Federico Condello - Corpus loquens

Marchi, ferite, tatuaggi (e altri promemoria) in Grecia antica

 

1. Corpo che scrive, corpo inscritto

«Una sorta di risalita al corporeo» – confessava il Barthes delle Variations sur l’écriture: e il termine «risalita» [remontée] non è senza rilievo – può suscitare nel semiologo un’improvvisa diversione teoretica, che lo conduce dall’accezione ‘metaforica’ della scrittura verso «l’aspetto “manuale” del termine […], la scription (l’atto muscolare d’articolare scrittura, di tracciare delle lettere) […]: quel gesto con il quale la mano impugna uno strumento – punzone, calamo, penna, – l’appoggia su una superficie, vi avanza premendo o carezzando, e traccia forme regolari, ricorrenti, ritmate (non occorre dir di più: non si parla necessariamente di “segni”)» [1] .

Dovrà stupire, una simile diversione? Che lo stile non sia solo affare di gusto o questione lato sensu intellettuale – che lo stile, a conti fatti, punga o per lo meno interpunga – è assunto cui non guida tanto la facile etimologia (stilum, stilettata: «punzone, calamo, penna») quanto la riflessione che, sulla scorta di Nietzsche, hanno condotto fra gli altri gli Sproni di Derrida [2] : lo stile – o se vogliamo l’écriture del ‘primo’ Barthes, quella ‘metafora’ che ancora non conosceva «risalita al corporeo» [3] –  apre in questo senso il campo della pura differenza, della ‘spaziatura’ che fonda (senza fondamenti) il campo della ‘segnicità’: tematiche note, dacché vige il postmoderno, e non è il caso di insistervi troppo. Stupisce allora che una simile diversione coinvolga il corpo, lo invochi dappresso come un’entità che trascende la stessa nozione (ormai notoriamente esposta alla taccia di ‘spiritualità’ [4] ) che va sotto il nome di segno? Lungi dal costituire una tardiva concessione alle ragioni del ‘corporeo’, inteso come asemantico o presemantico, la riflessione dell’ultimo Barthes configura piuttosto – ben più che in filigrana – una radicale simbolizzazione del corpo (scrivente o meno) che va di pari passo con una marcata declinazione sensuale della stessa écriture; e se quest’ultima sembra perdere la sua identità metaforica, è solo per recuperarla, a un livello ancor più fondamentale, quale marca o traccia simbolica che segna il corporeo sin dalla sua stessa costituzione: cadenza della mano scrivente, interpunzione del ritmo, corporeità dello stilum e dei supporti che vi oppongono una variabile, ma tangibile, resistenza.

Il corpo che Barthes eleva a soggetto dell’écriture è evidentemente un corpo che il simbolico ha già assoggettato: un corpo sul quale il simbolico ha già iscritto – in termini di regole, misure, tempi – la sua traccia indelebile. È questo il corpo della riflessione lacaniana, il corps morcelé («corpo a frammenti») che la storia tortuosa del soggetto – prima per via ‘immaginaria’, poi per via ‘simbolica’ –  conduce a precaria unità: frutto di una «anatomia fantasmatica» [5] , di una mappatura immaginaria e di una lenta costruzione simbolica [6] ; e proprio del ‘corpo scrivente’ Barthes sottolinea il fondamento disciplinare e coercitivo («dal momento che prolunga il corpo, la scrittura comporta inevitabilmente un’etica» [7] ), sicché esso è ancora, se si vuole, il corpo degli amanuensi, la cui testimonianza si affida alle querimonie non di rado registrate nelle antiche subscriptiones [8] : tres digiti scribunt, totum corpus laborat (motivo ricorrente, per cui cfr. e.g. British Library, ms. Harley 3013 [ASMMF 272], f. 96r).

Il corpo che scrive è dunque, sin dal principio, un corpo iscritto: un corpo marchiato dalla ‘lettera’ del simbolico [9] . Che dire, dunque, di un corpo che a tale iscrizione – a tale lettera – dia una parvenza di realtà, al punto di prendere la lettera alla lettera? Solo qualche spunto, nelle pagine a seguire, su un tema che attende ancora una trattazione organica; e che qui si inquadra provvisoriamente a partire da uno sguardo privilegiato: lo sguardo dei Greci, che del ‘corpo’ – e della scrittura come noi la intendiamo – passano spesso per inventori.    

 

2. Totem e Tattoo: il corpo dei barbari.

«Il miglior modo di testimoniare a se stessi e agli altri che si fa parte del medesimo gruppo, è di imprimersi sul corpo una medesima marca di distinzione» – osservava il Durkheim delle Formes élémentaires [10] . I paralleli etnologici, inutile dirlo, si sprecano: e per i cultori dell’anthropologie du proche, una cospicua letteratura psicologica e sociologica – non di rado sospesa fra paternalismo e giovanilismo – sopperisce al bisogno di documenti contemporanei [11] . Il tatuaggio, il branding, il body-painting – non si perde occasione di ribadire – sono innanzitutto marchi d’identità, crismi d’appartenenza, in ogni senso iscrizioni: a un gruppo (magari ideale) e sulla propria pelle (per convenzione ‘reale’) [12] . Ma ciò che all’interno del gruppo è segno di adesione e di coesione, non potrebbe che essere, agli occhi dell’estraneo, marca di estraneità: ecco allora che la cultura europea moderna – quella cultura che sulla ‘bella semplicità’ del corpo nudo ha costruito, e ben prima di Winckelmann, uno dei suoi più saldi idola estetici [13] – individua nella pelle iscritta e tatuata dei selvaggi un discrimine (un crimen) dei più vistosi. È l’immagine che restituisce, per esempio, lo sguardo del Ramusio, quando nei suoi Viaggi di Marco Polo (II 46) descrive gli abitanti della «provincia di Cangigù» precisando che essi, «così uomini come donne, hanno tutto il corpo dipinto di diverse sorti d’animali e uccelli, perché vi sono maestri che non fanno altr’arte se non con un’agucchia di designarle, o sopra il volto, mani, gambe e ventre, e vi mettono color negro, che mai per acqua over altro può levarsi via: e quella femina overo uomo che n’ha più di dette figure è riputato più bello». Era del resto già lo sguardo dei viaggiatori europei che nel XV sec. visitarono la Birmania (in primis Nicolò de’ Conti), e sarà ancora quello di James Cook – reduce da Tahiti nel 1771 [14] – quello attribuito da Melville al suo Ismaele – il ritratto indimenticabile di Quiqueg – quello di Cesare Lombroso – inflessibile esploratore delle carceri italiane sul finire dell’Ottocento [15] – e finanche quello di alcuni ispirati censori contemporanei [16] .

