Introduzione / Il Cinquecento / L’Ottocento e l’età delle rivoluzioni / Una voce dissonante / Fra ideologia e impegno / Il Novecento / Conclusione
Introduzione
Popolo o plebe? C'è differenza fra questi due termini? Si potrebbe rispondere indifferentemente in modo affermativo o negativo, in relazione al periodo storico, al loro appartenere ad un vocabolario politico-sociale specifico, alla finalità del loro uso.
Il termine 'popolo' ha le sue radici in tempi molto remoti. Di incerta etimologia indoeuropea, è stato ipotizzato che il latino populus derivi dall'etrusco funfluns / pupluna ed è codificato in quel S.P.Q.R., ovvero Senatus PopulusQue Romanorum (oppure Senatus Populusque Quiritium Romanus, come recita il dizionario Castiglioni-Mariotti) che riporta immediatamente alle due forze politico-sociali ed economiche della Roma repubblicana: il Senato, composto dagli esponenti delle famiglie patrizie, ed il Popolo; e componente fondamentale era la Plebe, la cui ricchezza spesso era superiore a quella dei patrizi ed il cui peso nella politica della repubblica non era da meno.
Frequentemente il termine 'popolo' ha avuto in latino un'accezione estensiva ed anche generica, ma nella maggior parte dei casi si distingue populus da plebs, come si legge ad esempio in Gellio:
plebes autem ea dicatur in qua gentes patriciae non sunt,[1]
il quale fa sottolineare a Ateio Capitone, massimo rappresentante della scuola giuridica sabiniana in età augustea:
Ateius Capito, publici privatique iuris peritissimus, quid "lex" esset, hisce verbis definivit: «Lex» inquit «est generale iussum populi aut plebis rogante magistratu.[2]
Nell'età di Antonino Pio, Gaio scrive, ribadendo la stessa distinzione:
plebs autem a populo eo distat, quod populi appellatione universi cives significantur, connumeratis etiam patriciis; plebis autem appellatione sine patriciis ceteri cives significantur,[3]
insieme a Giustiniano:
plebs autem a populo eo differt, quo species a genere: nam appellatione populi universi cives significantur. Connumeratis etiam patriciis et senatoribus; plebis autem appellatione, sine patriciis et senatoribus ceteri cives significantur.[4]
Dunque la plebe era nella Roma antica un ordo, un ceto sociale, mentre il 'popolo'[5], che indicava tutti i cittadini senza nessuna distinzione di classe, corrisponde all'uso che i democratici greci del V sec. a.C. facevano del termine demos. Ed anche Livio[6], che nei suoi Ab urbe condita libri parla spesso di 'popolo', distingue quasi sempre plebs da populus, pur se talvolta usa tali termini come sinonimi ed in accezione generica, come è capitato anche altre volte nel corso del tempo. La distinzione fra plebs e populus può apparire avulsa dal nostro modo di pensare uno Stato, sebbene 'può apparire' solamente, perché la dicotomia ed il dualismo delle classi si è riproposto in età diverse e si ripropone anche oggi, pur se in forme differenti. Ma la sostanza di fondo rimane la stessa.
Il Cinquecento
Di 'popolo' parla il Medioevo, indicando con tale lemma gli appartenenti ad un'Arte o ad un gruppo armato di una stessa zona del Comune, ed a Firenze si designavano come 'popolo grasso' gli appartenenti alle famiglie mercantili più ricche ed influenti, e come 'popolo minuto' coloro che facevano parte dei ceti artigiani, dei lavoratori dei vari ambiti. E più tardi, in epoca cinquecentesca, Machiavelli analizza la funzione del popolo nel cap. IX de Il principe quando affronta il tema del 'principato civile'. La lettura di questo capitolo risulta molto interessante:
… dico, che si ascende a questo Principato [quello civile] o col favore del popolo, o col favore de' grandi. Perché in ogni città si trovano questi dua umori diversi, e nascono da questo, che il popolo desidera non esser comandato né oppresso da' grandi, e i grandi desiderano comandare e opprimere il popolo; e da questi dua appetiti diversi surge nelle città uno de' tre effetti, o principato, o libertà, o licenza.[7]
Come è evidente, Machiavelli echeggia quella che era stata la dicotomia del mondo medievale: da una parte i 'grandi', gli appartenenti alle famiglie e alle consorterie ricche e potenti - una minoranza, anche se una minoranza con un peso decisivo e decisionale nella vita di uno Stato – dall'altra il 'popolo', una massa più indistinta di sudditi, che però ha la prerogativa di non voler essere dominato e schiacciato dai 'grandi' e anche il desiderio di svolgere un ruolo nello Stato:
El Principato è causato o dal populo, o da' grandi, secondochè l'una o l'altra di queste parti ne ha la occasione. Perché vedendo e' grandi non potere resistere al populo, cominciano a voltare la reputazione a uno di loro, e fannolo principe per potere, sotto la sua ombra, sfogare il loro appetito. El populo ancora, vedendo non potere resistere a' grandi, volta la reputazione ad uno, e lo fa principe, per essere con la autorità sua difeso.[8]
Dunque, secondo il segretario fiorentino, l'ottenimento del potere da parte del principe deriva da uno stesso desiderio e da una stessa necessità, sia che si tratti dei 'grandi' sia che si tratti del 'popolo', cioè il voler gli uni contrastare il potere degli altri, per cui la soluzione è far sì che lo Stato risieda nelle mani di un principe, che appare come una loro scelta e una loro creatura, salvo poi accorgersi che il prescelto ha una volontà propria.
Colui che viene al principato con lo aiuto de' grandi, si mantiene con più difficultà, che quello che diventa con lo aiuto del populo; perché si truova principe con di molti intorno che li paiano essere sua equali, e per questo non li può né comandare né maneggiare a suo modo. Ma colui che arriva al principato con il favore popolare, vi si trova solo, e ha intorno o nessuno o pochissimi che non sieno parati a obedire. Oltre a questo, non si può con onestà satisfare a' grandi e senza iniuria d'altri, ma sì bene al populo; perché quello del populo è più onesto fine che quello de' grandi, volendo questi opprimere, e quello non essere oppresso. Praeterea del populo inimico uno principe non si può mai assicurare, per essere troppi; de' grandi si può assicurare, per essere pochi.[9]
Da questo passaggio, argomentato con la consueta lucidità analitica e dimostrativa machiavelliana, che si serve del famoso procedimento dilemmatico[10] per poter mettere a punto gli elementi della sua riflessione e del suo insegnamento, sembrerebbe più favorevole per un principe arrivare al potere con l'aiuto ed il sostegno popolare, proprio perché il popolo non vuole essere oppresso ed è più disposto ad obbedire. Ma andiamo avanti:
El peggio che possa aspettare uno principe dal populo inimico, è lo essere abbandonato da lui; ma da' grandi, inimici, non solo debbe temere di essere abbandonato, ma etiam che loro li venghino contro; perché, sendo in quelli più vedere e più astuzia, avanzono sempre tempo per salvarsi, e cercono gradi con quello che sperano che vinca. È necessitato ancora el principe vivere sempre con quello medesimo populo; ma può ben fare senza quelli medesimi grandi, potendo farne e disfarne ogni dì, e torre e dare, a sua posta, reputazione loro.
E per chiarire meglio questa parte, dico come e' grandi si debbano considerare in dua modi principalmente: o si governano in modo, col procedere loro, che si obligano in tutto alla tua fortuna, o no. Quelli che si obligano, e non sieno rapaci, si debbono onorare ed amare; quelli che non si obligano, si hanno ad esaminare in dua modi. O fanno questo per pusillanimità e defetto naturale di animo; allora tu ti debbi servire di quelli massime che sono di buono consiglio, perché nelle prosperità te ne onori, e non hai nelle avversità da temerne; ma quando non si obligano ad arte e per cagione ambiziosa, è segno come pensano più a sé che a te; e da quelli si deve el principe guardare, e tenerli come se fussino scoperti inimici, perché sempre, nelle avversità, aiuteranno a ruinarlo.[11]
Anche nel caso in cui il principe si serve dell'aiuto del popolo, Machiavelli sottolinea i pericoli e le difficoltà nonché le strategie di comportamento per il principe:
Debbe, pertanto, uno che diventi principe mediante il favore del populo, mantenerselo amico; il che li fia facile, non domandando lui se non di non essere oppresso. Ma uno che contro al populo diventi principe con il favore de' grandi debbe innanzi ogni altra cosa, cercare di guadagnarsi el populo; il che li fia facile, quando pigli la protezione sua. E perché gli uomini, quando hanno bene da chi credevano aver male, si obligano più al beneficatore loro, diventa el populo, subito, più suo benivolo che se si fussi condotto al principato con li favori suoi. E puosselo el principe guadagnare in molti modi; li quali, perché variano secondo el subietto, non se ne può dare certa regola, e però si lasceranno indietro. Concluderò solo che a uno principe è necessario avere el populo amico, altrimenti non ha, nelle avversità, remedio.
