Le antiche raccolte di novelle, dal Novellino duecentesco al Decamerone, alle raccolte quattrocentesche e cinquecentesche, fino a quel punto di svolta che è il Cunto de li cunti di Basile, sono dei bazar di roba messa insieme, con un fasto rituale ancora visibile, benché lontano dalle nostre abitudini. Il Decamerone somiglia a quei vecchi suk arabi dove trovavi profumi, gioielli, spezie, stoffe che venivano da tutte le parti, e ogni merce portava con sé il ricordo delle linee di circolazione dei commerci nel nord Africa. Le raccolte novellistiche erano collezioni di aneddoti, favole, leggende, motti arguti, d’origine scritta e orale. La varietà di questi zibaldoni dipendeva da una vasta circolazione di motivi narrabili, legata alle rotte dei pellegrini e dei mercanti. Per questi tramiti debbono essere giunti molti esempi di narrativa araba, indiana, provenzale e francese, che hanno trasformato i modi dei racconti nostrani. Le prime due novelle del Decamerone parlano di mercanti fiorentini a Parigi, un buon terzo delle altre sono ambientate in luoghi d’Europa e del Mediterraneo, come vicende o emblemi o fantasie di terre lontane. In tutte si vede l’afflusso di materiali eterogenei, passati da una tradizione all’altra. Ed è ciò che rendeva le raccolte novellistiche degli empori di mercanzie pregiate, dove ogni storia ha la natura del frammento disperso, come le reliquie dei santi o i gioielli portati in Europa dagli antichi viaggiatori. È una narrativa di motivi intrecciati, dove ognuno vale in sé come memoria di accadimenti nel vasto mondo; e parla d’un mondo ancora inteso come un tessuto di meraviglie, alla maniera di Marco Polo e dei viaggiatori arabi.
Quel libro di novellette che ora chiamiamo il Novellino, composto tra il 1280 e il 1300, resta l’esempio d’una narrativa fatta con l’accumulo di pezzi di riporto, sparsi ed eterogenei, collegati da nessun motivo oltre al gusto del narrare. Si è pensato a un compilatore che disponesse d’una vasta biblioteca nel nord Italia, forse nella Marca Trevigiana, perché il Novellino si distingue per la grande quantità di spunti presi direttamente dai libri. Benché il suo titolo originale (Libro di novelle et di bel parlar gientile) si inquadri in una tradizione già viva di raccolte novellistiche, questo libro resta un unicum nel campo delle forme narrative. Perché è come un esperimento per ridurre il fenomeno chiamato “raccontare storie” al suo nucleo minimo. Che cos’è una storia? È un collegamento tra fatti antecedenti e conseguenti. Per gli antichi era una specie di effetto ottico, definito post hoc propter hoc, per cui ciò che viene prima in un racconto ci dà l’impressione d’essere la causa di ciò che viene dopo, anche, se non si tratta d’una conseguenza logica. Tutto il narrare è un gioco di effetti illusori. Ma come si produce l’effetto che una storia debba concludersi in punto preciso? L’interruzione non è una conclusione. La conclusione giustifica il racconto, perché è il momento in cui l’ascoltatore vede o crede di vedere il significato o la morale della storia. Nei ritagli nel Novellino il modo usuale è quello di concludere la novella con un motto o con una risposta arguta che risolve un contrasto. Anche dove si tratta di ritagli da romanzi noti, come nella novellina LXV, che riassume un episodio del Roman de Tristan di Béroul, la conclusione cade dove si ricompone un conflitto – e in questo caso si tratta del conflitto tra Tristano e re Marco, ricomposto grazie ad un “savio avedimento” (sotterfugio). La nota finale sul “savio avedimento”, che è l’inganno della regina Isotta per nascondere al marito il proprio adulterio con Tristano, funge da morale e da insegnamento. In questo senso produce l’effetto illusorio d’una conclusione.
Il carattere esemplare del Novellino sta in una fine arte del racconto scritto: arte del ritaglio e della miniaturizzazione di episodi già narrati nei libri. Questi sono spunti che (come dice il prologo) il lettore di “cuore nobile e intelligenzia sottile” può usare per farne a sua volta dei racconti offerti a chi desidera istruirsi. Il fasto rituale delle novellette sta in questo “sapere” racchiuso nell’involucro del “bel parlare”, come un monile o un anello che racchiuda un motto sapienziale. La miniaturizzazione dei racconti consiste nella loro brevità, che racchiude i “fiori del parlare”, le “belle risposte” e le “cortesie” vantate nel prologo. Ecco il senso della riduzione d’ogni frammento libresco a un nucleo minimo di parole, quelle strettamente necessarie per creare l’effetto del racconto concluso. In alcuni casi basta addirittura una frase a far tutto, come a esempio nella novella XVII: “Pietro tavoliere [mercante], fu grande uomo d’avere [fu uomo molto ricco], e venne tanto misericordioso [e divenne così caritatevole] che ‘mprima tutto l’avere dispese a’ poveri di Dio [che dapprima diede tutte le sue ricchezze ai poveri], e poi, quando tutto ebbe dato, et elli si fece vendere [dopo aver tutto dato, si mise in vendita come schiavo], e ‘l prezzo diede ai poveri tutto” [e diede il ricavato ai poveri]. La consecuzione dei fatti qui culmina in ciò che noi chiameremmo un colmo, il “più di così non si può”, ossia un comportamento impensato o impensabile – il mercante che vende perfino se stesso per dare il guadagno ai poveri. Il che fa l’effetto d’una conclusione, perché è come se il pensiero non potesse procedere oltre e dovesse fermarsi a riflettere. Questo è un modo di usare e incanalare sparsi pezzi di racconto, mescolando motivi che vengono da fonti diverse, come succederà spesso nelle future novelle. Altrove può trattarsi d’un paradosso, d’una burla, d’un inganno; ma l’arte novellistica dell’effetto conclusivo tocca sempre qualcosa che dà l'idea dell’eccesso, del colmo, dell’imparagonabile, e che ci lascia sospesi in uno stato di stupore o di meraviglia.
