Simonetta Teucci - "Del padellon del ciel la gran frittata…". Spigolature lunari nel Novecento e dintorni

La luna sarda della Deledda / Pirandello: due novelle ed una luna / La luna vista dagli scienziati: Galilei e Keplero / Leopardi e “le lune” / Le lune di Calvino / E se le lune fossero più di una?

Luna: discrimine fra la notte e il giorno, frontiera interposta fra il razionale e l'immaginazione, terra di confine fra il conscio e l'inconscio, amica e al contempo nemica dell'uomo. La sua presenza nel cielo rischiara le tenebre e con il suo raggio fa risaltare nell'oscurità della notte un particolare, eliminandone il chiaroscuro e persino la profondità. La sua assenza sprofonda la terra nel buio più assoluto ed impedisce qualsiasi visione e qualsiasi orientamento, precipitando l'uomo nell'impossibilità di muoversi e di agire. Solo i malfattori, i ladri, gli assassini operano con la complicità della notte, meglio se questa è rischiarata da un raggio di luna, per quanto furtivo.
Di lune è affollato l'immaginario, sia che esso si manifesti nella letteratura, sia che si espliciti nella pittura, sia che si sublimi nel mito e nelle simbologie che lo popolano. Pur sempre alla luna viene attribuita una funzione, un senso profondo che supera i limiti di conoscenze ed esperienze oggettive e razionali ed apre ad altri mondi e ad esperienze 'altre'.

 

La luna sarda della Deledda

 

Canne al vento [1] di Grazia Deledda, ambientato nella solitudine della campagna sarda di inizio Novecento, una campagna nella quale le tradizioni, le credenze spesso superstiziose e la fatica quotidiana intridono la vita degli uomini, apre proprio con un paesaggio in cui il crepuscolo lascia il campo alla luna. «La luna saliva davanti a lui, e le voci della sera avvertivano l'uomo che la sua giornata era finita»; Efix, «il servo delle donne Pintor» sa che quello è il momento di sospendere il lavoro, quel lavoro che lo ha accompagnato, in una totale dedizione alle sue padrone, per tutta la vita e che lo ha reso in tutto e per tutto sottomesso a loro, anche ora che è vecchio. Come gli altri abitanti del paese, anche lui vive le superstizioni e le sue fantasie come fossero vere: «Era il suo [della luna] passaggio che destava lo scintillio dei rami e delle pietre sotto la luna: e agli spiriti maligni [e di quanti jinn sono piene le favole e le tradizioni popolari a tutte le latitudini!] si univano quelli dei bambini non battezzati, spiriti bianchi che volavano per aria tramutandosi nelle nuvolette argentee dietro la luna (…), mentre i giganti s'affacciavano fra le rocce dei monti battuti dalla luna».
Proprio quando si allenta il ritmo quotidiano del lavoro e subentra il tempo del riposo, le fantasie prendono corpo, un corpo reale, che si incarna in folletti, in gnomi e «specialmente nelle notti di luna tutto questo popolo misterioso anima le colline e le valli: l'uomo non ha diritto a turbarlo con la sua presenza, come gli spiriti han rispettato lui durante il corso del sole: è dunque il tempo di ritirarsi e chiudere gli occhi sotto la protezione degli angeli custodi» (p. 5). Un mondo parallelo, dunque, che è rimasto in silenzio ed invisibile con il sole, ora, con la presenza della luna, balza prepotentemente in avanti e si appropria della scena del mondo.
Questo incipitario paesaggio lunare si ripropone molte volte nell'arco del romanzo e ogni volta suscita ricordi, speranze, riflessioni anche amare, delusioni. La Deledda unisce sempre l'astro notturno alla voce e alla potenza della natura che in Sardegna vede il verde degli alberi e degli arbusti in contrasto con l'aridità dei monti, a sottolineare una natura affascinante nei suoi colori e nei suoi movimenti ma certo non generosa.
A più riprese dunque compare l'astro lunare, sempre accompagnato da descrizioni coloristiche della natura, e di volta in volta in rapporto con le esperienze interiori dei personaggi. La sua luce abbacinante sottolinea la solitudine e l'attesa di Efix che tenta di aiutare le sue padrone e il loro nipote Giacinto: «Aspettò Giacinto fino a tardi. La luna piena imbiancava la valle, e la notte era così chiara che si distingueva l'ombra di ogni stelo. Persino i fantasmi, quella notte, non osavano uscire, tanta luce c'era: e il mormorio dell'acqua era solitario, non accompagnato dallo sbattere dei panni delle panas [2]. Anche i fantasmi avevan pace quella notte. Il servo solo non poteva dormire. Pensava alla storia di Giacinto e del capitano di porto, e provava un senso d'infinita dolcezza, d'infinita tristezza» (p. 71).
Efix spera che la vita della famiglia Pintor imbocchi una strada di serena tranquillità e che a Giacinto, che aveva perso al gioco il denaro sottratto con l'inganno ad un capitano di porto quando era impiegato alla Dogana di Civitavecchia, venga riconosciuta la posizione sociale che gli spetta nel paese. È vero, Giacinto gioca all'osteria, perde di nuovo, si indebita e mette a repentaglio le zie che l'avevano accolto. Ma la voce narrante interviene con una riflessione di sapore manzoniano a commentare ed esplicitare i pensieri di Efix: «Tutti, al mondo, pecchiamo, più o meno, adesso, o prima o poi: e per questo? il capitano non aveva perdonato? Perché non dovevano perdonare anche gli altri? Ah, se tutti si perdonassero a vicenda! Il mondo avrebbe pace; tutto sarebbe chiaro e tranquillo come in quella notte di luna»(p. 72).
Se in questo passo la luce lunare è bianchissima e fortissima, tale da attutire e placare perfino i fantasmi che spuntano inquieti di notte e le panas, che al chiarore della luna lavano «i loro panni giù al fiume, battendoli con uno stinco di morto», e l'ammattatore, il folletto dai sette berretti, e i «vampiri con la coda d'acciaio» (p. 5), e gli spiriti maligni, i nani e le piccole fate, quando Giacinto decide di abbandonare il paese perché non può sposare Grixenda, «la luna azzurrognola splendeva sul rudero della torre (…) e pareva che in quell'angolo di mondo morto non dovesse più spuntare il giorno» (p. 86). E cambia colore con il variare delle situazioni: «Era d'agosto, la luna rossa sorgeva dal mare e illuminava i boschi» (p. 150).
All'inizio del cap. XVII, quando Efix è tornato al poderetto, dopo averlo abbandonato per andare a Nuoro in cerca di Giacinto e dopo essersi unito ai mendicanti e essersi finto cieco per impietosire e spingere all'elemosina coloro che partecipavano alle feste religiose, di nuovo il paesaggio si delinea grazie alla luce della luna: «Verso sera il cielo si schiariva, tutto l'argento delle miniere del mondo s'ammucchiava a blocchi, a catasta sull'orizzonte; operai invisibili lo lavoravano, costruivano case, edifizi, intere città, e subito dopo le distruggevano e rovine e rovine biancheggiavano allora nel crepuscolo coperte di erbe dorate, di cespugli rosei; passavano torme di cavalli grigi e neri, un punto giallo brillava dietro un castello smantellato e pareva il fuoco di un eremita o di un bandito rifugiatosi lassù: era la luna che spuntava.
Piano piano la sua luce illuminava tutto il paesaggio misterioso e come al tocco di un dito magico tutto spariva; un lago azzurro inondava l'orizzonte, la notte d'autunno limpida e fredda, con grandi stelle nel cielo e fuochi lontani sulla terra, stendevasi dai monti al mare».
La stagione autunnale preannuncia l'inverno e la luna mostra rovine ed un castello anch'esso rovinato e abbandonato, rifugio di un uomo solitario, bandito od eremita che fosse; «Ed Efix sentiva avvicinarsi la morte» (p. 172). La vicenda stagionale fa da sottofondo alla vicenda di una vita che, popolata ormai di rovine e in preda alla solitudine, si avvia al suo tramonto.

