Simonetta Teucci - I mille volti della paura

Premessa a mo’ di giustificazione / Iconografia della paura / Dante nella Commedia non è immune dalla paura / Petrarca e il De remediis / Le origini letterarie della paura / I promessi sposi e la paura / La paura nella letteratura di guerra / Oderint dum metuant

Premessa a mo' di giustificazione

 

Il tema scelto dalla redazione per quest'anno forse più di altri avrebbe avuto bisogno di una trattazione ampia o di focalizzarsi solamente su un suo aspetto. Ho invece scelto di affrontarlo in modo plurimo, per poter suggerire vari spunti di riflessione e piste di lavoro per quanti, docenti e studenti, intendono accostarsi a questo tema. Parziale e sintetica risulta pertanto la trattazione dei vari paragrafi in funzione dello spazio editoriale, ma la sua espansione è potenzialmente infinita sia nell'ambito della letteratura italiana e straniera nonché di quella classica, sia in quello dell'arte, della storia, della filosofia, della linguistica, della sociologia, della geopolitica, in funzione delle necessità didattiche, grazie all'apporto e alle sollecitazioni di tutte le componenti scolastiche, senza dimenticare gli stimoli che provengono dalla cronaca o dalla storia recente.

 

Introduzione

 

Che l'uomo è un misto di razionalità e irrazionalità è assodato, come pure è evidente che le passioni che lo coinvolgono in tempi e modi differenti sono la manifestazione di impulsi/reazioni a quanto gli accade. Gioia e dolore, allegria e tristezza, euforia e malinconia, amore e odio: ecco alcuni dei binomi antitetici che caratterizzano la vita ed il comportamento degli individui, considerati nella dimensione privata e pubblica, in quella interiore ed esteriore.
Sembra ormai un dato condiviso che i modi espressivi delle passioni siano distinti a seconda che a provarle siano gli uomini o le donne. Joanna Bourke [1], che fra l'altro ha scritto il saggio Paura: una storia culturale [2]sottolinea come le donne sappiano esplicitare di più le loro emozioni, riuscendo così a metabolizzarle e ad esorcizzare quelle più negative, mentre gli uomini, tradizionalmente e culturalmente 'costretti' a reprimerle in funzione del loro ruolo dominante all'interno della società occidentale, riescono a manifestarle con maggiori difficoltà e non sempre sono in grado di superarle o persino di viverle.
«L'emotività femminile, riconosciuta e accettata, permette una più diretta espressione delle difficoltà emotive e di adattamento, il che rende la sintomatologia fisica superflua. Gli uomini, al contrario, devono obbedire a regole sociali e emotive molto più rigide. Hanno quindi un maggior bisogno di preservare la propria autostima tramite complessi travestimenti e meccanismi di difesa»: è quanto la Bourke cita da Psychiatric Casualties in a Women's Service [3], un articolo medico risalente alla seconda guerra mondiale, che riguarda il modo in cui uomini e donne affrontano la paura e contraddice l'opinione comune della maggiore capacità maschile di far fronte alla paura, nella fattispecie in azioni di guerra. Da ricordare che in età moderna uno dei primi studiosi di neurofisiologia, Duchenne de Boulogne [4], si è interessato scientificamente alle passioni umane, pubblicando nel 1862 Fisiologia delle passioni e collegando quindi agli elementi neurologici e fisiologici quelli che genericamente venivano (e vengono ancora) chiamati sentimenti o emozioni. 
Alle origini della società occidentale sono stati i Greci a mettere in campo attraverso l'esperienza teatrale della tragedia le forme, anche le più estreme, nelle quali gli uomini esprimono i disagi, i turbamenti e le tensioni interiori. Si assiste così sulla scena a manifestazioni di violenza, di amore portato all'eccesso anche contro le regole morali, a tradimenti e vendette, a gioie e a dolori incarnati in personaggi simbolici, che mostrano le pieghe più nascoste e gli esiti estremi dell'animo umano. Friedrich Nietzsche [5] pone alla base della tragedia greca la dicotomia dell'apollineo e del dionisiaco, espressione di un contrasto che porta «in virtù di un miracolo metafisico della "volontà" ellenica» alla tragedia antica, che è al contempo dionisiaca e apollinea. Se Apollo è pacatezza e «immunità dalle commozioni sfrenate, è serenità olimpica imperturbabile», Dioniso è la manifestazione del turbamento che assale l'uomo quando «è staccato via all'improvviso dalle abituali forme conoscitive del fenomeno», quando cioè c'è uno scarto e si assiste all'irrompere involontario e incontrollabile di un impulso sconosciuto.
Pur tuttavia, se guardiamo ad una realtà anche più antica di quella in cui nacque la tragedia greca e che rimanda a culture e società arcaiche e primitive, ci troviamo di fronte ai riti di iniziazione - che peraltro in forme diverse sono proseguiti nelle varie epoche storiche e sono presenti anche nella nostra -, durante i quali gli adolescenti dovevano superare delle prove che infondevano paura e gli iniziandi dovevano cercare di dominarla e di vincerla. In particolare dovevano dominare la paura del pericolo e della morte, la quale costituisce per tutti gli uomini una delle fonti principali, se non la principale in assoluto, della paura. Tanto è vero che, quando Lucrezio nel I secolo a.C. compone il suo De rerum natura, vuole offrire agli uomini il tetrafarmaco [6] per liberarli appunto dalle paure che ne limitano e condizionano la vita, ed uno dei phármaka consiste proprio nel liberarsi dalla paura della morte, mettendo in atto una serie di considerazioni razionalmente pragmatiche. È vero infatti che