Ma qual era lo sguardo dell’uomo greco, preteso inventor del ‘corpo naturale’ [17] , spettatore di un’epifania irripetibile che avrebbe palesato all’Occidente, in un abbaglio dai riverberi secolari, la nuda bellezza corporale? Le testimonianze antiche sono univoche e unanimi: il tatuaggio – il corpo iscritto – è cosa da Barbari; ovunque sia questione di segni tratti sulla pelle nuda, siano essi incisi o dipinti, delebili o indelebili, vergati a pennello, ad ago o a fuoco, si tratta sempre di Barbari: ossia, semplicemente, di non-Greci, senza che qualche ulteriore coordinata etnica o geografica aiuti a precisare, in senso diverso dalla semplice contrapposizione binaria, la matrice culturale o la funzione particolare del fenomeno. Ecco allora l’etnologo Erodoto osservare per primo, tra le fonti a noi note, che presso i Traci «l’essere tatuato [estíchthai] è giudicato segno di nobiltà, mentre è ignobile il non esserlo» (V 6,2) [18] ; ed ecco Senofonte, poco più tardi, testimoniare della stessa pratica presso il popolo dei Mossineci (Xen. Anab. V 4,32), residente sulla costa sud-orientale del Mar Nero [19] , mentre già Aristofane ne aveva parlato come di un tratto antonomastico dei generici Istrianoí (fr. 90 K.-A.) [20] e qualche secolo più tardi Strabone ne attribuirà l’uso agli Illiri (Strab. VII 5,4), Plinio ai Daci (Plin. NH XXII 2,1), Pomponio Mela agli Agatirsi (Pomp. Mel. II 10) [21] , Luciano agli Assiri (Lucian. De Syr. Dea 59) [22] e lo storico Erodiano ai ben più remoti Britanni (Hdn. III 14, 7). Che in tanta varietà geografica (e in tanta monotonia etnologica) i Traci mantengano comunque un ruolo principe, dimostra non solo la relativa frequenza delle testimonianze antiche [23] , ma anche il fatto che un notevole professionista ‘tatuatore’ (stiktés) sia il Kosis menzionato in un mimo di Eronda (Herond. 5,65s.): il suo nome – ha puntualizzato Headlam – rinvia appunto all’area bitino-trace [24] . Sarà appena il caso di ricordare che pochi popoli come Traci e Sciti si sono prestati, nell’immaginario greco, al gioco identitario del Verkehrte Welt, fornendo per quasi ogni tratto culturale ellenico una puntuale e paradossale assiologia a rovescio, facilmente inquadrabile in termini lotmaniani [25] : sicché, anche a proposito del barbarico ‘corpo iscritto’, i commentatori hanno opportunamente sottolineato il sovvertimento assiologico che presiede a tali rappresentazioni [26] ; né un simile effetto di rovesciamento dell’imago corporea e della sua funzione segnica si limita, per ciò che concerne i Barbari, ai soli tatuaggi: come ha osservato Hartog, nel descrivere i riti funerari che gli Sciti tributano al sovrano morto, Erodoto (Hdt. IV 71) stabilisce un’inevitabile complementarità fra il silenzio impenetrabile degli astanti e la consuetudine che impone loro di graffiare e mutilare i propri corpi: «gli Sciti, benché non elevino voce e non articolino parola, in realtà parlano, ma parlano a modo loro, sul loro corpo e attraverso il loro corpo. Mutilandosi, essi iscrivono sul proprio corpo la legge scita e fanno del corpo la celebrazione e l’orazione funebre del re morto. Il loro corpo, attraverso le sue cicatrici, diventerà memoria» [27] . Se la eusebéia greca dètta prolissi epitaffi agli oratori convocati sulla pubblica tribuna [28] , e vieta al contempo, almeno sin da Solone, d’incidere sul proprio corpo i segni del lutto [29] – ma più di una traccia resterà nella pratica del kopetós, ampiamente testimoniata per via letteraria e iconografica – la religiosità dei Barbari si esprime proprio attraverso una scandalosa scrittura corporale, fatta d’incisioni e recisioni cruente, che hanno del resto ampio riscontro nella pratica funeraria dei nomadi eurasiatici [30] .

A tale forma di scrittura corporale – tatuaggio se non autentico scaring – si oppone dunque l’imago illibata del corpo ellenico: illibata sino all’esibizione, semplice e orgogliosa, di quella nudità maschile che per i Greci di età classica fu segno di prestanza atletica e di eroica virilità: un tratto eminentemente aristocratico, che le nostre fonti, non a caso, si compiacciono di contrapporre proprio agli usi dei Barbari [31] . Ma il motivo del sovvertimento assiologico, comunque esso si declini, è davvero uno schema concettuale sufficiente a chiarire l’attenzione che i Greci di ogni epoca hanno mostrato verso la ‘scrittura corporale’ dei Barbari? L’indicazione rischia di suonare vaga o sbrigativa, se non si precisa che in questo come in altri casi appare evidente come la cultura – intesa in una prospettiva identitaria e quindi, a fortiori, discriminante – non si costituisca sempre e comunque in opposizione globale a un’alterità concepita quale non-cultura (i.e. ‘natura’): la definizione che la cultura dà a se stessa di se stessa sembra piuttosto il risultato di una precisa segmentazione identitaria condotta entro uno spettro continuo di alterità germinali, che dal minimum della ‘natura’ sale per gradi sino al maximum di una ‘iper-cultura’ incontrollata e paradossale; è qui che trova fondamento la possibilità, tante volte esplorata, di una doppia e simultanea antitesi, che segna il luogo immaginario della ‘cultura’ allo snodo fra le opposte estremità del proprio annullamento (la ‘natura’) e della propria corruzione (l’‘iper-cultura’) [32] . È qui che si articola, fra i tanti, il discorso ideologico dell’esotismo, semplice rovescio di un’alterità che si dà tanto per difetto quanto per eccesso [33] : nel caso della scrittura corporale barbarica – come poi avverrà per quella forma legalizzata di body painting che è la cosmesi femminile [34] –  siamo evidentemente dinanzi a un soggetto ibrido, che da un lato sembra opporsi all’intatta simplicitas del corpo ellenico, dall’altra – per il suo carattere cruento – mantiene comunque forti legami con la sfera della più tradizionale sauvagerie dei Barbari, rinnovando il fantasma del ‘corpo a frammenti’ secondo un’ambiguità che Lacan, meglio di altri, evidenzia: «abbiamo qui un rapporto specifico dell’uomo col proprio corpo, che si manifesta anche nella generalità di una serie di pratiche sociali, dai riti del tatuaggio, dell’incisione, della circoncisione nelle società primitive, fino a quella che potremmo chiamare arbitrarietà procustea della moda, in quanto smentisce nelle società avanzate quel rispetto delle forme naturali del corpo umano la cui idea nella cultura è tardiva» [35]

Motivo polisemico, il corpo iscritto che i Greci osservano con malcelato raccapriccio sortisce per questa via un effetto ideologico di cui sarebbe errato sottovalutare la portata: accanto ad altri temi ricorrenti della rappresentazione barbarica, esso innesca un meccanismo che ricorda da vicino quello descritto da Barthes per ogni impiego di messaggi connotati: un ‘segno secondo’ (o parassitario) che si dia chiaramente per tale, esibendo o denunciando il proprio artificio, mira innanzitutto a suggerire la pretesa naturalità del ‘segno primo’ (presunto ma impossibile ‘grado zero’) su cui esso si sostiene [36] ; è un miraggio che ha rimarcato, pur en passant e con accenti diversi, Galimberti: «da sempre il corpo è superficie di scrittura, superficie atta a ricevere il testo visibile della legge che la società detta ai propri membri marchiandoli […]; marchiando il corpo, [le società arcaiche] lo de-signavano come l’unico spazio degno a portare il segno del gruppo […]; quelle almeno scrivevano la legge sul corpo, e con quel marchio scongiuravano la legge separata, lontana, dispotica, la legge che, articolandosi nel rapporto comando-obbedienza, conosce solo il potere coercitivo […]. Il suo modo di dominare, infatti, non è nell’imporre un segno, come facevano i primitivi col marchio, ma nello svuotare di senso tutti i simboli a cui il corpo, nella sua originaria ambivalenza, potrebbe dare espressione» [37] .

Il corpo iscritto dei Barbari, secondo questa prospettiva, mira innanzitutto, in un processo di riflessione per contrasto, a sancire la naturalità del corpo ellenico, a celarne il carattere di ‘prodotto’ culturale, a promuoverne l’apparente – ‘feticistica’, diremmo con Marx – originarietà; intendiamo quel ‘corpo’ ellenico (soma) di cui Vegetti ha evidenziato meglio di altri la laboriosa elevazione a concetto, fra V e IV sec. a.C., mostrando come esso si dia in un doppio processo ideologico che da una parte ‘somatizza’ la psuché, dall’altra, appunto, ‘psicologizza’ il soma [38] . È un corpo la cui naturalezza appare già ampiamente manipolata dalla riflessione psicologica, biologica, estetica: un corpo che come tale, nella sua ostentata integrità, può opporsi inter alia al corpo iscritto dei Barbari, sancendo così, e perentoriamente, il suo effetto di feticcio.      