Nabide, principe degli Spartani, sostenne la obsidione di tutta Grecia e di uno esercito romano vittoriosissimo, e difese contro a quelli la patria sua e il suo stato; e li bastò solo, sopravvenente il periculo, assicurarsi di pochi: che se egli avessi avuto el populo inimico, questo non li bastava. E non sia alcuno che repugni a questa mia opinione con quello proverbio trito, che chi fonda in sul populo, fonda in sul fango; perché quello è vero quando uno cittadino privato vi fa su fondamento e dassi a intendere che il populo lo liberi, quando e' fussi oppresso da' nimici, o da' magistrati (in questo caso si potrebbe trovare spesso ingannato, come a Roma e' Gracchi e a Firenze a Messer Giorgio Scali); ma sendo uno principe che vi fondi su, che possa comandare, e sia uomo di core né si sbigottisca nelle avversità, e non manchi delle altre preparazioni, e tenga con lo animo e ordini suoi animato lo universale, mai si troverà ingannato da lui; e li parrà aver fatti li suoi fondamenti buoni.[12]
Machiavelli rifiuta l'adagio «chi fonda in sul populo, fonda in sul fango» relativamente al principe, perché questo deve avere «li suoi fundamenti buoni»proprio nel popolo, mentre lo riferisce al caso di un cittadino privato che non può essere sicuro dell'appoggio popolare, e a sostegno della sua posizione si serve, come del resto è sua abitudine, sia di un esempio romano, quello dei Gracchi[13], che avevano sostenuto e proposto la necessità di una riforma agraria che consentisse la redistribuzione al 'popolo' delle terre italiche, delle quali si erano impadroniti i ricchi e le classi alte, e per questo motivo furono uccisi proprio quando ricoprivano la carica di tribuni della plebe ad opera di chi, come gli ottimati, gli equites[14] ed anche i ricchi plebei, non voleva rinunciare ai propri privilegi e alle proprietà fondiarie; sia di un esempio della storia più recente, quello del fiorentino Messer Giorgio Scali, il quale nel 1378, quando il tumulto dei Ciompi provocò un pericolo per Firenze, almeno così la pensava Michele di Lando, allora gonfaloniere di giustizia, fu scelto insieme a Tommaso Grossi per reggere Firenze. L'episodio di Giorgio Scali è ricordato poco tempo dopo anche da Francesco Guicciardini, che così scrive:
Nel 1378 sendo gonfaloniere di giustizia Luigi di messer Piero Guicciardini successe la novità de' Ciompi, di che furno autori gli otto della guerra, e' quali per essere stati raffermati più volte in magistrato, s'avevano recata adosso grande invidia e grande contradizione da' cittadini potenti, e per questo si erano rivolti a' favori della moltitudine; e però procurorono questo tumulto, non perché e' Ciompi avessino a essere signori della città, ma acciò che col mezzo di quegli, sbattuti e' potenti ed inimici sua, loro rimanessino padroni del governo. Il che fu per non riuscire perché e' Ciompi, preso lo stato e creato e' magistrati a loro modo e non a arbitrio degli otto, volevano potere tumultuare ogni dì la città, e non arebbono gli otto potuto ritenergli; se non che Michele di Lando, uno de' Ciompi ed allora gonfaloniere di giustizia, vedendo che questi modi partorivano una inevitabile ruina della città, accordatosi cogli otto e cogli aderenti loro, fu cagione di tôrre lo stato a' Ciompi; e cosí el bene e la salute della città nacque di luogo che nessuno l'arebbe mai stimato. Rimase el governo piú tosto in uomini plebei e nella moltitudine che in nobili, e fecionsene capi messer Giorgio Scali e messer Tommaso Strozzi, e' quali con questo favore popolare governorono tre anni la città, e feciono in quel tempo molte cose brutte, e massime quando senza alcuna colpa, ma solo per levarsi dinanzi gli avversari loro, tagliorono el capo a Piero di Filippo degli Albizzi che soleva essere el piú riputato cittadino di Firenze, a messer Donato Barbadori ed a molti altri innocenti; ed in ultimo, come è usanza, non potendo essere piú soportati, ed abandonati dal popolo, a messer Giorgio fu tagliato el capo; messer Tommaso campò la vita col fuggirsi ed ebbe bando in perpetuo lui e suoi discendenti; e messer Benedetto degli Alberti, che era uno de' primi aderenti loro, fu confinato.[15]
Ne emerge che Firenze dopo il tumulto rimase in mano «più tosto in uomini plebei e nella moltitudine che in nobili», da cui si evince non solamente la divisione in classi esistente in quella repubblica ma anche che il potere di Giorgio Scali e Tommaso Strozzi si basò inizialmente sul favore del 'popolo'. Quando però non ebbero più il consenso popolare per aver usato la violenza in modo indiscriminato e soprattutto per paura di perdere il potere, furono abbandonati da chi li aveva sostenuti ed il loro destino fu segnato.
Torniamo a Machiavelli che a conclusione del cap. XXI de Il principe scrive:
Debbe ancora uno principe mostrarsi amatore delle virtù dando recapito alli uomini virtuosi, e onorare gli eccellenti in una arte. Appresso, debbe animare li sua cittadini di potere quietamente esercitare gli esercizi loro, e nella mercanzia, e nell'agricultura e in ogni altro esercizio degli uomini; e che quello non tema di ornare le sua possessioni per timore che non le gli sieno tolte, e quell'altro di aprire uno traffico per paura delle taglie; ma debbe preparare premi a chi vuol fare queste cose, e a qualunque pensa, in qualunque modo, ampliare la sua città o il suo stato. Debbe, oltre a questo, ne' tempi convenienti dell'anno, tenere, occupati e' populi con le feste e spettaculi. E perchè ogni città è divisa in arte o in tribù, debbe tenere conto di quelle università, raunarsi con loro qualche volta, dare di sé esemplo di umanità e di munificenzia, tenendo sempre ferma nondimanco la maestà della dignità sua, perché questo non vuole mai che mancare in cosa alcuna.[16]
Un consiglio davvero sottile quello di tenere «occupati li popoli con le feste e spettacoli», come a dire che, quando c'è la soddisfazione di una licenza e di un divertimento, anche il dominio politico viene accettato e sopportato meglio. Molti governanti hanno fatto tesoro di questo consiglio lungo l'arco della storia, fin da quando Giovenale polemicamente parlava di panem et circenses[17]mostrando, in modo polemico e denigratorio nei confronti del popolo, che questo desidera avere la pancia piena e divertirsi; al resto pensi chi governa!
L'Ottocento e l'età delle rivoluzioni
Ma è fra la fine del Settecento e l'inizio dell'Ottocento che il termine 'popolo' acquista connotazioni politiche e sociali più moderne, in stretta relazione con gli eventi del tempo, dalla Rivoluzione Francese ai sollevamenti popolari che si ebbero anche nel nostro Paese, alle insurrezioni del 1848, alla diffusione delle opere di pensatori di varie posizioni ideologiche.
Per quanto riguarda l'Italia sembra interessante fermare l'attenzione su di uno scrittore campano, che partecipò al movimento giacobino di fine Settecento a Napoli: Vincenzio Russo (1770-1799).
