la negazione dello stato di emergenza provocato da Covid, giudicato solo un pretesto per instaurare lo stato di eccezione: un progetto di dominio biopolitico, in pratica un complotto (premeditato o no). Un ragionamento di una specularità inquietante con la mentalità paranoide dei grandi negatori e complottisti Bolsonaro e Trump - guarda caso il vero volto del fascismo contemporaneo, se vogliamo proprio mantenere questo parallelo astorico – inutile ricordare che il fascismo, soprattutto quello italiano, prima di diventare stato e regime, fu storicamente una forma di nazional-populismo.

Ora, solo chi idealizza un passato che non c’è mai stato, può permettersi di fare affermazioni come quella che di fatto paragona la tecnologia al fascismo e giudica i docenti che la usano vili e conniventi. Di che università parliamo? Dell’università di massa, della scuola di massa che è la realtà quotidiana del nostro tempo? O di una idea molto virtuale, e molto elitaria, della trasmissione del sapere, l’ideale dell’accademia platonica o del circolo degli Orti Oricellari nella Firenze medicea che alimenta ancora i seminari poco affollati di certe istituzioni di élite come il liberal arts college in cui insegno anch’io? Purtroppo si tratta di un ideale completamente inadeguato alla realtà attuale, in un’epoca in cui l’orizzonte non è più, ahimé, la Polis ma una comunità globale che stenta a venire ma per molti versi, come ha dimostrato Covid, è distopicamente già qui.

La vera emergenza di Covid ha piuttosto confermato, mettendole ancora più a nudo, le situazioni drammatiche di esclusione, sfruttamento e discriminazione che piagano la nostra società ad alta tecnologia (mi riferisco in particolare agli Stati Uniti): incluso il fatto che l’accesso a una aula virtuale (al “servizio scolastico,” così come al “servizio sanitario,” o detto altrimenti al diritto alla salute e al diritto alla cultura, anche quella avanzata) rimane un’amara utopia per una buona fetta dell’umanità, tanto quanto lo è di fatto ancora l’accesso all’Universitas per una buona classe della popolazione nel paese che si considera il più ricco e tecnologicamente avanzato del mondo.

Di fronte a questa realtà (non virtuale) l’idea che si debba rinunciare a soluzioni tecnologiche, per quanto imperfette – o addirittura rinnegare la tecnologia tout court – è non solo errato ma addirittura irresponsabile – e soprattutto in tempi di Covid, di pandemia. Se applicato alla comunità accademica e alla più modesta questione se insegnare di persona o a remoto – come viene posta adesso, in concreto, l’alternativa, nella seconda fase della pandemia – rinfocolare il datato dibattito tra “apocalittici” e “integrati,” lascia il tempo che trova. Forse più utile è fare appello al buon senso, o al gramsciano senso comune. La situazione che dobbiamo affrontare, a breve, nel caso che il campus dove insegno riapra i battenti è piuttosto paradossale: in concreto, l’alternativa all’insegnamento a remoto implica che un numero ridotto di studenti venga ammesso, a scaglioni, al campus residenziale, sottoponendo tutti (docenti, discenti, impiegati amministrativi o “di servizio”) alle precauzioni del “testing and tracing,” tracciamento e tampone, chiaramente invasive della privacy e dei diritti individuali ma inevitabili. E all’obbligo di indossare una maschera.