 

3. Marchi, merche e mercature: il corpo degli schiavi

Che i tratti culturali attribuiti ai Barbari siano destinati a un puntuale ‘travaso’ metonimico che ne fa altrettante caratteristiche degli schiavi, è un processo che non può sorprendere, fondato com’è su un’identificazione – quella fra non-cultura barbarica e non-cultura servile – destinata a secolare fortuna [39] , e non priva di concreti fondamenti nella realtà dello schiavismo antico, almeno per quanto concerne la chattel-slavery [40] . La regola vale anche per il tema della scrittura corporale.

In un documentato lavoro del 1976, che costituisce a oggi uno dei pochi contributi sul tatuaggio in Grecia antica, U. Fantasia mostrava come l’uso degli stígmata corporali si situi all’incrocio fra àmbito barbarico e àmbito schiavile: «l’uso di tatuare il corpo a scopo ornamentale o come segno di uno status particolare non è assolutamente praticato dai Greci […]; e agli occhi di un greco, segni e figure impressi sulla pelle denotano quanto meno l’origine barbara. In secondo luogo, è impossibile separare i termini che fanno perno su stízein [«tatuare», «marchiare»] da fatti e situazioni inerenti alla condizione servile» [41] .

Un termine nodale, in questa prospettiva, è il sostantivo stigmatías, impiegato a indicare lo schiavo che il padrone marchia a titolo punitivo [42] , in genere per la tentata fuga, come ritiene Fantasia, ma forse anche per motivi più generici, come suggerisce l’interpretazione dell’Etymologicum Magnum, s.v. stigmatías (p. 727 Kall.: «chiamano così gli schiavi marchiati perché improduttivi [achresímous]»), e come mostrano alcuni luoghi menandrei [43] . Illuminano tali usi alcuni passi di particolare chiarezza. Negli Uccelli di Aristofane, il Corifeo illustra i vantaggi dei costumi vigenti nella nuova città di Nefelococcugìa (vv. 755ss.):

«Le cose che giù sono sconce e perseguite dalla legge, da noi, fra gli uccelli, sono bellissime […]. Uno di voi è per caso uno servo fuggitivo, lo bollano [drapétes estigménos]: da noi passa per un francolino striato» [44]

Nella stessa direzione vanno luoghi come Aeschin. De fals. leg. 79 («tu hai tutto dello schiavo tranne il marchio del fuggitivo»), Pl. Leg. IX 854d («chi è colto nell’atto di compiere un furto sacrilego, se schiavo o straniero sia marchiato sulle mani e sul volto con un segno che ricordi il suo delitto [grapheìs tèn sumphorán [45] ), Lucian. Timon. 17 («[il dio Pluto] da alcuni preso a calci, ridotto in pezzi, consumato, da altri tenuto in ceppi come uno schiavo fuggitivo segnato col marchio [hósper stigmatías drapétes [46] ), Cl. Alex. Paed. III 10, 4 («i marchi [stígmata] indicano lo schiavo fuggitivo [drapéten]»). La pena designata con il termine di stígma – che può denotare tanto il marchio a fuoco o il branding, quanto il tatuaggio [47] – doveva essere particolarmente frequente e temuta: il termine stigmatías ricorre non di rado in concomitanza con il semplice doûlos (per es. Hermipp. fr. 63,19 K.-A.; cfr. anche Ar. Lys. 330s.) e Cassio Dione registra con una certa sorpresa il caso di uno schiavo, marchiato dal suo proprietario perché fuggitivo, che al momento del bisogno – nel bel mezzo delle stragi perpetrate dal ‘secondo triumvirato’ – non solo non serba rancore al padrone, ma si prodiga per metterlo in salvo (HR XLVII 10,4).

Dalle nostre fonti si ricava qualche utile notizia anche circa la natura dei segni tatuati o impressi sulla pelle dei servi: se non si tratta del semplice sigillo del proprietario (Diog. Laert. IV 7,46), lo stigma può consistere in un vero e proprio messaggio verbale, come l’ordine inciso da Istieo sul cranio raso di un servo, secondo un celebre racconto erodoteo (Hdt. V 35) [48] , o come quello presupposto dal citato Pl. Leg. IX 854d, o come la frase – evidentemente stereotipata – che dobbiamo allo scoliaste del già richiamato Eschine (schol. Aeschin. 2,79, p. 56 Dind.: «gli schiavi fuggitivi venivano marchiati sulla fronte, cioè venivano segnati con la frase “prendimi, sto fuggendo”»); nota in latino, per analoghi scopi, è la sigla FHE (Fugitivus hic est) [49] . Evidentemente un accorgimento di carattere precauzionale – operato a scanso di recidive, e magari corroborato da pubblici annunci o denunce araldiche [50] – che tuttavia non fa passare in secondo piano la pura e semplice degradazione del corpo schiavile a supporto di un’umiliante, dolorosa (e rischiosa [51] ) pratica scrittoria: un fenomeno ben noto, del resto, nella storia secolare del tatuaggio [52] , che chiama a illustrazione il trattamento che i prigionieri di guerra ricevettero durante il conflitto fra Ateniesi e Samii: marchiati gli uni con il simbolo della nave sámaina, gli altri con quello della civetta (emblemi monetari delle due città), a titolo di scorno e di infamia servile [53] . Un uso analogo sembra presupposto dalla cosiddetta Elegia del tatuaggio (Adesp. SH 970) [54] . Non è un caso del resto se la violenza degli stígmata si è prestata ben presto a usi metaforici assai eloquenti: con estrema frequenza i verbi del tatuaggio o del body painting alludono, nei comici, al puro e semplice effetto di lividi corporali, quasi che due realtà concrete e abituali della vita servile (lo stigma e la bastonatura) fossero destinati a convergere in un’unica raffigurazione dai confini indistinti. Così lascia intuire Aristofane (Vesp. 1296: «Io sono finito, marchiato [stizómenos] dal bastone», si lamenta lo schiavo Santia) e così conferma a più riprese Plauto (cfr. per es. Poen. 25s., dove l’attore del Prologo avverte gli schiavi perché «se ne vadano a casa ed evitino un doppio guaio: farsi ricamare la schiena [varientur] qui dalle verghe e a casa dalle sferze»; Epid. 625s., dove il servo di Stratippocle pronostica: «il mio groppone sarà una bella tela, che un Apelle e uno Zeusi dipingeranno a pennellate d’olmo [pigmentis ulmeis, con allusione al legno della verga]»). 

Siamo dunque dinanzi a un corpo degradato, umiliato, privato della sua umanità? Il corpo dello schiavo, per potersi prestare a supporto di penosi e indelebili stígmata, deve forse perdere la sua natura di corpo? Considerazioni di carattere umanitario, ispirate a una prospettiva cristiana che del corpo seppe valorizzare l’essenza sacrale e ‘creaturale’ [55] , sono in questo frangente così poco vere che lo schiavo, disponibile alla marchiatura, è tale proprio in quanto puro corpo: sôma – come ‘anima’ nella Russia di Gogol – sarà antonomasia usitata, in epoca ellenistica, per indicare il servo. Tutto fa credere che proprio la semplice e nuda corporeità connessa all’idea del sôma schiavile renda disponibile e praticabile la forma di umiliante e paradossale ‘scrittura’ di cui abbiamo tratteggiato alcuni esempi: se, come si è suggerito sopra, è un corpo profondamente ‘psicologizzato’ quello che si oppone, nella sua ostentata illibatezza, al corpo iscritto dei Barbari, non sorprende che la riduzione di un corpo a semplice e inanimato sôma – che gli schiavi condividono del resto con gli animali, ugualmente sottoposti all’impressione di marchi simbolici [56] – produca, per contraccolpo, quel processo di ‘iper-culturalizzazione’ in cui sembra consistere la pratica della scrittura corporale [57] . Per farsi ‘corpo parlante’, il corpo deve innanzitutto essere ridotto al silenzio. O, in altri termini, un corpo ridotto al silenzio, disanimato, disappropriato, non potrà che esporsi a forme di riappropriazione segnica di cui il tatuaggio, la marchiatura e ogni sorta di ‘ferita simbolica’ costituiscono altrettanti conati [58] , sospesi fra il valore simbolico e il puro e semplice acting out.

