Cristiana De Santis - "L’epidemia" di Giuseppe Pontiggia

 

«Sono sopravvissuto. Vengo considerato fortunato. Il virus ha paralizzato metà della mia faccia e la parte sinistra del tronco. Riesco a spostarmi come uno storpio, saltellando su una gamba sola.

Il virus non può più attaccarmi. È l’unico vaccino che funziona. Gli abitanti del condominio mi guardano con orrore e invidia. È come se appartenessi a un’altra specie. Loro continuano a vivere nell’incubo dell’epidemia.

Nessuno mi ha dato un aiuto quando mi sono ammalato. Non mi hanno visto uscire dal mio appartamento e hanno telefonato immediatamente al centro ricoveri…»

 

Incomincia così il romanzo L’epidemia, nella versione scritta di getto da Giuseppe Pontiggia il 23 aprile 2003. L’idea gli è venuta il giorno prima, come annota in un foglio di agenda conservato nell’Archivio BEIC (Serie 3. Opere, Fascicolo 18, Busta 10). L’incipit è trascritto a mano il 24 aprile in un quaderno. Pochi i ripensamenti rivelati dalle varianti interlineari: camminare/spostarmiincubo/terroreMi hanno totalmente abbandonato/Nessuno mi ha dato un aiutoNon mi hanno visto uscire dal mio appartamento e hanno telefonato immediatamente al centro ricoveri/ Quel giovedì, un mese fa, che non sono uscito dal mio appartamento, hanno telefonato al centro ricoveri.

Nei giorni successivi lo scrittore comunica a familiari e amici che ha avuto «un’idea formidabile: un romanzo incentrato intorno a un’epidemia che porta la morte ed erode tutte le certezze della nostra società» – così Daniela Marcheschi nella Cronologia (p. CXX) che accompagna l’edizione delle Opere di Pontiggia (2004) nella collana “I Meridiani” Mondadori.

Pontiggia, che morirà il 27 giugno dello stesso anno, aveva molti cantieri aperti: le lezioni di scrittura uscite su rivista negli anni Novanta e che avrebbe voluto ripubblicare (ora raccolte nel volume Per scrivere bene imparate a nuotare. Trentasette lezioni di scrittura, a cura di C. De Santis, Mondadori, 2020), il saggio sul linguaggio autoritario cui lavorava da oltre vent'anni (il cui incipit è stato pubblicato nel volume postumo Il residence delle ombre cinesi, a cura di Antonio Franchini, Mondadori, 2004), una raccolta di racconti (alcuni dei quali pubblicati da Franchini nel volume citato). Come scrive Franchini, editor di Pontiggia presso Mondadori, nella Postfazione al volume, «Pontiggia ha sempre lavorato contemporaneamente a più progetti. Non ne abbandonava mai del tutto nessuno, nell’attesa che uno prendesse il sopravvento sugli altri. La sua creatività procedeva o per maturazione di processi evolutivi molto lunghi o a scarti, per illuminazione improvvisa» (ivi, p. 265).  

Da un’illuminazione improvvisa sembra nascere il progetto sull’epidemia. Le notizie sulla SARS, l’aggressiva polmonite che si era diffusa nel sudest asiatico tra la fine del 2002 e l’inizio del 2003, dovuta a un virus mai incontrato prima dalla specie umana (il primo della serie Corona), avevano stimolato la sua immaginazione, spingendolo a immaginare un mondo messo alla prova dalla diffusione improvvisa e capillare di una malattia altamente contagiosa.  

Con grande entusiasmo e straordinaria chiaroveggenza, si era messo al lavoro, chiedendo una consulenza scientifica a Marco Morosini, ecotossicologo e ghostwriter di Beppe Grillo, conosciuto come allievo di uno dei corsi di scrittura tenuti da Pontiggia presso il Teatro Verdi di Milano tra il 1985 e il 1996.