…..morbis cum corporis aegret,
advenit id quod eam de rebus saepe futuris
macerat inque metu male habet curisque fatigat…
(De rerum natura, III 824-826)


…..l'anima soffre
dei mali del corpo, è spesso angustiata
da cose future, il terrore la strazia,
gli affanni l'abbattono… [7]


ma dato che l'anima è mortale, perché composta di atomi come il corpo, l'uomo non deve aver paura della morte in quanto al momento del decesso l'anima ed il corpo si separano e cessa qualsiasi tipo di sensazione; perciò morire è come non essere mai nati. 

Nil igitur mors est ad nos neque pertinet hilum,
quandoquiden natura animi mortalis habetur.
(III 830-831)


Dunque la morte non è niente per noi,
non ci tocca per niente, perché l'anima
è cosa mortale.


Perciò

…..ubi non erimus, cum corporis atque animai
discidium fuerit quibus e sumus uniter apti,
scilicet haud nobis quicquam, qui non erimus tum,
accidere omnino poterit sensumque movere…
(III 838-841)


…..quando più non saremo, quando
il connubio del corpo e dell'anima, dal quale
uniti respiriamo l'aria del giorno,
si sarà spezzato, allora niente più
ci muoverà;…..


Lucrezio aggiunge che l'uomo non deve aver paura nemmeno del dolore perché la morte lo sottrae a qualsiasi sensazione dolorosa, per cui

Scire licet nobis nil esse in morte timendum
(III 86)


…..staremo sicuri
che niente c'è nella morte di orrendo.


Da notare brevemente che la traduzione presenta il termine 'orrendo', che rientra, come il verbo timere, nel campo semantico della paura, in quanto deriva dal verbo horrēre che significa 'rizzarsi (dei peli del corpo)' e 'tremare per lo spavento' [8], e quindi 'avere paura'. Significato da tener presente in particolare in merito alla rappresentazione iconografica della paura.

 

Iconografia della paura

 

Il mondo antico rappresentava la Paura come una divinità e la raffigurava fisicamente proprio con i capelli ritti (anche oggi diciamo che i capelli si drizzano per la paura), la bocca aperta, gli occhi spalancati e spaventati, secondo quanto nota Millin [9]. 
L'età medievale conosce la paura della fine del millennio con quanto di distruzione e morte è ad essa connesso, e pratica ogni sorta di ammonimento affinché gli uomini si pentano dei loro peccati per affrontare la morte incombente in grazia di Dio. I muri delle città, anche dopo l'anno Mille, presentano raffigurazioni del Memento mori, per ricordare la necessità della preghiera per la salvezza dell'anima e per l'ubbidienza alla Chiesa in una lugubre e costante prospettiva di paura, che molti secoli più tardi farà dire a Ugo Foscolo

…le città fur meste
d'effigiati scheletri: le madri
balzan ne' sonni esterrefatte, e tendono
nude le braccia su l'amato capo
del lor caro lattante onde nol desti
il gemer lungo di persona morta
chiedente la venal prece agli eredi
dal santuario….
(Dei Sepolcri 107-114) 