 

Pirandello: due novelle ed una luna

 

Le credenze popolari, diffuse soprattutto nelle realtà rurali e più chiuse, fanno da sottofondo a molte narrazioni che si presentano, come l'opera della Deledda, sul palcoscenico della letteratura agli inizi del XX secolo. Ed un aspetto di tali credenze vede la luna come motore del racconto e come simbologia complessa del profondo. Esemplari, fra le altre, due novelle di Pirandello [3], che accampano già nel titolo la funzione esercitata dalla luna.
Forse è il potere selenico che può «ammaliare» gli uomini, condannandoli a quel 'male di luna' che ne condiziona la vita e il comportamento «a ogni fatta di luna», «ogni volta che la luna [è] in quindicesima», cioè durante la luna piena. Batà è affetto da quel male che dà il titolo alla novella [4], come racconta alle comari che, al suo arrivo a casa della suocera dopo il parossismo che lo ha colto con il plenilunio e che ha spaventato la giovane moglie Sidora, si erano ritirate nelle loro case e poi, vedendolo piangere, ne erano uscite. Sidora si era rifugiata dalla madre dopo che il marito era caduto preda del suo male «orrendo che gli veniva dalla luna», vittima «d'una bestiale fatica rabbiosa», «come avesse un cane in corpo». Questo il suo racconto accorato: «la madre da giovane, andata a spighe, dormendo su un'aja al sereno, lo aveva tenuto bambino tutta la notte esposto alla luna; e tutta quella notte, lui povero innocente, con la pancina all'aria, mentre gli occhi gli vagellavano [5], ci aveva giocato, con la bella luna, dimenando le gambette, i braccini. E la luna lo aveva "incantato". …Ogni volta che la luna era in quindicesima, il male lo riprendeva. Ma era un male soltanto per lui; bastava che gli altri se ne guardassero».
Al parossistico attacco del male era seguito il silenzio e Sidora aveva guardato «la luna, ora limpida, che saliva nel cielo, tutto inondato di placido albore». Ma anche Sidora alla vista del corpo del marito a terra «come assalita d'improvviso dal contagio del male, cacciò un gran grido e cadde riversa, priva di sensi». È dalla stessa grata che, a conclusione della novella, anche Saro, il cugino che secondo le indicazioni della madre di Sidora avrebbe dovuto bastonare Batà al nuovo attacco del male il mese seguente e che invece era stato preso dal panico appena Batà aveva iniziato ad ululare e a colpire violentemente la porta di casa con calci e pugni, vede la luna: «E nel ritrarsi verso la porta, scorse anch'egli dalla grata della finestrella alta, nella parete di faccia, la luna che, se di là dava tanto male al marito, di qua pareva ridesse beata e dispettosa, della mancata vendetta della suocera». L'umorismo pirandelliano si condensa in quell'enigmatico riso di una luna «beata e dispettosa», arbitra e sovvertitrice delle volontà e dei piani degli uomini, che non sanno vedere 'oltre' e non sono capaci di anticipare lo scarto della vita, l'improvviso cambiamento di direzione che confonde e annulla la linearità delle cose. L'imprevedibile, l'inaspettato ribalta le situazioni e, come in questo caso, chi voleva infierire su di un malato come Batà rimane scornato da una potenza che lo travalica.
La licantropia, questo il 'male di luna', con quanto ad essa è collegato ha un'origine antica, forse fin da quando gli uomini primitivi dovevano combattere contro gli animali feroci che assalivano i villaggi, e spesso i lupi diventavano gli animali totemici da venerare e da esorcizzare per la salvezza della comunità. Ne troviamo testimonianze fin dal mondo antico come ad esempio nel Satyricon di Petronio, quando alla cena di Trimalcione, liberto arricchito e padrone di casa, Nicerote, anch'egli liberto e, come Trimalcione e gli altri ospiti, attento e condizionato dalle credenze popolari, narra una sua avventura, terribile quanto particolare. Quando era ancora un servo, si era accompagnato ad un ospite del suo padrone per andare dalla sua amante, Melissa di Taranto, dopo la morte del marito di lei: «capita che il mio padrone se ne è andato a Capua … che io mi prendo la mia occasione, che mi convinco lì un ospite nostro, che se ne viene via con me, là al quinto miglio. Quello era un militare, forte come l'Orco. Ci alziamo il culo quando ci canta il gallo, che ci avevamo la luna lucente, che ci sembrava il mezzogiorno. Ci avviamo a un cimitero, che il mio uomo si mette che se la fa lì tra le tombe, che io mi siedo lì, che ci canto una mia canzone, che mi conto le tombe. Ma poi mi giro lì, lì dal mio compagno, che quello si sveste, che si pose tutti i suoi vestiti, lì vicino alla strada. Ci avevo l'animo in gola, io, che me ne stavo come un morto. Ma quello ti piscia lì, tutto intorno ai suoi vestiti, che mi diventa un lupo, di colpo. E non è mica che ci scherzo, no, che per dire una storia, non c'è un tesoro che me la paga, adesso. Ma mi diventa un lupo, come ho detto, che si mette che ulula, che se ne va nelle selve. Io, prima, non me lo so più dove mi sto, ma poi mi vado là, che me li voglio prendere, i suoi vestiti. Ma che mi erano diventati di pietra, quelli. …La Melissa si mette che mi