Pur nel rischio di over-interpretation che comporta tale lettura di una pratica che resta complessivamente oscura, come molto di ciò che concerne il rapporto dei Greci con i propri schiavi, non può essere escluso che le testimonianze relative allo sguardo ellenico sui ‘corpi iscritti’ di servi e Barbari possano incontrare, su questo punto, le riflessioni che la psicoanalisi – specialmente di matrice lacaniana – ha svolto sullo statuto liminare del corpo, fra ‘proprietà’ e radicale ‘estraneità’, sulla sua difficoltosa costruzione simbolica [59] e sulle pratiche di manipolazione che tale statuto provoca per fatale e necessario contraccolpo [60]

 

4. Ferite, cicatrici e promemoria.

Non c’è dubbio che la più famosa, fra le cicatrici della letteratura occidentale, sia ancora quella che la serva Euriclea, esterrefatta sino alle lacrime, scopre praticando a un oscuro viandante il bagno prescritto dall’uso ospitale; ed è il segno che le svela – dopo un lungo itinerario di raggiri e di travestimenti [61] – l’identità del reduce Odisseo (Od. XIX 467-475).

L’episodio, dopo aver ispirato ad Auerbach la ben nota teoria sull’anti-realismo classico [62] , ha offerto il destro per una recente riflessione sullo statuto degli idionimi personali in età antica: con l’ipotesi, alquanto sorprendente, secondo cui la teoria kripkiana dei ‘designatori rigidi’ – di cui lo stesso creatore sottolineava del resto il carattere spontaneo e diffuso [63] – dovrebbe essere retrodatata almeno all’alto arcaismo [64] ; e ciò proprio grazie a un caso conclamato di scrittura corporale, sul cui carattere univoco e risolutivo (un sêma ariphradés, un «segno chiarissimo»: cfr. Od. XXI 217) la reazione della vecchia serva non lascia dubbio alcuno.

La suggestione è avvincente, ed è un peccato che ad essa ostino troppe e troppo valide ragioni: dallo stesso carattere non verbale del sêma [65] , sino all’accezione pericolosamente generica cui il concetto di ‘designatore rigido’ si trova così confinato [66] e soprattutto all’indebito ‘sostanzialismo’ che per questa via s’insinua surrettiziamente nella teoria kripkiana [67] ; se l’unica definizione corretta di «designatore rigido» è quella che ne rileva l’invarianza semantica entro enunciati controfattuali [68] , e se il principale idolo polemico della trattazione kripkiana va individuato proprio nella ‘teoria della descrizione’ elaborata da Frege e da Russel, quindi perfezionata da Searle [69] , appare curiosa l’abusio che ne estende la validità sino a quello che pare piuttosto il dominio delle connotazioni – anche in questo caso la toccante agnizione di Euriclea lascia adito a pochi dubbi – e che fa coincidere il palesarsi dell’identità non con una fredda prova di commutazione logica, bensì con un excursus che riassume il passato dell’eroe e con un’akmé narrativa che annuncia il fatale seguito degli eventi. Se davvero la cicatrice denota Odisseo, «Odisseo» connota insieme il proprio passato e il proprio futuro narrativo: il segno indelebile, la scrittura corporale, genera qui un’intera storia – o se vogliamo, per paradosso, una singolare ‘descrizione definita’ alla maniera di Russel. Nessuna ipotetica ‘trasparenza’, dunque, fra il segno e il suo referente [70] , né alcuna resistenza alla prova dei ‘mondi possibili’, ché un mondo narrativo dove le robuste ginocchia di Odisseo non serbino segni di cacce giovanili, è senz’altro ‘controfattuale’, ma non logicamente illegittimo [71] : la oulé genera qui la storia di un individuo, e solo per suo tramite denota l’individuo che in tale storia, a ben vedere, si risolve.   

Qual è dunque lo statuto di tali semata, iscritti sul corpo di personaggi che le fonti classiche – purtroppo con avarizia – consegnano alla nostra memoria? La cicatrice è per essenza un segno che rimane (cf. e.g. Plut. Mor. 65d), il suo colore scuro staglia sulla pelle (cf. Aristot. Probl. 889b-890b), in particolare su quella del volto (Plut. Mor. 800e) e la medicina antica non è aliena, a questo proposito, da preoccupazioni di carattere estetico (cf. e.g. Gal. vol. XVIIIa p. 378 Kuhn); da un punto di vista semiotico, la cicatrice va ovviamente rubricata fra i ‘segni indicali’: essa è tecnicamente un sêma hypomnestikón (cf. Sext. Emp. Pyrrh. hypoth. II 102, che la cita accanto all’esempio canonico del ‘fumo’ [kapnós] quale ‘indice’ del fuoco). Ma se tale hypómnema, anziché trovarsi rubricato a puro ‘segno’ di una passata ferita – come il fumo lo è di un fuoco presente – si lascia coinvolgere nel gioco inevitabile dei messaggi connotati? Ecco allora che la cicatrice diviene, prima che il marchio di un’identità, il segno evocativo di una storia. Così è per Odisseo, come si è visto, e così sembra essere anche per le volontarie cicatrici che costituiscono l’essenza dei riti funerari scitici (cf. supra); ma così è anche per Filottete – il morso della serpe è descritto da Sofocle quale permanente cháragma (Phil. 266s.) – e per Oreste, riconosciuto da Elettra grazie a una cicatrice che rinvia a un episodio della comune fanciullezza (non a caso una battuta di caccia: Eur. El. 571-575), e così sarà, ad esempio, per il Clitofonte di Achille Tazio (VIII 5,1), finanche per le lucertole di Eliano (NA II 23) e naturalmente per il Cristo giovanneo dinanzi a Tommaso (cf. Nonn. Paraphr. XX 127). Un segno corporale può addirittura essere l’indizio dei propri legami parentali (cfr. (cfr. Aristot. De gen. an. 721b), rimandando la storia del soggetto alle sue origini più remote; essa può essere titolo d’onore per un combattente (cf. e.g. Lucian. Navig. 37), ma non mancano stígmata corporali che siano segno di più umili vicende: una lite amorosa o un barbiere incapace (cf. il dolente Mart. XI 84,13-16 ); non sorprende che si dispongano a una vera e propria lettura ermeneutica le cicatrici sognate, non meno di quelle reali (Artemid. III 40); per questa via, lo stesso termine oulé può divenire sinonimo di evento passato o colpa pregressa (Philostr. VA II 30): un «morso che fa sanguinare la memoria» e che per sempre è destinato a ravvivarla, «come una cicatrice permanente» (Plut. Mor. 126f).       

