Scrivo queste parole il lunedì di Pasqua, trentasettesimo giorno di chiusura.
Faccio questa piccola premessa perché il tempo è una variabile importante nella situazione che stiamo vivendo. Un tempo da un lato immobile e dall’altro rapidissimo a cambiare. Un tempo cristallizzato e un tempo in evoluzione, almeno a tratti, imprevedibile. Quello che scrivo vale qui e ora, non so cosa sarà domani, allo stesso modo in cui non so cosa accadrà di me, delle persone che amo, della mia vita, del mio lavoro. Vivo, come tutti, nell’adesso. E allo stesso tempo vivo, come ogni scrittore, nel Domani e nell’Altrove.
Per molti giorni ho faticato a scrivere e leggere.
Mentre riuscivo a tenere a bada il lavoro quotidiano di codice e algoritmi ero incapace di manovrare la fantasia, che fosse mia o quella degli altri. Lavoravo sulle cose da fare, sulle conseguenze dirette delle azioni, sulla prevedibilità. Tutto il resto, immerso in una cornice senza orizzonte, perdeva significato, mi sembrava sfocato e confuso. Non ho mai guardato con ansia la pagina bianca, ho sempre avuto il problema contrario, questa sospensione mi ha regalato una sensazione nuova. Poi, con lentezza, tutto si è rimesso in moto. Mai come in questo momento dovremmo aver capito che la vita è una stranissima forma di adattamento all’ambiente.
È stato in quei giorni, i primi con le porte chiuse e le webcam accese, con l’ennesima neve primaverile e una stagione fuori stagione, mentre la curva del contagio saliva come un missile in rampa, che ho pensato per la prima volta in un modo nuovo all’assenza, all’empatia e alla responsabilità. Vanno insieme, almeno secondo me.
Parto dall’assenza.
Alcuni anni fa mi sono beccato la varicella. Qualche giorno di febbre, molti di pustole, quasi cinquanta di isolamento. Si può dire che sono arrivato preparato. Eppure non era assenza. Sapevo che superata la fase acuta sarebbe bastato avere pazienza. Il mondo era fuori, in attesa dietro una porta. Oggi il mondo non c’è. E quando dico mondo, intendo tutto quanto. I templi indiani, Time Square, piazza Fontanesi a Reggio, via Indipendenza a Bologna, il Colosseo, la torre Eiffel, il Prado, il London Bridge. Assenza è la mancanza totale dell’altro. Per chi vive solo e non lavora è anche assenza fisica. L’epoca che ha sostituito le ideologie con il mercato e barattato il bene collettivo con il desiderio spesso superfluo del singolo, si trova chiusa in casa, sola con se stessa, per la prima volta di fronte ai suoi limiti come società e come individuo. Abbiamo chiamato per anni “crisi” una trasformazione sociale. Chiamare il Covid epidemia è davvero riduttivo.
Assenza è distanza dai propri cari. Distanza e impotenza per non potersi prendere cura, per non poterli tenere al sicuro, lontani dai pericoli.
Assenza è anche mancanza di prospettiva.
Per anni abbiamo chiesto risposte semplici a problemi complessi. Risposte che non c’erano o erano propagandiste. Oggi, con la stessa sicumera, pretendiamo una data di fine, incapaci di reagire di fronte a una delle regole basi dell’esistenza, intesa in senso sociale e biologico. L’imprevedibilità della natura. Vogliamo una data certa per la riapertura delle attività, una data certa per il vaccino, una per la fine della quarantena e allo stesso tempo fatichiamo a farci carico di tutto quel bagaglio di obblighi che ci toccano per arrivare al miglior risultato possibile, quasi che fossimo in mezzo allo scherzo di qualcuno, una burla di cattivo gusto che sta durando troppo.
Assenza è assenza di consapevolezza. E di empatia.