guarda, tutta stupita che me ne vado in giro così, di notte, che mi dice: "Ma se ci venivi prima, tu ci aiutavi, qui almeno, che ci è entrato il lupo, qui nella cascina, che ci ha cavato il sangue a tutte le bestie, come il beccaio. Ma non ci ha mica preso in giro, a noi, anche se ci è scappato, dopo, che uno schiavo nostro, qui, gli ha passato il collo, a quello, con il roncone suo". Come mi sento questo, io non ci ho chiuso più l'occhio, che mi arriva il mattino, che mi corro a casa del nostro Gaio, che ti sembravo l'oste fottuto, proprio. Basta, che arrivo là dove ci stavano i vestiti di pietra, che non ci trovo che il sangue. Arrivo a casa, che il mio militare stava a letto, che ti sembrava il bue, che il medico gli curava il collo. Così ho capito che era il lupo mannaro, quello, che non ci ho più potuto mangiare il pane insieme, con quello, se nemmeno mi ammazzavi…» [6].
La traduzione 'espressionistica' di Sanguineti colora di lingua parlata il racconto dell'ex-schiavo, uomo non colto, grossolano, come rileva il modo di parlare, e portatore di una cultura popolare tutta intrisa di aspetti magici e superstizioni che rimandano ad un sostrato contadino di tradizioni antichissime, come sono quelle che riguardano appunto i licantropi. Se la medicina riconosce la licantropia come malattia con caratteristiche che ad esempio Galeno (129-200 ca.) assimila alla malinconia, e come tale curabile, o la assimila ad una manifestazione isterica che si evidenzia in circostanze particolari (le notti di luna piena), le società arcaiche vi incarnavano la paura dei predatori, che potevano uccidere nottetempo uomini e bestie. Ed il lupo era un predatore temutissimo! Intuitiva ed immediata la rappresentazione/trasformazione in lupo (o in certe zone in altro animale pericoloso come l'orso) di quell'uomo che rappresentava un pericolo per gli abitanti dei villaggi e per le loro povere cose. E quando agisce il predatore? Preferibilmente di notte, e quando la notte è illuminata dalla luna, meglio se piena.
Il racconto di Nicerote contiene molti degli aspetti rituali e terribili della trasformazione licantropica: orinare sulle tombe, la trasformazione delle vesti in pietra, il modo per uccidere l'uomo-lupo colpendolo al collo con un palo acuminato. Anche le tradizioni vampiresche e stregonesche contemplano forme e comportamenti simili a queste.
Ma torniamo a Pirandello. La realtà che descrive è abitata dalla povera gente, uomini e carusi costretti a lavorare per la vita intera per la sopravvivenza. «Cràh! cràh!» era l'imitazione che Ciàula faceva della cornacchia e proprio per questo verso i suoi compagni lo avevano soprannominato così [7]. Lavorava nella zolfare e «rivedeva a ogni salita la luce del sole». Era abituato al buio della cava ma temeva quello della notte da quando, per l'incidente occorso al figlio di zi' Scarda per lo scoppio di una mina, si era rifugiato in un anfratto della zolfara e ne era uscito a tentoni perché la lanternina di terracotta era andata in frantumi, sbattendo contro la roccia, mentre Ciàula cercava di trovare riparo. «Ma pure non aveva avuto paura. La paura lo aveva assalito, invece, all'uscita dalla buca nella notte nera, vana, e lui si era messo a correre». Evidentemente era una notte senza luna!
Quando una sera il padrone gli aveva detto di rispogliarsi (anche se per uscire dalla cava si rivestiva sul torace nudo solamente con un panciotto avuto in elemosina e tanto sporco che stava ritto da solo) per proseguire il lavoro, Ciàula fu preso dallo stesso timore per lo «sgomento del silenzio nero che avrebbe trovato nella impalpabile vacuità di fuori». Solo quando fu agli ultimi scalini che lo riportavano in superficie si accorse che «la buca (…) lassù si apriva come un occhio chiaro, d'una deliziosa chiarità d'argento» e «la chiaria cresceva, cresceva sempre di più, come se il sole, che egli aveva visto pur tramontare, fosse rispuntato».
Una volta fuori, rimase sbalordito: «grande, placida, come in un fresco, luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna. (…) cadde a sedere sul suo carico (…) E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell'averla scoperta, là, mentre saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore». Un'epifania che cura l'anima, una rivelazione dell'esistenza di una realtà diversa da quella consueta, la serenità di una scoperta che tranquillizza e solleva dal timore dell'ignoto. Non importa che la luna sia «ignara» dei mondi che illumina, indifferente come la luna leopardiana alla quale il pastore rivolge inutilmente le sue domande, che sia «ignara» dell'esistenza di Ciàula e della sua faticosa vita. Importa, per lo sguardo ingenuo del caruso, che la sua presenza allontani l'animo dall'horror vacui per l'ignoto. Ora Ciàula sa che nella notte non esiste più il buio, e nella sua ingenuità primordiale non si pone domande, né tanto meno domande esistenziali come il pastore-filosofo: è sufficiente per lui la presenza della Luna; la può guardare, la può ammirare, può rimanerne estasiato, dimenticando la fatica e la miseria. Ora sa che la Luna esiste.