Di qualsiasi storia, vicenda o peripezia sia la traccia, il segno corporeo – cicatrice o ferita – tradisce con la sua iscrizione il passato recente o remoto del soggetto: ne rinvia la presenza a una trama di accadimenti che condizionano la sua identità, che complicano la sua apparente ‘datità’. Lungi dall’essere il segno di un’ipotetica trasparenza dell’individuo a se stesso, l’oulé connota e non denota, marchia prima che identificare secondo la placida convenzionalità di un ‘designatore rigido’. A suo modo, violando l’ideale o idealizzata semplicità del corpo, restituisce ad esso tutto il suo peso e il suo spessore: siamo ancora nell’àmbito di un segno ‘sovrimpresso’, che continua a offrirsi come occasionale accidente di un corpo che conserva la sua pretesa naturalezza e nasconde la sua essenza di costrutto storico-sociale, sottraendosi – se non per occasionali sovrimpressioni – al gioco dei segni e alla sua fuga, potenzialmente infinita. Ma non è lontana, a ben vedere, la prospettiva che del corpo stesso, e della sua ‘naturale’ conformazione, farà un segno da interpretare: la téchne fisiognomica, con il suo complesso ed enigmatico cifrario, ambientata in Grecia almeno dal V sec. a.C. La fisiognomica stessa, del resto, affonda le sue radici in antiche tecniche di ermeneutica corporale che prestavano attenzione, innanzitutto, alla presenza di ‘sovrimpressioni’ superficiali che poco hanno da spartire con un’autentica ‘semantica’ del corpo (la umsatu dei testi cuneiformi mesopotamici, per esempio [72] ); e resta da vedere, a proposito della fisiognomica greca, se i ‘segni incarnati’ in tratti tipologici più o meno canonizzati non costituiscano, piuttosto che una rivelazione, un ulteriore mascheramento del corpo e della sua precaria costituzione in feticcio ideale (non a caso, resterà centrale per la fisiognomica l’idea del ‘giusto mezzo’ [73] ); un ulteriore passo, insomma, sulla via della ‘psicologizzazione’ (inconsapevole) del corpo: una più profonda discesa, piuttosto che un’improvvisa – ma non necessariamente liberatoria – «risalita» [74].

 

Note

[1] R. Barthes, Variazioni sulla scrittura, seguite da Il piacere del testo, trad. it. Torino, Einaudi, 1999, p. 5. Riproduco l’originale scription, dove l’ottima traduzione di C. Ossola preferisce tentare un’audace «impennatura». Quanto a «risalita» (remontée), nella scelta terminologica Barthes sembra evocare un autentico ‘mito della caverna’ a rovescio; il che si spiega con il sostrato lacaniano della riflessione qui condotta: cfr. infra.

[2] J. Derrida, Sproni. Gli stili di Nietzsche, trad. it. Milano, Adelphi, 1991. Sul tema si veda anche la solenne ouverture di J. Lacan, Scritti, trad. it. Torino, Einaudi, 1974, pp. 6s., a commento del buffoniano «lo stile è l’uomo».  

[3] Cfr. R. Barthes, Il grado zero della scrittura, trad. it. Torino, Einaudi, 1982; sui rapporti fra il primo Barthes (la stagione ‘semiologica’) e le più tarde tematiche relative al plaisir e alla jouissance testuali – che danno per assimilata la lezione lacaniana – cfr. per es. S. Heath, Vertige du déplacement. Lecture de Barthes, Paris, Fayard, 1974, in part. pp. 149-176; si veda inoltre A. Lavers, Roland Barthes. Structuralism and After, London, Methuen, 1982.

[4] Cfr. per es. J. Derrida, Della grammatologia, trad. it. Milano, Jaka Book, 1969, pp. 49-108; la più netta esposizione del tema è in Id., Posizioni. Scene, atti, figure della disseminazione, trad. it. Verona, Ombre Corte, 1999, pp. 27-34; ma nell’àmbito della stessa deconstruction si può vedere l’ormai classico J. Culler, Sulla decostruzione, trad. it. Milano, Bompiani, 1988, pp. 81-100.

[5] J. Lacan, Scritti cit., p. 91.

[6] Su questi temi cfr. da ultimo A. Zenoni, Il corpo e il linguaggio nella psicoanalisi, trad. it. Milano, B. Mondadori, 1999, in part. pp. 102-137; si veda anche M. Combi, Corpo e tecnologie. Simbolismi, rappresentazioni e immaginari, Roma, Meltemi, 2000, pp. 47-61. Una sintesi originale della posizione lacaniana si può leggere in J.-D. Nasio, Cinque lezioni sulla teoria di Lacan, trad. it. Roma, Editori Riuniti, 1998, pp. 127-134.

[7] R. Barthes, Variazioni cit., p. 54 (e più ampiamente pp. 53-55).

[8] In generale sulle subscriptiones e sulle loro forme, si può vedere ora la ricca raccolta di contributi offerti da Scribi e colofoni. Le sottoscrizioni di copisti dalle origini all’avvento della stampa. Atti del seminario di Erice. X Colloquio del Comité international de paléographie latine (23-28 ottobre 1993), a c. di E. Condello e G. De Gregorio, Spoleto, Centro Studi sull’Alto Medioevo, 1995. 

[9] Su ‘lettera’ e ‘simbolico’, cfr. ancora J. Lacan, Scritti cit., pp. 29s., 57s., 265-269 e index s.v. «ordine simbolico».

[10] E. Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, trad. it. Milano 19823, p. 380. 

[11] Per un’antropologia del tatuaggio, si veda la sistemazione fornita da J.T. Maertens, Le dessin sur la peau, Paris, Aubier, 1978, e più recentemente C.R. Sanders, Customizing the Body. The Art and Culture of Tattooing, Philadelphia, Temple University Press, 1989 (con particolare attenzione alle sub-culture contemporanee), e A. Gell, Wrapping the Images. Tattooing in Polynesia, Oxford, University Press, 1993, pp. 1-39; per un approccio psico-sociologico al fenomeno del tatuaggio nelle società occidentali contemporanee, si possono consultare per es. A. Castellani, Ribelli per la pelle. Storia e cultura dei tatuaggi, Genova, Costa & Nolan, 1995; A.M. Casadei, Psicologia del tatuaggio, Imola, La Mandragora, 1997; M. Castellano-S. Della Giovanpaola, Il tatuaggio: moda o bisogno di identità?, «Attualità in psicologia» II (1998), pp. 209-218; G. Pietropoli Chermet-A. Marcazzan, Piercing e tatuaggio: manipolazioni del corpo in adolescenza, Milano, Franco Angeli, 2000. Per una riflessione critica sulla cosiddetta anthropologie du proche, cfr. M. Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, trad. it. Milano 1993, pp. 13-42.

[12] Tale prospettiva rischia però di appiattire su una facile vulgata sociologica la ricca fenomenologia (e la probabile ‘sovradeterminazione’) che emerge invece, per il fenomeno del tatuaggio e di altre manipolazioni cutanee, dalla letteratura antropologica: cfr. per es. O. Konig, Pelle, in Cosmo, corpo, cultura. Enciclopedia antropologica, a c. di C. Wulf, ed. italiana a c. di A. Borsari, Milano, B. Mondadori, 2002, pp. 438-447.

[13] Sul tema è da vedere M. Warnke, Il bello e il naturale. Un incontro letale, in I Greci. Storia, cultura, arte, società, I. Noi e i Greci, Torino, Einaudi, 1996, pp. 343-368. Per un pagina winckelmanniana esemplare, cfr. Storia dell’arte nell’antichità, trad. it. Milano, SE, 1990, pp. 118s. Per un caricaturale ribaltamento del canone, R. Strassoldo, Sade trionfante o il corpo nell’arte contemporanea, in Corpo futuro. Il corpo umano fra tecnologie, comunicazione e moda, a c. di L. Fortunati et al., Milano, Franco Angeli, 1997, pp. 74-86, con bibliografia.  

[14] Su Cook è ora da vedere M. Sahlins, Capitan Cook, per esempio. Le Hawaii, gli antropologi, i nativi, trad. it. Roma, Donzelli, 1997, con importanti riflessioni su colonialismo, esotismo e antropologia.