Quando andavo a scuola io, tutta la novellistica italiana si riassumeva nel Decamerone; ma il Decamerone non era studiato come l’esempio d’un genere narrativo, bensì solo come l’opera di Boccaccio. L’abitudine di studiare i testi letterari solo in quanto opere di autori illustri ha oscurato per secoli la tradizione della novella. Soltanto nell’ultimo secolo sono diventate facilmente accessibili le raccolte di Sacchetti, Masuccio, Sermini, Sercambi, Fortini, Straparola Grazzini e altri. Con questo allargamento d’orizzonte si è cominciato a vedere come i narratori abbiano abbandonato lo schematismo dei vecchi racconti morali, dando più peso ai dettagli, alle figure dei personaggi, alle tonalità della lingua secondo i tipi di racconto. Si intuisce anche l’esistenza d’un diffuso collezionismo dei motivi narrabili, legato all’abitudine di scambiarsi aneddoti e storie: usanza innestata sulle pratiche della conversazione quotidiana, che diventano la componente centrale di questo nuovo sistema narrativo. Sulla scia del Decamerone e del Trecentonovelle di Sacchetti, la novella fiorisce come genere prevalentemente toscano, ma anche ibrido e anomalo. Infatti è una narrativa dove non c’è una netta separazione tra tragico e comico, tra tono maggiore e tono minore, tra gioco immaginativo e verosimiglianza. Una novella poteva essere fiaba, leggenda, burla, motto celebre, cronaca cittadina, tragedia storica, avventura in terre lontane, oppure l’esempio morale nelle prediche di San Bernardino o le facezie del Piovano Arlotto. Rispetto ai generi letterari affermati, si può dire che fino al Cinquecento la novella non rappresenti un vero genere letterario (nonostante la grande fama goduta da Boccaccio), ma il semplice riaffiorare d’una usanza cittadina o borghigiana: lo scambio di storie, favole, facezie giunte all’orecchio, trattenimento spicciolo, chiacchiera conviviale ma anche recita da strada, come esisteva per le strade di Roma ai tempi di Plinio, e come esiste ancora in vari angoli del mondo. Tutto questo ha reso la novella un genere un po’ equivoco, poco riconoscibile, soprattutto fuori dalla Toscana. Ed è interessante che, nella sua Piazza universale di tutte le professioni del mondo (1585), Tomaso Garzoni accenni solo di sfuggita al mestiere del novellieri, nel Discorso L, e li identifichi con gli inventori di burle (“burlieri”), dunque mettendo Boccaccio in compagnia dei buffoni di corte. Poi nel famoso Discorso CIV, dedicato ai ciarlatani di piazza, Garzoni non nasconde la sua schietta opinione su cosa fosse il novellare: un puro imbroglio e abbaglio delle parole. “Qui si tesse la favola… Il plebeo s’arriccia, il villano stremisce alla novella che vien raccontata...”
In realtà la novella non s’è mai staccata del tutto dallo sfondo in cui Garzoni la colloca, vuoi come burla depositata nelle carte, fola o diceria da pubblica piazza, intrattenimento di corte, o recita in raduni conviviali come quelli evocati in molte raccolte novellistiche. Rispetto ai generi di maggior prestigio, come il poema epico, la lirica e l’oratoria, la novella si distingue per quest’altro tipo di circolazione, non chiuso negli spazi della pagina scritta. Si sa di novelle di Sacchetti raccontate fino a pochi anni fa nelle campagne toscane. Una rara scena in ambito popolare è descritta in una lettera di Andrea Calmo, commediografo, poeta e attore veneziano, morto nel 1571. Parla dell’ascolto di novelle in una taverna veneta, attorno a narratori con repertori di storie in voga, i quali raccontano: “le più stupende panzane, stampie e immaginative [le più stupende panzane, stramberie e invenzioni] del mondo, de comare oca, del fraibolan [del pifferaio], del osel bel verde [dell’uccellin bel verde], de statua de legno [della statua di legno], de bossolo de le fade [del bossolo delle fate], d’i porceleti [dei porcellini], de l’asino che adete romito [dell’asino che si fece romito], del sorze che andete in pelegrinazo [del sorcio ch’andò in pellegrinaggio], del lovo che se fiese miedigo [del lupo che si fece medico], e tante fanfalughe che non bisogna dir [e tante fanfaluche che non è il caso di dire] ” (Lettere, libro IV, 42). Si riconoscono in questo repertorio varie storie che gireranno in tutta Europa, cominciando da quella di Comare l’Oca, che darà il titolo alla raccolta favolistica di Perrault, Les Contes de Ma Mère l’Oye (1687). Simili usanze di racconti in comitiva accompagnano tutta la tradizione della novella, negli intrattenimenti campestri, di stalla o di cortile, con repertori di fiabe, storie di meraviglie e aneddoti buffi: in Rome, Naples et Florence, nel 1826, Stendhal registra simili narrazioni in ambito popolare; e dice che arrivando una sera a Calstelfiorentino, ha trovato una “compagnia di braccianti [che] improvvisavano, ognuno al suo turno, racconti in prosa d’un genere come quello delle mille e una notte”. E aggiunge: “Ho passato una serata deliziosa, dalle sette a mezzanotte, ascoltando quei racconti [dove] il meraviglioso più stravagante crea avventure che portano a sviluppare le passioni più vere e più impreviste”. Ancora mia madre da bambina ascoltava fiabe e novelle su streghe e banditi, nelle riunioni di stalla in una sperduta località sulle foci del Po. Tutto questo ci rimanda ad abitudini che arrivano quasi fino a noi, come pratiche di conversazione e di intrattenimento, fuori dalla testualità fissa dei libri.
Il carattere misto dei materiali novellistici, senza limiti precisi tra la forma scritta e orale, è stata la grande spinta vitale della novella; perché attraverso i motivi narrabili che passavano da un narratore all’altro senza nessuna sorveglianza nascevano variazioni imprevedibili. Un motivo novellistico tra i più diffusi è quello della donna malmaritata. con marito stupido e geloso, la quale risolve la situazione accoppiandosi con un amante simpatico. Questo tema trova una notevole variante in una novella di Sermini, dove la donna per sottrarsi al marito beve una pozione che la fa sembrare morta (Novelle, 1). Qualche decennio più tardi ritroviamo il motivo della pozione in una novella di Masuccio, ma applicata a un altro tema diffuso, quello dei due innamorati ostacolati dalle famiglie (Novellino, 33). Nel secolo seguente il racconto è rielaborato da Luigi Da Porto, nella lunga novella di Giulietta e Romeo (Storia di due nobili amanti): novella poi ripresa da Bandello (Novelle, II, 9), per finire attraverso altri passaggi nella mani di Shakespeare. L’esempio mostra come un motivo narrabile si ri-orienti di continuo, perché il fatto stesso di circolare lo traduce in una serie di variazioni di cui non conosciamo i margini precisi – infatti niente ci assicura che non ci fossero versioni orali con orientamenti ancora diversi, rispetto a quelli noti. Tutto questo è lontano dal nostro modo di pensare, perché per noi ogni racconto corrisponde necessariamente ad un testo unico, chiuso entro i limiti dello spazio scritto. La novella invece si dichiara sempre come racconto d’un racconto, udito dal narratore che lo ripete per noi. Questa è la differenza della novella rispetto ai racconti moderni: nella novella non esiste l’idea del racconto originale, il racconto d’autore come lo intendiamo ora, bensì quella d‘una ripetizione con continue varianti. Ed è come in musica: un motivo implica sempre certe variazioni secondo lo stile di chi lo esegue. Viceversa, i racconti moderni sono concepiti come parte di una testualità fissa, in cui parrebbe che la lingua si fosse già tutta oggettivata e purificata nella scrittura. Il risultato è un narrare chiuso, come immunizzato e sottratto all’incontrollabile circolazione delle parole.
Sulla scia del Decamerone e del Trecentonovelle, scrivere novelle è diventato un passatempo privato, borghese, con tratti già stereotipati, sintassi modesta, ancoraggio nel sentito dire locale. Ma anche in queste novelle si mantiene il senso e la forma del racconto orale, dove chi narra si rivolge agli ascoltatori per mettere in comune la storia che racconterà, come in una presupposta convergenza di gusti. Cito un attacco di Sermini: “…perché non passi senza alcuna memoria, una piacevole novelletta alle mie orecchie venuta, mi piace narrarvi” (Novelle, 1). È questo che distingue la novella dal racconto storico: non una testimonianza sui fatti narrati, quanto una compagnia d’ascolto che testimonia (“in effige”, per così dire) una comunanza di gusti e di abitudini. Ecco un attacco di Sercambi: “Piacevoli donne, e voi altri, venerabili persone, a me occorse in nella mente una novella la quale a vostro contentamento dirò” (Novelle, 8). La compagnia di ascolto è parte stabile della cornice del Decamerone, dove un gruppo di giovanotti e donzelle si scambiano racconti. Anzi, si può dire che la novella nella sua forma più tipica sia precisamente questo: la messa in scena d’uno scambio di racconti, con un appello agli ascoltatori, come richiamo all’essenza dialogica del novellare: “Piacevoli donne e voi graziosi gioveni, fu, non è ancor molto, in una nostra villa non guari lontana dalla città..." (Fortini, Notti, I). E questa diventa una specie di segnatura che marca la tradizione più tipica della novella, basata su dialoghi, pratiche di conversazione e scambi da narratore a narratore.