Insegnare “mascherati,” dunque, sarà inevitabile, se si vuole tornare presto in un’aula, rispettando in più le regole di distanziamento sociale: insomma, mentre tutti i corsi con più di 20 studenti, tipicamente, con poche eccezioni, tutti i corsi cosiddetti STEM, verranno “flippati,” come si dice in gergo, ossia insegnati completamente o parzialmente online, pochi coraggiosi, per lo più umanisti, si ritroveranno con i loro altrettanto coraggiosi e desiderosi allievi, in aule cavernose, destinate ad accoglierne quattro volte il numero (quante istituzioni possono permettersi poi queste misure logistiche?). Con buona pace di Asor Rosa e del suo (del tutto condiviso) elogio della classe scolastica come mini-società, non mi pare si tratti di un ritorno a una normalità (più o meno idealizzata). Per qualcuno sarà anche meglio della smaterializzazione desocializzante mediata da un dispositivo. Per altri, incluso, confesso, il sottoscritto che ha girato ormai da un po’ la boa dei 65 anni, non eliminerebbe del tutto l’ansia (anti-pedagogica) che il contagio possa avvenire comunque, per distrazione o per negligenza. E al primo caso di contagio effettivo di nuovo tutti a casa. O vogliamo escludere dal partecipare virtualmente alle lezioni i pochi sfortunati che, al primo sintomo, sarebbero costretti ad autoisolarsi? Ben vengano tecnologie come l’insegnamento a distanza se aiutano a contrastare intelligentemente il contagio. (E non sorge ai complottisti il sospetto che esporre al contagio solo i pochi che ancora seguono l’ideale della prossimità decantato da Agamben significherebbe in pratica il rischio di una decimazione degli umanisti?). A meno che queste complicate misure che, insieme a molte altre, sole possono garantire la riapertura dei campus e delle aule universitarie, non vengano considerate anch’esse parte dello stato di eccezione, quindi da respingere, più o meno stoicamente o eroicamente – o con un calcolo da darwinismo sociale (immunità di gregge, selezione naturale, ecc.). Al che replicherei che preferisco l’altro Darwin, non contaminato da Spencer, quello che dimostra le plastiche capacità di adattamento delle specie - incluso l’uso delle maschere. Insomma, per parafrasare un altro filosofo contemporaneo, l’immunitas deve essere ripensata come un diritto umano e civile, non esclusivamente nei termini di una biopolitica dello stato di eccezione. In altre parole, come le presenti circostanze dimostrano, garantire un’immunità collettiva – e non per pochi isolati nel privilegio, come la gentile brigata decameroniana - è la condizione di una comunità, tanto quella presente che quella “a venire.” E ben vengano tecnologie come l’insegnamento virtuale a distanza - oltre naturalmente alle tecnologie essenziali che ci tengono in vita - se aiutano a contrastare la potenziale devastazione, anche culturale, delle nostre comunità. Per questo, abbiamo bisogno di più, non di meno tecnologia. E più accesso ad essa.

Sono del tutto consapevole che di fronte a queste pratiche constatazioni, per non parlare del drammatico quadro complessivo cui ho accennato prima, quello che sto per dire ora riferendomi alla mia microscopica esperienza personale di queste ultime settimane, rischia di risultare del tutto fatuo. Sto per fare l’elogio dell’insegnamento a remoto. Ma lo faccio con la consapevolezza di un paradosso: in un contesto impudicamente elitario come quello in cui mi trovo a insegnare - l’insegnamento online ha avuto, da un lato, effetti certamente “desocializzanti,” ma ha consentito, dall’altro, di mantenere una parvenza di socialità, sia pure, si spera, un surrogato temporaneo di socialità, in un contesto di forzosa libertà limitata e più o meno “vigilata.” Mi riferisco innanzitutto al conforto che ho personalmente tratto dal vedere i miei studenti dopo la sospensione delle lezioni, e sia pure su uno schermo - parlare con loro e sia pure attraverso un microfono, come se ci trovassimo di nuovo in uno spazio fisico condiviso - un conforto spero reciproco. Esponendoci agli sguardi degli altri, nei nostri rispettivi ambienti domestici – i nostri studi corredati di scaffali pieni di libri, le nostre camere da letto col letto ancora sfatto, le cucine, i soggiorni con posters o quadri o nulla alle pareti, in alcuni casi anche gli scantinati, per sfuggire a genitori e fratelli - abbiamo dovuto rivelare qualcosa di noi che di solito è invisibile in classe. Forse non un di più di socialità, ma almeno una suggestione - anche solo come retroscena o fondale di teatro - la spia di un contesto che l’aula universitaria solitamente esclude. Visto l’uso “mascherante” che di solito si fa dei social media, questa improvvisa irruzione di una parvenza di quotidianità nell’aula (virtuale) non è poi del tutto disprezzabile.

Che poi il nostro corso, insegnato insieme a un collega psicologo, Fulvio Domini, vertesse sulla simulazione della realtà e sulla psicologia delle esperienze immersive, insomma su quella che volgarmente si chiama realtà virtuale, considerata tanto da una prospettiva umanistica, storico-culturale, quanto da una prospettiva scientifica, sperimentale, ha reso il passaggio al remoto ancora più stimolante ed ironico (nel senso socratico) imponendo a tutti noi, docenti e discenti, un’autoriflessione di cui riferisco qui in sintesi.

Improvvisamente, è risultato lampante quanto le nostre idee più smaterializzate e desocializzate del virtuale di cui si era disquisito amabilmente e animatamente nella prima parte del semestre, prima della chiusura, dipendano da una “infrastruttura” – un apparato fisico e un’organizzazione sociale – delle cui molteplici diramazioni siamo solo relativamente consapevoli nei nostri discorsi ordinari. La nostra “classe” si è trasformata in un perfetto esempio di questa materialità dell’immateriale, nei suoi due lati inscindibili: dimostrazione o conferma di quanto senza fisica non ci sia virtuale e senza virtuale il mondo fisico sia limitato, persino angusto. Spazio e tempo si sono adeguati. La nostra classe sulla simulazione della realtà si è trasformata nella simulazione reale di una classe. Uno dei temi centrali del corso, il viaggio virtuale attraverso dispositivi ottici, ha improvvisamente assunto un nuovo meta-significato.

