Gianni Celati - Imbriani, il favolare, l'ingenuità e lo scarabocchio

I.

Vittorio Imbriani (1840-1886) è tra i nostri narratori più fantastici e più ignorati, lasciato a lungo nel suo cantuccio di napoletano di fine ottocento, al punto che molte sue opere non hanno avuto l'onore della ristampa, e solo da poco disponiamo di una raccolta completa dei suoi testi narrativi. Se dovessi dire tutto quello che mi attira in questo autore, avrei troppi richiami per la testa: non solo l'Imbriani narratore, ma l'Imbriani filologo, il raccoglitore di fiabe, il conoscitore di tutti i dialetti, il fanatico della prosodia, il maestro di vedute oblique. Poi, la sua simpatia per gli autori seicenteschi, i funambolici e tanto spregiati manieristi (che infila nei suoi racconti appena può), me lo fa apparire come un transfuga dalla nostra pesante tradizione umanistica e dalla sua seriosità d’obbligo.

Imbriani ha fatto i suoi studi all'estero, prima in tedesco e poi in francese, imparando la lingua nostrana da «adulto e su’ libri, non da fanciullo e nell'uso», come accenna nella nota a una raccolta di fiabe (XII Conti pomiglianesi). Forse questo spiega il suo atteggiamento insolito: la passione per la lingua viva, ma diversa dal falso italiano dei manzoniani; e insieme la predilezione per un lessico erudito e multiforme. L’evasione dal recinto della letteratura ufficiale comincia con il lavoro di raccoglitore di fiabe e il tirocinio sul campo, a metà dei suoi vent’anni. E’ un’attività che prosegue fino alla fine, tenendosi però sempre legato alla tradizione letteraria napoletana, che va da Giordano Bruno (di cui ha annotato il Candelaio), a Giambattista Basile (di cui per primo ha studiato in modo appassionante il Cunto de li cunti), a Francesco De Sanctis (di cui è stato allievo a Zurigo, stenografando il suo corso sulla poesia cavalleresca).

Benedetto Croce, altro napoletano di questa tradizione, è stato tra i primi a raccogliere le sue lettere e ripubblicare alcuni suoi testi. Ma nel ritratto che traccia di lui ha l'aria di dover giustificare la sua nomea di bizzarro. Lo presenta come autore dispettoso, orso controcorrente, che sarebbe giusto tenere in considerazione: "Correvano i tempi del manzonismo, dell'ideale unitario della lingua, e della lingua popolare e fiorentina. L'Imbriani introdusse nella sua lingua gli elementi meno popolari e meno fiorentini: latinismi, parole di uso raro e coniate da lui per derivazioni etimologiche, napoletanismi, contorsioni sintattiche..." (Letteratura della nuova Italia). Questa presentazione sembra sistemare Imbriani quale autore con la patente di irregolare, come fanno i poliziotti coi tipi senza fissa dimora. Poi trascura completamente il suo lavoro di raccoglitore di fiabe, e si limita a dare notizia del suo capolavoro, Mastr’Impicca.

Croce definisce Mastr’Impicca una «fiaba grottesca». Ma Imbriani è uno dei pochi autori comici italiani del suo secolo, con un senso del comico così sicuro da non dover neanche rifarsi ai soliti meccanismi da commedia. Immagino che Croce abbia evitato l’aggettivo «comico» per non svalutare ancora di più il nostro uomo; dato che anche ai nostri tempi un autore comico è considerato d’una razza inferiore, rispetto agli autori che non ridono mai. Vorrei approfondire l’argomento, ma qui devo occuparmi d’altro. Osservo però che ha sempre pesato come una colpa su Imbriani l’essenza della sua verve: la sua capacità di disarticolare comicamente la lingua, e di farci scordare il parlare legalizzato dei funzionari dello spirito.

II.

Nel lessico di Imbriani, ci sono due parole da studiare: una è "ingenuità" e l'altra "scarabocchio". La seconda ricorre assieme al verbo «scarabocchiare», usato al posto del verbo «scrivere». Cito dal suo pseudo-romanzo di disavventure amorose, Merope IV: «Nello scarabocchiare questa novella, francamente non ho pensato a nessuna altra cosa che alla novella; ho creato due personaggi, ho detto loro di levarsi e camminare; poi quel che vidi io scrissi». Il verbo scarabocchiare non è solo un peggiorativo; dà anche l’idea di qualcuno che segua con la penna certe linee sulla carta, dietro a un arzigogolo che poi si sviluppa in forma di scombinata confessione amorosa. Infatti Merope IV è il continuo arzigogolo dei rapporti tra il narratore e la donna del titolo. Che il narratore si chiami Quattr’Asterischi, non è secondario, perché ci riporta all’idea di un grafismo sulla carta, come l’arzigogolo.