La luna vista dagli scienziati: Galilei e Keplero

 

La perfezione ed il nitore della sfera lunare non colpisce solo Ciàula, attonito ed estatico davanti a lei; ha colpito generazioni e generazioni, suscitando fantasie e facendo immaginare un mondo perfetto e forse un giorno raggiungibile, come un sogno che si avvera. Ma nel 1610 Galilei sostiene e dimostra che la perfezione di questo astro è stata un'illusione ottica, favorita dalla sua lontananza dalla Terra e dalla proiezione su di essa di miti, leggende, tradizioni, superstizioni, tanto è vero che all'inizio del Sidereus nuncius [8] afferma: «Bellissima cosa e mirabilmente piacevole, vedere il corpo della Luna, lontano da noi quasi sessanta raggi terrestri, così da vicino come distasse solo due di queste dimensioni; (…) e quindi con la certezza della sensata esperienza chiunque può comprendere che la Luna non è ricoperta da una superficie liscia e levigata, ma scabra e ineguale, e, proprio come la faccia della terra, piena di grandi sporgenze, profonde cavità e anfratti».
Quanto di romantico poteva suggerire la visione lunare e favorire l'immaginazione anche sentimentale svanisce sotto la lente del cannocchiale. Ma ciò che si perde in fantasia lo si acquista in conoscenza, in quella conoscenza scientifica che ha vanificato, pur se a fatica, le credenze mitologiche sulla dea dalle tre facce, Artemide, Selene, Ecate, la luna crescente, la luna piena, la luna calante. Di una disarmante lucidità e di una inesorabile verità risuonano al riguardo le parole di Leopardi quando sostiene che le scoperte non fanno altro che restringere il mondo e che il vero e il certo non lasciano spazio all'immaginazione bensì alla noia [9]. Una volta che la Ragione ha svelato l'irriducibilità delle leggi di natura, nell'uomo subentra un senso di nullità. Quello che acquista in conoscenza, lo perde nell'impossibilità di immaginare un margine di futuro. Sapere che 'di là' ci sono le stesse cose che 'di qua', che il nuovo è uguale al già conosciuto, oltre a rimpicciolire il mondo, impedisce un dialogo fra l'uomo, la natura e la Luna e condanna l'uomo alla disillusa consapevolezza della sua marginalità e precarietà.
Negli stessi anni di Galilei anche Keplero porta avanti, in mezzo a grandi difficoltà, i suoi studi e, per cercare di divulgare le sue teorie attraverso una forma, diciamo, non ufficiale, nel 1609 scrive un breve racconto, intitolato Il sogno [10], dove narra appunto un suo sogno avvenuto nell'anno precedente, il 1608, nel momento di tensione fra l'imperatore Rodolfo e l'arciduca Mattia, suo fratello, per il potere in Boemia, ricca di leggende basate sulle arti magiche.
Il protagonista del sogno è Duracoto, un giovane islandese figlio di Fiolxhilde, una donna che si guadagnava da vivere vendendo ai marinai dei sacchetti di pelle di capra pieni di erbe, raccolte sulle falde più basse del vulcano Hekla, in particolare durante la festa di S. Giovanni, cioè il solstizio d'estate, quando si svolgevano numerose feste popolari.
L'Islanda, terra lontana e poco conosciuta (anche Leopardi fa di un islandese il protagonista di una sua Operetta), ha grande abbondanza di leggende e tradizioni magiche nelle quali folletti, gnomi e personaggi ctoni agiscono a fin di bene per gli uomini, ma possono diventare anche pericolosi. Le erbe, contenute nei sacchetti di Fiolxhilde, avevano il potere di suscitare il vento che i timonieri desideravano per la loro rotta e per questo i sacchetti erano tanto preziosi. La magia e le potenze esoteriche dunque al servizio degli uomini.
Un giorno Duracoto, spinto dalla curiosità, apre uno dei sacchetti, infrangendo un tabù con il suo disubbidire al divieto della madre, che perde così il suo guadagno, anche se lo poi lo riacquista 'vendendo' il figlio al padrone di una nave, che dopo alcuni giorni lo lascia del tutto casualmente presso Tycho Brahe in Danimarca. Così Duracoto vive con lo scienziato ed i suoi assistenti ed impara i rudimenti dell'astronomia. Tornato dopo alcuni anni dalla madre in Islanda, compara quanto aveva appresso presso Tycho Brahe con le 'conoscenze magiche' materne, assistite dagli «spiriti più sapienti» (p. 45) ed in particolare da un demone che, evocato dalla madre, gli parla dell'isola di Levania, alla quale si accede [11] attraverso i coni d'ombra durante le eclissi di Sole e di Luna. 
La descrizione fatta dal demone del viaggio verso Levania, cioè la Luna, fa sorridere noi uomini del 2000, ormai da tanti anni abituati alle cronache dei lanci di astronauti nello spazio. Eppure la descrizione kepleriana, apparentemente ingenua e favolistica, contiene aspetti interessanti e perfino attuali: chi è prescelto per il viaggio viene lanciato in alto ed il «primo scossone risulta spiacevolissimo (…) viene strapazzato (…) e le sue membra devono essere distese una per una affinché (…) la violenza si distribuisca equamente tra le singole parti del corpo», e poi subentra «un freddo smisurato» ((p. 47). Una volta arrivato sulla Luna, quello che cambia è la diversità del punto di osservazione rispetto alla Terra: «Ai suoi abitanti Levania non pare meno immobile, mentre gli astri corrono in cielo, di quanto a noi uomini sembri immobile la Terra.» [12], che fa capire quanto sia illusoria l'immobilità terrestre.
Seguono descrizioni riguardanti l'alternanza del giorno e della notte, fra l'estate e l'inverno, l'indicazione dei poli, l'intersezione del circolo equatoriale con quello dello zodiaco, tutte su base scientifica. Gli abitanti della Luna vedono la loro Volva (che altro non è se non la Terra, che si chiama Volva proprio perché loro la vedono girare), come noi vediamo la Luna, ed essa, a differenza della nostra Luna che ha le fasi e si mostra in vari punti del cielo, sta «immobile in un determinato punto, come fosse appesa a un chiodo nel cielo» (p. 55) e «ruota intorno al proprio asse» (p. 57). Improvvisamente il sogno si interrompe e Duracoto si ritrova, svegliandosi, «con la testa sotto il cuscino e il corpo avvinto nelle coperte» (p. 63).
Tra il 1620 e il 1630 Keplero scrisse le note (sono ben 223) al Sogno, che esplicitano molto di quanto di enigmatico si trova nel racconto, a cominciare dal riferimento al Somnium di Cicerone e a Il volto della Luna di Plutarco, che lo scienziato dichiara suoi modelli, e dal tributo reso a Tycho Brahe con il quale Keplero ribadisce il rapporto fra la pratica empirica da una parte e la Scienza dall'altra, quest'ultima considerata figlia della prima e da diffondere solo quando gli uomini si siano liberati dall'Ignoranza [13]; del resto l'opuscoletto vuol essere una diffusione, sub specie di sogno, della posizione non centrale della Terra nell'universo e del suo movimento intorno al suo asse, teoria davvero rivoluzionaria al tempo. Per noi, lettori moderni, le teorie di Keplero sono assodate e appaiono ovvie e nessuno penserebbe di confutarle né, tanto meno, di sostenere il geocentrismo. Eppure in un immaginario simbolico, ciò che sta fuori della Terra sembra al servizio di essa ed in particolare vengono attribuiti alla Luna un fascino che attrae, un potere spesso consolatorio, una funzione esornativa, che la pone su un piano affatto diverso e distante da quello scientifico, mentre le conoscenze astronomiche rimangono come in un secondo piano, in una sfera del tutto scientifica che in apparenza poco o niente ha punti di contatto con quella letteraria.
Per secoli era stata la fisica aristotelica a dominare il campo della scienza; tuttavia con Copernico, Galilei e Keplero cominciano a farsi strada nuovi modelli di indagine e la fisica si basa sui concetti di forza, di gravità e di inerzia, prima sconosciuti. Se Newton elaborerà compiutamente la teoria della gravitazione universale, fu proprio Keplero ad introdurre il concetto di inerzia. Per quanto riguarda la Luna, se queste leggi non esistessero in natura e se la Luna fosse composta di una sostanza simile a quella della Terra, accadrebbe ciò che Calvino descrive in Ti con zero, cioè la caduta della Luna sulla Terra.

