LA PIAZZA UNIVERSALE DI TUTTI I MESTIERI
E' un libro di millecinquecento pagine, pubblicato a Venezia nel 1585, che a suo tempo ha avuto fama europea, e il cui cui titolo completo dice: La Piazza Universale di tutte le professioni del mondo e nobili e ignobili, nuovamente formata et posta in luce da Thomaso Garzoni da Bagnacavallo. Da giovane lo leggevo nelle biblioteche perché non esistevano edizioni in commercio, e mi pareva di aver scoperto una miniera di parole italiane sconosciute - comiche, auliche, provinciali, gergali, dei mestieri, delle scienze e delle truffe, tanto da comporre un dizionario grosso e bizzarro come quello del Premoli. Potevo leggerlo soltanto a spizzichi, sia per l'enormità dell'opera, sia per l'ammassata erudizione che rendeva insormontabili molte sue pagine. Tornavo sempre alle sue scene della piazza pubblica: le descrizioni degli spettacoli di attori ambulanti, ciarlatani e venditori di fumo; dei saltimbanchi, buffoni, mimi e istrioni; delle puttane, dei ruffiani, dei borsaioli, degli imbroglioni, dei pellegrini che raccontano spudorate invenzioni su reliquie raccolte in Terra Santa. Era un mondo tutto fatto di maschere, niente e nessuno che non fosse una maschera, sulla piazza di Tomaso Garzoni. Poi mi attirava la vena comica dell'autore, che spesso ricorda quella di Rabelais, nel gusto di masticar parole, sempre un po' straparlando. Garzoni infiltra questa vena qua e là nei discorsi eruditi, di solito per perorare contro truffatori di tutte le professioni, da moralista che gode a trovare espressioni colorite, gergali e umoristiche. E si ha l'impressione che questo autore - romagnolo, nato e vissuto nel paesino di Bagnacavallo, canonico ligio alla propaganda del Concilio di Trento - in realtà amasse specialmente parlare di truffe e imbrogli, in quanto anche la sua arte di scrittore aveva molto dell'imbroglio.
Negli anni, sono andato a cercarlo per biblioteche italiane e straniere, perché quel libro introvabile era un richiamo. Ma a sfogliare i tomi antichi ci voleva una pazienza che non avevo, e poi il libro mi intimidiva con le migliaia di riferimenti dotti, aneddoti, citazioni che ti riversa addosso, per spiegare l'origine di tutte le professioni dagli inizi del mondo. Io cercavo soprattutto il comico romanzesco: non potevo accorgermi che anche la mia soggezione davanti a quella erudizione dipendeva da un imbroglio delle parole. L'imbroglio è venuto in lucequando, nel 1996, l'editore Einaudi ha ripubblicato La Piazza Universale, a cura di Paolo Cherchi e Beatrice Collina, in edizione fantasticamentre annotata. Paolo Cherchi offre una massa di note che svelano le fonti della sapienza garzoniana; e il merito del suo lavoro è di mostrarci che quella di Garzoni è una erudizione rubata a man bassa da altri libri e riversata nei suoi capitoli un po' alla rinfusa, come riempitivo che dà nell'occhio e intimidisce il lettore. Cherchi ha poi un modo di porgerci le note che mi sembra uno smascheramento da commedia; non perchè indulga in giochi d'umorismo, ma perchè fa venire in mente un'idea umoristica: che tutta l'erudizione non sia altro che una ruberia, una mascherata, una messa in scena, appunto come quella di Tomaso Garzoni. Ossia: gli eruditi come ladri che godono delle loro imprese ladresche.