[15] C. Lombroso, L’uomo delinquente, Milano, Fratelli Bocca, 1896 (rist. Roma, Napoleone, 1971).

[16] «Tätowieren war früher ein Markenzeichen der Halb- und Unter-welt […] heute sollte nachdenklich stimmen, daß der Tätowierungsboom einhergeht mit dem Aufblühen einerseits heidnischer, andererseits esoterischer, okkulter Strömungen […]. Deshalb sollten Christen von jeglicher Form der Tätowierung Abstand nehmen»: cito dall’illuministico scritto di A. Seibel, Zeichen der Sklaverei, in «Idea Spektrum» 29, 1998, pp. 7s., disponibile on line (http://www.idea
.de/html/spektrum
/1998/
s2998s01.pdf ; un riadattamento italiano nel non meno lungimirante http://www.
apocalypsesoon.org
/I/i-xfile-17.html
).

[17] La prospettiva resa celebre da B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, trad. it. Torino, Einaudi, 1963, pp. 19-47, che data ad età postomerica l’idea di ‘corpo’ come intero organico e coeso, è stata recentemente ribadita da G. Reale, Corpo, anima, salute. Il concetto di uomo da Omero a Platone, Milano, Cortina, 1999, pp. 15-40. È difficile, tuttavia, sottrarsi alla sensazione che tale approccio presupponga una concezione ancora teleologica e idealistica (ovvero, per dirla con Gramsci, ‘partenogenetica’): se si parte dall’idea di una fondamentale costituzione simbolica del corpo (cfr. supra, n. 5, 6, 7 e 9), non si vede ragione di attribuire maggiore o minore ‘dignità simbolica’ a questa o a quella forma del corporeo, disposte lungo la linea di uno ‘sviluppo’, o di una Entdeckung, segretamente e forzatamente gerarchica.   

[18] Traduzione di G. Nenci in Erodoto. Le storie, V. La rivolta della Ionia, Milano, Fond. L. Valla-Mondadori, 1994, p. 15. 

[19] Sui Mossineci e sul loro ‘mondo a rovescio’ (specie per quanto concerne le abitudini sessuali), cfr. anche Ap. Rh. II 1019ss.

[20] L’espressione tà métopa Istrianá è attribuita ad Aristofane lessicografo Esichio, s.v. Istrianá (i 1033 Latte), che la riferisce, con verosimiglianza, al tatuaggio come uso caratteristico delle popolazioni Danubiane (quindi afferenti – pur nella genericità del rinvio – al mondo trace: cfr. Kassel-Austin, ad l.).

[21] Si vedano gli ulteriori paralleli citati da P. Parroni in Pomponii Melae de Chorographia libri tres, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1984, p. 282.

[22] Si veda in proposito la ricchissima nota ad l. di J.L. Lightfoot, Lucian. On the Syrian Goddess, Oxford, University Press, 2003, pp. 529-531.

[23] Oltre al citato Erodoto, cfr. Clearch. ap. Athen. XII 524d = fr. 46 Wehrli, che attribuisce l’usanza del tatuaggio all’originaria marchiatura subita dalle donne di Tracia per opera degli Sciti, Cic. De off. II 7, 25, Artemid. I 8 e Dio Chrys. Or. 14,19. Si veda inoltre A Commentary on Herodotus, by W.W. How and J. Wells, II, Oxford, Clarendon Press, 19282, pp. 2s, cui aggiungerei almeno Dialex. fr. 2,13 D.-K.

[24] Herodas. The Mimes and Fragments, with notes by W. Headlam, ed. by A.D. Knox, Cambridge, University Press, 1922 = London, Bristol Classical Press, 2001, p. 256.

[25] Si veda in proposito F. Hartog, Lo specchio di Erodoto, trad. it. Milano, Il Saggiatore, 1992, e più recentemente C. Marcaccini, Il ruolo dei Traci nell’immaginario greco di IV-V sec. a.C. tra storiografia ed iconografia, «RSA» XXV (1995) 7-53, con ampia documentazione; un’utile panoramica in A. Corcella, Erodoto e l’analogia, Palermo, Sellerio, 1984, pp. 69-91. Per il tema del ‘mondo alla rovescia’ nella cultura antica, cfr. H. Kenner, Das Phänomen der verkehrten Welt in der griechisch-römischen Antike, Klagenfurt-Bonn, Kärnten & Habelt, 1970; per l’opposizione cultura / non cultura, cfr. il classico J.M. Lotman, Testo e contesto, trad. it. Roma-Bari, Laterza, 1980, pp. 14ss.

[26] Cfr. per es. G. Nenci in Erodoto cit., p. 161. 

[27] F. Hartog, o.c., p. 135.

[28] Sul lógos epitáphios ateniese cfr. N. Loraux, L’invention d’Athènes. Histoire de l’oraison funèbre dans la Cité classique, Paris, Mouton, 1981.

[29] Sulle presunte leggi funerarie di Solone si vedano le osservazioni di C. Ampolo, Il lusso funerario e la città arcaica, «AION(archeol)» VI (1984) 71-102.

[30] Cfr. per es. G. Dumézil, Storie degli Sciti, trad. it. Milano, Rizzoli, 1980, p. 245, nonché il materiale citato da A. Corcella in Erodoto. Le storie, IV, Milano, Fond. L. Valla-Mondadori, 1993, p. 290.

[31] Si veda per es. Hdt. I 10,3: «presso i Lidi, così come presso quasi tutti i Barbari, farsi vedere nudi comporta una grande vergogna, anche per un uomo», con le precisazioni di G. Burzacchini, Nudità e vergogna presso Lidi e barbari (Hdt. I 10,3), «Eikasmós» XII (2001) 85-88, di cui si seguono qui le scelte critico-testuali. Per altri luoghi e per le relative discussioni critiche, cfr. per es. J.A. Arieti, Nudity in Greek Athletics, «CW» LXVIII (1975) 431-436; N.B. Crowther, Athletic Dress and Nudity in Greek Athletics, «Eranos» LXXX (1982) 163-168; da ultima P.A. Hannah, The Reality of Greek Male Nudity. Looking to African Parallels, «Scholia» VII (1998) 17-40, con acute rettifiche sul tema della ‘nudità eroica’ o ‘idealizzata’: ma se davvero il corpo nudo fu realtà quotidiana prima o più spesso che Idealtypus iconografico, ciò non toglie che, varcata la soglia della rappresentazione, lo stesso ‘corpo nudo’ si espone al gioco della differenza segnica e si assume l’onere (semiotico) della sua ‘interpretabilità’; le osservazioni della Hannah, utili contro la pruderie di certa critica idealistica, non devono perciò fomentare una forma di riduttivo razionalismo. Per il ‘corpo’ femminile e per la sua concettualizzazione il discorso è naturalmente diverso: si vedano per es. S. Campese-P. Manuli-G. Sissa, Madre materia. Sociologia e biologia della donna in Grecia, Torino, Boringhieri, 1983.      

[32] Sul valore ‘iper-culturale’ della scrittura corporea, cfr. per es. M.C. Taylor, Skinscapes, in Pierced Hearts and True Love, New York, Handy Marks Publications, 1995; T. Maldonado, Corpo: artificializzazione e trasparenza, in Corpo futuro cit., pp. 25-34. Sulle tecniche antiche per la pratica del tatuaggio, e soprattutto per la sua cancellazione, qualche informazione si può reperire in Aet. Iatr. lib. VIII 12. 

[33] Sul mito della ‘semplicità’ selvaggia e in generale sulla fascinazione del Barbaro, si può vedere in sintesi F. Turato, La crisi della città e l’ideologia del selvaggio nell’Atene del V sec. a.C., Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1979; per l’ambivalenza del selvaggio nel teatro classico, cfr. P. Ceccarelli, Le monde sauvage et la cité dans la comédie ancienne, «EL» I (1992) 23-37; C. Mauduit, Le sauvage et le sacré dans la tragédie grecque, «BAGB» (1988) 303-317.