Nell’anonimo Novellino duecentesco si legge che il libro tratta di “fiori del parlare, di belle cortesie e belle risposte”. La novella nasce come sviluppo di cerimonie cortesi ed è largamente modellata sui modi del dialogo nei testi medievali. Boccaccio ha elaborato quei cerimoniali con la cornice in cui sono incassati i racconti: ossia la storia di sette donzelle e tre giovani fiorentini che vanno in campagna per sfuggire alla peste e si raccontano novelle a turno per dieci giorni. Quella è la compagnia d’ascolto, da cui si sviluppano dialoghi e commenti alle storie narrate; e che ci dà il senso d’entrare in un luogo di amichevoli conversarî, dove il dialogo cortese si mescola alla conversazione urbana, arguta, libera da censure dogmatiche. L’innovazione di Boccaccio sta nell’usare gli schemi di conversazione per amalgamare materiali narrativi eterogenei sul filo del discorso. E come avviene nelle conversazioni, anche qui ognuno ha un turno di parola per raccontare una storia; poi ogni storia fa venire in mente qualcosa di simile a un altro narratore e si creano catene di storie su temi simili. Dopo Boccaccio, è Masuccio Salernitano che porta l’impianto conversativo delle novelle alla forma più stilizzata. Il suo Novellino distingue le fasi del turno di parola, dividendole in un esordio sotto forma di presentazione oratoria della novella per definirne il tema o lo scopo morale, in una narrazione e infine in un commento conclusivo dell’autore. È un modo per presentare gli schemi di conversazione come un cerimoniale, con cui la merce pregiata dei racconti trova un fasto che li esalta, portandoli all’altezza dei romanzi cortesi, con racconti che sembrano imitare le illustrazioni miniate di quei libri. E già nel prologo, detto Parlamento de lo autore al libro suo, l’immagine del libro di novelle come una nave incantata ricorda la nef de joie e de deport dei romanzi arturiani, scena d’una conversazione favolosa su temi d’amore e di svago.
Nelle novelle di Sacchetti non esiste la messinscena della compagnia di narratori-ascoltatori, né la presentazione oratoria delle novelle per annunciare il loro tema. Il Trecentonovelle si regge sui modi elementari della ricreazione comica, che servono a far svaporare le disgrazie individuali nelle risate collettive. L’istinto narrativo di Sacchetti segue modi mimici ritmi a scansioni rapide, orecchiati sul dialogo familiare, sul litigio comico, dove tutto torna sempre al grembo comunitario, alle chiacchiere del sentito dire locale. La festa qui è soltanto sospensione del lavoro, momento di riposo ascoltando racconti. L’elaborata messinscena di Boccaccio ha già perso contatto con questi modi semplici di ricreazione, e per quanto il Decamerone preceda il Trecentonovelle di circa 30 anni, sembra già proiettato in un’altra era. È la differenza tra il narratore paesano e un nuovo narratore che si richiama all’esperienza allargata dei viaggi e dei commerci e dei racconti venuti da lontano. In generale si sa poco di come siano giunti in Europa molti esempi di novellistica orientale, dai tempi delle crociate e poi per vari secoli, presumibilmente per via orale e attraverso viaggiatori veneziani (F. Gabrieli, Dal mondo dell’Islam, 1954). Comunque, la cornice del Decamerone, con la compagnia di narratori che si scambiano storie, deriva da un imprestito venuto dall’oriente: ed è un modulo della novellistica arabo-persiana che sarà conosciuto in Europa solo quattro secoli dopo, con la prima traduzione delle Mille e una notte, realizzata da Antoine Galland. Nelle Mille e una notte lo scambio di storie avviene tra Shahrazad, sua sorella Dinarzade e il sultano Schahriar. Ogni notte Dinarzade sveglia Shahrazad invitandola a raccontare storie fino all’alba; e Scherazade racconta storie che destano la curiosità nel sultano, in modo da poter riprenderle la notte successiva, e poi di notte in notte - così sfuggendo alla morte che la aspetta secondo il decreto di Schahriar. Se Shahrazad narrando inganna il sultano e sospende la propria condanna, i narratori di Boccaccio ingannano il tempo in epoca di peste, e sospendono l’incombenza della morte. Nei due casi c’è uno schema comune, dove i racconti si propongono come una sospensione dell’incombenza del tempo che ci porta verso la morte o le disgrazie della vita; e così i racconti prendono il senso d’un incantamento in cui gli uomini dimenticano tutto il resto. Nella storia di Shahrazad ogni racconto è un inganno; nessuno è al servizio d’una verità: tutti servono solo per sospendere il tempo di vita, di novella in novella, di giorno in giorno.
Le novelle iniziavano sempre con tempi indefiniti come l’imperfetto, che è una temporalità di scorcio, nel vago della lontananza: “Fu già in Siena uno dipintore, che avea nome Mino, il quale avea una sua donna assai vana…” (Sacchetti, Trecentonovelle, 84). E' la forma più antica di racconto, ed è il tipico attacco delle fiabe: “C’era una volta…” L’imperfetto sospende tutto nell’atto del dire, del narrare, ed è questo che produce un alone immaginativo nelle parole; una specie di in illo tempore come quello dei racconti mitici. Le novelle passano ai tempi puntuali quando si tratta d’un fatto che rompe un tran tran consueto: “Avvenne un giorno che…” Ma anche le vicende intermedie hanno una temporalità di scorcio, finché si arriva al punto memorabile della storia. Questo è sempre presentato con un tempo puntuale, il passato remoto, passato assoluto che accentua la tensione del racconto. Andreuccio da Perugia, ingannato dalla Siciliana, caduto nella discarica di escrementi, si ritrova di notte nel vicolo e “cominciò a batter l’uscio e gridare; e tanto fece così che molti circostanti vicini desti, si levarono.”(Dec. II, 5). Con questo tempo verbale il racconto diventa più teso; ma è una scena dove niente è spiegato, niente descritto; l’azione in corso è appena accennata; e qui “immaginare” vuol dire più che altro riconoscere un movimento di ombre verso cui la nostra attenzione è attratta, e con cui si produce una sospensione più netta del tempo vissuto – dove il telefono non suona più per noi, e rumori del traffico nella strada accanto non arrivano più al nostro orecchio. Altro esempio: la scena dove Nastagio degli Onesti vede sopraggiungere la donna ignuda attaccata dai cani e dal cavaliere nero nella pineta di Ravenna (Decamerone, V,8): quella pineta è un “là” ipotetico che ci costringe a uno sforzo immaginativo per figurarci l’improvviso confluire dell’aldilà e della vita terrena in un’unica scena. Non c’è nessuna descrizione d’ambiente; c’è solo lo slancio del dire, del narrare, che crea una sospensione dove balenano fantasmi imprecisati, ma sufficienti per produrre quell’altra sospensione che consiste nel dimenticare se stessi.