Se «scarabocchio» richiama lo sgorbio, parla anche di una concentrazione in cui si va dietro a quello che spunta dalla penna, come quando si tracciano dei doodles pensando ad altro. E quando l’autore dice che ha scarabocchiato la novella senza aver in mente altro che la novella stessa, c’è da prenderlo alla lettera, perché uno scarabocchio non ha nessun altro riferimento fuori di se stesso. Questo mi pare il segreto della felicità di Imbriani; una tendenza a concentrarsi su arzigogoli di parole trascinate verso coniugazioni impensabili, onomatopee battenti, ed ecolalie sillabiche, spesso con parole sdrucciole. Tra i mille esempi possibili, cito un passo dove le coniugazioni verbali impensate sfociano appunto nell’ecolalia: «L’immaginazione riscaldata de’ primi viaggiatori faceva sì che i loro sensi travedessero, traudissero, trasentissero e persino traodorassero e tragustassero» (L’Impietatrice, cap. V).

Punto estremo del gioco è quando diventa difficile articolare le parole, negli scioglilingua: «Madama Schifitisignacola ha schifitisignacolato trecentotrentatrè schifitisignacoletti…« (dal racconto Il vero motivo delle dimissioni del Capitano Cuzzocrea). Direi che nel suo impulso scarabocchione Imbriani sentisse lo scioglilingua come un punto di particolare ebrezza, proprio per via della difficoltà di articolazione. Lo scarabocchio è forse il sogno d’una disarticolazione totale e arzigogolante delle parole, che blocchi il loro significato troppo invadente, tirandole verso il puro ghirigoro, verso uno spensierato doodle di suoni .

III.

Veniamo all’aggettivo «ingenuo». La voga di tale aggettivo risale a un saggio di Schiller del 1796 (Sulla poesia ingenua e sentimentale), in cui si parla delle favole omeriche e della loro epoca remota in cui «l’uomo era in armonia con la natura». Negli anni in cui i fratelli Grimm pubblicavano i loro Kinder und Hausmärchen, «ingenuo» era un termine tecnico che i raccoglitori di fiabe applicavano correntemente ai loro materiali. All'epoca, Jakob Grimm entra in un dibattito con Achim von Arnim a proposito della fiabe e dei modi di trascriverle, sostenendo che non si possono inventare a piacere per scopi letterari, come avevano fatto e faranno von Arnim e von Brentano e altri; ma precisando che, mentre una fedeltà alla lettera è impossibile, c'è un'altra fedeltà che bisogna assolutamente mantenere; e questa riguarda il fondo «ingenuo delle fiabe», perché in quel fondo c'è il nostro legame con "il Tutto".

Imbriani aveva compiuto studi a Berlino e forse era informato di simili dibattiti. Quando scrive la sua grande favola, Mastr'Impicca, pubblicata nel 1874, cita due precedenti in tedesco, Brentano e Wieland, che si volgono alla fiaba d'autore, nella direzione opposta a quella indicata da Jakob Grimm. Ma mentre per i due tedeschi le parole «ingenuo» e "ingenuità" non hanno mai posto problemi, a quanto mi risulta, per il nostro rimangono una spina nel fianco, come il ricordo d’una vena narrativa facile e suadente che non si può più far propria se non per scherzo. In questo è diverso dai tedeschi, ma molto più vicino a noi.

Nel suo lavoro di raccoglitore di favole e di altri materiali dialettali, Imbriani definisce le favole e la poesia popolare come «ingenuo monumento de’ dialetti»; il che sta all’opposto della «poesia riflessa, artistica» (Mucchietto di gemme, 1866). Siamo ancora all’uso di «ingenuo» come termine tecnico, che separa rigorosamente la scrittura letteraria dalle favole popolari, in quanto la scrittura letteraria sarebbe produzione «riflessa» e non «spontanea». Un uso ironico spunta invece da L’Impietratrice, racconto storico-fantastico-comico del 1875, con sottotitolo: Panzana. Nel cap. III leggiamo: «O tempi in cui la ingenua e schietta descrizion delle cose o narrazioni degli avvenimenti si posponevano agli arzigogoli ingegnosi, alle leziosaggini rettoriche e cianciafruscole oratorie!» Mi sembra che parli delle «favole ingenue» d’Omero, nel senso in cui ne parlava Schiller, con citazione abbastanza scoperta. Ma se è così, ne parla come per dire che sono sogni ammuffiti negli stereotipi; e comunque dichiara che qui c’è un autore che s’è lasciato alle spalle «quella schietta e ingenua descrizion delle cose», per darsi ai suoi arzigogoli manieristici.