Sono anche un uomo di numeri. Se ti laurei in ingegneria è un timbro a fuoco che non ti molla più. I numeri vivono con te, i numeri parlano, i numeri non sono discutibili. I numeri e l’osservazione della realtà dicono tutto. Oggi, qui e ora, siamo a seicento morti al giorno. Pensate all’ultima volta in cui siete stati al cinema a vedere un filmone di quelli da prenotare i biglietti per non restare senza. Ve la ricordate? Ecco, ora immaginate che quelle centinaia di persone sedute accanto a voi siano morte. Tutte. E che quello spettacolo di cadaveri vada in scena una volta al giorno. Tutti i giorni.
Quella platea di morti è un pubblico di cui andiamo molto fieri, oggi. Fino a un paio di settimane fa lo stesso spettacolo andava in onda due volte al giorno. Riuscite a vederla? Non vi fa impressione? Se li mettiamo tutti insieme, quegli spettatori morti, riempiono il Mapei Stadium di Reggio Emilia, dove gioca il Sassuolo. Immaginatelo colmo, magari in campo c’è Cristiano Ronaldo. E nel pubblico sono tutti morti. Tutti. A questo ritmo e con questo tasso di decrescita, presto servirà Marassi o il Dall’Ara.
Per il numero dei ricoverati serve già.
E questo se ragioniamo dei numeri ufficiali, quelli che hanno avuto una diagnosi e un tampone.
E ora vi chiedo un altro sforzo di immaginazione.
Pensate che in mezzo a quella folla enorme ci sia qualcuno che amate. Qualcuno che avete sentito tossire, magari per telefono, che avete chiamato per giorni per sapere come stava, che avete saputo ricoverato e per cui avete ricevuto un giorno una telefonata che vi annunciava che non ce l’aveva fatta. Qualcuno che non vedrete mai più, che verosimilmente è morto soffocato, da solo, circondato dal nulla. Ecco, pensate a quel pubblico di morti e pensate a quante sono le persone intorno a voi che hanno vissuto questa situazione. Non vi fa paura? Fa male al cuore solo a uno come me, che scrive per lavoro, che inventa storie e evoca emozioni?
Ultimo passo.
Siete mai stati a San Siro a veder una partita o un concerto? Le persone che hanno un tampone positivo sono il pubblico di quella partita, di quel concerto. Il numero ufficiale, intendo.
Lo sappiamo tutti che il numero reale è molto molto più grande.
Ho cercato di mettervi davanti questo spettacolo macabro per un motivo pratico.
La seconda parola a cui ho pensato in questi giorni è empatia. Vale a molti livelli, credo.
Quando devi fare una cosa perché te la chiedono, devi capirne le motivazioni. A maggior ragione se di farlo non ne hai nessuna voglia, se ti priva di piaceri che sono diventati consueti, di persone, comportamenti, desideri. Il primo passo per capire una situazione è individuare il contesto. Il contesto è quello stadio. Ognuno di noi che si regge sulle sue gambe, vive, lavora, aspetta, lo fa sul prato di quello stadio che si riempie. Siamo dentro un fottuto film dell’orrore, la distopia non esiste più, la distopia è diventata immaginare la normalità.
Provo a farvi un esempio numerico. Un’epidemia funziona in progressione numerica. Significa, in soldoni, che ognuna delle persone malate ne può contagiare un certo numero. Diciamo, per semplificare, che sia due. Ogni malato ne può infettare due, che a loro volta fanno lo stesso e via così, finché non accade qualcosa che ferma la progressione. Il modello è semplificato, ovviamente. Cosa succede, se lo seguiamo? Che quel singolo malato, quel singolo piccolo individuo, in un lasso ragionevole di tempo, ad esempio otto passaggi, può avere infettato duecentocinquanta persone.
E vuol dire pure che se consideriamo un tasso di mortalità probabile del 2%, cinque di quelle persone sono morte.
Cinque di quelle persone in quello stadio.
Vi cambia la prospettiva?
Ma io non sono malato, potreste dire. Perfetto.
Avete fatto un tampone? Non credo. Siete sicuri di non essere asintomatici?
Sicuri abbastanza da ignorare i vostri cinque potenziali spettatori?