I racconti che mirano alla sospensione del tempo hanno bisogno di cerimonie d’avvio, con l’anda d’un bel parlare che crea l’effetto d’un tempo indefinito - non il tempo dei fatti, ma quello del dire e del narrare. Nella novella di tipo boccaccesco, era questa la funzione dell’esordio, sempre stilisticamente elevato, che creava l’atmosfera del racconto: “Ornate donne e amorosi giovani, io voglio, [in] scambio di ridere, farvi con la mia favola meravigliare” (Grazzini, Cene, 9). L’esordio serviva a mettere l’ascoltatore al corrente del tenore della novella narrata, colmando le distanze - come quando s’invita qualcuno a casa propria e la cerimonia dell'accoglimento abolisce l’estraneità. Le narrative moderne aboliscono i cerimoniali e fanno un lavoro inverso: partono da un'estraneità del lettore, che dovrà scoprire da solo di cosa si parla e cosa succede, come se si ritrovasse di colpo in un paese sconosciuto. Ad esempio il Mastro-don Gesualdo di Verga (1889), tra i più grandi romanzi europei del suo secolo, comincia con il fuoco nella notte in casa Trao: le urla, il subbuglio, i vicini che accorrono, i salvataggi. Ma noi non sappiamo chi siano questi Trao, non sappiamo niente dell'ambiente e della storia. E' vero che poi tutto sarà chiarito, gli antecedenti saranno dipanati; ma davanti a quell'inizio il lettore si trova come se piombasse in uno stato d’emergenza. Non viene guidato cerimonialmente nel racconto, ma catapultato nei fatti. L’inizio di Mastro-don Gesualdo è uno straordinario esempio di narrativa moderna che porta in sé qualcosa vicino a una sintomatologia d’origine: quella dell’estraneità dell’individuo moderno rispetto al proprio ambiente. In ciò si vede il segno della vita urbana, degli individui che si sfiorano per strada in mutua lontananza, ognuno chiuso nel proprio guscio. La situazione in cui piomba il lettore con il fuoco in casa Trao dà subito l’idea d'una dimensione di vita dove tutti diventeranno estranei rispetto a tutti gli altri. Premonizione formidabile sui tempi a venire, fino all'immagine di don Gesualdo solo nella sua stanza, malato, isolato, che ascolta da lontano le voci del mondo.
Nella narrativa che sorge alla fine del XIX secolo, i romanzi e racconti debbono impostare la narrazione su valori di verità relativi alla vita corrente; e non può più esserci la sospensione nel tempo indefinito del narrare come nelle forme narrative antiche (“C’era una volta”, “Narrasi”). Caratteristico delle nuove forme è l’uso del linguaggio come serie di didascalie sceniche (“Egli disse”, “Essa si voltò e rispose”, “Giovanni ebbe un sussulto e si destò” ), dove i fatti non sono più lasciati nella vaghezza immaginativa, ma affidati a una descrizione puntuale, nella distanza del vedere. Cito l’inizio d’un romanzo di Maupassant, Bel Ami (1885): “Quando la cassiera gli ebbe dato il resto della moneta da cento soldi, Georges Duroy uscì dal ristorante”. Tutto è posto subito nella distanza del vedere, come indicazione dell’oggettività impersonale dei fatti. I fatti si svolgono su un piano di fondo senza contatto con chi legge; senza il “qui” immaginoso dove in un romanzo di Balzac o Stendhal il narratore confidava al lettore i suoi commenti, a mo’ di divagazione. Ora non ci sono più commenti né divagazioni. Subito tutto assume il sapore di estraneità dei fatti “oggettivi”. Ciò dipende molto dall’uso sistematico del passato remoto, che essendo un tempo puntuale presenta i fatti come avvenuti in un luogo e in un momento precisi; dunque fa sì che tutte le frasi diventino asserzioni assolute. Ed è come quando Cartesio dice che posso concepire l’idea di triangolo senza il contributo dei sensi. Sì, io intuisco l’idea di triangolo perché lui mi dice come è fatto, e posso ricostruirmelo in mente. Così mi ricostruisco in mente questa scena. Il mondo è diventato un fatto oggettivo là davanti ai miei occhi. Bene, non c’è più bisogno di immaginarsi niente. Dice Cartesio: “le favole fanno immaginare molti avvenimenti come possibili, che non lo sono affatto” (Discours de la méthode, I). L’immaginazione è la causa prima dell’inganno dei racconti, questo si sa.
Due cose adunano lo sparso mondo delle novelle, facendone una narrativa senza precedenti: il Decamerone, lettura di riferimento per più di tre secoli, e la passione del dialogo e dello scambio, propria d’una classe dedita agli scambi, quella dei mercanti. Protagonisti di centinaia di novelle, i mercanti sono una razza di gente pratica, pronta a tutti gli incontri, che sa aderire all’eterogenea sostanza del mondo. “Conviene nella moltitudine delle cose, diverse qualità di cose trovarsi”, dice Boccaccio a conclusione del Decamerone. È il principio dell’ibridismo novellistico, e va assieme a un’idea della vita terrena come variabilità e mutevolezza, che richiede perpetui adattamenti, negoziati e scambi. Questo si applica alle trame novellistiche, dove la sorpresa viene dall’eterogeneità degli incontri e casi, che producono continui ribaltamenti delle situazioni. Lo schema elementare nelle favole e novelle consiste nel porre una situazione e ribaltarla. Poi possono esserci due ribaltamenti, in andata e in ritorno, come nella novella di Andreuccio, che va a Napoli per affari; è truffato dalla Siciliana, perde i soldi; ma nell’avventura notturna trova l’anello dell’arcivescovo, recupera i soldi e torna a casa ricco. Possono esserci ribaltamenti plurimi: Landolfo Rufolo, ricco mercante, parte per fare affari, questi vanno male; allora lui si fa corsaro; di nuovo ricco; catturato dai genovesi, di nuovo in disgrazia; ma la nave fa naufragio; lui si trova a galleggiare su una cassa di gioielli, di nuovo ricco (Dec. II, 4). Può esserci il ribaltamento paradossale: Ser Ciappelletto, ateo, ladro, sodomita, bugiardo, alla fine fatto santo (Decamerone, I, 1). L’eterogeneità dei casi si coniuga con una ontologia del mutevole, cioè con l’idea d’una perpetua instabilità negli stati di cose. “Considero le cose di questo mondo non avere stabilità alcuna, ma essere sempre in mutamento” (Decamerone, Conclusione). Questa concezione è la molla di tutti gli alti e bassi che animano le trame novellistiche. La minaccia del mutevole incombe sulle ricchezze, sugli amori, sugli affari, ed è personificata dalla figura mitologica della Fortuna: “Ma la fortuna, nemica de’ beni umani, disturbatrice dei piaceri terreni, contraria alle voglie dei mortali…” (Grazzini, Cene, II, 6). Al centro di questo universo sempre in altalena, c’è il simbolo della Ruota del Tempo, dove ciò che è in alto è destinato a cadere in basso, e viceversa: “Mirabile certamente è la instabil varietà del corso della nostra vita [… ] Vedrai oggi uno nel colmo innalzato d’ogni buona ventura, che dimane troverai caduto con rovina ne l’abisso delle estreme miserie” (Bandello, Novelle, III. 68). Questo è un mondo dove, nell’eterogeneo flusso di situazioni e casi disparati (“l’instabil varietà”, dice Bandello), niente è mai del tutto in salvo; dunque un mondo con un alto tasso di imprevedibile. Il che ha una conseguenza sulle trame: quella degli effetti di meraviglia, prodotti dai prodigi, dalla violenza o dalle stranezze del fato.