I materiali recuperati da Morosini risalgono a fine maggio/inizio giugno 2003: si tratta di descrizioni dei sintomi di una malattia virale che inizia come un’influenza, con un banale raffreddore, per poi aggravarsi e colpire i centri nervosi causando danni irreversibili all’apparato motorio e disturbi della parola. «Una minoranza di malati guarivano, ma non si capiva perché» – annota Morosini, che lascia «deliberatamente vaghi alcuni aspetti importanti della malattia. La loro definizione più precisa influisce molto sul tenore del racconto.  È meglio che sia tu a decidere – in parte all’inizio e in parte nel corso della scrittura – l’entità almeno approssimata di questi parametri» – continua, rivolgendosi direttamente allo scrittore, con riferimento a dati quantitativi (percentuale dei malati e dei guariti, tasso di mortalità) e qualitativi (sintomi, vie di contagio, terapie). Di alcuni parametri indica il potenziale narrativo: la fase del sospetto e dell’incertezza seguita da quella della diagnosi e della certezza della malattia; «il grado di contagiosità influisce molto sull’atmosfera del racconto e sulle situazioni psicologiche». Suggerisce alcuni nomi (alcuni esotici, tratti dalla lingua malgascia) o acronimi possibili per la malattia descritta (una forma di encefalopatia) e la possibilità di accennare all’iniziale impotenza della comunità scientifica, seguita da inevitabili controversie. Fa riferimento a un medico del Madagascar, che Pontiggia doveva avere in mente come personaggio possibile, per il quale fornisce come modello la figura di Lord Robert May, epidemiologo insignito proprio nel 2003 – in ragione del suo impegno nello studio della diffusione del virus HIV – del Dottorato Honoris Causa dal Politecnico dell’Università di Zurigo (in cui Morosini tuttora insegna): un medico che unisse alla fiducia nei modelli matematici la «percezione del carattere incerto della prevedibilità degli eventi naturali in sistemi complessi» e la consapevolezza dell’impatto che la «accelerazione e intensificazione dei movimenti globali di cose e persone» avrebbero potuto avere su una nuova epidemia. 

 

Non sappiamo come Pontiggia avrebbe continuato il suo romanzo, ma nel faldone che conserva i materiali preparatori sono contenuti due fogli dattiloscritti in cui sono accennate situazioni e figure da sviluppare: brevi illuminazioni condensate in una scrittura dal taglio aforistico. (Alcuni brani sono apparsi il 18 marzo 2020 sulla pagina “Cultura” del quotidiano "La Repubblica”, accompagnati da un trafiletto di Paolo Di Paolo: Gli anziani e la peste. Il presagio del Peppo).   

Un dato, intanto, è importante osservare: il romanzo è scritto in prima persona. Una scelta che Pontiggia aveva inaugurato con il fortunato Nati due volte (2000) – romanzo caleidoscopico incentrato sul rapporto di un padre col figlio disabile – e che aveva perseguito con convinzione nei racconti scritti in seguito, destinati a essere raccolti nel volume intitolato Prima persona. Come racconta Franchini (cit., p. 273), «Prima persona in origine non doveva essere il libro, l’ultimo pubblicato, nato dalla rielaborazione dei pezzi scritti per il supplemento domenicale de “Il Sole 24 Ore”, ma una raccolta di racconti accomunati, appunto, da una narrazione in prima persona». Anche il nuovo romanzo, dunque, si sarebbe conformato al nuovo progetto narrativo: non nella direzione dell’autobiografia, ma alla ricerca di una «immediatezza al tempo stesso distaccata e lancinante», realizzata grazie a una prosa nitida, concentrata, ritmata. 

La lettura degli appunti scritti a macchina conferma la persistenza di toni e modalità narrative tipiche del Pontiggia narratore: la capacità di puntare lo sguardo su singole scene, gesti e parole dei personaggi, in grado di rivelarne l’ambiguità e complessità; l’ironia tesa, amara e a tratti comica, che affonda la sua lama nella psiche dei personaggi e nelle dinamiche relazionali.

Del tutto nuova, tuttavia, appare la tensione distopica, lo sforzo di immaginare un mondo futuro inospitale eppure ancora abitabile dagli uomini e dalle loro contraddizioni. Senza cinismo, ma senza alcuna indulgenza verso i sopravvissuti alla catastrofe, io narrante compreso, chiusi nella difesa esasperata del proprio io. «Mors tua ecc.» – come annota Pontiggia nell’incipit di un altro racconto inedito e interrotto, scritto in prima persona, riportato da Franchini (cit., p. 281), in cui l’io narrante è un impresario di pompe funebri alle prese con un inverno particolarmente operoso e redditizio che, complice l’influenza, ha «decimato i più anziani».   

Non compare l’impresario tra i personaggi possibili dell’Epidemia, ma troviamo ritratti di uomini e donne straordinariamente “veri”, alle prese con interessi conflittuali, con scelte più o meno lucide e radicali: «La madre che muore. Il malato che cura il malato. A che cosa la precedenza. L’angoscia come lotta. Ma in vista di che cosa?»; e, dopo due accapo, «La vita che cambia fulminea secondo le prospettive» – inizia così l’elenco di idee battuto a macchina da Pontiggia. Si tratta di sequenze di frasi brevi, disposte in paragrafi separati da uno spazio bianco.