IV.

Che l’ingenuità non potesse più intendersi nel senso che stava a cuore a Jakob Grimm, e che fosse destinata a diventare il segno d’un pensiero sentimentale, si può capirlo leggendo Hegel. A Zurigo Imbriani s’era dato a studiare Hegel su consiglio del suo maestro De Sanctis, poi a Berlino aveva collaborato a una rivista hegeliana, e tornato in patria nel 1872 aveva fondato l’hegeliano Giornale napoletano di filosofia e lettere. Il che suggerisce che doveva essere stato toccato dal virus della parola hegeliana "realtà", con quel che segue. Questo è il nuovo territorio del «vero», del reale in quanto razionale, affrontabile soltanto da un pensiero «ad andatura scientifica» (parole di Hegel), e certamente non attraverso le ingenue fantasie dei narratori popolari. Ne risulta che d’ora in poi l’ingenuità favolistica, non essendo adeguata alla suddetta «realtà», dovrà sempre fare i conti con la coscienza ironica.

I due libri di Imbriani più vicini alla forma romanzesca, Merope IV, del 1867, e Dio ne scampi dagli Orsenigo, del 1876, sono tentativi di darsi a una narrativa simil-realistica di stampo ironico. Il primo va a vuoto, perché gli scappa di mano e diventa solo ciò che dice il sottotitolo: «Sogni e fantasie di Quattr'Asterichi». Il secondo è una sfottitura delle istanze sentimentali dei romanzi, con una satira dove ogni ingenuità cade sotto la sferza della coscienza ironica. Dio ne scampi dagli Orsenigo è uno dei romanzi più arditi del suo tempo, ma segnato da una pedagogia castigatoria, come se qualcuno ci dicesse: «Adesso vi faccio vedere io come vanno a finire tutte le favole sull’amore, con le belle fantasie romantiche!» Ovvero, come termina il capitolo XVI: «Cosa vuol dire fare i conti senza l’oste!»

Nell’Impietratrice però c’è dell’altro, molto più interessante. Qui Imbriani compone una favola scettica sulla fine delle epoche eroiche, con quel tanto di falso storico che ci vuole per tenere in piedi simili fandonie. Ed è una comica Arcadia dove ci sono dei colpi di umorismo impagabili, alla Totò (voglio dire con lo stesso stile; qui non ho tempo di indicarli, ma un giorno mi piacerebbe riprenderli). Poi con una quantità di parole che lasciano di stucco, coniugazioni verbali impensate, ecolalie sdrucciole impronunciabili. Infatti, essendo la vicenda ambientata nella terra degli atzechi, può mettere in piazza un bagaglio di nomi atzechi, «troppo irto e ingombro di consonantacce eteroclite, che una bocca italiana mal saprebbe pronunciare,» come dice l’autore, molto contento dei suoi misfatti linguistici. Insisto nell’idea che le difficoltà di articolazione fossero per Imbriani la via dell’ebbrezza nell’umorismo scarabocchiante, con cui si risolve il dilemma tra ironia e ingenuità.

V.

Nella prefazione alla prima edizione della Novellaja fiorentina, del 1871, rivolgendosi a due bambine cui dedica questa sua raccolta di fiabe vernacolari, Imbriani spiega che gli piacerebbe scrivere qualcosa per loro, e tira in ballo le parole «ingenuità e "scarabocchio», i due cardini della questione che qui azzardo. L’autore confessa: «Mi sono persino provato a scarabocchiare qualcosetta d'ingenuo e d'idillico, apposta per vojaltre. Ma sapete che c'è? Non mi vuol riuscire: non son buono ad ispogliare il vecchio Adamo; l'ingenuità mi diventa ironia, l'idillio mi diventa satira. Non giungo, per isforzarmi ch'io faccia, a concepir l'uomo diverso da quel ch'io lo conosco. Eppure, io vi bramerei per lettrici!»