[34] Un orientamento generale sul tema della cosmesi nella cultura classica (e sul dibattito ideologico da essa suscitato), fornisce la brillante Introduzione di G. Rosati a Ovidio. I cosmetici delle donne, Venezia 19882, pp. 9-38.

[35] J. Lacan, Scritti cit., pp. 98s. (corsivo mio). 

[36] R. Barthes, L’avventura semiologica, trad. it. Torino, Einaudi, 1991, pp. 27-35, in part. p. 30. In generale per il tema della ‘connotazione’ (in prospettiva barthesiana) cfr. Id., Miti d’oggi, trad. it. Torino, Einaudi, 1974, pp. 191ss.; Elementi di semiologia, trad. it. Torino, Einaudi, 1966, pp. 79-83.

[37] U. Galimberti, Il corpo, Milano, Feltrinelli, 1983, pp. 185s. L’opposizione potrebbe forse essere meglio chiarita in termini di ‘biopolitica’ foucaultiana: dove il potere non ‘svuota’ il senso (del corpo o di altra pretesa ‘origine’), bensì lo produce e lo determina (su questo punto cfr. M. Foucault, L’ordine del discorso. I meccanismi sociali di controllo e di esclusione della parola, trad. it. Milano, Feltrinelli, 1972).

[38] M. Vegetti, Anima e corpo, in Il sapere degli antichi, Torino, Boringhieri, 1985, pp. 201-228, in part. p. 214. Sul ‘corpo’ politico e politicizzato dell’ideologia greca classica, al di fuori dell’àmbito specialistico si possono vedere le riflessioni – non di rado spericolate – di A. Cavarero, Corpo in figure. Filosofia e politica della corporeità, Milano, Feltrinelli, 20002, in part. pp. 17-110; più salutare, quanto al rapporto corpo ~ potere, la lettura del classico M. Foucault, Sorvegliare e punire, trad. it. Torino, Einaudi, 1976, la cui prospettiva è ora ripresa (con qualche fumosità) da D. Kamper, Corpo, in Cosmo, corpo cit., pp. 409-418. Sul tema limitrofo del ‘corpo (politico) del re’, cfr. da ultimo G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino, Einaudi, 1995, pp. 102-115.    

[39] Cfr. per es. M. Vegetti, Il coltello e lo stilo. Animali, schiavi, barbari, donne, alle origini della razionalità scientifica, Milano, Il Saggiatore, 1979; W. Nippel, La costruzione dell’«altro», in I Greci cit., I,  165-196.

[40] Per la chattel-slavery (la ‘schiavitù-merce’), alimentata in gran parte da barbari, cfr. per es. le riflessioni di P. Vidal-Naquet, in Actes du Colloque 1971 sur l’esclavage, Paris, Les Belles Lettres, 1972, pp. 25-44, nonché i contributi raccolti in Schiavi e dipendenti nell’ambito dell’oikos e della familia. «Atti del XIII Colloquio GIREA (Pontignano, Siena, 19-20 novembre 1995)», a c. di M. Moggi e G. Cordiano, Pisa, ETS, 1997. Per il duplice concorso di elementi materiali e immaginari in ogni logica di carattere razzistico, cfr. M. Wieviorka, Lo spazio del razzismo, trad. it. Milano, Il Saggiatore, 1993, pp. 165-168.

[41] U. Fantasia, Astikton Chorion, «ASNP» s. III, VI/4 (1976) 1165-1175, in part. p. 1169. Prima di tale studio, occorre far uso del vecchio (ma ricchissimo) P. Wolters, Elaphostiktos, «Hermes» XXXIII (1903) 265-273. Più recentemente sul tema è tornato, con dovizia di esempi, C.P. Jones, Stigma. Tattooing and Branding in Graeco-Roman Antiquity, «JRS» LXXVII (1987) 139-155. Si devono invece all’immaginazione dell’autrice tutti i presunti casi di ‘scrittura corporale’ analizzati da Laura Faranda, De-scrivere la sofferenza, patire la scrittura. Metafore del corpo nell’universo femminile greco, in «Il mio nome è sofferenza». Le forme e la rappresentazione del dolore, a c. di Fabio Rosa, Trento, Università degli Studi, 1993, pp. 59-78.    

[42] La prima occorrenza del sostantivo è in Asio (VI sec. a.C.?), fr. 1,1 W.2 = G.-P.2

[43] In part. Sam. 323, con il commento di A.W. Gomme e F.H. Sandbach, Menander. A Commentary, Oxford, University Press, 1973, p. 577. Anche Luc. Catapl. 24 – dove Radamante spiega a Cinisco come ogni cattiva azione imprima sull’anima uno stigma qual è quello degli «schiavi marchiati» – fa pensare a un uso alquanto generalizzato della pratica punitiva. Cfr. inoltre l’eloquente Plut. Mor. 463a-b. e Ps.-Phocyl. Sent. 225.  

[44] Trad. di B. Marzullo, Aristofane. Le commedie, II, Roma-Bari, Laterza, 1989, p. 382. Sul passo si veda N. Dunbar, Aristophanes. Birds, Oxford, Clarendon Press, 1995, p. 470, ad vv. 760s., con utili precisazioni sul fenomeno della fuga servile. 

[45] Trad. di G. Reale, Platone. Tutti gli scritti, Milano, Rusconi, 1991, p. 1647.

[46] Trad. di V. Longo, Luciano. Dialoghi, I, Torino, UTET, p. 153.

[47] Per i diversi usi si veda Jones, o.c., pp. 151-154: la prevalenza del ‘tatuaggio’ sul branding sembra però assodata. 

[48] Erodoto non precisa né il contenuto né la natura (verbale o iconica) del messaggio; ma Polyaen. I 24,1, riprendendo l’episodio, attribuisce a Istieo un micro-lettera con tanto d’intestazione.

[49] Da cui l’ingiurioso homo trium litterarum, «uomo dalle tre lettere» (Plaut. Aul. 325). Petronio (103), da parte sua, menziona il notum fugitivorum epigramma per totam faciem; altri passi latini in Fantasia, o.c. 1172 e in G.T. Haneveld, On the Early History of Tattooing, «Janus» LVII (1970) 150-155.

[50] Su quest’ultimo uso si veda K.J. Dover, Greek and the Greeks. Collected Papers, I. Language, Poetry, Drama, Oxford, Blackwell, 1987, pp. 187s. Per il marchio sugli schiavi come garanzia contro il furto, cfr. invece Xen. De vect. IV 21: ma la testimonianza non va generalizzata (cfr. Fantasia, o.c., p. 1173 n. 19).

[51] Su quest’ultimo punto cfr. Jones, o.c., p. 143. 

[52] Sul tema è da vedere ora il documentato lavoro di M. Gustafson, Inscripta in fronte. Penal Tattooing in Late Antiquity, «ClAnt» XVI (1997) 79-105, con ampia bibliografia (esso è disponibile anche all’indirizzo <http://www.ucpress.
edu/scan/ca-free/161/gustafson.
161.pdf[22]>).

[53] La vicenda è testimoniata da Duride (FGrHist 76 F 66), da Plutarco (Vita di Pericle, 26,4) e da Eliano (VH II 19) e cinicamente allusa da Aristofane (fr. 71 K.-A.), che parla appunto dei Samii come di un dêmos polugrámmatos (‘letterato’ nel doppio senso di ‘colto’ e ‘marchiato con segni grafici’): cfr. Wolters, o.c., pp. 265s.; Fantasia, o.c., pp. 1172s. Identico trattamento riservarono i Persiani ai Tebani secondo Hdt. VII 233. Ne fa un segno di dolorosa umiliazione, da applicarsi ai nobili, il feroce Caligola: cfr. Svet. Cal. 27,3. 

