Riscrittura della prima novella del Decameron di Giovanni Boccaccio
La prima novella del Decamerone, quella su Ser Ciappelletto, concentra il gioco delle sorprese precisamente su un effetto di meraviglia. Le attese dipendono dalla presentazione di Ser Ciappelletto come bugiardo, ateo, falsario, ladro, bestemmiatore, assassino e sodomita; mentre la sorpresa spunta a metà racconto, nella sua confessione col frate, dove il suddetto si spaccia per ferventissimo credente. Questo diventa poco a poco un punto d’eccesso, perché ad ogni battuta di Ser Ciappelletto si va oltre tutte le aspettative, e ogni volta spalanchiamo gli occhi per il crescendo delle sue invenzioni da falsario, fin quando sappiamo che è diventato un santo del luogo. È il colmo che un tipo come lui sia canonizzato come santo, ed è un punto d’eccesso paradossale che corrisponde sul lato comico all’eccesso del dolore di Isabetta. Le sorprese con meraviglia hanno questo tacito risvolto: come mutazioni paradossali che portano verso un divenire impensato o impensabile. La novella non sorprende con i fatti narrati ma con le metamorfosi dell’impensato.
(Gianni Celati, Lo spirito della novella)
Qui inizia una novella dei tempi in cui i mercanti toscani migravano in Francia per arricchirsi con prestiti a usura. E c’era un ricchissimo mercante che doveva scendere in Italia per una chiamata del papa, ma temeva che i Borgognoni - tipi rissosi, infidi e indigenti - sfrondassero le sue ricchezze senza pagare il dazio. Perciò il mercante suddetto andava cercando un uomo di duro carattere, per bloccare le ruberie di quei maramaldi. Ed ebbe l’idea di assumere un certo ser Ciappelletto, abitante a Parigi, un tempo chiamato Ciapperello, con un senso da ben pochi compreso.
Costui – piccolo di persona – notaio truffatore senza pari e assiduo artefice d’imposture, studiava di procurare mali a conoscenti o chicchessia. Assisteva a delitti che gli davano allegrezza, e bestemmiava Domineddio e tutti i santi, specialmente quando l’ira lo sobillava anche per un nonnulla. Non andava in chiesa e faceva ludibrio dei sacramenti, mentre le taverne o altri siti vergognosi lo rallegravano in abominio. Odiava le femmine come cani odiosi e praticava la sodomia. Dunque avuta la procura, se ne andò egli in Borgogna a riscuotere il denaro dovuto, ma così benignamente che pareva non trovasse riposo fuori dalla propria ladresca usura.
Ora però avvenne che ser Ciappelletto cadde in malattia e non vi fu medico che potesse guarirlo. I due fratelli del mercante si diedero a ragionare così: «Costui che abbiam foraggiato da sano, ora ch’è infermo non possiamo cacciarlo via. Poiché egli odia tanto i sacramenti della chiesa, ché se pur dichiarasse i propri peccati, non si troverebbe prete disposto ad assolverli. E la gente del luogo darebbe a noi la colpa, come scomunicati usurai, contrari alle leggi della chiesa. Dunque che fare?
Ser Ciappelletto, malato, ascoltava quel che dicevano, e li chiamò per rassicurarli così: «Non temete che qualcosa v’accada per mia colpa. Invero ho mandato tante bestemmie contro Domineddio, che una più o meno non cambia nulla. Orsù, andate a cercarmi un frate esperto in queste cose e lasciate fare a me».
Giunse ben presto un venerando frate, che i cittadini tenevano in gran devozione, e lo fecero entrare nella camera di ser Ciappelletto. Qui il frate chiese: «Da quanto non ti confessi, figliolo?»; Ciappelletto rispose: «Mi confesso per usanza un dì alla settimana, ma spesso più volte. Però da quando son malato non feci confessione alcuna».
Disse il frate: «Figlio, hai fatto cosa buona e ti esorto a continuarla, se resterai in vita nei dì che vengono. Poiché continuando a confessarti con tale frequenza, avrai poche cose da dirmi e io poche da domandarti». Rispose ser Ciappelletto: «Messer frate, non dite così, giacché mai mi confessai senza ricordarmi tutti i miei peccati, dal dì in cui nacqui a quello in cui ora sono; pertanto vi esorto a chiedermi ogni cosa, come se non mi fossi già confessato. Né preoccupatevi per la mia di salute, giacché preferisco il castigo della carne piuttosto che la perdizione della mia anima».