L'evocazione di una funerea età di mezzo, che tiene gli uomini sotto l'incubo della paura della morte e della punizione divina, è certo frutto dell'ossianesimo di fine '700 e risulta funzionale alla polemica foscoliana nei confronti di riti funebri che impediscono di attribuire al sepolcro un positivo e attivo valore civile; pur tuttavia il poeta riesce a delineare in pochi versi la sensazione di quanto la paura, e la paura della morte, paralizzasse e paralizzi l'uomo. 
Dal Medioevo all'inizio del Settecento si insiste in pittura nel veicolare la paura per mezzo di raffigurazioni mortuarie o della punizione nell'aldilà. Emblematica della mentalità medievale è al riguardo l'immagine del Trionfo della Morte nel Camposanto di Pisa, che ribadisce l'impossibilità per gli uomini di contrastare quell'evento pauroso e terribile che li aspetta inevitabilmente al termine della vita, ma il cui arrivo è imprevedibile. Una morte che, cavalcando un cavallo 'scheletrico' quanto lei, falcia e annulla gli uomini insieme a quelle che sono le delizie della vita terrena come la caccia, la musica o il consesso umano.

La punizione dopo la morte è ricorrente anche nella pittura europea nei primi secoli dell'era volgare; basta ricordare, ad esempio, il Trittico di Danzica di Hans Memling, detto anche Trittico del Giudizio Universale (1466-1473 circa), che il pittore fiammingo eseguì per un agente del banco dei Medici a Bruges, il fiorentino Angelo Tani, a testimonianza di quanto il terrore di un aldilà, che avrebbe condannato alle fiamme eterne dell'inferno, fosse diffusa in tutta Europa;

oppure un altro trittico dello stesso pittore, in linea con la tradizione del memento mori e cioè il trittico, detto proprio Del memento mori (1485), al centro del quale si accampa la vanità del mondo terreno, mentre ai lati la morte e la tomba da una parte e il diavolo con le fiamme dell'inferno dall'altra servono come monito ad allontanarsi dalle delizie e dai piaceri terreni per non incorrere nella punizione divina dopo la morte.

Anche la pittura barocca, da parte sua, è ricca di rappresentazioni di teschi e della condanna della mondanità, al fine di incutere paura negli uomini e cercare di portarli verso una vita lontana dai piaceri e tutta dedita invece alla preghiera, alla meditazione sulla morte e alla salvezza dell'anima. Fine perseguito attraverso immagini paurose e che evocano dolore fisico, punizione e morte. È il pittore Pieter Claesz, che con la sua natura morta intitolata Vanitas (1630) riassume emblematicamente questo tipo di cultura figurativa.

Quando tra il 1425 e il 1428 circa Tommaso di ser Giovanni di Simone Guidi, conosciuto come Masaccio, affrescò la cappella Brancacci a Firenze con le storie della vita di san Pietro, rappresentò anche la cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre.

Se si osservano i volti dei progenitori, si può notare come in essi siano evidenti, oltre alla disperazione, alla vergogna e al senso di colpa per aver disubbidito al monito divino di non cogliere i frutti dell'albero proibito, anche alcuni elementi riconducibili alla paura, perché non sanno cosa potrà loro accadere in un mondo sconosciuto dove dovranno pagare il fio del loro peccato, e allo spavento per la punizione divina della loro trasgressione. Peccato e paura risultano così strettamente legati fra loro in quanto la seconda è la conseguenza inevitabile del primo.
Ma è dal Settecento che qualcosa cambia nell'iconografia, a cominciare dal famoso dipinto di J. H. Fussli Incubo (1781), che evidenzia quanto e come l'uomo sia preda non tanto di paure provenienti dall'esterno quanto sia preda invece delle sue paure interiori durante il sonno, quando il controllo della ragione si allenta e le emozioni più recondite balzano all'improvviso in primo piano, turbandone la sfera emotiva. Il mostro accovacciato sullo stomaco della donna riversa sul letto e l'immagine spettrale della cavalla dagli occhi sbarrati e dalla criniera al vento che irrompe nella scena sono solamente due immagini degli incubi notturni che turbano ed agitano il sonno.