Da giovane cercavo e trovavo in questo libro il romanzo picaresco, il romanzo dell'esistenza come truffa perpetua, che rende inutili i giudizi morali, perché il gusto di sentirla raccontare è già un'adesione all'essenza illegale della vita. Di volta in volta mi contentavo di qualche pagina, ma ricordo bene le sensazioni di stordimento che mi lasciava la lettura. Provo a dire di cosa si tratta. E' un panorama di parole, di figure, di maschere, di attività, di abitudini, di vizi, di aneddoti sparsi, che dà un'impressione simile a quella dei quadri di Brueghel: d'uno sparso brulichio in una piazza enorme dove tutti convengono a recitare a loro parte, gesticolare e chiacchierare e far spettacolo. Uno spazio che non ha un centro perchè in ogni direzione spuntano altri spettacoli, mestieri, chiacchiere, giochi. Per farmi capire meglio prendo un esempio dal Discorso CIV, dedicato agli attori della commedia dell'improvviso e ai ciarlatani che smerciano le loro gabbole sulla piazza pubblica. Si intitola De' formatori di spettacoli in genere, e de' ceretani o ciumatori massime.
Ma chi vuol raccontare minutamente tutti i modi e tutte le maniere che adoprano i ceretani per far bezzi, avrà preso da fare assai…. da un canto della piazza tu vedi il nostro galante Fortunato insieme con Frittata cacciar carotte, e trattener la brigata ogni sera delle vindidue fino alle vintiquattro ore del giorno, finger novelle, trovare istorie, formar dialoghi, far caleselle, cantare all'improvviso, corrucciarsi insieme, fa la pace, morir di risa, alterarsi di nuovo, urtarsi in sul banco, far questione insieme, e finalmente buttar fuora i bussoli, e venire al quamquam delle gazzette che vogliono carpire con queste loro gentilissime e garbatissime chiacchiere. Da un altro canto esclama Burattino che par che il boia gli dia la corda. Col sacco indosso da fachino, col berettino in testa che pare un mariuolo, chiama l'udienza ad alta voce; il popolo s'appropinqua, la plebe s'urta, I gentiluomini si fanno innanzi…. Fra tanto sbuccca fuor de' portici il Toscano, e monta con la putta, smattando come un asino Burattino e il suo Graziano. Il circolo si unisce intorno a lui, le genti stanno affisse per vedere e ascoltare. Ed ecco in un tratto si dà principio, con lingua fiorentinesca, a qualche papulata ridicolosa…
La Piazza Universale parla di tutti i mestieri immaginabili. Non soltanto delle professioni serie, del retore, del filosofo, dell'architetto, dell'avvocato, del musico, del pittore, ma anche e soprattutto dei mestieri che si dicevano "meccanici": fabbri, sarti, tessitori, fornai, muratori, lanaioli, levatrici, barbieri, vasai, tintori, intagliatori, pescatori, asinari, caprari, osti, etc. E inoltre di attività sociali non moralizzate, come quelle delle meretrici, dei puttanieri, dei giocatori d'azzardo, dei banditi, degli sgherri, dei ciarlatani, dei maldicenti, degli oziosi di piazza, e perfino degli innamorati. E infine dei mestieri loschi, mescolati più o meno con l'imbroglio, decisamente aggrediti dalla sferza di Garzoni, degli alchimisti, degli astrologi, degli esorcisti, degli indovini, dei maghi. Questo libro è una città che si espande attorno al una piazza, dove si contemplano costumi e abitudini con cui sta insieme una popolazione. A suo modo è un libro etnografico, a cui hanno fatto ricorso studiosi di teatro, studiosi dei costumi, studiosi della lingua, folkloristi, per trovare notizie su abitudini dimenticate da secoli. In realtà però tutto ciò di cui Garzoni parla ha il senso del meraviglioso, la retorica dello strabiliamento. Basta vedere come presenta la sua Piazza Universale: "Or se vi piace di riguardare alquanto questo edificio mostruoso, mirate quanta gente accoglie insieme, e, della frequenza del popolo stupite d'una Piazza la più rara, forse, e la più celebre che al mondo vi sia..." Si nota il tono dell'imbonitore da fiera, che straparla a rotta di collo per attirare il pubblico. Ma si nota anche l'aggettivo "monstruoso", che qui indica la meraviglia del "monstrare", il prodigio di far apparire certe cose inusitate, alla maniera dei maghi. Forse nessun libro italiano, dopo il poema di Ariosto, si affida in modo così spregiudicato al potere incantatorio delle parole, con una piena torrenziale dove i discorsi dotti si impastano con spiegazioni e battute di sapore colloquiale. Pedante e polemico anti-pedantista, incantato dai prodigi fantastici e spregiatore di tutte le "fantasie ridicolose", fanfarone che dà del suo agli altri denunciando dovunque ciurmadori, istrioni che ingannano il mondo, in realtà Tomaso Garzoni ha ancora l'idea stregonesca che le parole abbiano in sé un potere magico: che possano fare prodigi, alterare il corso delle cose, creare grandi incanti che strabiliano tutti.