Le sorprese con meraviglia sono punti con un tacito risvolto numinoso, come paradossi della sorte, esempi dell’instabile Ruota del Tempo che porta con sé l’impensato o l’impensabile. In una novella alla quarta giornata del Decamerone, c’è la ragazza Isabetta innamorata del suo Lorenzo. Poi i suoi fratelli glielo uccidono, allora lei prende la testa di Lorenzo e la mette in un vaso assieme a una pianta di basilico, pianta che ogni giorno irrora con le sue lacrime. Dopo di che: “Il basilico divenne bellissimo e odorifero molto” E’ un passaggio che ricorda i crolli patologici con fissazioni ossessive, ma anche le forme di destino tragico con metamorfosi nei miti greci: come il destino di Dafne, di Progne e Filomela, che l’eccesso del soffrire trasforma in un lauro, in una rondine e in un usignolo. Simile è la metamorfosi dove Isabetta, da normale ragazza innamorata si trasforma in un mostro del dolore; dopo di che fa fiorire il basilico con le sue lacrime. Altro eccesso del soffrire che produce una mutazione naturale impensata. La meraviglia riflette un colmo emozionale, un traboccamento verso la dismisura, verso la soglia del non umano o d’una follia arcaica, con il senso dell’uomo travolto dalla violenza inconsulta del fato. L’effetto di meraviglia esiste anche sul versante comico. La prima novella del Decamerone, quella su Ser Ciappelletto, concentra il gioco delle sorprese precisamente su un effetto di meraviglia. Le attese dipendono dalla presentazione di Ser Ciappelletto come bugiardo, ateo, falsario, ladro, bestemmiatore, assassino e sodomita; mentre la sorpresa spunta a metà racconto, nella sua confessione col frate, dove il suddetto si spaccia per ferventissimo credente. Questo diventa poco a poco un punto d'eccesso, perchè ad ogni battuta di Ser Ciappelletto si va oltre tutte le aspettative, e ogni volta spalanchiamo gli occhi per il crescendo delle sue invenzioni da falsario, fin quando sappiamo che è diventato un santo del luogo. E’ il colmo che un tipo come lui sia canonizzato come santo, ed è un punto d'eccesso paradossale che corrisponde sul lato comico all’eccesso del dolore di Isabetta. Le sorprese con meraviglia hanno questo tacito risvolto: come mutazioni paradossali che portano verso un divenire impensato o impensabile. La novella non sorprende con i fatti narrati ma con le metamorfosi dell'impensato. Ricordo quella novella di Basile, nella prima giornata del Cunto de li cunti, dove la moglie del re riesce a ingravidarsi con una pozione magica, ma per i fumi della pozione si ingravida anche la serva, e si ingravidano perfino i mobili, i tavoli, gli armadi, che partoriscono degli armadietti e dei tavolini. Questa mi sembra la sintesi paradossale degli effetti impensati di meraviglia, una tendenza al metamorfismo generale.
Quando si legge Boccaccio, Sacchetti, Masuccio, Grazzini, Fortini o Basile, a ogni novella si ha il senso che raccontare sia una festa. L’estro ameno dei nostri novellatori era legato a raduni di allegre brigate, e buttava sempre in giochi di stravaganza, d’oscenità, o nelle burle crudeli di Grazzini o nel capriccio delle parole che fanno una danza come in Basile. L’esaltazione novellistica non è pensabile se non come evento festivo che sospende le usanze pratiche della vita quotidiana, e raduna una compagnia in un luogo di lieti conversarî, dove si consuma cibo e parole e ricchezza. Il tema privilegiato era sempre nel segno d’una burla, con virtuosismi immaginativi che rendono memorabili certi giochi del “far credere”, ingannare, turlupinare mariti gelosi, menar per il naso gli stolti, creare sotterfugi, travisare una cosa per l’altra. Le metamorfosi dell’inganno sono al centro dell’invenzione novellistica, con punte ineguagliabili come quella di Ser Ciappelletto che diventa santo a forza di frottole, o del Grasso Legnaiolo, a cui riescono a far credere d’essere diventato il compare Matteo. Tutto ciò porta con sé un’ebbrezza, uno stato esilarante: come se il novellare fosse un uso benefico e purgativo dell’umana propensione alla credulità, all’imbecillità - a illudersi, ingannarsi, allucinare una cosa per l’altra. Il brio narrativo vive di questi giochi illusori, sprechi di parole, ghiribizzi e stravaganze che sospendono ogni serietà dei discorsi, ogni serio proposito per la vita. Nello stesso tempo la licenza festiva della novella ha un’aria di fronda, come sfida ai “barbagianni” (categoria indicata nel Pecorone di Giovanni Fiorentino), agli ottusi, ai gretti, ai bigotti. Di più: narratore e ascoltatore sembrano già da sempre uniti dal gusto dei sottintesi e delle facezie, che implicano un’apertura mentale, una sottigliezza ironica, un’indipendenza di testa.
Lo spirito della novella è lo spirito della beffa, e la beffa, la burla, l’inganno sono innanzi tutto racconti per corbellare qualcuno. Calandrino è la figura boccaccesca del corbellato per eccellenza, e appena sente dire che nel paese di Bengodi v’è una montagna di parmigiano e un fiume di vernaccia, è subito preso all’amo dalle parole. Poi va in cerca della pietra che rende invisibili, con i suoi soci beffardi Bruno e Buffalmacco, i quali fingono di non vederlo più; sicché lui, credendosi invisibile, quando torna a casa e s’accorge che sua moglie lo vede benissimo, la vuole ammazzare di botte perché crede gli abbia rovinato la magia (Decamerone, VIII, 3). Il centro di questi racconti è l’eccesso di stupidità, che si porta dietro la profanazione comica di ciò che la stupidità accetta supinamente. Ad esempio: Puccio, a forza di sentir prediche, vuole diventare santo; al che un monaco promette di aiutarlo e gli prescrive certe penitenze, dove Puccio si consuma in digiuni, mentre il monaco in un’altra stanza prende piacere con sua moglie (Decamerone, III, 4). Lo spirito della novella è uno scetticismo fantasioso che ci illumina su un generale inganno: l’inganno delle parole per spacciare come dogmi le rimasticature di ciarle, i castelli di panzane, i panegirici di frottole, le prediche dei preti per inebetire le folle o le invenzioni dei frati per sfogare le voglie carnali. Ed ecco una storia su questi temi: un abate convince Ferondo di esser morto e già arrivato in purgatorio, dove lo trattiene per un po’ con belle invenzioni, per godersi intanto sua moglie. Quando poi Ferondo miracolosamente resuscita, va in giro a raccontar alla gente “novelle sulle anime dei loro parenti” e “le più belle favole del mondo de’ fatti del purgatorio”, e “la rivelazione statagli fatta per la bocca del Ragnolo Braghiello [L’angiolo Gabriello]” (Decamerone, III, 8). Sono esempi di inganni delle parole, dove non c’è più divario tra ingannatore e ingannato: le fole dell’uno producono le panzane dell’altro, e tutto scivola nella generale tendenza degli uomini ad essere presi all’amo dalle chiacchiere. Questa vertigine generalizzata produce mostri, perchè il mondo così pesantemente inquadrato dalle ciarle è simile a quello di Ferondo quando parla del purgatorio, e ogni ciarla diventa un raggiro del proprio simile, rintontito dalle parole.