 

Leopardi e "le lune"

 

Cosa succede quando la luna si stacca dal cielo e cade rovinosamente sulla terra? Di sicuro annuncia catastrofi ed è un segnale di profondo sconvolgimento e di morte.
Nel VI libro della Farsaglia, Lucano descrisse le pratiche magiche e negromantiche della maga Erittone [14] come preludio alla violenza e al sovvertimento che la battaglia decisiva fra Cesare e Pompeo avrebbe provocato nel destino di Roma e nella storia. Con un sortilegio Erittone fa resuscitare un morto che profetizza: «verrà l'ora che abbatte / tutti i condottieri in un colpo. Affrettatevi a morire, e fieri / del grande animo, discendete dai modesti sepolcri / e posate il piede sui Mani degli dei di Roma» (vv. 806-809) [15]. Poco prima la luna aveva perso la luce ed era impallidita ed infine era caduta dal cielo proprio per l'arte magica di Erittone e, mentre si avvicinava alla terra, schiumava sull'erba sulla quale si abbatteva: «abbassata dalla magia, soffre tanta violenza che, avvicinandosi al suolo, getta una schiuma sulle erbe circostanti» (vv. 499-506) [16].
Meno orrorosa ma altrettanto perturbante la caduta della luna del leopardiano Odi, Melisso: io vo' contarti un sogno, caduta che, osservata in sogno, ritorna alla mente, proprio «in riveder la luna». Questa si distacca dal cielo e, avvicinandosi alla terra, diventa sempre più grande «infin che venne / a dar di colpo in mezzo al prato» (vv. 8-9) e, come quella lucanea, «di scintille / vomitava una nebbia, che stridea / sì forte come quando un carbon vivo / nell'acqua immergi e spegni» (vv. 11-13) ed «in mezzo al prato / si spegneva annerando a poco a poco, / e ne fumavan l'erbe intorno intorno» (vv. 15-16). Innegabile appare il legame con i versi della Farsaglia e come nel poema la lirica leopardiana trasmette non solo e non tanto stupore per un evento improvviso e inopinato, ma anche sconforto, terrore tanto che, afferma il poeta, «io m'agghiacciava; e ancor non m'assicuro» (v. 20), per di più alla vista del buco lasciato in cielo dall'astro caduto.
Evento premonitore? Evento foriero di altre, ulteriori catastrofi e sovvertimenti della natura? È vero che la luna, interrogata da Giacomo in molte sue liriche, è sempre tacita e non risponde né alle sue domande né a quelle di Leopardi-pastore, ma pur sempre il suo splendere e scorrere nel cielo trasmette un illusorio messaggio - tutto sommato - di 'normalità', di continuità del mondo e degli uomini, nonostante la consapevolezza umana del dolore e della morte. Il suo «riandare i sempiterni calli» agisce come garanzia che l'andamento delle cose permane, mentre la sua caduta preannuncia distruzione e morte e soprattutto una condizione sconosciuta. La Luna è, per dirla con Meyer Abrams [17], la lampada che illumina «il bisogno dell'inganno», il desiderio di finzione e la necessità di illusione che l'uomo ha di figurarsi proiezioni di serenità, che ottenebrino l'angoscia causata dalla verità «solare», cioè della ragione, e rompano al contempo l'oscurità del Nulla.
L'arido vero, che disinganna l'uomo mettendolo di fronte alla cruda realtà ineludibile del suo stare sulla terra, è difficile da sopportare tanto che, come nell'Ultimo canto di Saffo, non può che spingere al suicidio. Per questo motivo c'è la necessità di allentare la disperazione esistenziale, perché l'uomo obbedisca e segua quei meccanismi che la Natura impone per poter proseguire nel suo cammino, insensibile e incurante di chi soffre e di chi muore. «Non ha natura al seme / dell'uom più stima o cura / che alla formica: e se più rara in quello / che nell'altre è strage, / non avvien ciò d'altronde / fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde» (La ginestra, vv. 231-236). La 'volontà irrazionale di vivere' serve a perpetuare il processo non finalistico né tanto meno provvidenzialistico della vita universale di una natura, affatto estranea all'uomo, una natura che ha leggi ferree e immodificabili e per di più imperscrutabili nei fini e nei principi.
L'impossibilità di un reale colloquio fra gli uomini e l'astro selenico è ribadita nel Dialogo della Terra e della Luna, fin dall'inizio quando la Luna afferma di non conoscere i popoli che abitano le terre e ironizza chiamando la Terra «peggio che vanerella a pensare che tutte le cose di qualunque parte del mondo sieno conformi» alle sue. La Luna non capisce le domande della Terra perché non ha in sé o non sa di avere quanto la Terra chiede. Di una cosa però è sicura, che «il male è cosa comune a tutti i pianeti dell'universo o almeno di questo mondo solare», con ciò ribadendo l'inevitabilità del male e del dolore, ma anche la marginalità dell'uomo, della Terra e di tutto il sistema solare rispetto all'infinità dell'universo.
Leopardi non si stanca di riproporre in molte liriche un dialogo con la Luna, come avviene nell'idillio Alla luna, dove la dimensione del discorso-colloquio, come nota Blasucci [18], viene «avviata dal vocativo iniziale "O graziosa luna", secondo un modulo d'esordio (l'allocuzione a un astro) di matrice essenzialmente ossianesca». Il colloquio con l'astro serve a mettere l'accento su quanto accade al poeta che, guardando e colloquiando con la Luna, anzi con un soliloquio, svela a se stesso emozioni e sentimenti, come sottolineato da quell'«E pur mi giova la ricordanza», che costituisce il cuore della lirica. Il contrappunto fra il «venia» (v. 3), il «pendevi» (v. 4), il «mi sorgea» (v. 7), l'«apparia» (v. 8), l'«era» (v. 9) da una parte e l'«or fai» e il «rischiari» (v. 5), il «ed è, né cangia» (v. 9), il «mi giova» (v. 10) dall'altra, veicola non solo la differenza e la distanza fra due momenti della vita ma sottolinea anche l'importanza della «ricordanza» che, nonostante sia amara, pur tuttavia illude, anche se per breve tempo, l'uomo e lo aiuta ad allontanarsi almeno momentaneamente dalla sofferenza. Quale altro interlocutore potrebbe assistere silenzioso e al contempo (apparentemente) complice, perché proiezione e specchio del mondo interiore dell'uomo? Tanto è vero che la seconda invocazione «o mia diletta luna» (v. 10) è posta a cerniera fra il passato, ed il dolore del passato, e la «ricordanza», il lenitivo al dolore.
Le due allocuzioni [19], nota ancora Blasucci, sono speculari dal punto di vista sintattico, una in apertura ed una in chiusura, e metricamente parallele in incipit di verso (v. 1 e v. 10) ed in entrambe il sostantivo 'luna' è posposto all'aggettivo e seguito dalla cesura del verso.
Impossibile passare sotto silenzio l'invocazione accorata e speranzosa «Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai, / silenziosa luna?» (vv. 1-2) dal Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, dove il «che fai», che incornicia l'attacco in incipit e in esplicit di verso, è seguito all'inizio del v. 2 da quel «silenziosa», che fa andare con il pensiero ad altri testi, che vedono protagonista l'astro. Già in questa ripetizione si adombra l'inutilità e la ripetitività del suo corso nel cielo, corso sempre uguale a se stesso e che ha come spettacolo «i deserti», sempre gli stessi deserti. L'ansietà della domanda è ribadita dai due «dimmi» del v. 16 e del v. 18, anch'essi posti all'inizio e alla fine della domanda fondamentale e per il pastore ineludibile: a cosa serve la vita. Eppure la domanda si dimostra eludibile, tanto che la luna non risponde, quella luna che alla fine della seconda lassa è detta «vergine» (v. 77) e che sa «mille cose» «che son celate al semplice pastore» (v. 78). Lo sguardo del pastore è assunto come punto di vista straniante, soprattutto perché ad un uomo semplice e presumibilmente non colto Leopardi presta la sua voce di filosofo disingannato e conoscitore dell'arido vero, come si dispiega nella collana di interrogativi – anzi, sarebbe meglio definirli affermazioni e convincimenti profondi – rivolti ad una luna non toccata ed intangibile dalla corruzione, dal male, dal dolore, dalla morte. Ed anche la caduta della luna ed il suo sfrigolamento a terra in Odi, Melisso avviene solo in sogno. La natura infatti ha tempi così lunghi che l'uomo non può percepire nell'arco limitato della sua vita: «Sta natura ognor verde, anzi procede / per sì lungo cammino / che sembra star. Caggiono i regni intanto, / passan genti e linguaggi: ella nol vede: / e l'uom d'eternità s'arroga il vanto» (La ginestra, vv, 292-296). Il verbo 'stare', di chiara ascendenza latina (indicava lo star fermo del soldato nella postazione assegnatagli, qualsiasi fosse l'andamento della battaglia), attribuisce un valore pregnante alla distanza incolmabile fra la natura, e quindi anche la luna, e l'uomo, e dunque l'impossibilità di una risposta agli interrogativi umani. Tuttavia, la fissità ed il silenzio lunare forniscono al pastore una risposta che è insita nelle sue stesse domande; e l'essenza è contenuta nell'ultima lassa quando alle ipotesi, del resto non credute possibili dal pastore stesso che le formula e del tutto retoriche, risponde con un'asseverazione incontrovertibile ed assoluta: «in qual forma, in quale / stato che sia, dentro covile o cuna, / è funesto a chi nasce il dì natale» (Canto notturno, vv. 141-143).