Mastr'Impicca, favola d'autore scritta pochi anni dopo, è lo sforzo più riuscito di Imbriani in questa direzione, ed è anche il suo libro più movimentato, fresco e memorabile. C'è il dilemma tra ingenuità e ironia, idillio e satira; ma qualcosa sembra risolvere il dilemma, o almeno farlo fruttare fantasticamente. E’ appunto il verbo che per Imbriani doveva esprimere l'unico tipo di ingenuità accessibile, sostenibile: il verbo "scarabocchiare". Lo scarabocchio non è proprio scrittura, ma un gesto ancora vicino al trasporto d'una mano che traccia dei segni a vanvera, cosa che i bambini e i grafomani possono capire bene. Il personaggio risolutivo di Mastr'Impicca sarà dunque, per forza, la fata Scarabocchiona.



VI.

Mastr'Impicca termina con un processo tribunalesco, dove si dibatte se sia lecito credere alla fate e alle fiabe. L'eroe viene condannato a morte da una commissione governativa che non crede alla sua vicenda fiabesca, occorsa per l'intervento d'una fata. Infatti i ministri e gli uomini di legge non credono alle fate per una questione di principio: per loro le fate sono una finzione e basta. Ecco allora che la fata Scarabocchiona compare in tribunale, testimoniando dell’esistenza delle fate e costringendo quei signori a rimangiarsi la sentenza e prosciogliere l'eroe, permettendo al racconto di terminare col lieto fine che le fiabe debbono avere.

Parrebbe che questo racconto segua l'itinerario d'un dilemma, ben chiaro per il nostro autore: dire di sì o di no alla favole? Raccoglierle soltanto come avanzi del passato? Favolare o non favolare? Nella premessa alla Novellaja fiorentina, Imbriani specifica cosa blocchi la possibilità di credere al linguaggio delle fiabe, ossia cosa blocchi la facoltà di favolare. Scrive: «quando vinco l'accidia e impugno la penna, m'è forza d'ubbidire alla coscienza che m'impone di rappresentare il mondo, la società, la razza umana tale e quale, non secondo alcun pio desiderio. L'amor del vero mi signoreggia l'immaginazione».

Il «vero» ossia la «realtà», parole che sono pesantissime da sopportare. Sono il peso della coscienza divenuta troppo ingombrante, perché è il peso del mondo come rappresentazione. Se non si riesce a dissolverle in forme meno categoriche, quelle parole signoreggiano l'immaginazione, la stancano, la ospedalizzano e seppelliscono tutti i momenti. Negli adulti moderni, gonfi di informazioni sulla "realtà", c'è un tale imbarazzo a proposito della facoltà di favolare, che il dilemma di Imbriani diventa di purissima attualità.

Nelle fiabe non ci sono categorie storiche, né spiegazioni psicologiche, né una dialettica tra visioni del mondo. La loro forza sta nell’affermare solo istanze vegetative, animistiche, immaginative e teatrali. E dopo non c'è più bisogno di una coscienza critica che si allontani dal senso comune per giudicare tutto da una distanza panoramica. Non c’è bisogno di seguire il giro hegeliano delle maschere della coscienza. Non ce n’è bisogno perché le favole non sono né vere né il false, né reali né l’irreali. Sono racconti da abitare come una casa, racconti che sono stati abitati fin dalla preistoria. Con tutta la loro inaccettabile ingenuità (o come si vuol chiamarla), le fiabe comunque esistono, e sono una forma naturale del linguaggio, perché appartengono alla nostra storia naturale. Più o meno come intendeva Jakob Grimm.

VII.

Nel suo studio dedicato al grande novellatore seicentesco napoletano Giambattista Basile, Imbriani espone un problema che riguarda lui stesso più che Basile. E' il problema di non poter più raccontare con serietà le meraviglie fiabesche, appunto perché nessuno crede più a cose del genere. Allora l'unica risorsa è l'ironia, ossia l'umorismo spregiudicato delle parole a ruota libera, che non manca mai a Imbriani né a Basile. Dice il nostro autore: "Rimane quindi solo a narrare, beffandosi di ciò che si narra, che è appunto l'umore".