Nel Decamerone una buona metà delle novelle parla di inganni, raggiri, eccessi di stupidità, effetti comici delle burle. Questa è materia privilegiata di racconto, quasi l’immaginario allo stato puro, paragonabile solo a quello dei poemi cavallereschi, come volo di testa. Ma la massa dei creduli e ottusi che popolano queste novelle fa anche pensare a uno stato di idiozia diffusa nell’umanità. Dante parlava della “mente” come parte superiore dell’anima, dove si colloca la virtù intellettiva; e diceva che molti paiono essere del tutto privi di tale facoltà, perciò sono chiamati “amenti e dementi” (Convivio, III, ii, 19). Va anche ricordata la novella boccacesca su Guido Cavalcanti, il quale, trovandosi un giorno presso una chiesa dove sono delle arche sepolcrali, accerchiato da una banda d’amici intenzionati a trascinarlo con loro, risponde: “Voi mi potete dire a casa vostra ciò che vi piace”. Poi, con un salto da “uomo leggerissimo”, scavalca l’arca e se ne va. La sua battuta viene spiegata dal capo brigata così: egli ha voluto dire che “noi e gli altri uomini idioti e non letterati siamo, a comparazione di lui e degli altri uomini scienziati, peggio che uomini morti, e per ciò, qui essendo [presso le arche sepolcrali], siamo a casa nostra” (Decamerone,VI, 9). La nozione di “uomini morti” è simile a quella di Dante, il quale, parlando di chi non segue nessuno studio o disciplina, diceva: “è morto [come uomo] ed è rimasto bestia” (Convivio, IV, vii, 14). La battuta ha senso anche in rapporto alla filosofia averroista di cui Guido è stato studioso, e dove uno dei punti critici era la proposizione “Homo non intelligit” – da intendere: chi comprende non è il singolo, ma l’intelletto generale che raduna tutti gli uomini. Ciò implica che dove non vi sia uno sviluppo mentale per risalire dai propri fantasmi immaginativi alle forme dell’intelletto generale, l’uomo resta un “uomo materiale”, “semplice” o “grosso”, come si diceva nelle novelle. Dai “dementi” di Dante agli “uomini morti” di Guido c’è la linea d’un dubbio sulle facoltà umane, che tocca una vasta zona del pensiero d’epoca. È anche il senso riposto delle beffe: come è possibile che un Calandrino sia detto uomo razionale? Lo spirito della novella ha l’aria d’un umanesimo ribaltato, che anziché convincerci che umanità e razionalità sono la stessa cosa, ci mette nella posizione di cogliere la formula della loro massima distanza (“Homo non intelligit”).
La figura comica più proverbiale nella storia della novella è Calandrino: “uom semplice”, con una “semplicità” da cui da cui Bruno e Buffalmacco “gran festa prendevano”. Il semplice deriva dalla figura evangelica dei poveri di spirito destinati al regno dei cieli, ma qui assume il ruolo di zimbello degli uomini di mente sottile. Sullo sfondo di queste implicazioni, si profila una strana novella di Sercambi – quella su Ganfo pellicciaio,“omo materiale e grosso di pasta”, altro semplice tra i più memorabili (Novelle, 2). Dunque Ganfo va ai Bagni di Lucca per curarsi; ma quando deve entrare in acqua e vede tante persone, si chiede: “Tra tanti, come farò a riconoscermi?” Allora si mette un segno di croce sulla spalla, ed entrato in acqua guarda il segno e si dice: “Sì sono proprio io”. Poi però l’acqua spazza via il suo segno di croce e lo deposita su un altro bagnante, al quale Ganfo dice: “Tu sei io e io son tu”. E l’altro per mandarlo al diavolo gli risponde: “Va’ via, tu sei morto”. Al che Ganfo si crede morto, torna a casa, si stende sul letto, si lascia mettere nella bara. (Ganfo è sempre come se obbedisse agli ordini o alle ingiunzioni delle parole, prendendo tutto alla lettera). Poi, mentre lo portano al cimitero, per strada una cliente gli manda una maledizione, perché gli aveva portato una pelliccia da riparare e lui è morto senza restituirgliela. E Ganfo risponde nella bara: “Se io fossi vivo come sono morto, ti risponderei come si deve”. Racconto d‘una idiozia misteriosa e assoluta, che ricorda le comiche del cinema muto; ma dà anche l’idea d’un paradiso dei semplici, essendo peraltro intitolato De simplicitate. Niente qui indica che l’uomo sia uomo in quanto creatura razionale; al contrario, c’è una viva incertezza su cosa sia la razionalità, e su quella coincidenza con se stessi che chiamiamo “io”, nonché sui segni che ci mettiamo addosso per distinguerci dagli gli altri – parodia dell’identità razionale che tutti perpetuiamo.
Uno degli sviluppi più sintomatici delle burle novellistiche non va cercato nei testi letterari, bensì nella voga delle beffe cittadine. Erano beffe architettate da artisti d’un genere quasi teatrale, perché implicavano una messinscena e una recita delle parti per ingannare la vittima designata. L’esempio più celebre è una beffa organizzata a Firenze nell’anno 1409, architettata da Filippo Brunelleschi, con una brigata d’artisti e artigiani fiorentini, e un vasto concorso di comparse. La beffa sarà narrata in molte versioni, tra cui la più ampia è attribuita ad Antonio Manetti, redatta attorno al 1446, a cui si dà il titolo di La novella del Grasso legniaiuolo. Vittima designata: “il Grasso”, artigiano intagliatore, che “aveva un poco del semplice”. Si tratta d’una recita collettiva per far sì che il Grasso creda d’essere diventato un tal Matteo. Dunque, quando torna a casa alla sera, una voce che sembra la sua gli grida da dentro: “Matteo vai via che ho da fare”. Passa un amico e lo saluta: “Buonasera Matteo”. Lui va in piazza ed è arrestato su denuncia d’un creditore che lo identifica come Matteo. Si chiede: “Sono forse Calandrino a esser diventato un altro senza accorgermene?” Il Grasso vede l’ombra della beffa, ma trovando mezza città concorde nel prenderlo per Matteo smette di far resistenza, per non essere trattato da scemo. Ciò non toglie che sia travagliato dall’idea d’una possibile metamorfosi di se stesso, e che a momenti cominci a crederci, stimolato dalle chiacchiere dei suoi persecutori. A un certo punto gli organizzatori della beffa mandano un prete, ignaro dello scherzo, per convincere il Grasso a smetterla di credersi il Grasso; e questo prete lo rimprovera per la sua ostinazione, perché si fa ridere dietro come strambo. Secondo il prete la stramberia si cura con i buoni esempi: esempi dei “valenti uomini” che con “lo scudo della pazienza” superano ogni avversità. Qui la beffa retroagisce dalla burla al sempliciotto alla caricatura di untuose figure delle morale: quelli che incarnano una sicura coincidenza con sé stessi, ciò che loro chiamano coscienza - col motto incosciente di Ganfo: “io sono proprio io”. Nella storia del Grasso c’è il senso di un’incursione da parte dei fantasmi pubblici della morale, i fantasmi d’un “dover essere”, che sconvolgono il luogo delle immagini della mente e vi impiantano i segni d’un ordine coercitivo esterno. In realtà è la storia di un’incertezza fondamentale che riguarda tutti, tra l’idea d’una coincidenza con se stessi e il senso d’una estraneità a se stessi: incertezza disonorevole, da tenere sempre nascosta, perché somiglia alla pazzia.