In quanto canonico, Garzoni si mostra scrupoloso osservante dei principi di cattolicesimo contro-riformista diffusi dal Concilio di Trento. Dunque conferisce insulti di prammatica agli autori riformati o eretici (che però copia a man bassa); e per lo stesso motivo disprezza le "superstizioni" degli esorcisti e dei maghi popolari, seguendo la propaganda tridentina per sradicare credenze popolari che sapevano di paganesimo. Dal XXIV Discorso dedicato al mestiere degli "scongiuratori" (ossia esorcisti), si ricava una delle poche notizie sulle attività del nostro canonico, perché lui ci racconta una sua esperienza come esorcista che va curare un ossesso. Incontra un mago popolare che vorrebbe mostrargli come si fa a scacciare i diavoli, ma che poi ci rinuncia perché non è capace, mentre il canonico ci riesce benissimo recitando "gli essorcismi di Santa Chiesa". Prima di quest'aneddoto c'è una filippica contro le vecchie streghe che borbottavano "filastrocche" di parole strane, e si sostiene che il vero esorcista deve pronunciare solo parole che i diavoli afferrino bene, e non "nomi incogniti, i quali arguiscono sempre qualche superstizione". Cosa per cui anche gli ossessi, una volta esorcizzati, debbono evitare "parole giocose, supertiziose, curiose e sospette", che sono "i vani predicamenti del diavolo". Cosi dice l'autore. Ma, un momento: le parole giocose, curiose, le superstizioni antiche, le filastrocche di nomi mitologici, i prodigi e giochi di prestigio, gli stupori del linguaggio, non sono la polpa del suo libro? Garzoni dà del suo agli altri, quando denuncia gli inganni del mondo. La scena con l'esorcista fa pensare che l'autore si sentisse in competizione con le pratiche popolari di magia, ma anche che avesse una consonanza d'idee con le streghe che deride, la stessa fissazione sul potere magico delle parole. L'ultimo suo libro, postumo, era dedicato alla demistificazione degli errori popolari in fatto di magia, esorcismi, prodigi. Ma il titolo spiega di cosa si tratta, la vera passione del nostro canonico di Bagnacavallo: Il Serraglio degli Stupori del mondo diviso in vari appartamenti, secondo li vari stuporosi oggetti. Cioé di Mostri, Prodigi, Prestigi, Sorti, Oracoli, Sibille, Sogni, Curiosità astrologiche, Miracoli in genere, e Meraviglie in specie.