Ma c'è da chiedersi: se nessuno crede più alla fiabe, perché beffarsi di loro? Considerando anche l'umorismo barocco di Basile, forse è più sensato pensare che questo sia un tentativo di preservare una fedeltà verso le fiabe. Si tratta di narrare mostrando di non prendere sul serio ciò che si narra, il che significa non farne un peso per la coscienza. Questo non ci situa dalla parte dei burocrati dello spirito, ma dalla parte delle fiabe, conservando la contentezza dell’intrattenimento. Così ci si può anche beffare di chi, come i signori della commissione governativa in Mastr'Impicca, traduce la propria seriosità in discriminazioni di questo tipo: "Chi è che ignori le fate essere una finzione con la quale i ragazzi si trastullano e che la pedagogia condanna? Fate non ce n'è , e la ragione dimostra che non possono esserci".

Sono parole di bellissimo sfottò, che ribaltano l'hegelismo imbrianesco e introducono una veduta obliqua, antipedagogica, permettendo quel lieto fine senza cui una favola non è favola. Questo è da intendere come una regola: come un romanzo poliziesco deve avere un assassino da scoprire, così la favola deve per forza avere un lieto fine. Il narratore dovrà quindi trovare il modo di superare tutto ciò che rende il suo racconto non lieto, o legato alla coscienza ironica e alle sue infinite discriminazioni. Dovrà riuscire a lasciarsi alle spalle tutto questo, mandando al diavolo qualsiasi pedagogia del vero e del falso.

VIII.

Il riassunto del Mastr’Impicca fatto da Croce è svelto e piacevole: «si narra della giovane principessa ereditaria di Scaricabarili, Rosmunda, corteggiata dai re di tre stati vicini, Gaspare, Melchiorre e Baldassarre ( sono i nomi dei tre re magi), uno gobbo, l'altro zoppo, il terzo guercio, i quali, infrangendo le regole del concorso cui si erano sottomessi, la rapiscono. Ma per l'intervento della fata Scarabocchiona, protettrice della principessa, un giovane ufficiale, un trovatello, Sennacheribbo Esposito (tale cognome si soleva imporre in Napoli ai trovatelli), anzi Esposito cav. Sennacheribbo, capitano dei dragoni di seconda classe, insegue i rapitori, li raggiunge oltre il confine, li coglie tutti e tre mentre, giocata a dadi la principessa, stanno per violentarla, e li impicca, malgrado le loro minacce... impicca tre re, con le rispettive corone sul capo! Il giovane al ritorno è sottoposto a processo; ma viene acclamato dal popolo, e sposa la principessa, e gli resta il nomignolo di Mastr'Impicca».

Questa di Imbriani sarà anche una favola con tanti arzigogoli che le favole tradizionali non hanno, ma rientra nei parametri aurei del favolare. Cosa dicono le fiabe? Dicono che tutto l'indesiderabile secondo il senso comune troverà una soluzione: e i trovatelli coraggiosi diverranno principi, le principesse salderanno i conti coi loro persecutori, i rappresentanti della disgrazia umana verranno spazzati via dalla terra, e gli stratagemmi della tetraggine saranno dissolti da un po’ di letizia. Le fiabe parlano di questa attesa tanto ingenua quanto insensata, senza doversi preoccupare della convessità del cielo o della rotondità della terra.

Un favolista non può esimersi da questa disposizione mentale che la fiaba implica. Tuttavia per un uomo moderno la cosa è quasi impossibile, ci ricorda Imbriani. Perché, se ciò che le fiabe dicono è sottoposto a una discriminazione critica, quell'attesa ingenua non sta più in piedi. Il favolista moderno dovrà dunque subire lo stesso processo a cui è sottoposto l'eroe di Mastr'Impicca, un processo ad opera della coscienza ironica che non crede all’esistenza d’una bontà ingenua che salvi il mondo, perché crede solo alla «realtà». E dovrà trovare in sé la soluzione: un modo per parlare senza imbarazzo di fate e d'altre entità inverosimili, entità che però hanno piena esistenza nel linguaggio - come «unicorno», «ippogrifo», «orco», etc.

IX.

La soluzione in Mastr'Impicca dipende dal superamento delle discriminazioni critiche, che sono destinate a bloccare un’attesa di allegria. Su questo punto il narratore si concede un notevole commento, a qualche pagina dalla fine. Cito per esteso quel passo essenziale: «All'esistenza delle fate ci crediamo su per giù tutti, come all'esistenza degl’ippogrifi, degl’ippotragelafi, degl’ircocervi, ma se mi venissero a dire che al Pincio c'è una carrozza tirata da ircocervi, che la Compagnia equestre dell'Argentina ci ha degl’ippogrifi, che nelle stalle del Quirinale c'è un ippotragelafo, che nell'aula del Senato del Regno c'è una fata con la sua brava verghettina criselefantina, o un plaustro tratto da otto draghettini rosa, io non saprei resistere alla tentazione, per quanto incurioso io mi sia. E benché frequentare il Pincio sia il più insulso degli spassi il frequenterei, e benché assistere alle rappresentazioni equestri sia gusto plebeo, prenderei un biglietto quella sera stessa, e benché le sedute del Senato non sogliano essere divertentissime, farei a pugni per entrare nelle tribune».