È poi dall'Ottocento, da Goya [10] in avanti, che la pittura mostra come le paure che incombono sull'uomo hanno sempre più origine dentro di lui piuttosto che provenire dal mondo esterno, nonostante che la società ed una natura adulterata incutano un terrore sempre maggiore, come è idealmente sintetizzato, ad esempio, da Edvard Munch nell'Urlo del 1893. Gli stereotipi antichi sembrano riproporsi in questo quadro, dove è sotteso un rapporto squilibrato con il mondo e con l'ambiente che l'uomo non riconosce più e dove mille motivi suscitano angoscia e terrore, non ultimi quelli che provengono da quel campo fino ad allora inesplorato scientificamente e che Freud con i suoi studi sta iniziando a svelare.

Ciò che fa paura dunque non si trova solamente nel mondo esterno, non sono i nemici di guerra o quelli sociali a incuterla; a suscitarla sono la progressiva scoperta e la consapevolezza di un mondo interiore, magmatico, complesso, financo contraddittorio, che la psicanalisi sottopone all'attenzione degli uomini. L'uomo si deve confrontare con se stesso, non solamente con l'altro, con quella parte oscura di sé che forse preferirebbe non conoscere perché non può che spaventare, tante sono le pieghe nascoste dell'io.
Se il quadro di Munch suggerisce iconicamente lo iato spaventoso che ha separato in modo definitivo e doloroso l'uomo da quel mondo che fino ad allora aveva creduto creato per lui, dove pensava di trovare quella pace e quella tranquillità che la poesia bucolica dipingeva nel locus amoenus, film come Il gabinetto del dottor Caligari [11] e come Metropolis [12]ribadiscono in altre forme narrative, quelle espressionistiche, l'insicurezza di un mondo e di una società che deve ricostruire i suoi punti di riferimento e nella quale la violenza, la sopraffazione, un potere dal volto terribile e sconosciuto, quello delle macchine, minano e minacciano la vita degli uomini ed incutono paura.

 

Dante nella Commedia non è immune dalla paura

 

Se è vero, come recita un modo di dire comune, che il primo amore non si scorda mai, è anche vero che il primo verso – o i primi versi di un testo poetico o un incipit in prosa - non si scorda mai e resta impresso nella nostra memoria.
Sicuramente permangono nella memoria di tutti i versi iniziali della Commedia

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte 
che nel pensier rinnova la paura! 
(Inf., I 1-6)