Il Russo pone l'accento sull'uomo come cittadino che, come tale, ha bisogno dell'eguaglianza – tema caro alla Rivoluzione Francese e ai giacobini – per poter esercitare il suo impegno politico:
L'uomo in società esiste come individuo, e come membro della società. […] Finché un cittadino non ha la possibilità di esercitare qualunque impiego politico, non vi è uguaglianza: non vi è di diritto, dove n'è esclusa una classe.[18]
Dunque per lui 'popolo' è il complesso della compagine sociale cittadina, nessuno escluso. E si serve nei suoi scritti del termine 'popolo', sia quando affronta il tema della proprietà sia quando si interessa dell'istruzione, tema che sarà poi caro ai pensatori romantici di tutta Europa. Infatti scrive, a sostegno della necessità di un'istruzione:
Un popolo che in mezzo allo scompiglio delle facoltà umane si trovi in quella fattizia [=innaturale] ignoranza, non può risorgere alla libertà se non per via di un'istruzione opportuna e ben guidata e di quelle altre istituzioni le quali debbono accompagnare l'istruzione perché si abbia da questa una soda e sufficiente utilità. Colla istruzione verranno riposte nell'ordine le loro facoltà umane ed i loro oggetti: e la libertà ritornerà ad essere la prima e la più rilevante fra quelle. Allora il popolo ridiventerà geloso e difensore tremendo.[19]
Quanta differenza dalle pur acute osservazioni di Machiavelli e Guicciardini, che aprono gli occhi sul rapporto principe/potere/popolo con le loro sottili analisi dei giochi di potere! Ma a distanza di tre secoli le cose sono cambiate e una rivoluzione ha spazzato via, almeno nella Francia rivoluzionaria, un ancien régime per il quale il popolo era una massa indistinta di persone, alle quali spettava come unico compito quello di lavorare per le classi alte e che non avevano una fisionomia propria. Se si pensa anche agli Stati Generali che gestivano la politica francese ed a quali erano le forze che lo componevano, troviamo l'aristocrazia, il clero e il cosiddetto Terzo Stato, cioè quella ricca borghesia – che non era 'popolo'! tanto meno come lo si intende oggi – che aveva acquistato le proprietà fondiarie, che gestiva i commerci e che deteneva il potere economico. Solo in età rivoluzionaria compaiono sulla scena i sanculotti, appartenenti alla media e soprattutto alla piccola borghesia e per i quali forse si potrebbe usare il termine 'popolo' in senso moderno, data la loro origine sociale variegata e il loro impegno democratico.
Perché Vincenzio Russo sottolinea l'importanza dell'istruzione? Per accattivarsi un consenso? Anche. Vista la sua posizione che potremmo definire di 'ideologo' in quella fase storica di passaggio così complessa e così difficile, oltre che cruenta, come è la fine del Settecento. Ma ne sottolinea l'importanza perché, come altri intellettuali a lui contemporanei, ha capito, e ne è fermamente convinto, che solo l'educazione e l'istruzione permettono agli uomini di rendersi conto davvero delle situazioni e di operare scelte attente, senza farsi trasportare dalle emozioni irrazionali di un momento. Solo tramite l'istruzione il 'popolo' diventa davvero popolo come entità politica, consapevole di se stesso, come classe e come singoli individui, con la capacità di discernere, di giudicare e di scegliere. Il compito di cui gli intellettuali romantici si investiranno in questa direzione è un compito difficile ma al tempo stesso fondamentale, nel momento in cui intendono costruire una nuova società e nuove istituzioni politiche. Tuttavia non va dimenticato che nella realtà 'popolo' significa ancora troppo spesso borghesia, anche se media. Le masse basse e proletarie si devono ancora affacciare al palcoscenico della storia.
Un altro napoletano, che appartiene allo stesso momento storico e partecipa agli stessi ideali 'giacobini', ha avuto più fortuna di Russo nell'ambito storico-letterario. È Vincenzo Cuoco, nato anch'egli nel 1770, ma scampato alle uccisioni dei rivoluzionari della repubblica partenopea del 1799, che ha lasciato il famoso Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799[20], scritto e pubblicato in esilio a Milano, quindi in una fase postrivoluzionaria e per così dire "da lontano", in una Milano già sotto il controllo francese.
Immediatamente viene in mente il concetto di "rivoluzione passiva", presente nel Saggio di Cuoco e che già circolava fra i patrioti napoletani[21]. Bene, la "rivoluzione passiva" è proprio focalizzata sul 'popolo' e sulla sua mancanza di istruzione e di educazione. Infatti il punto di osservazione di Cuoco è quello di chi critica l'astrattezza della rivoluzione partenopea e di chi si pone su di un piano di liberalismo moderato, dovuto alla nuova situazione politica. Sappiamo che la definizione di "rivoluzione passiva" va intesa in due accezioni, come chiarisce lo stesso Cuoco: si era rivelata 'passiva' perché importata dalla Francia e dunque non scaturita dalla realtà contingente del napoletano, ed anche perché era stata imposta dall'alto, senza che fosse coinvolta gran parte della popolazione – da intendere 'popolo' – ma basata sulle teorie astratte di un piccolo gruppo di intellettuali, che non avevano tenuto conto degli usi e dei bisogni del 'popolo'.
I bisogni della nazione napolitana eran diversi da quella francese: i raziocini de' rivoluzionari eran divenuti tanto astrusi e tanto furenti, che non li potea più comprendere. Questo per il popolo. Per quella classe poi che era superiore al popolo, io credo, e fermamente credo, che il maggior numero de' medesimi non avrebbe mai approvate le teorie dei rivoluzionari di Francia.[22]
E ancora:
Le idee della rivoluzione di Napoli avrebbero potuto essere popolari, ove si avesse voluto trarle dal fondo istesso della nazione. Tratte da una costituzione straniera, erano lontanissime dalla nostra; fondate sopra massime troppo astratte, erano lontanissime dai sensi; e, quel ch'è più, si aggiungevano ad esse, come leggi, tutti gli usi, tutt'i capricci e talora tutt'i difetti di un altro popolo, lontanissimi dai nostri difetti, da' nostri capricci, dagli usi nostri.[23]
Ecco che Cuoco si serve del termine 'popolo', del termine 'usi' e del termine 'sensi', che sono ricorrenti in vari passi della sua opera accompagnati da interessanti riflessioni.
Intanto cosa intende per 'popolo'? si potrebbe rispondere che intende lo strato contadino-artigiano della piccola borghesia, vista come base da aggregare per la fondazione dell'egemonia medio e alto borghese, e non certo quello che in seguito sarà definito Quarto Stato, se non addirittura Proletariato, quando saranno cambiate un'altra volta le condizioni economiche e sociali. Ed infatti, a ribadire lo scollamento fra chi guidava la rivoluzione napoletana e chi, il 'popolo', la doveva attuare combattendo, ribadisce:
La nostra rivoluzione essendo una rivoluzione passiva, l'unico mezzo di condurla a buon fine era quello di guadagnare l'opinione del popolo.[24]
Il che, in altri termini, vuol dire consenso, cioè quel consenso che tutti gli organismi politici dall'antica Grecia, a Roma, all'età dei Comuni, al principe machiavelliano, avevano ricercato con vari mezzi, a iniziare appunto dal citato panem et circenses di Giovenale[25].
Purtroppo
le vedute de' patrioti e quelle del popolo non erano le stesse: essi avevano diverse idee, diversi costumi e finanche lingue diverse. […] La nazione napolitana si potea considerare come divisa in due popoli, diversi per due secoli di tempo e per due gradi di clima. […] Alcuni erano divenuti francesi, altri inglesi; e coloro che erano rimasti napolitani e che componevano il massimo numero, erano ancora incolti. Così la coltura di pochi non avea giovato alla nazione intera; e questa, a vicenda, quasi disprezzava una coltura che non l'era utile e che non intendeva.[26]
Analisi perspicua e che dovrebbe essere tenuta presente ancora oggi, quando coloro che governano cercano di operare cambiamenti, spesso dimenticando la «realtà effettuale» dei governati.
Dunque Cuoco parla di due 'popoli', usando il termine in una accezione diversa da quella usata precedentemente – del resto il concetto di 'popolo' presenta anche in età moderna molte oscillazioni di significato, dalle connotazione etniche alla designazione di una classe sociale, al ruolo politico che gli viene attribuito - e delineando così due gruppi ben distinti, i pochi che avevano dato il via alla rivoluzione tramite le idee mutuate dalla cultura francese e da quella inglese, illuministica, rivoluzionaria, giacobina, e la massa incolta, indistinta e che parlava un 'linguaggio' molto distante da quello di chi guidava la rivoluzione. Quest'ultima osservazione è molto acuta perché il consenso passa anche attraverso il linguaggio[27] e se le parti non trovano o non si incontrano sul piano di un linguaggio comune, che ha gli stessi presupposti, gli stessi punti di riferimento e le stesse accezioni dei termini, la comunicazione diventa prima difficile e poi impossibile, con l'esito di far naufragare, se non abortire fin da subito, qualsiasi tentativo di cambiamento.
Cuoco fa poi un'affermazione altrettanto acuta, quando sostiene e ammonisce che il popolo si muove per 'bisogno', colpito nei 'sensi' e nella 'fantasia'. Ed i bisogni del popolo napoletano di quel tempo erano diversi da quelli del popolo francese, mentre i 'sensi' e la 'fantasia' rimandano alle idee romantiche[28], che stavano riscoprendo una sfera umana 'emotiva', che appartiene a tutti gli uomini e che li caratterizza, rendendoli disponibili all'immaginazione da una parte e all'azione dall'altra.