Il XXXVII Discorso è dedicato al mestiere dei cartografi e cosmografi, dunque Garzoni si dà a raccontare tutte le carte geografiche d'epoca, divise secondo le parti del mondo che erano allora note. Viene fuori un guazzabuglio di nomi geografici, che per un normale lettore moderno non ha alcun significato, trattandosi di nomi attribuiti dai cartografi antichi a regioni spesso sconosciute, nomi smal trascritti, svisati, fantasiosi, inutili. Così va avanti per pagine di luoghi vaghi, mitici, certamente per lui puri suoni. Ma quando arriva all'Italia, e in particolare alla Romagna, ci tiene a segnalare anche il nome del suo paesino di Bagnacavallo, come "patria del presente autore". Provo a immaginare Tomaso Garzoni mentre scrive quelle parole, nella sua stanza. Attorno a lui si stende l'immenso e sconosciuto mondo, l'Europa, l'Asia, l'Africa, l'America. Ma per lui il mondo non è fatto che di nomi, i quali hanno senso solo come parole magiche, più o meno adattate alla lingua italiana. E lui sta lì a scrivere, non in mezzo agli spazi infiniti e paurosi di cui parlava Pascal, ma in mezzo a nomi o parole che coprono tutti gli spazi possibili; parole che sono non soltanto il suo terreno, la sua casa, il suo atlante enciclopedico di tutti i saperi, ma anche e soprattutto la sua maschera: la recita che gli dà titolo d'essere al mondo - la sua recita di esistere. Si capisce che, con un autore del genere, il "mondo dei fatti" non ha molto senso. Le parole per lui compongono una infinita fabulazione che copre tutto, non soltanto gli spazi di quattro continenti, ma tutta la durata del tempo dalla nascita del creato - la quale sarebbe avvenuta (dice) una domenica mattina verso le ore sei. E per ogni mestiere e attività umana, l'autore si sente in dovere di risalire alle origini del mondo, scopiazzando a destra e a manca. Evidentemente per lui il potere incantatorio delle parole è tale da ridurre tutto l'universo a una catena di "si dice", di citazioni da autori classici, arabi, moderni, cattolici o riformati, che colmano qualsiasi spazio e tempo, senza lasciare nessun vuoto e nessun horror vacui possibile Ed è quello che succedeva sulla piazza d'un paese, nei raduni di popolazioni, dove il "si dice" della vita collettiva abbracciava qualsiasi cosa, e funzionava da intelletto universale.
Ora possiamo vedere meglio cos'è la piazza universale di Garzoni. E' il luogo dei nomi curiosi, degli "oggetti stuporosi", degli emblemi e figurazioni mitologiche, dei trucchi e delle invenzioni fabulose. E' il luogo privilegiato dell'arte retorica per convincere il prossimo: arte tra l'altro assegnata come specialità massima a ruffiani e ruffiane: "Non sa più il rettore uno iota della persuasione, di quel che ne sappia un ruffiano, il quale loda eccellentemente, essagera mirabilmente, consiglia accortissimamente, suade e dissuade stupendamente, adorna i suoi parlari, colorisce le sue ragioni, magnifica i suoi pensieri, confuta le ragioni contrarie…" Quella di Garzoni è sì la piazza dei mestieri, ma ogni mestiere diventa un racconto di parole mirifiche; ogni mestierante diventa una maschera; ogni tecnica diventa un'arte per addobbare il mondo, il quale rimarrà per sempre una favola che gli uomini si raccontano in centomila maniere. Quando uno scrive con tanta fiducia nelle parole – parole nobili o ignobili, trite o speciali, da accumulare e esibire come portenti - di qualunque cosa parli, il suo parlare diventa una recita per suscitare meraviglia. Qui non c'è ordine, c'è flusso e divagazione: fiducia massina nel puro moto delle parole. Come dice Cherchi, i discorsi sui mestieri di questo libro sono tutti slegati, senza un ordine riconoscibile, "tanto che ogni lettore può farsi un piano di lettura, scegliendo e organizzando i discorsi a suo piacimento". La Piazza universale è una città di parole, con strade fatte di parole che ci portano a gironzolare di qua e di là, soffermandoci dove ci sono gli emblemi dei mestieri, appesi in forma di cartigli o insegne che annunciano i vari capitoli o discorsi. Immaginato così, il libro di Garzoni diventa un'opera dall'aria baroccamente moderna, a metà strada tra un'etnografia fantastica e un labirinto romanzesco di discorsi che si incrociano attraverso i suoi personaggi. Il paragone che mi viene in mente per sostenere questa idea è lo Ulysses di James Joyce, altro libro enciclopedico, altra città di parole: repertorio ininterrotto di toponimi dublinesi, chiacchiere dublinesi, abitudini e mestieri dublinesi, personaggi e luoghi tipici dublinesi, che passiamo in rassegna girovagando con i personaggi principali.