Forzati all’immobilità, ci siamo trovati presenti a distanza, in un paradossale stato di sospensione simultanea: una studentessa si collegava dal Vietnam alle tre del mattino, nel suo fuso orario, avendo scelto deliberatamente l’insonnia per essere sveglia contemporaneamente in due luoghi e continuare così a far parte della piccola comunità della nostra classe. Una rapida rassegna dei progetti finali, presentati dagli studenti via schermo condiviso, può dare almeno un’idea delle riflessioni stimolate da questo stato di sospensione/eccezione. La quasi totalità degli esperimenti di pensiero congegnati dagli studenti ha preso le mosse dalla constatazione che l’auto-reclusione della quarantena, del lockdown ha creato di fatto le condizioni di un esperimento psicologico controllato. Tutti i loro progetti finali hanno affrontato il paradosso della “simulazione nella simulazione.” Un gruppo di studenti ha scelto di dimostrare, formulando ingegnosi esperimenti ipotetici, quanto nelle esperienze immersive “smaterializzate” consentite oggi dalla tecnologia a remoto, la simulazione dei nostri sensi si limiti ancora di fatto alla vista e all’udito, quanto sia difficile “simulare” gli altri sensi (tatto, gusto, olfatto) e quanto questa esclusione o impoverimento contribuiscano a rendere il virtuale reale, ma anche il reale virtuale. Altri studenti si sono concentrati sulla dimensione virtuale della memoria alla luce tanto di testi letterari quanto delle ultime scoperte delle neuroscienze che confermano in che larga misura la memoria sia collegata ai sensi ancora esclusi o emarginati dal virtuale – al gusto e all’olfatto, ad esempio - e quanto viceversa la memoria, consapevole o inconsapevole, dia forma effettiva alla nostra realtà.

Una studentessa ha trasformato la sua camera da letto in una camera obscura, invertendo esterno e interno con la sua proiezione, un gesto auto-liberatorio oltre che un esperimento ottico. Una studentessa africano-americana ha accoppiato le lastre di una sua radiografia a un pezzo suggestivo di slam poetry da lei composta sulla propria identità virtuale – una smaterializzazione quanto meno provocatoria nel momento in cui le comunità più colpite dalla pandemia sono le comunità meno “visibili” e più esposte al virus. Ispirate da un’artista giapponese, Chino Otsuka, che inserisce la propria immagine adulta nelle foto di se stessa bambina, abitando così simultaneamente due epoche della propria vita, due studentesse costrette a fare quarantena insieme nel loro dormitorio, si sono ritratte in varie pose in giro per il campus deserto dell’università sovrapponendo poi le proprie immagini a foto degli stessi luoghi in altri tempi: mescolandosi così a studenti di altre epoche, in una fuga dal presente verso una intangibile comunità virtuale. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi. Ma in tutti la condizione di comunicazione a remoto ha stimolato piuttosto che frustrato l’immaginazione, il pensiero, rendendo anzi i concetti e gli esperimenti più vividi, proprio perché più personalmente sentiti, nella condizione di sospensione forzata.

Ovviamente, la speranza rimane quella di non dover rimanere confinati a lungo in questa dimensione esclusivamente o ibridamente virtuale, ma con una certa buona volontà e immaginazione tale non-luogo si può pensare anche come uno “spazio condiviso della mente,” in cui siamo forzati a rivalutare sia quello che perdiamo escludendoci dal mondo fisico sia quello che il mondo fisico, e la società in cui viviamo, non può offrirci e a cui dobbiamo supplire con le nostre protesi tecnologiche, incluse le tecnologie della mente a nostra disposizione. Come se si trattasse di una palestra in cui possiamo esercitarci e allenarci senza mettere a repentaglio noi stessi e gli altri, nell’attesa di rimetterci pienamente in gioco, con tutti i nostri sensi.

Da qui a idealizzare il virtuale e ritenerlo inevitabilmente la forma che avrà la comunitas accademica a venire ce ne corre. Anche i futuristi contemporanei che considerano l’avvento di questa società virtuale inevitabile, o già irreversibilmente avvenuto, si sbagliano e grossolanamente. Ma forse errare dal lato dell’utopia e della fantasia, quando è veramente disinteressata e non al servizio di logiche eterotopiche e di sfruttamento - è forse meglio che sbagliare dal lato dell’apocalisse e del pensiero negativo. Almeno per il momento.

 

Note:

[1] Giorgio Agamben, “Requiem per gli studenti,” Diario della crisi, IISF, 22 maggio, 2020, https://www.iisf.it/index.php/attivita/pubblicazioni-e-archivi/diario-della-crisi/giorgio-agamben-requiem-per-glistudenti.html

 

Massimo Riva

Department of Italian Studies
Brown University, Providence

7 giugno 2020