Questa è l'unica morale che s'incontra in Mastr'Impicca, l'unica volta che il narratore sospende il racconto per fare i suoi commenti. Ed è una buona risposta alle tesi della commissione governativa secondo cui le fate sono solo una finzione. Saranno una finzione, dice il nostro, ma mi darebbe gusto l'idea di andare a sentirle, dovunque si esibiscano. E' anche un bel richiamo al senso comune che informa i linguaggi naturali, per quello che sono e nonostante gli abbagli che producono. Del resto, l’allegria non è sempre un abbaglio?

X.

Le discriminazioni critiche si propongono di bloccare gli eccessi del dire e del sentito dire, distinguendo il vero dal falso, per evitarci gli abbagli del linguaggio. Il commento finale di Mastr’Impicca è una sterzata rispetto a tali intenzioni - e ai discorsi sulla «coscienza» che impongono di «rappresentare il mondo, la società, la razza umana, tale e quale, non secondo alcun pio desiderio» (premessa alla Novellaja fiorentina). Adesso tutto è rimesso in gioco dal semplice e quotidiano: «Se mi venissero a dire che al Pincio…» Questo esprime già l’opzione o l’abbaglio in cui ci incastra ogni parola che ci colpisce. Tutto il nostro credere a qualcosa dipende sempre dagli eccessi di parole che ci colpiscono e suscitano attese.

Se qualcuno mi narra una storia, questo diventa un evento che mi trascina fuori di me, un evento in cui compariranno sempre e comunque certe entità irreali del sentito dire, perché «favellare è fabulare» (José Bergamìn). Perciò il narratore di Mastr'Impicca, pur essendo un uomo moderno che non può credere all'esistenza delle fate, dichiara che accorrerebbe come chiunque ad assistere alle loro meraviglie, se qualcuno gli "viene a dire" che esistono e che si esibiscono nel posto tale. Così il racconto può andare verso il suo lieto fine, e il dilemma tra ingenuità e ironia si risolve con un' ironia che il favolista applica a se stesso e alla propria fola: un’ironia diminutiva che la riporta al linguaggio naturale e al senso comune cui appartiene.

XI.

Imbriani è stato tra i più originali raccoglitori di fiabe tramandate oralmente nell'area italiana. Assieme a Giuseppe Pitré, ha trasformato i metodi di questo lavoro, fino ad allora ancorati agli esempi tedeschi dei fratelli Grimm e d’altri più scientifici ma meno interessanti raccoglitori. Ma se i punti di partenza di Imbriani sono gli studi comparatistici tedeschi, il suo modo di orientarsi mi pare dipenda molto dalla frequentazione dell'opera di Giambattista Basile - grandissimo favolista seicentesco napoletano, riscoperto e messo in auge proprio dai tedeschi, dai Grimm e da altri, come il primo raccoglitore di favole orali.

Come raccoglitore di fiabe , il vanto di Imbriani è d’aver stenografato i racconti dalla viva voce dei loro narratori, «segnando persino le esclamazioni e gli intercalari viziosi, persino i foderamenti delle parole». Questo rende le sue fiabe molto diverse da quelle di altri raccoglitori ottocenteschi: più irregolari, ma meno irrigidite nel bello stile, con una continua gesticolazione verbale che è rara nelle forme scritte. Imbriani percepisce il valore del fraseggio nell’arte di favolatori; percepisce che il fraseggio è una gesticolazione ininterrotta, non riducibile ai ritmi morti della pagina scritta. E compie il suo sforzo stenografico per "ritrarre esattamente la maniera, in cui fraseggia e concatena il pensiero il volgo".