Tali parole piacquero al sant’uomo, credendo egli d’aver trovato una mente assai ben disposta. Perciò chiese a Ciappelletto se mai avesse egli peccato di lussuria con qualche femmina. L’altro rispose: «Padre, mi vergogno a dirvi il vero, poiché mi fate sentir tanto sicuro delle mie parole ch’io temo di cadere in stato di vanteria. Poiché io sono vergine come quando uscii dal corpo della mia mamma». Esclamò il frate: «Oh, benedetto da Dio! Come ben tu facesti! E tanto più fu la tua condotta un grande beneficio, in quanto tu rinunciasti per libera scelta ai richiami della carne, mentre noi rinunciamo all’istesso richiamo ma per dovuta costrizione».
Indi continuò chiedendo s’egli avesse soggiaciuto ai peccati di gola. Al che ser Ciappelletto sospirò: «Aimé sì, e ben più d’una volta! Poiché, mentre ai pellegrinaggi nelle quaresime è usanza che le persone devote facciano un digiuno di pane e acqua, io bevvi spesso l’acqua di gusto. E altresì ho desiderato gustare le insalatine d’erbucce, che mi parevano assai più gradevoli del cibo che si digiuna per devozione».
Esclamò il frate: «Oh, figliolo, codesti sono peccati naturali e leggeri. Ogni brav’uomo dopo lungo digiuno mangia di gusto!». Al che ser Ciappelletto: «Non dite questo per consolarmi». E l’altro: «Son contento che tu pensi ciò in buona fede. Ma dimmi ora se hai peccato d’avarizia». Al che Ciappelletto rispose: «Siamo venuti in questa casa di usurai per sgridarli e sottrarli all’abominio dei loro guadagni; e andando in elemosina ho raccolto palanche per i poveri, e qualche soldo per il mio bisogno».
«Ben facesti», opinò il frate, «ma dimmi: sei tu spesso adirato e per quali motivi?». «Oh, spesso!» rispose Ciappelletto «Chi potrebbe non invocare un’ira divina, vedendo tanti giovani andar per taverne invece che in chiesa?». «La tua è un’ira lodevole», disse il frate, ma poi sentendolo sospirare per un peccato che non osava dire, l’assicurò così: «Figlio, non aver timori, ch’io pregherò Iddio per te». Al che l’altro in calde lacrime disse: «Sappiate che da giovane io fui cattivello e riottoso con la mamma mia. Peccato gravissimo, se voi non chiederete misericordia a Iddio per me».
Stimando che non vi fosse più nulla da dire a ser Ciappelletto, il frate gli diede l’assoluzione, benedicendolo quale santissimo uomo. E chi non l’avrebbe creduto tale, vedendolo in punto di morte, con pentimento sofferto in cerca di perdono? Qui il frate gli chiese se volesse avere il corpo sepolto nel luogo in cui erano, ed egli rispose che voleva restarvi, data una sua speciale venerazione per quell’ordine ecclesiastico. E mentre i due fratelli del ricco mercante quasi schiattavano dal ridere per quell’imbroglio, il falso santocchio ricevette l’ultima unzione e al vespro morì, avendo tutt’attorno una adunanza di frati che lo recarono alla sua ultima dimora.
Poi il venerando frate non cessò di narrare la bontà e l’innocenza di quell’uomo, mentre tutti premevano nella grande calca per baciargli i piedi e le mani e i vestiti. Nella notte successiva lo seppellirono in un’arca di marmo, dove la gente prese ad accendervi lumini per venerarlo. La sua fama si impose tanto che, ad ogni avversità della vita, quasi tutti si rivolgevano a lui. Invero si direbbe ch’egli sia caduto nelle mani del diavolo più che tra gli angeli del cielo: ma tutto ciò è occulto, quale che sia stata la sua scellerata vita. Così morì quest’uomo entrato nel numero dei santi, e ora chiamato Santo Ciappelletto: nome a cui ci raccomandiamo, certi d’essere da lui uditi.
Nota al testo
La riscrittura di Celati, avvenuta nel febbraio 2013, presenta alcune variazioni rispetto alla lettura della stessa novella, svolta in occasione di un programma del 2013 della Radiotelevisione svizzera (RSI.ch). Per ascoltare la voce di Gianni Celati ed una diversa versione della novella si rimanda direttamente al sito: http://www.rsi.ch/rete-due/speciali/boccaccio/Ser-Ciappelletto-2563816.html
(Elisabetta Menetti)