Si innesta qui, ancora una volta, la necessità dell'educazione, ribadita pochi anni dopo anche da Foscolo nella prolusione inaugurale all'università di Pavia nel 1809 Dell'origine e dell'ufficio della letteratura, dove, pur non citando esplicitamente il 'popolo' come destinatario del suo discorso, sottolinea la fondamentale importanza di mantenere viva la tradizione letteraria, supporto e stimolo alla riflessione e all'azione.
O Italiani, io vi esorto alle storie, perché niun popolo più di voi può mostrare né più calamità da compiangere, né più errori da evitare, né più virtù che vi facciano rispettare, né più grandi anime degne di essere liberate dalla obblivione da chiunque di noi sa che si deve amare e difendere ed onorare la terra che fu nutrice ai nostri padri ed a noi, e che darà pace e memoria alle nostre ceneri. Io vi esorto alle storie, perché angusta è l'arena degli oratori; e chi omai può contendervi la poetica palma? Ma nelle storie, tutta si spiega la nobiltà dello stile, tutti gli affetti delle virtù, tutto l'incanto della poesia, tutti i precetti della sapienza, tutti i progressi e i benemeriti dell'italiano sapere. Chi di noi non ha figlio, fratello od amico che spenda il sangue e la gioventù nelle guerre? e che speranze, che ricompense gli apparecchiate? e come nell'agonia della morte lo consolerà il pensiero di rivivere almeno nei petti de' suoi cittadini, se vede che la storia in Italia non tramandi i nobili fatti alla fede delle venture generazioni? Forse la sola poesia e la magnificenza del panegirico potranno rimunerar degnamente il principe che vi dà leggi e milizia e compiacenza del nome italiano?[29].
È dunque la storia quella che conserva le virtù di un popolo, che ora, all'inizio dell'Ottocento, cerca di recuperare la propria dignità e la propria identità per dare vita ad un nuovo Stato. Se Cuoco opera un'analisi disincantata di quanto è accaduto nella rivoluzione partenopea, Foscolo su di un piano più squisitamente letterario ma non meno efficace, esorta i suoi conterranei a diventare davvero 'popolo', con uguali usi, costumi, tradizione, bisogni e aspirazioni. Tuttavia anche per lui il nuovo pubblico al quale si devono rivolgere gli intellettuali finisce per identificarsi con il ceto borghese medio-alto.
Una voce dissonante
Poco prima di Foscolo e di Cuoco, anche Vittorio Alfieri parla del 'popolo' nei suoi trattati. In Della tirannide lo nomina molte volte, distinguendolo in genere dai grandi, cioè dalle classi alte, definite appunto per tradizione e anche da lui 'grandi'. In rapporto al tiranno, oggetto pressoché ossessivo di tutto il suo pensiero e la sua produzione, Alfieri delinea un 'popolo' che lo supporta, non rendendosi conto di essere del tutto sottomesso ad esso. Sembra interessante questa considerazione:
Se più sopportabili siano i molti tiranni, o l'un solo, ella è questione problematica assai. La lascerò anche in disparte per ora, perché essendo io nato e cresciuto nella tirannide d'un solo, ed essendo questa la più comune in Europa, di essa più volentieri e con minore imperizia mi avverrà forse di ragionare; e con utile maggiore fors'anco pe' miei cotanto conservi. Osserverò soltanto di passo, che la tirannide di molti, benché per sua natura maggiormente durevole (come ce lo dimostra Venezia) nondimeno a chi la sopporta ella sembra assai men dura e terribile, che quella di un solo. Di ciò ne attribuisco la cagione alla natura stessa dell'uomo, in cui l'odio ch'egli divide contro a i molti, si scema; come altresì il timore che si ha dei molti, non agguaglia mai quello che si ha riunitamente di un solo; ed in fine, i molti possono bensì essere continuamente ingiusti oppressori dell'universale, ma non mai, per loro privato capriccio dei diversi individui. In codesti governi di più, che la corruzione dei tempi, lo avere scambiato ogni nome, e guasta ogni idea, hanno fatto chiamar repubbliche; il popolo in codesti governi, non meno schiavo che nella mono-tirannide, gode nondimeno di una certa apparenza di libertà, ed ardisce profferirne il nome senza delitto: e, pur troppo il popolo, allor quando corrotto è, ignorante, e non libero, egli si appaga della sola apparenza.[30]
Per Alfieri dunque il popolo si accontenta dell'apparenza. E viene subito in mente quanto Machiavelli aveva scritto nel cap. XV de Il principe riguardo ai vari modi in cui è giudicato un principe
Lasciando, adunque, indrieto le cose circa uno principe imaginate, e discorrendo quelle che sono vere, dico che tutti li uomini, quando se ne parla, e massime e' principi, per essere posti più alti, sono notati di alcune di queste qualità che arrecano loro o biasimo o laude. E questo è che alcuno è tenuto liberale, alcuno misero (usando uno termine toscano, perché avaro in nostra lingua è ancora colui che per rapina desidera di avere, misero chiamiamo noi quello che si astiene troppo di usare il suo); alcuno è tenuto donatore, alcuno rapace; alcuno crudele, alcuno pietoso; l'uno fedifrago, l'altro fedele; l'uno effeminato e pusillanime, l'altro feroce et animoso; l'uno umano, l'altro superbo; l'uno lascivo, l'altro casto; l'uno intero, l'altro astuto; l'uno duro, l'altro facile; l'uno grave, l'altro leggieri; l'uno religioso, l'altro incredulo, e simili. E io so che ciascuno confesserà che sarebbe laudabilissima cosa in uno principe trovarsi, di tutte le soprascritte qualità, quelle che sono tenute buone; ma perché le non si possono avere né interamente osservare, per le condizioni umane che non lo consentono, gli è necessario essere tanto prudente che sappia fuggire l'infamia di quelle che li torrebbano lo stato e da quelli che non gnene tolgano, guardarsi, se gli è possibile; ma, non possendo, vi si può con meno respetto lasciare andare. Et etiam non si curi di incorrere nella infamia di quelli vizii sanza quali e' possa difficilmente salvare lo stato; perché, se si considerrà bene tutto, si troverrà qualche cosa che parrà virtù e, seguendola, sarebbe la ruina sua; e qualcuna altra che parrà vizio, e, seguendola, ne riesce la securtà et il bene essere suo.[31]
E nel cap. XVIII afferma che
Sendo, dunque, uno principe necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe e il lione; perché il lione non si defende da' lacci, la golpe non si difende da' lupi. Bisogna, adunque, essere golpe a conoscere e' lacci, e lione a sbigottire e' lupi. Coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendano. Non può, pertanto, uno signore prudente, né debbe, osservare la fede, quando tale osservianza li torni contro e che sono spente le cagioni che la feciono promettere. E se gli uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono; ma perché sono tristi, e non la osservarebbono a te, tu etiam non l'hai ad osservare a loro. Né mai a uno principe mancorono cagioni legittime di colorare la inosservanzia. Di questo se ne potrebbe dare infiniti esempli moderni e mostrare quante paci, quante promesse sono state fatte irrite e vane per la infidelità de' principi: e quello che ha saputo meglio usare la golpe, è meglio capitato. Ma è necessario questa natura saperla bene colorire, et essere gran simulatore e dissimulatore: e sono tanto semplici li uomini, e tanto obediscano alle necessità presenti, che colui che inganna, troverrà sempre chi si lascerà ingannare. […]
A uno principe, adunque, non è necessario avere in fatto tutte le soprascritte qualità, ma è bene necessario parere di averle. Anzi ardirò di dire questo, che, avendole et osservandole sempre, sono dannose; e parendo di averle, sono utili: come parere pietoso, fedele, umano, intero, religioso, ed essere; ma stare in modo edificato con l'animo, che, bisognando non essere, tu possa e sappi mutare el contrario. […]
E li uomini, in universali, iudicano più agli occhi che alle mani; perché tocca a vedere a ognuno, a sentire a pochi. Ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu se'; e quelli pochi non ardiscano opporsi alla opinione di molti che abbino la maestà dello stato che li difenda: e nelle azioni di tutti li uomini, e massime de' principi, dove non è iudizio a chi reclamare, si guarda al fine. Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e' mezzi saranno sempre iudicati onorevoli, e da ciascuno laudati; perché el vulgo ne va preso con quello che pare, e con lo evento della cosa; e nel mondo non è se non vulgo; e li pochi ci hanno luogo quando li assai hanno dove appoggiarsi[32].