Il modo slegato di Garzoni nel suddividere i mestieri della vita quotidiana, mi fa pensare a una veduta estremamente moderna, cioè non legata a un ordine gerarchico di valori (religiosi o altro), e dunque dove può trovar posto anche l'elemento qualsiasi. Si potrebbe pensare a un palazzo dove tutto è esposto a pari merito, il vile e il sublime, il serio e lo sboccato, l'autentico e il falso, il veritiero e il truffaldino, l'utile e l'inutile, le cose importanti e le cose qualsiasi. Sarebbe un palazzo in cui crolla ogni interiorizzazione (ogni valore interiorizzato, dunque scontato), ma un palazzo anche eminentemente immaginario, simile a una seicentesca Wunderkammer piena di reperti - di cose qualsiasi d'ogni giorno, messe in mostra soltanto per pura accumulazione. Questa è l'aspetto più singolare del libro di Garzoni: l'accumulazione di parole - il fatto che le parole siano usate come puri materiali da ammassare sulla pagina, per cui le pagine diventano magazzini di parole, senza un'idea direttiva di tipo narrativo (cioè con episodi sviluppati come itinerari da un prima a un dopo), o trattatistico (un argomento, sviluppato come un itinerario di ragionamenti). C'è qui un'idea quasi quasi nominalistica della lingua, perchè in accumulazioni così fatte ogni nome non riguarda un ordine generale di cose, ma una cosa singola perché collegata alla singolarità della pratica d'un mesiere. Questo avviene quando si fanno inventari di cose qualsiasi, cose usuali, ma specifiche secondo un contesto particolare. Come esempio di inventari rifeiti ad aspetti singolari d'un mestiere, prendo il Discorso CXXXXIII, che parla del mestiere del fornaio: "E al suo mestiere s'appartengono il pane, le fugazze, le pizze, le torte, le ciambelle, onde vengono i zambellari, le bracciatelle (o bianche o zuccherate o forti), i biscotellli, i burlenghi, il biscotto, le nevole, i storti, gli occhietti, le festa, le offelle (onde vengono gli offelari), i sosamelli, i mostazzoli, le fogaccine, i ritortelli, i cialdoni (onde vengono i cialdonari), uve secche, peri cotti, i confertini (da' quali son dimandati i confertinari)…"
Lanciato in questi discorsi, penso a un altro mostro di libro che per molti versi somiglia a quello di Garzoni, The Anatomy of Melancholy di Robert Burton (pubblicato nel 1624). Anche questo ha un'aria baroccamente moderna, ma più come libro d'un maniaco, d'un malinconico che parla della melanconia in quanto sua fissazione ossessiva. Anche questo è un farraginoso magazzino di parole, con una sintassi stupefacente, per come tiene insieme l'accumulazione di citazioni, in inglese, in greco, in latino, senza fare differenza tra l'una e l'altra. Voglio dire che tra le infinite citazioni semplicemente messe in fila in ogni pagina di Burton, non c'è modo di capire quale sia la più giusta, la più sensata, e quale sia un'idea scadente. Quelle citazioni sono diventate accumuli di cose, non più parole da interpretare. Come si legge un libro così? Appunto, direi io, come una Wunderkammer di reperti inventariati in quanto materiali curiosi, che contano solo per la nominazione di cose da ficcare in quel capitolo. Questi paragoni sono più o meno possibili, perché il libro di Garzoni non appartiene a un genere canonico (come il poema, il dramma, la lirica, il romanzo, il trattato), ma a un genere verbale spurio e largamente inventato, senza il piano d'appoggio d'una tassonomia. Così mi si configura, se non un genere letterario, almeno un'idea di opera letteraria che non è fatta per "rappresentare la realtà", ma per creare un universo parallelo e insieme deviante di parole o di nomi che coprono una superfice cartacea, come le carte geografiche che Garzoni riassune, o come quei portolani dove una costa di mare diventava una fitta cortina di nomi. E' un tipo di nominalismo in cui non si configura più uno spazio esterno da rappresentare, ma spazi di parole, città di parole, mondi di parole che hanno perso la loro universalità, e parlano soltanto di quel singolo ritaglio di vita, un particolare punto di fissazione eidetica, di cui sono i materiali di sostegno.