[54] Qui la voce narrante si rivolge evidentemente a un nemico, minacciandolo di imprimergli infamanti stígmata, probabilmente su ogni parte del corpo: cfr. la nota ad l. di H. Lloyd-Jones–P. Parsons, Supplementum Hellenisticum, Berlin-New York, De Gruyter, 1983, p. 479. 

[55] Sulla rivalutazione del ‘corpo’ da parte del cristianesimo – tema di notoria complessità – si veda recentemente la presa di posizione di G. Reale, o.c. Il termine ‘creaturale’ è ovviamente sottratto a E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella cultura occidentale, trad. it. Torino, Einaudi, 1956, passim. La rivalutazione cristiana della corporeità non va confusa, naturalmente, con una rivalutazione della sessualità: cfr. recentemente L’eros difficile: amore e sessualità nell’antico cristianesimo, a c. di S. Pricoco, Soveria Mannelli (CZ), Rubettino, 1998, con bibliografia.

[56] Cfr. per es. Ar. Nub. 23, con il commento di K.J. Dover, Aristophanes. Clouds, Oxford, Clarendon Press, 1968, pp. 95s.

[57] Sulla scrittura corporale come tentativo di controllare e irreggimentare (‘culturalizzare’) il sôma, cfr. P. Du Bois, Il corpo come metafora. Rappresentazioni della donna nella Grecia antica, trad. it. Roma-Bari, Laterza, 1990, pp. 181s.

[58] Per una riflessione psicoanalitica sul tema che qui si evoca, cfr. B. Bettelheim, Le ferite simboliche: un’interpretazione psicoanalitica dei riti puberali, trad. it. Firenze, Sansoni, 1973. 

[59] Oltre a quanto abbiamo citato più sopra (n. 6), cfr. per es. F. Dolto, L’immagine inconscia del corpo. Come il bambino costruisce la propria immagine corporea, trad. it. Milano, Bompiani, 1998, passim e in part. pp. 31-37.

[60] Cfr. per es. le considerazioni che sul ‘corpo anoressico’ e sulla sua manipolazione conduce, in chiave lacaniana, M. Recalcati, L’ultima cena. Anoressia e bulimia, Milano, Bruno Mondadori, 1997.

[61] Per i giochi d’identità cui Odisseo si sottopone nel corso del suo viaggio, cfr. per es. S. Murnagham, Disguise and Recognition in the Odyssey, Princeton, Princeton UP, 1987; P. Pucci, Odysseus Polytropos. Intertestual Readings in the Odyssey and the Iliad, Ithaca (NY), Cornell UP, 19992.

[62] Dopo la celebre analisi di Auerbach, o.c., pp. 3-29, secondo la quale lo stile omerico, con il suo ‘primo piano perpetuo’, sarebbe incapace di autentici effetti realistici, la scena centrale del libro XIX – e in particolare il lungo excursus che precede la commossa agnizione – è stato sottoposto ad analisi che ribaltano i presupposti e le conclusioni del romanista: cfr. per es. A. Köhnken, Die Narbe des Odysseus. Ein Beitrag zur homerisch-episch Erzähltechnik, «A&A» XXII (1976) 101-114; I.J.F. De Jong, Narrators and Focalizers, Amsterdam, Grüner, 1987, pp. 22s.

[63] Cfr. S. Kripke, Nome e necessità, trad. it. Torino, Boringhieri, 1982, p. 10. 

[64] In questa direzione M. Salvadore, Il nome e la persona. Saggio sull’etimologia antica, Genova, Università di Genova, 1987, pp. 9s., e soprattutto G. Lombardo, Il nome di Odisseo e la orthotes antroponomastica in Omero, «Helikon» XXXIII-XXXIV (1993/1994), pp. 73-119, in part. p. 91-94.

[65] Si veda Lombardo, o.c. 91, secondo il quale il gusto antico per i nomi parlanti «sembra anticipare il moderno statuto semantico del nome proprio. Esso anzi in qualche modo lo rafforza e lo integra. In quanto contrassegno individualizzante, il nome proprio aderisce al suo referente oggettivo, senza la mediazione del significato […]. Che Omero abbia chiaramente intuito quella che i logici chiamerebbero oggi la funzione di designatore rigido del nome proprio, ci viene confermato da un particolare decisivo […]: l’analogia con la cicatrice» (corsivo mio); ma su questa via, gli unici ‘designatori rigidi’ rischiano di trovarsi nella teoria semiotica dello swiftiano Balnibarbi (cfr. in proposito R. Jakobson, Saggi di linguistica generale, trad. it. Milano, Feltrinelli, p. 21).

[66] Su tale slittamento semantico, foriero di numerosi equivoci, si veda in sintesi J. Molino, Le nom propre dans la langue, «Langages» LXVI (1982) 5-20, in part. p. 15.

[67] J.-C. Pariente, Le nom propre et la prédication dans les langues naturelles, «Langages» LXVI (1982) 37-65, in part. p. 60. Ma si veda lo stesso Kripke, o.c., p. 24.

[68] Kripke, o.c., passim e soprattutto pp. 11-13, 42-54 (cfr. in part. p. 50: «chiameremo qualcosa un designatore rigido se in ogni mondo possibile esso designa lo stesso oggetto»), 76.

[69] Sull’apporto di J.R. Searle (Nomi propri, in La struttura logica del linguaggio, a c. di A. Bonomi, Milano, Bompiani, 1973, pp. 249-258) alla teoria delle descrizioni, si può vedere per es. D. Silvestrini, in Individui e mondi possibili. Problemi di semantica modale, a c. di D. S., Milano, Feltrinelli, 1979, pp. 17-87 e in part. pp. 76s.

[70] Essa sarebbe poi del tutto vanificata se si credesse – come sembra fare Lombardo, o.c., p. 94 n. 57 – alla suggestione di K. Marót, Odysseus-Ulixes, «Acta Antiqua» VIII (1960) 1-6, che ipotizza un calembour fra il termine oulé e l’idionimo extraomerico Oulusseús.

[71] Per l’applicazione agli universi narrativi della teoria dei ‘mondi possibili’, d’obbligo il rinvio a U. Eco, Lector in fabula, Milano, Bompiani, 1979.

[72] Su tali ‘marchi innati’ della pelle (nei o ‘voglie’), indagati dai più antichi testi di fisiognomica mediorientale, cfr. G. Raina, Introduzione a Pseudo Aristotele. Fisiognomica, Milano, Rizzoli, 1993, pp. 7s., e più in generale J. Bottero, Sintomi, segni, scritture nell’antica Mesopotamia, in Divinazione e razionalità, a c. di J.-P. Vernant, trad. it. Torino, Einaudi, 1974, pp. 73ss.

[73] Cfr. Raina, o.c.

[74] Sulla fisiognomica antica cfr. J. Schmidt, Physiognomik, in RE XX/1, coll. 1064-1074; M.H. Marganne, De la physiognomie dans l’Antiquité Gréco-Romaine, in Rhétorique du corps, ed. par P. Dubois et Y. Winkin, Bruxelles, De Boeck-Wesmael, 1988, pp. 13-24; per una storia della fisiognomica e delle sue alterne fortune, si possono vedere P. Magli, Il volto e l’anima. Fisiognomica e passioni, Milano, Bompiani, 1996; L. Rodler, Il corpo specchio dell’anima. Teoria e storia della fisiognomica, Milano, B. Mondadori, 2000; F. Caroli, Storia della fisiognomica. Arte e psicologia da Leonardo a Freud, Milano, Electa, 2002; e in questo stesso numero di «Griseldaonline» il contributo di Lucia Rodler.