 

Le lune di Calvino

 

La caduta della luna apre Ti con zero [20], dando inizio ad un cammino di ricerca e di scoperta dello spazio e del tempo attraverso i capitoli dei quali si compone il libro. Qfwfq, accortosi di una Luna sempre più vicina alla terra, non può fare a meno di andare all'Osservatorio dove Sibyl sta controllando al telescopio il fenomeno celeste. La Luna occupava «una vera e propria porzione di spazio, e prendeva forma, una forma non bene definibile perché gli occhi non s'erano ancora abituati a definirla» (p. 10).
Sibyl, forte delle sue conoscenze scientifiche, trae orgogliose conseguenze da quanto sta osservando ed accadendo e, come tutti gli uomini, è convinta, nonostante la scienza e la lezione leopardiana, di essere al centro dell'universo e che quanto gira intorno alla Terra, gira perché è il nostro pianeta che, per così dire, "dirige" il loro movimento grazie alla forza gravitazionale che esercita su di essi. Come a dire che l'antropocentrismo è sinonimo di geocentrismo come se Copernico, Keplero e Galilei non fossero mai esistiti e le teorie relativistiche fossero là da venire. Eppure era il 1609 quando Il Sogno di Keplero [21], sfruttando la dimensione onirica come farà Leopardi di Odi, Melisso, aveva voluto convincere gli uomini di scienza, di Chiesa!, e tutti gli altri, che la Terra non è immobile al centro dell'universo, ma in movimento e come gli altri pianeti del sistema solare gira intorno al Sole.
La strategia narrativa del sogno è del resto antica e sfruttata quando si vuole affrontare un tema o dimostrare una teoria che può suscitare reazioni contrarie o violente. Così, ci si sposta su di un piano parallelo a quello della realtà, ma dove tutto è possibile perché non regolato dalle leggi fisiche, morali e financo culturali della storia. L'irrazionale, che sembra guidare i sogni, la forte emotività che può suscitare, ma che ha una conseguenza pragmatica sul piano del reale, ed il suo essere una visione della fantasia gli permette di veicolare forme di conoscenza, che travalicano il metodo empirico o l'astrazione razionale, per formulare nuove ipotesi o proporre teorie che rivoluzionano il sentire comune.
Cicerone se ne è servito nel VI libro del De re publica dove lo attribuisce a Scipione Emiliano che immagina di dialogare con l'avo Scipione Africano, il quale gli descrive la condizione delle anime grandi di coloro che hanno agito per il bene dello Stato. Il trovarsi di Scipione nelle sfere celesti consente a Cicerone non solo di far propria la teoria aristotelica delle sfere celesti e diafane, che si muovono di moto armonico emettendo una dolce musica, ma anche di assumere un punto di vista 'altro', staccato dalla terra, che attraverso la possibilità di conoscere il futuro lo rende profeta della grandezza di Roma. Il Somnium Scipionis si affianca così a tutte quelle profezie che nell'Odissea, nell'Eneide, nel proemio degli Annales di Ennio, in Esiodo e in tanti altri scrittori antichi, rompendo le coordinate spazio-temporali entro le quali l'uomo è inserito e si muove, rendono presente sia il passato sia il futuro. La dimensione argomentativa dei primi cinque libri del De re publica lascia dunque nel VI libro lo spazio ad una dimensione più 'poetica', che meglio si confà alla visione profetica. Per ottenere l'effetto del distacco dalla realtà mondana e materiale è necessario cambiare il punto di vista dal quale osservare le cose del mondo, quello appunto delle sfere celesti e, perché no? della Luna.
Anche Dante si serve, a distanza di secoli, dello stesso strumento onirico, quando costruisce l'impianto della Commedia [22]. Se si fosse posto sul piano del reale, come avrebbe potuto formulare giudizi così tranchantes sui suoi contemporanei? Ha bisogno di un punto di osservazione distante dalla Terra, ma che pur sempre ha la Terra come oggetto di analisi. Dante però ci porterebbe troppo lontano e complicherebbe ulteriormente il nostro discorso.
Torniamo dunque a Calvino e riprendiamo quanto descrive in Ti con zero. Straordinaria la sua capacità di squarciare il velo dell'abitudine visiva e di mostrare in tutta la loro evidenza aspetti ai quali non prestiamo attenzione e che acquistano significato solo dopo la lettura. Lo scrittore frantuma infatti la realtà in una sequenza di dettagli, anche minuti, che invece di smembrare e togliere consistenza agli oggetti, ai paesaggi, nel nostro caso alla Luna, li rendono più concreti, più esperibili in tutti i loro aspetti, regalando quella corposità e consistenza che potrebbe passare inosservata.