Il libro di Garzoni ha depositato nella mia testa il seme di un'idea: quella di libri che sono architetture di segni scritti, dove l'esterno non è il solito riflesso nello specchio della nostra interiorità, perché i segni scritti come materiali da costruziohne appartengono già a un mondo esterno da esplorare. Non posso fare a meno di ricordare Giorgio Manganelli, altro accumulatore di parole come puri materiali; e in particolare penso a quel suo libro-mostro intitolato Nuovo commento, dove si tratta di ipotizzare cosa sia il testo di cui sta parlando con il suo commento; e si arriva all'idea d'una città di segni tipografici, con vie fatte di proposizioni, piazzette di interpunzioni, vicoli che si insinuano tra sillaba e sillaba, e viali di aggettivi che portano ad altri capitoli. In questi esempi le parole non sono subordinate a un percorso di fatti, né a una conclusione discorsiva, ma tendono a comporre un disegno di segni scritti come gioco di accumulazione smisurata, portentosa recita a spreco. Il che può essere fatto per linee divaganti, come nello Ulysses Joyce; oppure tipo groviglio irrisolvibile, come in Gadda (racconti dell'Adalgisa, Cognizione del dolore, e Quer pasticciaccio a partire dal capitolo IX), oppure tipo doodle di segni che convergono come vie di parole verso un centro vuoto, come in Manganelli (Nuovo commento); oppure con uno schema a stanze, con zone da riempire di parole, come in La vie mode d'emploi di Georges Perec, o come la piazza di Garzoni. In queste architetture di segni scritti c'è senz'altro l'idea della Wunderkammer: luoghi d'accumulazione di cose nello specchio eidetico delle parole, comprendenti saperi enciclopedici, descrizioni tecniche, notizie su costumi e abitudini, e poi il qualsiasi d'ogni giorno, visioni fantastiche del mondo o dell'universo. Quello che caratterizzava una Wunderkammer non era il riferimento al "mondo dei fatti", ma la meraviglia (Wunder) davanti al "monstruoso" dei luoghi comuni recuperati allo spettacolo - altre esibizioni del portento, come negli spettacoli da baraccone.
Ricordo un discorso del nostro grande etnologo Ernesto de Martino, in Il mondo magico. L'incredulità o l'incomprensione che abbiamo per le magie di sciamani o stregoni d'altre culture, diceva, dipende da questo: che noi solitamente diamo per scontata l'esistenza d'un mondo di fatti, oggettivamente dato, in cui tutto si distingue in "reale" e "irreale"; mentre per altre popolazioni neanche la natura è già data in forma stabile, ma sempre come qualcosa da stabilizzare, da manipolare con fabulazioni, esorcismi, incantamenti, sacrifici, formule. Il linguaggio non ha nessuna sostanza oggettiva nei suoi modi di significare; niente è mai stato detto che non abbia un fondamento immaginativo o fantastico o simbolico; ed è come se l'uomo, ai suoi estremi limiti di finitezza, vivesse soltanto in forma di parole. Ed ecco il discorso di Garzoni sulla Storia, sulle storie dei grandi uomini, identico a quello di Ariosto: se gli storici o i poeti non avessero favoleggiato di re, eroi, imperatori, niente esisterebbe di quegli atomi di mortalità; i quali rimangono nelle menti degli uomini soltanto grazie alle manipolazioni di menzogne e meraviglie che facciamo con le nostre recite.
[Presentazione all'Istituto Italiano di Cultura di Chicago, marzo 2001, di La Piazza Universale, di Tomaso Garzoni, a cura di Paolo Cherchi e Beatrice Collina, Einaudi, 1996]
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