Chi detiene il potere dunque, tirannide, principato o repubblica che sia, deve sempre ricordarsi che il 'popolo', definito da Machiavelli 'vulgo' in questo capitolo, giudica da ciò che appare, senza preoccuparsi di analizzare a fondo la realtà delle cose. Del resto, anche nella nostra società è l'immagine quella che conta, è l'immagine che si fa veicolo di un messaggio tendente ad ottenere un effetto desiderato, è l'immagine che attrae e talvolta impedisce addirittura di pensare.
Chiediamoci a questo punto cosa significa allora per Alfieri la parola 'popolo'. È lui stesso a rispondere, proprio dalle pagine del trattato Della tirannide:
E una volta per tutte mi spiego, che io nel dir popolo, non intendo mai altro che quella massa di cittadini e contadini più o meno agiati, che posseggono proprj lor fondi o arte, e che hanno moglie e figli e parenti: non mai quella più numerosa forse, ma tanto meno apprezzabile classe di nulla-tenenti della infima plebe. Costoro, essendo avvezzi di vivere a giornata; e ogni qualunque governo essendo loro indifferente, poiché non hanno che perdere; ed essendo, massimamente nelle città, corrottissimi e scostumati; ogni qualunque governo perfino la schietta Democrazia, non dee né può usar loro altro rispetto, che di non li lasciar mai mancare né di pane, né di giustizia, né di paura. Che ogniqualvolta l'una di queste tre cose lor manchi, ogni buon ordine di società può essere in un istante da costoro sovvertito, e anche pienamente distrutto.[33]
Fra ideologia e impegno
Appare evidente la distanza esistente fra il concetto di 'popolo' espresso da Alfieri, ma anche da Cuoco, da Russo e dagli scrittori illuministici e romantici, e quello che invece si troverà alla fine dell'Ottocento e ancora di più nel Novecento, quando le masse entreranno nella storia e le classi subalterne, contadini, proletari e operai, quella che Alfieri chiama 'sesquiplebe',[34] saranno a loro volta chiamate con il nome di 'popolo' e diventeranno oggetto di indagine, di letteratura ed persino di mitizzazione da parte di scrittori come Gramsci, Vittorini, Carlo Levi e tanti altri scrittori del Novecento, come ha mostrato Alberto Asor Rosa nel suo saggio Scrittori e popolo.[35]
Da parte sua Antonio Gramsci (1891-1937), seguendo nella prima metà del Novecento l'insegnamento di Marx[36] e tenendo conto di quanto era andato cambiando nella compagine socio-economica e politica del nuovo secolo, ha legato il concetto di 'popolo' proprio alla sua funzione politica e alla sua composizione sociale, pur mantenendo tuttavia un elemento che aveva caratterizzato i pensatori e gli scrittori di un secolo prima, cioè la necessità della presenza di intellettuali - per lui sono gli "intellettuali organici" -, portatori delle istanze popolari ed elaboratori di un pensiero teorico, o se si preferisce di una ideologia, che il popolo poi trasferisce nella prassi politico-sociale e culturale. Nei Quaderni dal carcere[37]Gramsci affronta aspetti nodali della cultura italiana, sostenendo che non è e non è mai stata nazional-popolare, in quanto oggetto della letteratura, nonché destinataria di essa; è invece sempre stata propria della classe egemone, sia essa aristocrazia sia essa borghesia che dall'Ottocento in poi ha allargato la sua alfabetizzazione, ma non certo delle classi subalterne, analfabete e incolte.
I laici hanno fallito al loro compito storico di educatori ed elaboratori della intellettualità e della coscienza del popolo-nazione, non hanno saputo dare una soddisfazione alle esigenze intellettuali del popolo: proprio per non aver rappresentato una cultura laica, per non aver saputo elaborare un moderno "umanesimo" capace di diffondersi fino agli strati più rozzi e incolti, come era necessario dal punto di vista nazionale, per essersi tenuti legati a un mondo antiquato, meschino astratto, troppo individualistico o di casta.[38]
Cultura e politica si intrecciano nel suo pensiero in funzione di una 'rivoluzione' politica.
Analizzando infatti i momenti fondamentali nella storia della formazione degli intellettuali italiani, nel Quattrocento, nel Cinquecento, nell'Ottocento e nell'età a lui contemporanea, Gramsci sottolinea come costoro hanno fallito nel compito storico di farsi reali portatori dei bisogni delle classi basse, non interpretando fino in fondo nemmeno gli interessi delle classi egemoni. Ancora una volta torna alla ribalta il problema dell'educazione e dell'istruzione, pur se in altra prospettiva rispetto a quella dei romantici. Se i moderati del primo Ottocento affermavano la necessità di sottrarre la scuola all'influenza dei Gesuiti e dunque della Chiesa nell'educazione – ma va ricordato che solo con lo Stato unitario e con la Legge Coppino sarà resa obbligatoria l'istruzione elementare! -, non ipotizzavano d'altro canto la necessità di una laicizzazione reale dell'educazione e dell'insegnamento, che dovrebbe fornire al 'popolo' il vero strumento di emancipazione, quello di saper 'leggere' la realtà per decidere le azioni ed i cambiamenti necessari.
Gramsci sottolinea un problema particolare in questo processo di acquisizione di una autonomia di pensiero e di un'autonomia decisionale da parte del 'popolo', in quanto sostiene che l'elemento fondamentale che agisce nella formazione di una identità popolare è la lingua, in parte echeggiando quanto già aveva affermato Vincenzo Cuoco. Se infatti nel Cinquecento e poi all'inizio dell'Ottocento la questione della lingua era stata dibattuta fra gli intellettuali per cercare un livello comune di comunicazione fra di loro e questo era stato individuato sul piano di una lingua letteraria basata sulla tradizione, da tali discussioni è rimasto escluso il 'popolo', se non altro nella sua accezione di borghesia, perché fino a Manzoni questo non era stato contemplato come ricettore e, tanto meno, come elaboratore di idee e quindi bisognoso di uno strumento di comunicazione. È vero, Manzoni inserendosi nel dibattito sulla lingua[39] parla della necessità di usare in letteratura un 'fiorentino parlato', assumendo per così dire la teoria humboldtiana[40] della lingua come organismo vivente e come tale in continua trasformazione e adattamento alla realtà che varia. Ma don Lisander precisa: 'il fiorentino parlato dalle persone colte', restringendo con ciò l'àmbito dei suoi potenziali lettori, i suoi «venticinque lettori», alla borghesia alfabetizzata, a quella borghesia che costituiva solo una parte della popolazione dell'Italia letterata e che al contempo escludeva la fetta più numerosa di persone, il cosiddetto 'popolo' appunto, ancora analfabeta e illetterato. Certo, la sua soluzione sia nella scelta del genere del romanzo sia nell'adozione di una lingua non del tutto paludata e ligia alla tradizione letteraria ha rappresentato un enorme passo avanti rispetto alla ristretta ed elitaria repubblica delle lettere che fino ad allora aveva fruito della letteratura e dell'elaborazione delle idee, ma pur sempre non contempla il 'popolo', quello che andava appena delineandosi all'altezza del suo tempo e che acquisterà una propria dimensione alla fine del secolo e all'inizio di quello successivo.
È con I promessi sposi che ci troviamo di fronte il 'popolo', dal momento che Manzoni fa di Renzo e Lucia i protagonisti del suo romanzo. Non si tratta di personaggi noti o appartenenti alle classi alte, come succedeva nei romanzi del tempo, ma si tratta di 'umili' - termine che tanta fortuna ha avuto nella critica manzoniana -, i quali non sono borghesi né tanto meno nobili, ma appartengono a quella classe bassa, contadina e operaia, che si affida alla Chiesa come guida nella fede e nella vita. La loro aspirazione ad un ideale di giustizia e di solidarietà è basata però su un sentimento di fratellanza evangelica, privo peraltro di una consapevolezza sociale.
Renzo e Lucia dipendono dal loro lavoro per vivere ma sono subalterni, perché non posseggono gli strumenti del loro lavoro; sono sottoposti ad un padrone e al contempo sono sottoposti ai soprusi del più forte, di qualsiasi tipo siano tali soprusi, per di più in un momento storico di carestia, di guerra e di pestilenza, e la loro unica ancora di salvezza è la fede e la Chiesa. Dunque gli umili non sono sic et simpliciter sinonimi di 'popolo', anzi Manzoni, mentre guarda a Renzo e Lucia con paternalistica benevolenza, ha sfiducia nel 'popolo' visto come massa e folla indistinta che agisce in modo irrazionale e senza guida, come è accaduto nella violenta esperienza della Rivoluzione francese, metaforizzata nel romanzo tramite la descrizione dei tumulti di San Martino a Milano.