A quell’epoca, studiosi raccoglievano motivi o trame da comparare, dopo averli trascritti in una prosa letteraria. Va citato il contrasto tra Imbriani e D’Ancona, il quale gli rimproverava di non aver trascritto le sue fiabe fiorentine in un italiano letterariamente adeguato: «mi biasimava anche d’aver stenografato senza ritocchi,» si lamenta il nostro uomo, «secondo lui avrei dovuto fare come i fratelli Grimm o che so». Né dai Grimm, né dai loro seguaci, si ha idea di come venissero raccontate all’origine le fiabe raccolte: con che fraseggio, con quali modi di enunciazione. Imbriani è tra i primi a capire che c'è un'arte verbale diversa da quelle istituzionale; che il dire e il narrare non sono separabili, e che nelle fiabe non si può estrarre la trama dai modi di parlare dei narratori senza travisare tutto.

XII.

In molti casi a me sembra che, al di là dell’interesse scientifico, gli stesse a cuore tenere dietro agli andamenti del fraseggio per il puro gusto dell'annotazione puntigliosa. Mi colpisce la sua passione per le note, per l'atto di annotare, a cui dà libero sfogo nella seconda edizione della Novellaja fiorentina. Poi mi colpisce il suo modo di usare le virgole, annotazioni di pause che parrebbero voler seguire tutte le curve d’intonazione; e così la sua tendenza a rendere tronche le parole piane davanti a consonante, indizio d'un ritmo da mantenere nella sequenza frastica secondo una quantità metrica. Dev'essere l'attenzione per fatti del genere che l'ha portato a studiare la prosodia, e progettare una riforma dell'alfabeto italiano.

Nell'annotazione, il gesto e il segno non sono separati come saranno nella confezione a stampa della pagina scritta. E le glosse continue di Imbriani, interne o esterne al testo, mostrano un modo di sentire il linguaggio come una gesticolazione mai stabilizzata, ghirigoro perpetuo che segue moti di fraseggio. Questa insolita passione annotativa si dirige verso ciò che la nostra scrittura alfabetica elimina: l’instabile lavoro degli accenti tonici che decidono l’impulso ritmico, e l’articolazione delle sillabe che può diventare nenia o ecolalia, e infine il gesto eccessivo dello scarabocchio che può diventare segno decorativo, arzigogolo, segno runico, segno fatato, liquidazione a sorpresa di tutta la coscienza raziocinante.

XIII.

Quando Basile allunga le frasi con elenchi di nomi o aggettivi o altre divagazioni tra le parole, non si ha l’impressione d’una verbosità d’obbligo. Spunta invece il senso d'un divagare con la testa, d'uno svagarsi, che è il senso proprio del favolare: «O beccuccio di piccioncello mio, o bomboletta delle Grazie, o vaga colomba del carro di Venere, cocchio trionfale d’Amore…se non ti è caduto sugli occhi lo sterco di rondine, sono sicuro che sentirai e vedrai le pene e i tormenti che al primo tocco mi hanno suscitato le bellezze tue» (Lo Cunto de li Cunti, giornata prima, novella X, traduzione italiana di Benedetto Croce). Qui si può già vedere la funzione dell’arzigogolo, che disarticola i significati forti dell’enunciazione, con ghirigori di parole che tendono verso l’inclinazione umoristica e lo scioglilingua. In questo modo di narrare c'è qualcosa che direi una «fatagione del linguaggio», ricordando la fatagione di cui si parla in Mastr'Impicca, ad opera della fata Scarabocchiona.

Un buon esempio lo trovo nella nona fiaba della prima giornata, nel Cunto de li cunti. Un re non riesce a ingravidare sua moglie, e gli consigliano di farle mangiare del cuore di drago; dunque fanno cuocere un cuore di drago e questo ha un effetto così potente che il suo fumo basta a ingravidare la regina, ma anche la cuoca, e con lei tutti i mobili della casa. Allora il trabacco del letto ingravidato genera un lettino, il forziere genera uno scrignetto, il tavolo mette al mondo un tavolino, le sedie delle seggioline, e il càntero "'no cantarello, 'mpetenato, accossì bello, ch'era 'no sapore". In aspetti del genere non c’è più distinzione tra dire e narrare, tra narrazione e discorso, ma un andamento fantastico delle parole che gonfia le frasi, insieme alla pancia delle regine e dei mobili. Ed è la fatagione del linguaggio che si ritrova in Mastr'Impicca, un fraseggio che genera meraviglie attraverso lo scorrere delle parole, così come la fata Scarabocchiona produce meraviglie con la sua magica verghettina.

XIV.