dove ci troviamo subito di fronte ad una forte emozione: la paura.
La selva oscura, lo smarrimento di un cammino conosciuto, la presenza delle tre fiere sono elementi minacciosi che concretizzano ciò che il Dante pellegrino non conosce e che teme. L'ignoto, privo dei punti di riferimento abituali, identificato nella «selva oscura» non può che suscitare paura, e non è possibile prevedere cosa vi si può trovare. Come gli adolescenti delle società primitive dovevano cercare di dominare la paura nei riti di iniziazione, così Dante, anche lui iniziando in questo caso, vive in incipit del poema la stessa condizione emotiva e deve riuscire a dominare e vincere tale sentimento, che a più riprese riappare nei versi del I canto [13], fino a che l'apparizione di Virgilio segna la svolta, il punto di forza al quale appoggiarsi e sul quale fare leva per iniziare il cammino in un mondo sconosciuto, quello dell'aldilà, ma che rappresenta il passaggio obbligato del 'rito di iniziazione' dantesco.
Quando poi nel III canto infernale Dante si trova davanti alla porta che lo introduce nell'inferno e legge la scritta sull'architrave, si trova davanti ad una sentenza lapidaria: «Lasciate ogni speranza, voi ch'intrate». Parole di «colore oscuro» certo, perché offuscate dalla sporcizia e dal fumo del luogo infernale e perché scritte con un colore scuro, ma soprattutto perché alludono ad un pericolo, a prove da superare e suonano minacciose. Chi valica la porta, passando da una dimensione conosciuta ad una ignota, deve abbandonare la speranza. E la speranza è il sentimento positivo antitetico alla paura! Al di là della porta lo aspetta il pericolo; e con il pericolo rinasce la paura. Ad esempio quando Dante e Virgilio attraversano lo Stige e vengono ostacolati dai demoni, che impediscono loro di proseguire il cammino, la paura coglie i due pellegrini alle parole dei diavoli che acconsentirebbero a far proseguire solo Virgilio. Ci troviamo in questo caso di fronte ad uno degli appelli del poeta al lettore «Pensa, lettor, se io mi sconfortai / nel suon de le parole maledette» (Inf. VIII 94-95) con il quale Dante sottolinea la sua paura; ma Virgilio lo rassicura, dicendo «Non temer; ché 'l nostro passo / non ci può tòrre alcun: da tal n'è dato. / Ma qui m'attendi, e lo spirito lasso / conforta e ciba di speranza buona» (103-106).
Due sono gli elementi presenti in questi pochi versi: in primo luogo Virgilio conforta Dante, spingendolo a non aver paura perché il suo viaggio è voluto da Dio e niente può ostacolare la volontà divina ed il buon esito del cammino dantesco. La garanzia è dovuta ad un Ente soprannaturale al quale gli uomini si rivolgono e fanno appello nei momenti difficili, attribuendogli il potere di indirizzare le azioni e le situazioni a loro difesa. Inoltre lo invita a nutrirsi «di speranza buona», servendosi di un'argomentazione tutta terrena e alludendo al fatto che il miglior antidoto della paura è il suo contrario, la speranza appunto, che permette di proiettare prospettive positive nel futuro, al momento sconosciuto. Nondimeno è necessario l'intervento del messo celeste alla riva dello Stige, a ribadire l'onnipresenza divina nel mondo, perché i diavoli si disperdano ed il cuore di Dante allontani la paura.
Che dire poi della paura rinnovata dall'incontro/scontro con i diavoli di Malebolge nel canto XXI dell'Inferno? Dante teme i diavoli che lo stanno ostacolando e si stanno prendendo gioco di lui, e teme che non mantengano il patto stipulato con Virgilio di farlo passare; questa volta non sono le parole di Virgilio ad esprimere il sentimento dantesco bensì una similitudine che paragona il timore di Dante a quello di coloro che avevano combattuto a Caprona nel 1289:

Così vid'io già temer li fanti
ch'uscivan patteggiati di Caprona,
veggendo sé tra nemici cotanti. 
(Inf., XXI 94-96)


Alla paura dantesca per i diavoli di Malebolge si unisce, a rimarcarla, quella dei ghibellini che avevano cercato di difendere il castello di Caprona, riconquistato il 6 agosto 1289 dalla Taglia guelfa. I ghibellini, dopo la sconfitta, patteggiarono la resa per aver salva la vita e dovettero uscire dal castello in mezzo ai nemici dei quali non si fidavano; da qui discendeva il loro timore. Dante è maestro nell'uso delle similitudini e nel riportare alla vita terrena e all'esperienza dei lettori quanto gli accade nell'aldilà, così il riferimento a situazioni storiche come questa, ben conosciute dai suoi contemporanei, o a condizioni riguardanti la vita quotidiana o a fatti biografici fornisce concretezza alla narrazione, la rende più incisiva attraverso il coinvolgimento emotivo del lettore, che prova in tale modo le emozioni ed i sentimenti del pellegrino Dante, come l'amicizia, il rispetto per il suo maestro Brunetto, lo sdegno politico e appunto la paura. 
Ancora più in basso nelle Malebolge, dopo che i diavoli sono stati beffati e Dante teme che vogliano vendicarsi, rinasce in lui la paura, tanto che all'inizio del canto XXIII un'altra similitudine sottolinea come questa aumenti: 

E come l'un pensier de l'altro scoppia, 
così nacque di quello un altro poi, 
che la prima paura si fé doppia.» 
(Inf. XXIII, 10-12).


Addirittura torna l'immagine dei peli che si drizzano per lo spavento in quanto Dante sente «arricciar li peli / de la paura» (vv. 19-20) a sottolineare gli effetti fisici di questo sentimento.