Nel romanzo Manzoni ora parla di 'popolo', ad esempio quando si tratta di coloro che assistono all'incontro del Cardinal Federico con l'Innominato e don Abbondio, ora parla di 'folla', quando intende fornire l'immagine di una massa più indistinta, ora addirittura usa in modo dispregiativo il termine 'marmaglia', per definire l'irrazionale bestialità di chi durante i tumulti di San Martino[41] agisce devastando e rubando. Certo è che Manzoni preferisce «la via stretta del Vangelo» alla «strada larga della folla», demandando alla Chiesa, e non ad una istituzione civile, la funzione di guida della società, ma pur sempre di una società nella quale anche le classi basse ora cominciano appena ad avere un loro ruolo ed una loro identità sociale[42]. È Renzo che incarna una «ipotesi sociale» con la sua andata a Bergamo e con la sua piccola attività imprenditoriale insieme al cugino Bortolo e rappresenta in nuce la piccola borghesia artigiana che, affrancatasi col tempo dalla subalternità e divenuta padrona dei mezzi di produzione, diventa attiva protagonista di quel 'popolo', che nell'Ottocento comincia a rappresentare il nerbo di una nuova società.
C'è poi chi, come Giuseppe Mazzini (1805-1872), usa la parola 'popolo' come portabandiera del suo pensiero che mirava a cambiare lo stato di cose in Italia. "Dio e popolo" è uno dei binomi, insieme a "Pensiero e Azione" ed a "Giustizia e Libertà", che riassumono le basi di un programma che avrebbe dovuto portare ad un sollevamento di massa – ed anche in questo caso è opportuno dare un'accezione restrittiva al termine - e alla costituzione di un'Italia unita. Mazzini è influenzato dal principio romantico di identificazione del 'popolo' con la 'nazione', da quello spirito popolare dal quale doveva scaturire una rinascita; e proprio i popoli oppressi, come l'Italia, la Germania e la Polonia, avrebbero costruito, secondo il suo pensiero, una fratellanza fra i popoli, ormai purificati dall'individualismo e dall'egoismo e con una missione voluta dalla provvidenza divina. Da qui il binomio "Dio e popolo".
Poca, a guardar bene, è la distanza da Manzoni, che nello stesso periodo scriveva e limava il suo romanzo, dove è la Provvidenza divina a muovere le fila degli eventi e della storia, sia quella di tutti i giorni e degli «uomini di piccol affare», sia la grande Storia, che coinvolge le sorti di interi popoli e nazioni. E anche per Mazzini come per tanti altri intellettuali del suo tempo fra i due poli dell'azione sta l'intellettuale, che educa e istruisce, e in campo politico sta la democrazia guidata.
Il 1848 con le insurrezioni europee è il vero momento di svolta, quello in cui i 'popoli' cominciano davvero a prendere coscienza delle loro condizioni e delle loro aspirazioni ad un miglioramento. Ed è dal 1848 che si può cominciare ad allargare il valore connotativo del termine e affiancare progressivamente al termine 'popolo' quello di 'classe operaia' e di 'proletariato', il che porterà ad una nuova accezione terminologica, per cui 'popolo' diventerà sinonimo di 'quarto stato' e di proletariato e andrà di pari passo con le trasformazioni sociali ed economiche della seconda metà del secolo e dell'inizio del secolo successivo.
Curiosa, però, appare un'affermazione di Ippolito Nievo, che pure attraverso il protagonista delle sue Confessioni di un italiano accompagna i cambiamenti e i rivolgimenti della prima metà del XIX secolo. Infatti nel Frammento sulla rivoluzione nazionale scrive, operando una distinzione per così dire inaspettata, almeno sul piano terminologico:
Sì, il popolo illetterato delle campagne abborre da noi, popolo addottrinato delle città italiane, perché la nostra storia di guerre fratricide, di servitù continua e di gare municipali gli vietò quell'assetto economico che risponde presso molte altre nazioni ai suoi più stretti bisogni. Esso diffida di noi perché ci vede solo vestiti coll'autorità del padrone, armati di diritti eccedenti, irragionevoli, spesso arbitrari e dannosi a noi stessi.[43]
Nievo denuncia con rammarico la distanza fra classi alte egemoni e classi basse subalterne, le quali ultime non si fidano di chi vorrebbe fare loro da guida, mettendo in crisi uno degli assunti riguardo all'educazione popolare e ancora di più alla democrazia guidata di stampo mazziniano, sebbene il nostro autore fosse un seguace di Mazzini.
Dovranno passare decenni e decenni, rivoluzioni, guerre, sovvertimenti sociali perché queste due parti del 'popolo' comincino a fondersi e diventino un unico corpo. E forse ancora non si sono saldate del tutto. La divisione segnalata da Nievo continua ad esistere per tutto l'Ottocento e oltre, pur se resa diversa e forse più complicata dallo sviluppo industriale, che crea ulteriori disparità fra città e campagna ed acuisce quelle già esistenti fra nord e sud del paese. Era stato Filippo Buonarroti (1761-1837) a servirsi in modo anfibologico del termine 'popolo', ora usato in linea con la rivoluzione come lotta di classe e comprendente quindi la classe dei lavoratori, gli operai e i salariati, ora per indicare una comunità di cittadini.
Rendere il popolo realmente sovrano, è lo stesso che assicurare la libertà ad ogni cittadino; è lo stesso che fondare nella città il regno dell'uguaglianza fin dove possa aversene.[44]
Come si vede, nel suo pensiero come in quello dei giacobini, popolo, libertà e uguaglianza vanno di pari passo e appaiono inscindibili. Ma l'Ottocento italiano accettò una accezione di 'popolo' quasi come sinonimo di nazionalità, di matrice romantica, e gli attribuiva un valore per così dire mitico e di tipo morale ed estetico. È Giovanni Berchet che nella Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliolo[45] attribuisce al 'popolo' questo valore:
Basti a te per ora sapere che tutte le presenti nazioni d'Europa (l'italiana anch'essa né più né meno) sono formate da tre classi d'individui: l'una di Ottentotti, l'una di Parigini; e l'una, per ultimo, che comprende tutti gli altri individui leggenti e ascoltanti, non eccettuati quelli che, avendo anche studiato ed esperimentato quant'altri, pur tuttavia ritengono attitudine alle emozioni. A questi tutti io do il nome di popolo.[46]
È evidente che per Berchet 'popolo' è sinonimo di borghesia, in particolare la media e alta borghesia che all'inizio del secolo cominciava a rappresentare la classe di riferimento degli intellettuali, quella che avrebbe dovuto portare avanti un processo di trasformazione e modernizzazione, nonché di autonomia, della Lombardia prima e dell'Italia poi.
In generale, comunque, ha poco o niente a che vedere con il significato che gli viene attribuito da Marx e dai suoi seguaci, e cioè quello socio-politico-economico di "classe" con la visione di gruppi sociali differenziati per interessi, per condizioni economiche, per posizioni politiche diverse. Al contrario il termine 'popolo' rimanda ad un corpus organico di cittadini, nel quale le differenze sociali e di classe non sono significative in quanto tutti tendono ad un fine comune. Addirittura, in questa direzione, il popolo è visto come portatore di valori positivi che servono da modello per tutta la società. È questa l'accezione che ha generato il termine 'populismo', visto sia positivamente sia, al contrario e più spesso, negativamente, in quanto mistificatore di una realtà che non esiste. A questo proposito è fondamentale il saggio Scrittori e popolo di Alberto Asor Rosa, che polemicamente delinea un quadro di queste posizioni in alcuni scrittori del Novecento.
La storia dell'unificazione italiana comporta al tempo stesso un cambiamento nell'uso del termine 'popolo', considerato che le tensioni e le differenze fra la parte settentrionale e quella meridionale del paese si evidenziano pressoché incolmabili con gli anni; per cui 'popolo' ora indica le classi subalterne, quelle ad esempio che sono le protagoniste delle novelle verghiane e dei suoi romanzi. La visione di un 'popolo' come portatore di valori mitici in scrittori del Novecento, come Vittorini, Pavese ed altri, è basata invece, secondo Asor Rosa, su un'idea astratta e non sulla reale frequentazione delle classi popolari da parte di questi scrittori.