Nella schiera dei semplici va inscritto il Mariotto di Grazzini, che faceva ridere tutti con le sue castronerie, perché “credeva in cose tanto sciocche e goffe” da sembrare piuttosto una bestia addomesticata che un uomo vero e proprio (Cene, II, 2). E come il Puccio boccaccesco a forza di ascoltare i frati voleva diventare santo, così Mariotto a forza di ascoltare prediche non vedeva l’ora di morire - perché gli era stato detto che “questa vita non era vita, anzi una vera morte“, e invece “chi moriva, di là cominciava a vivere una vita senza affanni”. Questo è l’avvio del racconto. Dopo di che sua moglie si prende nel letto un amante; e i due assorti nell’acre piacere dello spasmo genitale sono seccati dal grullo Mariotto che invoca la morte, per cui decidono di metterlo in una bara e spedirlo al cimitero. Potrebbe essere una comica come quella di Ganfo, se non fosse per come si risolve. Grazzini segue la filosofia boccaccesca d’un determinismo naturale, come quello che produce l’attrazione tra i sessi. Ma in Grazzini il determinismo tocca tutti i comportamenti umani, come esempi d’una natura indifferente a qualsiasi ordine morale. E non ci sono santi né eroi; ci sono solo trucidi e sciocchi; e una vita governata da scelleratezze e sordide mene Ma ecco allora che il semplice non è più come Calandrino, un balordo marginale rispetto al saldo mondo dei Bruno e Buffalmacco. Mariotto incarna l’essenza pura della bestialità di questo mondo, dove niente ha la salda trama del reale, tutto pare un incubo di fantasmi posticci. Come quando sulla via del cimitero, dopo essersi cacato addosso, lui salta fuori dalla bara; e a quel punto si capisce che niente è controllabile, tutto svaria e tracolla nell’insensato. L’acqua dell’Arno prende fuoco, lui resta bruciato in Arno, quasi obbedendo a un detto popolare fiorentino; e dopo non somiglia più a un uomo, ma ad un “ceppo di pero verde, abbronzato e arsiccio”. Proprio quella morte comica fa di lui una figura che spicca tra tutte le maschere d’una bestialità nascosta dietro le norme dei traffici quotidiani; mentre lui, fin dall’inizio vicino all’essenza della pura bestialità, morendo regredisce a purissima materia vegetale, come quella da cui nascerà Pinocchio. E questa mi sembra la conclusione ideale di tutte le leggende novellistiche sull’idiozia dei “semplici”.
Nel prologo alla prima giornata del Decamerone, Boccaccio annuncia lo scopo delle sue cento novelle. Queste sono narrate per dare sollievo a chi ne ha bisogno, dice, ma in particolare alle donne con amori segreti, costrette a nascondere le loro fiamme amorose e perciò tanto più assillate dai pensieri. Che il narrare sia una cura contro le tristezze e gli affanni è un’idea antica, che in qualche modo associava l’arte narrativa a un sapere medico di tipo ippocratico. La novità nell’annuncio di Boccaccio sta nell’indicare una cura non più rivolta a pratiche e usi esterni, ma alla dimensione dei pensieri intimi e delle fantasie incontrollabili. La familiarità con tale dimensione è attribuita soprattutto alle donne, perché più soggette alla reclusione nell’ambito familiare. Le donne, soggette ai “comandamenti de’ padri, delle madri, de’ fratelli e de’ mariti,”, chiuse nelle loro stanze, dice l’autore, rimuginano pensieri facilmente inclini alla malinconia, quando siano mossi o insidiati da forti desideri. Queste turbe sono l’oggetto della cura novellistica e anche il punto d’intesa con le donne amorose a cui il libro si rivolge. È un punto d’intesa che si colloca nella sfera intima dei fantasmi amorosi; ciò che Dante chiama “la secretissima camera de lo cuore”: ossia l’interiorità come luogo completamente immaginario, e proprio perciò sede di tutti i tremori ed emozioni del corpo. Nei suoi cenni introduttivi Boccaccio sembra ripercorrere la via dei poeti provenzali, che usavano la poesia come alleanza segreta con la donna, segno di amori da tenere nascosti nel luogo immaginario dell’interiorità. Ed ecco le donne con amori segreti a cui è destinato il libro, che fanno pensare a casi simili nelle storie dei poeti provenzali, ma anche ai modi di devozione alla donna sviluppate nella lirica italiana: modi che lo stesso Boccaccio ha ripreso ed esaltato nelle sue precedenti opere e nei suoi versi. Così il Decamerone recupera la ricerca dei poeti provenzali, d’un contatto tra genere maschile e femminile che non sia esteriore come quello del matrimonio. Il mezzo di contatto per i poeti provenzali era la poesia, come alleanza segreta e intima con la donna, e qui sono queste “cento novelle, o favole o parabole o istorie che dire le vogliamo” – che nell’ultima pagina l’autore chiama “le mie novelle per cacciar la malinconia delle femmine”.
Nella novella di Masetto da Lamporecchio, due novizie parlano dell’amore e una dice di aver udito “che tutte le altre dolcezze del mondo sono una beffa rispetto a quella quando la femina usa con l’uomo” (Dec. III, 1). Si capisce l’insistenza di Boccaccio nell’evocare il piacere carnale provato dalle donne. È un richiamo alle “leggi di natura” da cui il corpo è regolato, e all’amore come una potenza di natura che è “vano voler contrastare” (Decamerone, IV, introduz.) L’amore visto come “legge di natura” giustifica l’arbitrarietà degli impulsi sessuali, e di conseguenza giustifica anche le mogli che sfogano quegli impulsi fuori dal matrimonio. Ad esempio, Madonna Filippa, denunciata per adulterio, convince i giudici di non aver fatto niente di male, in base a questo ragionamento: che lei non si è mai negata al marito, ma avendo in corpo qualche bisogno in più, e non volendo gettarlo ai cani, le è parso giusto prendersi un amante (Decamerone, VI, 7). In realtà, a una veduta d’insieme, parrebbe che gli sfoghi carnali delle mogli abbiano poco sapore senza l’inganno ai mariti; perché un buon venti per cento di novelle presentano mogli che optano per le “dilettose gioie” con l’amante, mentre il numero di mogli non adultere è veramente minimo in tutto il libro. Certo, la moglie che gabba il marito con una frottola mentre gode con l’amante, è un motivo tra i più ricorrenti in tutta la nostra novellistica; ma in Boccaccio prende un sapore diverso dal solito. Anche nei racconti più vicini alla farsa sessuale popolare, gli amori muliebri extramatrimoniali nel Decamerone prendono il senso d’una sovranità che si realizza tramite l’arbitrio; perché i sotterfugi, gli inganni, i nascondimenti, realizzano l’arbitrio d’un piacere carnale senza più le sorveglianze di marito o famiglia (Decamerone, VII, 2, 4, 9). Cito la novella di quel marito che si spaccia da confessore per cogliere in fallo la moglie; ma la moglie gli ribalta l’inganno, lo mette dalla parte del torto e lo tradisce a piacimento: “Per che la savia donna, quasi licenziata a’ suoi piaceri [divenuta libera nei suoi piaceri]”, “poi più volte con lui [con l’amante] buon tempo e lieta vita si diede” (Decamerone, VII, 5). Conclusione con una strana leggerezza, dove l’arbitrio del piacere sembra l’adesione ad una amicizia tra i sessi che non ha più niente di esteriore. Ci sono altre novelle che andrebbero studiate da questo punto di vista. Il piacere degli amanti diventa una sovranità intima, sottratta alle censure della consapevolezza, per il sotterfugio che rende segreto il loro piacere. Come nell’esempio di Tristano e Isotta: tenuta segreta, l’amicizia tra uomo e donna si realizza nella dimensione più immaginaria possibile, che è anche la più impenetrabile, e perciò ha l’aspetto d’una piena sovranità. Anche questo fa parte dello spirito della novella, come residuo d’un esperimento mentale tentato dai provenzali, di cui restano tracce fino alla storia della Montanina di Sermini (Novelle, 1), quella di Mariotto e Ganozza di Masuccio (Novellino, 33), di Giulietta e Romeo di Da Porto, e fino a Shakespeare.