Siamo una generazione fortunata, non conosciamo il significato della parola guerra. Siamo anche la generazione che in un modo o nell’altro vive la memoria dei nostri nonni e del loro sacrificio, della loro lotta. Questa è la prima vera prova collettiva che ci troviamo ad affrontare, intendo una prova in cui la posta in gioco è morire. Non ci stiamo facendo una gran figura. Credo che uno qualsiasi dei nostri nonni ci prenderebbe a pedate nel culo a saperci così riottosi ad affrontare un paio di mesi senza bombardamenti, con i frigoriferi debordanti, le videochiamate, Netflix e Internet.
I miei di sicuro lo farebbero.
Non sto parlando delle responsabilità decisionali, non ancora.
Sto parlando di quelle individuali che si tramutano in collettive.
Sto parlando della differenza fra essenziale e superfluo che continuo a sottolineare giorno per giorno, allo sfinimento, fino a esaurire le forze, immerso in un mare di retorica. Sto parlando del possibile disastro che ognuno di noi può fare. Sto parlando della difficoltà a capire che non c’è libro che tenga, non c’è corsetta che tenga, passeggiata, grigliata, partita di pallone, pranzo di Pasqua, seconda casa, compleanno, desiderio di svago che abbia una qualche rilevanza di fronte a quel pubblico.
Sto parlando del fatto che al netto delle eccezioni di salute, delle circostanze eccezionali, delle giuste singole rivendicazioni, ognuno di noi deve considerarsi un pericolo per gli altri o un potenziale bersaglio. Sto dicendo che di fronte a una malattia che si manifesta spesso senza sintomi e che permane infettiva a volte per settimane, nessuno che non abbia subito un tampone negativo può considerarsi fuori causa.
Dal 4 aprile a ieri sono state trovate per strada 222 persone che avrebbero dovuto essere in quarantena. Positive, quindi. Sono quelle che sono state beccate e di cui si sa per certo lo stato di salute. Quante non sono state trovate? Quante sono positive e non lo sanno? Se ognuno di quei 222 positivi ne infetta uno negativo, il totale della loro bravata nei soliti otto passaggi diventa 57.000, con un potenziale di più di mille morti. È più chiaro perché si parla di essenziale, di responsabilità individuale che ricade sugli altri?
Poco più di duecento persone su centinaia di migliaia di controlli sono una percentuale infinitesima. La maggior parte della gente segue le regole, è sigillata in casa.
Ma il dubbio che mi tormenta è che quei pochi, pochissimi, siano la punta dell’iceberg, l’avanguardia spregiudicata e criminale di un esercito molto più grande e del tutto refrattario alle regole, incapace della faccia tosta che serve per sfidare il silenzio e in attesa del pace libera tutti per poter finalmente sbracare.
Perché, e arrivo alla responsabilità, toccherà a tutti. Nessuno si senta escluso.
La progressione geometrica se ne fotte dei benaltrismi.
Pochi coglioni fanno un danno enorme.
Sono gli unici? No. Giustificano la caccia all’untore? No. Ma non sono interessato ai distinguo.
Diciamolo chiaro, ci è arrivata addosso fra capo e collo un’onda di piena non gestibile. Occorreva essere preparati, non lo eravamo e ho qualche dubbio che si potesse esserlo. L’abbiamo gestita bene? No. L’abbiamo gestita meglio che si poteva? No, da nessuna parte, nemmeno dove potrebbe sembrare. No, perché non tutti i sistemi hanno funzionato allo stesso modo e perché il sistema è una cosa e i singoli sono un’altra.
È mancato, a oggi, almeno in parte il controllo sul territorio. Molti medici di famiglia hanno fatto il loro e i pazienti ne hanno beneficiato, altri molto meno e si è visto.
Ognuno di noi ha sentito casi allucinanti di gente lasciata sola - senza neppure l’assistenza telefonica o un presidio medico -, di tamponi non fatti a malati o famigliari, di quarantene autoinflitte di fronte a diagnosi di raffreddore, di pazienti arrivati in ospedale moribondi dopo giorni di febbre alta a casa. La gestione domiciliare è stata traumatica e il decorso troppo spesso legato alla fortuna.
Abbiamo trascurato le case di riposo. Per dolo, indifferenza, colpa.