Il Novecento
Interessante e ineludibile diventa allora la lettura e lo studio di scrittori come appunto Vittorini, Pavese o il primo Calvino e Renata Viganò o Pratolini e Carlo Levi o Pasolini per toccare con mano e capire se e come questi scrittori, così tacciati di populismo negativo da Asor Rosa, abbiamo interpretato il termine 'popolo', come l'abbiano descritto nei loro romanzi, e come viene declinato il 'popolo' nell'arco del Novecento.
È dunque con il nuovo secolo che cambia ancora una volta il significato attributo al 'popolo', considerato ora nell'orizzonte delle classi sociali che con il diffondersi dell'industrializzazione avevano acquistato un nuovo volto in accezione classista. Anche la letteratura si conforma ai cambiamenti ed il 'popolo' che viene descritto si allontana dai diseredati oggetto della produzione verghiana e si avvicina a quello più 'socio-politico' dei romanzi di Pratolini, Cassola, Vittorini, Pavese e Pasolini, ed in ognuno di questi scrittori le sfaccettature del termine 'popolo' e della rappresentazione di questa classe sociale sono molteplici e differenziate. Se in Metello (1955) Pratolini (1913-1991) delinea attraverso il protagonista una classe subalterna di contadini, di muratori inurbati, che si affranca da una condizione di arretratezza e di miseria e conquista piano piano coscienza sociale di se stessa grazie all'adesione alle idee socialiste fino al punto di ribellarsi ai 'padroni' con i primi scioperi, pur se non narrata con un'aura mitica, nei romanzi romani di Pasolini (1922-1975), Ragazzi di vita (1955) o Una vita violenta (1959), il 'popolo' è diventato il sottoproletariato urbano delle borgate romane, che sembra non avere possibilità di riscattarsi né tanto meno di sottrarsi alla sottocultura e alla mancanza di prospettive. Pasolini si è sempre posto la domanda di cosa sia il 'popolo', di chi è il 'popolo' ed a tale domanda rispose che era la massa dei poveri, dei diseredati, alla quale attribuiva una potente forza di riscossa. Ma dagli anni Sessanta demistifica agli occhi dei suoi lettori e dei suoi detrattori l'immagine ideale del 'popolo' puro e depositario di una vitalità sana, perché mostra come questo si sia o sia stato 'imborghesito' con il miraggio del possesso degli elettrodomestici, delle automobili; e non è ancora troppo diffusa la televisione!
Altre mode / altri idoli, / la massa, non il popolo, ma massa / decisa a farsi corrompere / al mondo ora si affaccia, / e lo trasforma, a ogni schermo / a ogni video / si abbevera, orda pura che irrompe / con pura avidità, informe / desiderio di partecipare alla festa. / E s'assesta là dove il Nuovo Capitale vuole.[47]
Non c'è più speranza che il 'popolo', ormai diventato massa informe e assoggettato ai dettami del consumismo e del conformismo, attui la Rivoluzione, perché ora il potere appartiene del tutto al denaro e all'omologazione, che annulla l'identità di tutti e di ciascuno. Queste le accuse e le disincantate affermazioni degli Scritti corsari[48] che Pasolini basa su quella "mutazione antropologica" oramai irreversibile.
Per concludere, non va però dimenticato che i nostri padri costituenti, che nel dopoguerra elaborarono la nostra Costituzione, vollero inserire il termine 'popolo' proprio all'inizio della Carta Costituzionale, a ribadire quanto la collettività dei cittadini sia la base ineliminabile dello Stato e quanto debba essere coesa nell'esercitare tale diritto. Solo così è possibile garantire la democrazia, in quanto è il popolo il titolare della "sovranità"; così recita l'art. 1 della nostra Costituzione:
L'Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti previsti dalla Costituzione.
L'Italia usciva dal ventennio della dittatura fascista, durante il quale l'identità popolare era stata assorbita nelle mani di Mussolini ed annullata nella prassi politica: il popolo veniva chiamato alle adunate al fine di sottolineare quanto esteso fosse il consenso al regime, che gestiva tutti gli ambiti di governo, senza lasciare spazio alla voce, soprattutto quella dissonante, della popolazione italiana. Con il referendum istituzionale del 2 giugno 1946 inoltre le urne avevano decretato la fine della monarchia a favore di una compagine repubblicana, nella quale la sovranità appartiene appunto al popolo, e non allo Stato o alla Nazione. Quel 'popolo' comprende ora classi egemoni e classi subalterne, che nei secoli erano state distanti e non avevano collaborato al 'governo della cosa pubblica', e comprende sullo stesso piano uomini e donne, le quali a partire proprio dal 1946 hanno ottenuto il diritto di voto e possono esercitare l'elettorato attivo e passivo.
Conclusione
Quanto scritto vuol rappresentare un filo rosso, contenente spunti e riflessioni, che possono essere approfonditi, in relazione alla classe, al tipo di scuola e all'interesse dimostrato dagli studenti per l'argomento, in varie direzioni: una più squisitamente storica, che faccia capire lo stretto legame fra gli avvenimenti storici che hanno coinvolto il nostro paese e gli altri Stati europei, soprattutto fra Ottocento e Novecento, e l'elaborazione delle idee che hanno in parte provocato quegli avvenimenti e in parte ne sono state la conseguenza; cause e conseguenze non certo univoche, bensì variegate e tutte da sviluppare con l'attiva collaborazione degli studenti, delle loro conoscenze e delle loro competenze.
Un'altra direzione, che chiamerei di tipo ideologico-politico, che si proietta su tutto il Novecento con il supporto di letture, anche di tipo filosofico, che mostrino le differenti posizioni dottrinali e pragmatiche, aventi al centro della loro riflessione il 'popolo', nelle varie accezioni che a questo si attribuiscono negli anni.
Un'altra ancora di matrice più prettamente letteraria che preveda la lettura e l'analisi ad esempio di romanzi italiani e stranieri a cavallo fra i secoli XIX e XX, dai quali gli studenti possano ricavare i modi, usati dagli scrittori, di rappresentare il 'popolo', modi non certo scevri di adesione a posizioni socio-politiche e ideologiche e che permettano di delineare una specie di mappatura delle idee e delle trasformazioni avvenute nell'arco dei due secoli.
Quanto poi ai riferimenti al Romanticismo o a Manzoni non va dimenticato che l'attività scolastica viene programmata ed articolata in percorsi plurimi e non necessariamente attuati in modo diacronico; questo il motivo per cui si rimanda ad altre attività. Inoltre la presente ipotesi didattica non vuol essere una summa esaustiva di una fase della letteratura, ma appunto uno stimolo ed un suggerimento per il lavoro in classe.
Saranno gli studenti che si confronteranno, attraverso lavori comuni e individuali, in modo operativo con le linee di approfondimento suggerite da quanto sopra, per far sì che lo studio non resti su di un piano fine a se stesso ma interagisca anche con il loro tempo, le loro scelte e con le loro convinzioni, oltre a fornire l'esempio di un metodo di lavoro che vada nella direzione della personalizzazione. Per questo è importante che l'oggi sia sempre messo in relazione e a confronto con l'ieri e viceversa, in modo da suscitare interesse e domande, alle quali gli studenti stessi cercheranno di dare delle risposte, per quanto esse possano essere provvisorie e parziali ma pur sempre scaturite dal loro lavoro e dal loro impegno.
Simonetta Teucci
ADIsd Siena
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Pubblicato il 07/12/2016 inShare Note:
[1] «Si chiami plebe quella in cui non ci sono famiglie patrizie».
[2] Gellius, Noctes Atticae, 10, 20, 2 «Ateio Capitone, espertissimo di diritto pubblico e privato, definì con queste parole che cosa fosse la "legge": "La legge" disse "è la volontà generale del popolo o della plebe emessa su richiesta del magistrato».
[3] Gaio, Institutiones, I, 3: «la plebe differisce dal popolo in questo, cioè che tutti i cittadini sono indicati con il nome di popolo, considerati anche i patrizi; invece tutti i cittadini sono indicati con il nome di plebe senza i patrizi».
[4] Giustiniano, Corpus iuris civilis, I, 2, 4 «la plebe differisce dal popolo così, come la specie dal genere: infatti con il nome di popolo sono indicati tutti i cittadini. Contando anche i patrizi e i senatori; invece con il nome di plebe, sono indicati tutti gli altri cittadini senza i patrizi e il senato».