Le novelle boccacesche sfuggono a qualsiasi assegnazione morale, anche là dove presentano modelli di comportamento esemplare. L'atto di Federigo degli Alberighi di offrire all'amata il falcone, ultima sua risorsa, è un modello di devozione e nobiltà; ma è anche un colmo paradossale che ci colpisce come uno strano gioco della sorte, non come un esempio da seguire. E la silenziosa costanza di Griselda nell’obbedire alla “matta bestialità” del marito ci lascia sbalorditi, anche ammirati, ma è un monstrum in cui non potremo mai vedere una virtù condivisa da altri umani. In Boccaccio manca del tutto una metafisica della virtù, sostituita da un determinismo di natura, come quello che produce l’attrazione tra i sessi. Per questo l’unica vera colpa individuabile nel Decamerone è la colpa del disamore, condannata nella novella di Nastagio degli Onesti con una pena infernale, e in quella di Tedaldo degli Elisei con queste decise parole: “L’usare la dimestichezza d’un uomo [per] una donna è peccato naturale”, “il discacciarlo da malvagità di mente procede” (Decamerone, III, 7). Il naturalismo boccaccesco si regge semplicemente sulla favola di quel tale che, vissuto sempre in isolamento assieme a un padre ascetico, la prima volta che vede delle donne desidera soltanto quelle, e il resto non conta più niente per lui.. Morale: “ha più forza la natura che l’ingegno”(Decamerone, IV, introduz.). La “natura” è la potenza attrattiva tra i sessi, come un incantesimo generale che guida le vite degli uomini. Ma questa attrattiva non si distingue mai dal suo fondo illusorio: l’abbaglio delle apparenze, i miraggi delle favole, i travisamenti della passione. Nell’introduzione alla quarta giornata c’è chi deride l’autore per la sua passione per le donne, consigliandogli di trovar del pane per risolvere quella fame, e d’andare a cercarselo nelle favole (nelle illusioni). Al che l’autore risponde: che i poeti trovarono più risorse nelle favole che i ricchi nei loro tesori. L’intreccio tra attrazioni dell’eros e illusioni delle favole non è negato, bensì presentato come ciò con cui “i poeti fecero fiorire la loro età” (riferimento ai maggiori poeti del dolce stil novo, indicati qualche pagina prima come maestri d’amore). La novella boccaccesca crea sempre l’esaltazione narrativa con le ombre dell’illusorio, spandendo inganni, sotterfugi, abbagli e raggiri, come quelli delle mogli per imbrogliare i mariti; e per il resto narra semplicemente i movimenti d’attrazione tra i sessi (solo una ventina di novelle parlano d’altro), che hanno l’aria d’essere l’infinita ripetizione d’un gioco, o il gioco del mondo. Ed è il risultato del naturalismo boccaccesco: se l’eros è una follia che porta a seguire un’attrazione irresistibile attraverso le ombre di ciò che è illusorio (le ombre che avvolgono tutta la terra come una marea, diceva Giordano Bruno), questa follia è però integrata nella natura e nel gioco del mondo.
Il Cinquecento è il secolo in cui la novella diventa un genere letterario riconosciuto, di moda, e un genere che tutti si sentono di poter praticare - un po’ come succede col romanzo al giorno d’oggi. Cosi diventa una forma ufficiale, ancora ibrida, ma ufficializzata dall’uso, e con libri che stabiliscono cosa sia e come si debba scrivere una novella. Nel 1573 è dato alle stampe un Decamerone ripulito nella lingua e nelle parti licenziose, messo in regola secondo i canoni dei libri correnti, e secondo un’uniformità letteraria ormai prescritta. Si capisce che la novella boccacesca è una memoria illustre, ma con una vivacità fuori epoca, che stona con gli stili in voga. Una cosa che si può notare negli stili dei novellieri cinque-seicenteschi, è una patina d’indifferenza sistematica che avvolge i loro testi, rendendoli quasi tutti come appiattiti nello stesso stampo oratorio, con una sparizione della singolarità del diverso. Qui sto cercando d’abbozzare un panorama di fondo senza nessun valore critico, ma che mi serve per far capire quale miracolo sia stato l’apparizione di Lo Cunto de li cunti di Basile, nell’anno 1634. Lo cunto è nello stesso tempo un seguito della tradizione boccaccesca, e la fine di questa tradizione con l’apertura verso un altro genere – quello della fiaba. Come in nessun’altra raccolta di racconti per trecento anni, qui si vede riapparire la festosità del narrare e l’ebbrezza dell’illusorio. E questo per un effetto regressivo, con il ritorno a un prima della novelle, al tipo di racconto minimo e più elementare: quello per bambini, affidato da tempo immemorabile alle nonne. Dice una narratrice di Boccaccio: “Quando c’invecchiamo, né marito né altri ci vuol vedere, anzi ci cacciano in cucina a dir delle favola colla gatta e noverare le pentole e le scodelle” (Decamerone, V.10). Quel genere infimo diventa uno spettacolo di parole, un intrattenimento senza nessuna volontà di narrare i “fatti del mondo”, e che svuotandosi di senso prende il senso d’una parodia generale del milieu per cui è stato confezionato. Dice Michele Rak, che le fiabe di Basile erano scritte per riempire le conversazioni del dopo pasto, come gioco cortigiano inteso a far sorridere la smorta nobiltà napoletana. E pensando alla storia della principessa che non riusciva a ridere, con cui il Cunto si apre, c’è da credere che la festosità barocca fosse più o meno arenata in simili secche. Ma la felice ebbrezza che attraversa questo libro viene da un’altra parte; viene dal dialetto napoletano, dalla raccolta di modi di dire napoletani, e dalla raccolta di fiabe delle nonne, per la prima volta ordinate e raccontate in modo da farne veramente un genere. E in tutto questo fin dall’apertura si sente l’eco del sapere di Shahrazad, il sapere del narratore-guaritore che sa tenere il tempo sospeso con l‘artificio delle parole, allontanando di racconto in racconto l’incombenza della morte: “L’ultima felicità dell’uomo è il sentire racconti piacevoli, perché ascoltando cose amabili, gli affanni evaporano, i pensieri fastidiosi vengono sfrattati e la vita si allunga” (Basile, Cunto, Apertura.)
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