Abbiamo pagato sulla nostra pelle anni di tagli al sevizio sanitario nazionale, ma non possiamo fingere di non sapere che quei tagli sono stati avallati da una decina di elezioni politiche e amministrative. Chissà se avremo capito l’importanza di un voto e la differenza fra pubblico e privato.
Abbiamo sdoganato in modo esponenziale il desiderio di trovare un colpevole, inveendo dai balconi contro chiunque, spostando e moltiplicando l’odio che prima era riservato al diverso, sostituendo Noi dove prima c’era Loro. Altro che uscirne migliori.
In alcune zone d’Italia abbiamo concesso di nuovo al denaro di passare sopra la salute pubblica. La bergamasca andava chiusa e le responsabilità andranno stabilite con chiarezza. E mi piacerebbe capire quali siano state davvero le condizioni di sicurezza di tutti quelli che hanno continuato a lavorare, al netto delle difficoltà gigantesche dei sanitari.
Chiudere tutto era impossibile, a meno di non voler applicare il metodo cinese.
Tenere tutti in sicurezza era molto difficile. Ho molti dubbi che sia stato fatto il possibile.
C’è un mondo che continua a considerare il denaro prima della vita, specie se è quella degli altri.
Ora si parla di riaprire. E qui arriva la fine del mio ragionamento e la mia vera preoccupazione. Non è andato tutto bene, nemmeno per sogno. Facciamo in modo che vada meglio.
Fra qualche settimana la curva sarà abbastanza bassa da scemare verso lo zero. Il virus, fino a un vaccino e a una terapia efficace, non sparirà. Noi ricominceremo.
E la vita cambierà. Le regole, quelle poche, infinitesime, draconiane che abbiamo oggi, diventeranno per forza di cose molte di più. Obbligo di mascherina e guanti, quasi sicuramente. Cambio drastico di abitudini. Pensate agli aperitivi di massa di cui molti sembrano non poter fare a meno. Ai ristoranti con i tavoli così vicini da cenare insieme. Ai treni, al controllo bagagli degli aerei, ai negozi, alle file agli uffici postali, agli uffici con i dipendenti a strati, a tutti i singoli cambiamenti a cui dovremo attenerci, forse per poco, forse per molto.
Pensate alle app di tracciamento, soprattutto voi che invocate la privacy ogni due per tre, pensate all’attenzione che dovremo avere nei confronti dei più fragili, pensate agli screening sanitari, pensate ai cambiamenti radicali, obbligatori, immediati, drastici, a cui dovremo sottoporci, poi pensate al vostro vicino di casa, ai condomini, ai conoscenti, a chi non vi fattura e si sente furbo, a chi ancora oggi continua a non vedere quello stadio pieno e rivendica con spocchia un particolare che pretende universale.
Pensateci e chiedetevi se non siete preoccupati quanto me.
Usciremo scaglionati, con le mascherine e i guanti, divisi per fasce di età, sottoposti a quarantene improvvise per piccole comunità, nel caso in cui la malattia si ripresentasse, con limitazione nei viaggi, un cambio probabile di comportamento sociale con gli altri, lavori completamente rivoluzionati, alcuni nuovi che nemmeno immaginiamo, messi di fronte alla necessità di una ristrutturazione tecnologica rapida e obbligatoria, marchiati dal punto di vista sanitario. E questa è solo un’ipotesi di massima.
Usciremo dopo una serie di test di massa che garantiscano il nostro stato di salute. Chiunque voglia riaprire un Paese senza dati sanitari è un folle o un criminale.
Serve immaginazione per capire cosa ci accadrà. Serve una classe dirigente all’altezza nel programmare, capire, gestire, immaginare. A tutti i livelli. Serve un nuovo modello economico e industriale (in Italia ci sono ventitré milioni di occupati, a due mascherine al giorno, fanno duecento milioni di mascherine alla settimana), un nuovo rapporto con la tecnologia, un nuovo ruolo del pubblico, un nuovo senso del bene comune.
Ma serviranno responsabilità, empatia, rispetto, perché quello stadio non si riempia di nuovo.
Ogni generazione ha un punto di svolta, quello in cui è necessario fare il proprio dovere.
Mi auguro che l’epoca dell’Io sappia dimostrarsi all’altezza.