[5] Scrive Cicerone: «populus … non omnis hominum coetus quoque modo congregatus, sed coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis communione sociatus» [«il popolo non è qualsivoglia agglomerato di uomini riunito in qualche modo, ma una riunione di gente associata per accordo nell'osservare la giustizia e per comunanza d'interessi»] (Cicerone, De re publica, I, 25, 39).
[6] Non si affrontano qui esemplificazioni degli usi distinti di cui Livio si serve per i due termini, in quanto intendiamo convogliare il focus di questo discorso in altra direzione.
[7] N. Machiavelli, Il principe, a cura di U. Dotti, Milano, Feltrinelli, 1979¹, p. 66.
[8] Ivi, p. 67.
[9] Ibidem.
[10] Con il procedimento dilemmatico Machiavelli presenta l'alternativa fra due elementi o ipotesi esponendoli in coppie antitetiche, poi una delle ipotesi viene eliminata per procedere per altre coppie antitetiche per ogni alternativa al fine di strutturare una argomentazione dimostrativa.
[11] Ivi, pp. 67-68.
[12] Ivi, pp. 68-69.
[13] Tiberio Sempronio Gracco (163-133 a.C.) fu tribuno della plebe nel 133 a.C.; il fratello Caio Sempronio Gracco (154-121 a.C.) ripropose la lex agraria del fratello, quando anch'egli fu nominato tribuno della plebe. La proposta riconosceva ai proprietari illegittimi 500 iugeri di terra inalienabili e 250 iugeri per ogni figlio fino ad un massimo di 1.000 iugeri; il resto doveva essere redistribuito, anche se da questa operazione era escluso il proletariato italico.
[14] Nella Roma repubblicana gli equites (cavalieri) erano un ordo, cioè una classe di censo di cittadini, che avevano una ricchezza personale e familiare ed esercitavano la funzione di riscossione delle imposte. Ebbero un peso determinante nella repressione della congiura di Catilina del 63 a.C.
[15] F. Guicciardini, Storie fiorentine, Milano-Napoli, Ricciardi, 1961, p. 157.
[16] N. Machiavelli, Il principe, cit, p. 123.
[17] Giovenale, Satire X, 81 «[populus] duas tantum res anxius optat / panem et circenses» [il popolo desidera ardentemente due cose, il pane e i giochi del circo].
[18] V. Russo, Pensieri politici, in Giacobini italiani, I, a cura di D. Cantimori, Bari, Laterza, 1956, p. 288.
[19] Ibidem, p. 324-25.
[20] V. Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, introduzione di A. Bravo, Torino, Utet, 1975 e il saggio di P. Villani premesso alla ristampa del testo di Cuoco, Bari, Laterza, 1980.
[21] Cfr. M.A. Visceglie, Genesi e fortuna di una interpretazione storiografica: la rivoluzione napoletana del 1799 come «rivoluzione passiva» in «Annali della facoltà di magistero dell'Università degli studi di Lecce», I, 1972.
[22] V. Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, VII, a cura di F. Nicolini, ristampa a cura di P. Villani, Bari, Laterza, 1980, p. 41.
[23] Ivi, XV, p. 83.
[24] Ivi, XVI, p. 90
[25] Vedi supra, nota 17.
[26] Ivi, XVI, p. 90.
[27] Cfr. infr,a nota 38.
[28] Nello stendere questo percorso didattico si è ipotizzato che gli studenti conoscano già i caratteri della nascita e dello sviluppo della corrente romantica, ai quali il docente farà ricorso laddove si parla di Romanticismo.
[29] U. Foscolo, Dell'origine e dell'ufficio della letteratura, Edizione nazionale, 5 voll.
[30] V. Alfieri, Della tirannide, Del principe e delle lettere; La virtù sconosciuta, introduzione e nota bibliografica di Marco Cerruti, Milano, BUR, 1996.
[31] N. Machiavelli, Il principe, cit., pp. 90-91.
[32] N. Machiavelli, Il principe, cit., pp. 99-101.
[33] V. Alfieri, Della tirannide, cit., p. 41.
[34] È questo il titolo della Satira IV dell'Alfieri.
[35] A. Asor Rosa, Scrittori e popolo, Roma, Samonà e Savelli, 1965. Da notare che dopo questo saggio Asor Rosa ne ha scritto un altro dal titolo Scrittori e massa, Torino, Einaudi, 2015, sostituendo 'popolo' con 'massa' per il variare della situazione storica.
[36] L'articolo di G. Mario Anselmi, Marx, Gramsci, i populismi e un'idea nuova di popolo tra letteratura e società civile, pubblicato nella sezione TEMA n. 16 di Griseldaonline e che apre gli interventi riguardanti appunto il tema "popolo", è illuminante al riguardo, sia laddove afferma che Marx ed Engels avevano messo a punto «categorie molto precise nel cogliere le profonde differenze di classe derivate dall'organizzazione del lavoro e dalla distribuzione delle ricchezze», sia laddove ricorda che per Gramsci «il popolo comprende […] una vasta gamma di "subalterni", ovvero di ceti sfruttati secondo complesse e arcaiche modalità […]: le donne, ad esempio, i contadini, le popolazioni di interi continenti oppresse e colonizzate, i piccoli borghesi impiegatizi, i bambini e così via». L'articolo di Anselmi serve da ouverture al tema e va intrecciato, anche per quanto attiene alla categoria "nazionalpopolare" e all'importanza che Gramsci attribuiva alla cultura e alla letteratura, con questa proposta didattica.
[37] A. Gramsci, Quaderni dal carcere, ed. critica a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, 4 volumi.
[38] A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 140. Osserva anche: «Ma tutta la formazione storica della nazione italiana era a ritmo troppo lento. Ogni volta che affiora, in un modo o nell'altro, la quistione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l'allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l'egemonia culturale. Oggi si sono verificati diversi fenomeni che indicano una rinascita di tali quistioni: pubblicazioni del Panzini, Trabalza-Allodoli, Monelli, rubriche nei giornali, intervento delle direzioni sindacali, ecc…» (ivi, p. 252).
[39] Tale dibattito vede schierati da una parte i puristi come l'abate Antonio Cesari, Luigi Fornaciari e Basilio Puoti, dall'altra i classicisti come Pietro Giordani, dall'altra Vincenzo Monti con la sua Proposta di alcune aggiunte e correzioni al Vocabolario della Crusca, dall'altra Alessandro Manzoni con la sua rivoluzionaria scelta di una lingua parlata come riferimento per la lingua del suo romanzo. Sarà cura del docente recuperare conoscenze pregresse in merito alla questione della lingua o affrontare l'argomento con letture ed esempi appropriati.
[40] W. von Humboldt (1767-1835) considera il linguaggio una realtà storica e creativa dei popoli (La diversità delle lingue, 1830-1835, Roma-Bari, Laterza, 2000) e sostiene che la lingua è un'attività collettiva, perché altrimenti non sarebbe uno strumento di comunicazione, e che essa rappresenta una Weltanschauung, una visione del mondo, che i vari popoli fissano nelle parole.
[41] «…nella piazza de' Mercanti. E lì eran ben pochi quelli che, nel passar davanti alla nicchia che taglia il mezzo della loggia dell'edifizio chiamato allora il collegio de' dottori, non dessero un'occhiatina alla grande statua che vi campeggiava, a quel viso serio, burbero, accipigliato, e non dico abbastanza, di don Filippo II, che, anche dal marmo, imponeva un non so che di rispetto, e, con quel braccio teso, pareva che fosse lì per dire: ora vengo io, marmaglia». (I promessi sposi, cap. XII)
[42] Anche per quanto riguarda Manzoni ed i temi inerenti al romanzo e alle sue scelte ideologiche si ipotizza un percorso a parte, al quale riferirsi per gli approfondimenti necessari.
[43] Ippolito Nievo, Frammento sulla rivoluzione nazionale, in Scritti politici e storici, a cura di G. Scalia, Bologna, Cappelli, 1965, pp, 163-164.
[44] F. Buonarroti, Del governo d'un popolo in rivolta, articolo pubblicato nella «Giovine Italia», 5, Marsiglia, 1833, in Id., Scritti politici, a cura di F. Della Peruta, Torino, Einaudi, 1976, p. 95.
[45] In I manifesti romantici del 1816 e gli scritti principali del «Conciliatore» sul Romanticismo, a cura di C. Calcaterra, Torino, UTET, 1951, pp. 280-281.
[46] Ivi, p. 281.
[47] P.P. Pasolini, Il glicine, in La religione del mio tempo, Milano, Garzanti, 1961¹.
[48] P.P. Pasolini, Scritti corsari, Milano, Garzanti, 1975¹.