Nell'osteria in cui l'eroe di Mastr'Impicca acciuffa quei tre re magi della disgrazia umana, c'è un "gran galletto scarabocchiato sul muro". Quando la fata Scarabocchiona sottoscrive il patto di nozze tra l'eroe e la principessa, lo fa con uno scarabocchio. Qui tutto è sgorbio, eccesso della mano, caricatura, disegno che deforma le linee. Lo scarabocchio si ricollega al favolare - come in un certo libro della mia infanzia, dove l'inchiostro d'uno scarabocchio diventava il tema d'un racconto fantastico. Ma, nel caso di Imbriani, questo non va neanche preso come una indicazione di stile, perché semmai è la rovina d'ogni stile.

Si tratta d’un gioco simile a quello delle ruzzola. E’ il gioco a far ruzzolare parole e sillabe, parente del gioco delle filastrocche e degli scioglilingua. Un buon ruzzolamento di sillabe si vede nel nome degli abitanti del regno di Mastr’Impicca: «Scaricabarilopolitani». E tutta la vicenda si svolge nel regno di Scaricabarili, che indica uno scarico di responsabilità; altra fatagione delle parole che scarica ogni responsabilità adulta.

In questo gioco sono ammessi tic, idiosincrasie, onomatopee finché si vuole ("Brr! C'era da svenire solo al pensiero!"). E' ammesso far la caricatura delle parole, derivando verbi da sostantivi («gergonando», per parlare in gergo) o strapazzando voci desuete («segrennaccia», da «segrenna», donna magra dispettosa). Si può arricchire il rotolamento delle sillabe con liste di sinonimi («quelle caccole, quelle croste, quelle gromme, quella tigna, quella scabia, que’ cenci sordidi e puzzolenti»), o coniare francesismi o latinismi, e via dicendo.

"Galoppa galoppa", "Cammina cammina", dice la nostra favola. E’ così deve fare la lingua nel suo scarico di responsabilità, come un galoppo, uno scivolo, un ruzzolamento perpetuo. Può anche trasformarsi in arte della citazione, può ingolfarsi in nugoli di modi di dire, prendere i toni della favoletta morale, affidarsi al tu per tu col lettore, farsi scarabocchio calunnioso di tutto ciò che troppo serio, o distendersi in descrizioni che sono piccoli paradisi di nominazione a vuoto (un esempio: "Era una bella notte serena, stellata: i cani uggiolavano, gli allocchi bubbolavano, gli assioli chiurlavano, le civette squittivano").

Questo gioco, questa accademia dello scarico di responsabilità, crea un teatrino in cui si parla di tutto, si fanno i bandi, si rievocano fiabe, si citano frasi strambe ("Quell'uomo lì veniva sempre ubbidito a vapore"). Ciò che conta è che la lingua vada in una terra incognita, dove si parla dialetto, italiano, retorica stravagante, latineggiante o napoletanesca, e tutto quanto può venire all’orecchio. Ciò che viene all’orecchio deve poter venire alla bocca, come abitudine, ethos, uso del mondo. Non deve essere la lingua dell’adulto scolarizzato che scarta l’inusuale e il poco serio, perché non sente più l’ebbrezza del fraseggiare a vuoto. Deve essere una parlantina che va avanti da sola, come si vede bene quando la narrazione procede per domande e risposte. Ed è l’estensione d'un gioco infantile in cui non c'è più autore, c'è solo il gioco del favolare che manda avanti tutto: "E allora? e poi?"

XV.

Leggendo Mastr'Impicca ad alta voce lo sbrigliarsi delle frase diventa più evidente attraverso le difficoltà di articolazione, come quando troppi aggettivi o sostantivi con suoni allitteranti sono infilati assieme, o quando la frase snodandosi per membri appesi uno all'altro procede come un ghirigoro che non riesce a trovare una conclusione. Lo scarabocchio si istalla nella scrittura alfabetica, come linea divagante, gesto che non trattiene lo slancio eccessivo, offuscamento dell'idea di trasparenza. Nel cuore della scrittura analitica in alfabeto nostrano, dove ogni segno deve avere una pertinenza distintiva, spunta il segno gratuito, impertinente, che sta lì come se fosse un sasso, una pozzanghera, o una macchia sul muro. Non so chi l’abbia detto, ma qualcuno deve averlo detto: la scrittura comincia con gli scarabocchi quando siamo bambini, ed è per forza destinata a concludersi in uno scarabocchio.

“Griseldaonline”, n. X, 2010-2011.