Più in basso si legge: «I sani. Gli immortali. Pensano di farcela. Fino a quando? Non conta. L’importante è non saperlo». Compaiono altre figure: «Il medico di guardia del Lincoln Hospital di Chicago. Non vuole morire. Fugge, si traveste». E subito dopo: «Il preside del Liceo Hugo di Cannes. Chiude la scuola. Cannes semideserta. La Croisette. Studente che ha l’anno scolastico interrotto. Meglio così. È convinto di sopravvivere. Vivrà in un mondo diverso. Lui è abituato a farcela».

Un mondo “diverso”, appunto: così si annuncia il futuro dopo l’epidemia. E, in margine alla figura di un esperto di cibo che parla in tv, la chiosa è: «Mondo sconosciuto. Si addentra nel capovolgimento del mondo che conosce». Lo sa bene l’analista finanziario: «Le stime che salgono e scendono. Aspettative a breve. Nessuna aspettativa». Cambiano i parametri, le previsioni: accanto alla figura dell’autore di un libro sulla globalizzazione, rifiutato dall’editore, si profila «Il lungo periodo. L’onda lunga».  Commercianti al dettaglio costretti a chiudere bottega e ritirarsi in campagna. Partite giocate a porte chiuse e giocatori che si rifiutano di scendere in campo.

E poi il professore (un personaggio che fa pensare al protagonista di un altro romanzo di Pontiggia, Il giocatore invisibile, 1978) per il quale i libri, all’improvviso, perdono di interesse: «Ordina i libri, li ignora, non sa che cosa leggere. Libri di religione. Legge per credere o non credere. Non lo ha ancora capito».

La prima persona, in questi appunti, compare solo alla fine della seconda pagina: «Ho costruito sempre centrali idroelettriche. Mancata docenza. La più grande diga. Interrotta per abbandono dei lavori». Forse il protagonista sarebbe stato un ingegnere, dunque. In ogni caso, un io tenuto a debita distanza dal vissuto autobiografico.

Colpiscono, pur nella loro rapidità, le notazioni sugli stati d’animo: oltre all’angoscia, compare «l’insofferenza. Una scoperta. Una nuova libertà. Troppo tardi». C’è il vantaggio dell’accudimento che la malattia assicura, almeno da parte del coniuge vaccinato; il conforto degli amici; le visite ammesse (come quella dell’alunna guarita al professore) e quelle imprudenti («la ragazza con il suo ragazzo. La viene a trovare. Si ammala lui. Lei gli sopravvive»). C’è la speranza dei parenti e l’ironia del malato («Guardi che non sono ancora morto»). E c’è – l’abbiamo vista nell’incipit – la solidarietà tra vicini di casa che lascia il posto alla diffidenza, alla indifferenza, all’invidia per chi si è salvato.

Oltre alla sorprendente chiaroveggenza, emerge qui la capacità dello scrittore di avvicinare con uno sguardo acuto e mai cinico tutto, anche (o forse soprattutto) le umane miserie e meschinità.

Come scriveva Pontiggia stesso in un saggio dedicato a uno scrittore irregolare, l’economista Vilfredo Pareto, «Uno scrittore […] interroga le emozioni, moltiplica gli azzardi, dilata gli spazi. Non delimita il campo, lo ingrandisce, lo porta ai confini dell’universo ovvero di se stesso. Spesso chiosa in modo apparentemente antitetico ciò che dice. Fa il canto e insieme il controcanto. Nega con il disegno, afferma con il colore. Mentre esplora un mondo, ne abita altri possibili, paralleli» (ivi, p. 148).    

Negli “appunti” del romanzo, del resto, si coglie quella stessa «precisione chirurgica del taglio aforistico» che Pontiggia riconosceva a Pareto (ivi, p. 162).  E di fronte a una forza letteraria che riesce a emergere anche nella dimensione del frammento e dell’abbozzo, oltre al rimpianto per un’opera che non ha mai visto la luce, si fa strada la consapevolezza «solo uno scrittore può trasformare una circostanza sfortunata», drammaticamente reale o solo immaginata, «in una occasione fortunata per il linguaggio» (ivi, p. 169).

 

30 marzo 2020

 

Cristiana De Santis   

Università di Bologna