L'esultanza di Sibyl, in contrasto con i dubbi e i timori di Qfwfq, si condensa in una tetragona sicurezza: «Cosa può contrapporre, Luna, come massa, campo gravitazionale, tenuta d'orbita, consistenza? Vuoi mica metterla a confronto? Luna è molle molle, la terra è dura, solida, la Terra tiene.» [23]. La sua sicurezza s'infrange a poco a poco quando Qfwfq e Sibyl si accorgono che «un'escrescenza stava spuntando da quella Luna-escrescenza, e si stava protendendo verso la Terra come uno smoccolamento di candela» (pp. 13-14). Ecco che piano piano si verifica il fenomeno cantato dai poeti, la caduta della Luna accompagnata dagli «splash!» di meteoriti lunari, che si trasformavano in «una fanghiglia di muco acido (…) un parassita vegetale che assorbiva tutto quello che toccava incorporandolo nella sua polpa mucillaginosa» (p. 16), provocando «un altissimo strato di fango impastato di proliferazioni verdi e di organismi sguscianti» (p. 17).
Evidente l'eco di Lucano e di Leopardi ed evidente il significato della metafora calviniana: l'uomo superbo, arrogante per la sua pretesa conoscenza scientifica che gli conferisce sicurezza ed un senso di superiorità che lo pone al centro e padrone dell'universo, non capisce la sua marginalità e la condizione provvisoria e, per dirla con Leopardi, basta «un'onda / di mar commosso, un fiato / d'aura maligna, un sotterraneo crollo» (La ginestra vv. 106-109) o il più prosaico «smoccolamento» di un'escrescenza lunare per annientare la sua sicumera, se non addirittura distruggerlo. Quando cade la Luna, tutto può succedere, tutto cambia e si realizzano nuove condizioni. È il sovvertimento della realtà, o di quella che si credeva realtà.
Calvino intride di elementi scientifici, travestiti e dissimulati, la sua prosa e Le cosmicomiche [24] si aprono con La distanza della Luna, dove il solito Qfwfq racconta di quando nelle notti di plenilunio e di alta marea, in compagnia del «capitano Vhd Vhd, sua moglie, mio cugino il sordo, e alle volte anche la piccola Xlthlx» si spingeva sotto la Luna con una barca e con una scala a pioli riuscivano a salire sulla Luna, che li attirava e lui sentiva «il moto della Luna svellermi dall'attrazione terrestre» (p. 10). Il cugino sordo era il più abile nel salire e nello scendere dalla Luna e anche nel raccogliere il latte - era questo il motivo del viaggio – che poi veniva lanciato sulla Terra. Anche Calvino come Keplero sfrutta la dimensione 'favolistica', apparentemente ingenua e naïf, per veicolare verità e conoscenze scientifiche, ammantandole di fantasia.
La spiegazione di questo strano viaggio sulla Luna e del fatto che la moglie del capitano finisce per rimanere sulla Luna con la sua arpa la si trova nella risposta che Calvino scrive a Anna Maria Ortese nel 1967 [25]. La scrittrice lamenta che i vari lanci spaziali non sono altro che il mezzo di conquista dello spazio da parte dei paesi progrediti, sottraendo così il «desiderio di riposo, di ordine, di beltà», in fin dei conti la possibilità di sognare e di immaginare, a chi ha sempre ammirato lo spazio infinito dell'universo. Calvino da parte sua rivendica invece l'importanza nonché la necessità di una conoscenza che deriva dalla «appropriazione vera dello spazio e degli oggetti celesti», per allontanare l'Ignoranza. Ancora una volta entra in gioco la Luna che, venerata come una divinità e cantata dai poeti, padrona imperscrutabile di verità alle quali gli uomini non possono accedere se non con grande pericolo e attraverso riti esoterici per iniziati, come si legge ne L'asino d'oro di Apuleio [26], che parla delle magie e dei filtri delle maghe tessale (come l'Erittone di Lucano!) e si conclude nel segno dei riti in onore di Iside (e cos'è Iside se non una delle tante incarnazioni della Luna?), diventa per Calvino lo strumento di conoscenza perché «ripensare la luna in un modo nuovo ci porterà a ripensare in un modo nuovo tante cose» [27].

 

E se le lune fossero più di una?

 

Che Chagall fosse un sognatore e che la sua pittura rappresentasse un mondo onirico e parallelo al reale, nel quale l'artista profondeva quanto percepiva delle istanze più interiori, è innegabile. Altrettanto innegabile la scrittura visionaria ed onirica del giapponese Murakami Haruki, che con i suoi romanzi trasporta in un mondo solo apparentemente reale, con circostanziati luoghi di Tokyo o di Kobe, con precisi orari ferroviari e indicazioni stradali altrettanto puntuali.
Due mondi distanti, si direbbe, quello di Chagall e quello di Murakami, fra i quali corrono quasi un secolo ed una distanza geografica e culturale notevole. Eppure un elemento li unisce, oltre alla disposizione a narrare quanto non è di concreta visione del mondo: l'immissione della luna, se non di due lune nel cielo di Tokyo per Murakami [28], e addirittura di tre lune nel quadro di Chagall Scena allegorica con tre lune, solo recentemente conosciuto perché rimasto per più di cinquanta anni nel magazzino del mercante d'arte tedesco, che aveva raccolto tele di molti pittori durante l'ultima guerra mondiale.



BIBLIOGRAFIA

 

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Sanguineti Edoardo, Il giuoco del Satyricon, Torino, Einaudi, 1970.


Pubblicato il 10/04/2014

 

Note:


[1]Il romanzo fu pubblicato nel 1913. Oggi, a cento anni di distanza, si può leggere in varie edizioni, anche economiche, come Grazia Deledda, Canne al vento, Milano, Oscar Mondadori, 2013, da cui si cita.

[2]Le panas sono le donne morte di parto.

[3]L. Pirandello, Novelle per un anno, a cura di M. Costanzo, premessa di G. Macchia, I Meridiani, vol. II, Milano, Arnoldo Mondadori, 1985. Nello specifico si tratta delle novelle Male di luna e a Ciàula scopre la luna.

[4]Qui si tratta della novella Male di luna.

[5]Vagellavano = Si muovevano qua e là a caso.

[6]Si cita da Edoardo Sanguineti, Il giuoco del Satyricon, Torino, Einaudi, 1970, cap. LXII, pp. 79-81.

[7]Si tratta della novella Ciàula scopre la luna.

[8]Galileo Galilei, Sidereus nuncius, in G. G., Opere, a cura di Ferdinando Flora, traduzione di Luisa Lanzillotta, Milano-Napoli, Ricciardi, 1953. 

[9]«Quando altro frutto non ci venga da questa navigazione, a me pare che ella ci sia profittevolissima in quanto che per un tempo essa ci tiene liberi dalla noia, ci fa cara la vita, ci fa pregevoli molte cose che altrimenti non avremmo in considerazione. (…) Ciascuna navigazione è, per giudizio mio, quasi un salto dalla rupe di Leucade; producendo le medesime utilità, ma più durevoli che quello non produrrebbe.» (Dialogo di Colombo e Gutierrez, in G. Leopardi, Opere, a cura di G. Getto, Milano, Mursia, 1966, p. 374).

[10]Il Sogno di Keplero. La Terra vista dalla Luna in un racconto del grande astronomo tedesco, a cura di A.M. Lombardi, Milano, Sironi editore, 2009. Nel 1630 quando Keplero morì, quest'opera non era ancora stampata a causa delle ostilità culturali ed ideologiche, che avevano portato persino ad un'accusa di stregoneria nei confronti della madre in un processo durato sei anni.

[11]«Si dice appunto che gli spiriti maligni sono potenze delle tenebre e dell'aria; si potrebbe credere dunque che essi siano condannati e per così dire confinati negli spazi bui del cono d'ombra della Terra. Perciò, quando questo cono d'ombra arriva a toccare la Luna, allora schiere di demoni la invadono, usando quell'ombra come una scala.» (Il Sogno…, cit., p. 81, nota 55).

[12]Ivi, p. 49; ma vedi anche la nota 89 a p. 90: «Mi è piaciuto dare il nome di Volva, secondo l'immagine che ne hanno le genti lunari, a quella che noi terrestri chiamano Terra. Infatti, come qui si è dato all'astro notturno, per il suo colore bianco, il nome di Lebhana in ebraico, di Luna in etrusco – suppongo per derivazione dal punico – e, ancora in greco Selene, da σελαζ che significa «splendore biancheggiante», per il fatto che a noi che stiamo sulla Terra appare in questo modo, così è ragionevole che le genti lunari attribuiscano un nome alla nostra Terra – per loro come una specie di Luna – derivante dal suo aspetto. E, appunto, la nostra sfera gli si mostra in cielo in perpetua rotazione sul proprio asse immobile…».

[13]«…volevo anche far intuire questo: se da una genitrice come l'esperienza inesperta – o, secondo il linguaggio medico, la pratica empirica – discende come figlia la Scienza, allora, finché tra gli uomini sopravvive come madre l'Ignoranza non è sicuro diffondere tra la gente comune le cause più segrete delle cose: è meglio piuttosto rispettare e onorare le antiche convinzioni e attendere che il tempo faccia il suo corso, grazie al quale, quasi consumata dalla vecchiaia, alla fine anche l'Ignoranza verrà meno.» (Ivi, p. 67, nota 4).

[14]Le maghe tessale, usando la loro magia, riescono a trascinare gli astri (stelle e luna) giù dal cielo e a farli adagiare sulla terra; il che significa che sono capaci di sovvertire i meccanismi della natura e di manipolare anche gli dei, che per questo non sono più in grado di orientare in positivo il corso della storia.

[15]Lucano, Farsaglia, traduzione di Luca Canali, Milano, BUR, 1981.

[16]«illis et sidera primum / precipiti deducta polo, Phoebeque serena / non aliter diris verbo rum obsessa venenis / palliut et nigris terrenisque ignibus arsit, / quam si fraterna prohiberet imagine tellus / insereretque suas flambi caelestibus umbras, / et patitur tantos cantu depressa latore / donec suppositas propior despumet in herbas» ( VI 499-506).

[17]Meyer H. Abrams, Lo specchio e la lampada, Bologna, il Mulino, 1976.

[18]Luigi Blasucci, Alla luna di Giacomo Leopardi, in «Per leggere», n. 2, 2002, pp. 63-70.

[19]«O graziosa luna» (v.1) e «o mia diletta luna» (10).

[20]Italo Calvino, Ti con zero, Torino, Einaudi, 1967¹, da cui si cita.

[21]Vedi supra nota 19.

[22]«Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura, / ché la diritta via era smarrita. / Ahi quanto a dir qual era è cosa dura / esta selva selvaggia e aspra e forte / che nel pensier rinnova la paura! / tant'è amara che poco è più morte; / ma per trattar del ben ch'io vi trovai, / dirò dell'altre cose ch'i' v'ho scorte. / Io non so ben ridir com' i' v'entrai, / tant'era pien di sonno a quel punto /che la verace via abbandonai.» (Inf. 1-12).

[23]I. Calvino, Ti con zero, cit., p. 13.

[24]I. Calvino, Le Cosmicomiche, Milano, Garzanti, 1991 [1965¹].

[25]I. Calvino, Il rapporto con la Luna, in Una pietra sopra, Milano, Oscar Mondadori, 1998 [1980¹], pp. 220-222.

[26]Apuleio, Le metamorfosi o L'asino d'oro. Si può leggere nell'edizione a cura di R. Merkelbach, Milano, BUR, 1986 [1977¹] o nell'edizione a cura di A. Fo, Milano, Frassinelli, 2002.

[27]Molto altro ci sarebbe da dire riguardo alla Luna e a come la letteratura l'ha cantata nei secoli, ma sarebbe necessaria una trattazione lunga e circostanziata. Mi limito qui a suggerire un utile strumento didattico, che si può trovare on-line: Modulo tematico interdisciplinare "Lo specchio della luna" della casa editrice Palumbo:http://www.palumboeditore.it/portals/0/webooks/lcd/v2//M4_ON_LINE_v2.pdf.

[28]Murakami Haruki, 1Q84, Torino, Einaudi, 2011 (Parte Prima e Seconda) e 2012 (Parte Terza).