 

Petrarca e il De remediis

 

Nel De remediis utriusque fortunae [14], l'opera che ebbe una grande diffusione dopo la sua morte e nei secoli successivi, tanto che Machiavelli la tenne come punto di riferimento per le sue opere, Petrarca affronta un tema quanto mai dibattuto al suo tempo, quello della Fortuna, e lo affronta tenendo presente la filosofia antica e quella stoica in particolare. Secondo l'uso retorico della prosopopea fa dialogare Ratio con Gaudium e Spes nel primo libro, con Metus e Dolor nel secondo. Il che significa che il dialogo della Ragione si articola e si confronta con le quattro passioni di cui si è interessata la filosofia e la psicologia stoica, che attraverso Boezio, Ambrogio, Agostino è arrivata al Medioevo, influenzandone il pensiero e l'indagine.

La buona e la cattiva fortuna - e sappiamo che la lingua latina considera ed usa il termine fortuna come vox media - hanno le loro ripercussioni e mostrano i loro esiti sia nel corpo sia nell'animo degli uomini.

Nec me fallit, ut in corporibus hominum, sic in animis multiplici passione affectis, medicamenta verborum multis inefficacia visum iri, sed nec illud quoque me preterit, ut invisibiles animorum morbos, sic invisibilia esse remedia. [15] (Prefazione 19)

So perfettamente che molti titerranno che, come per il corpo, cercare di guarire le molteplici passioni dell'animo con il medicamento della parola è un rimedio ben poco efficace. So però che alle invisibili malattie dell'animo occorrono rimedi invisibili. 

Petrarca parla dunque delle passioni, anche di quelle che vengono ritenute le più comuni come 'malattie', ed è ben conosciuto quanto lo scrittore abbia sottolineato l'accidia come la 'malattia dell'anima' che ha impresso la cifra alla sua vita, per lo meno quella che lui disegna per i posteri [16].
Proseguendo la prefazione al libro I del De remediis, individua stoicamente le quattro passioni umane:

Sic autem ad legendum venies, quasi quattuor ille famosiores et consanguinee passiones animi, spes seu cupiditas et gaudium, metus et dolor, quas due sorores equis partubus prosperitas et adversitas peperere, hinc illinc humano animo insultent. (Prefazione 20)

Quando ti porrai a leggere questo scritto vedrai che quattro sono le passioni che attaccano a destra e a sinistra l'animo dell'uomo e cioè la speranza (o spasmodico desiderio) e la gioia, il timore e il dolore: le prime due figlie della prosperità, i due ultimi della sorella di lei: l'avversità. 

L'unica difesa che l'uomo può opporre agli assalti duplici delle passioni è appunto la ragione che con lo scudo e con l'elmo (clipeo et galea), con le proprie armi e la propria forza (suisque artibus et propria vi) e soprattutto con l'aiuto divino (sed celesti magis auxilio) allontana, disperde e tiene a bada le armi nemiche che l'attaccano da ogni parte (circumferentia hostium tela discutiat).
Ci troviamo dunque di fronte a due coppie speculari di passioni e di emozioni e di esse la Paura accompagna il Dolore e si oppone alla Speranza (o desiderio) e alla Gioia. Speranza e Paura si proiettano entrambe in un territorio sconosciuto, dove ciò che non si sa, ciò che non si conosce spinge ad andare avanti con aspettative positive e al contempo suscita timore per quanto si verrà a scoprire. Speranza e Paura sono dunque poste in rapporto con il tempo, il presente ed il futuro, e devono fare i conti con il corpo che, come spiega ad esempio Anchise al figlio Enea nell'Ade virgiliana, condiziona l'anima, nonostante la sua origine celeste:

Igneus est ollis vigor et celesti origo
semibus, quantum non noxia corpora tardant
terrenique hebetant artus moribundaque membra.
Hinc metuunt cupiuntque, dolent gaudentque, neque auras
discipint clausae tenebris et carcere caeco. [17]
(Virgilio, Eneide, VI 730-734)


In quei semi è un igneo vapore, una celeste
origine che in loro sussiste finché corpi nocivi, 
arti terreni e membra mortali non li impediscono.
Di qui le paure, le brame, i dolori, le gioie; non vedono
quindi le aure celesti, chiuse nell'ombra di un carcere.


È dunque il corpo la causa per cui gli uomini metuunt cupiuntque dolent gaudentque e da questi sentimenti di paura e desiderio, di dolore e di gioia viene sovvertita la tranquillità e l'equilibrio delle loro menti.
Come abbiamo già ricordato, la paura più diffusa fra gli uomini è la paura della morte, e come Lucrezio ha voluto donare all'uomo l'antidoto razionale contro tale paura, così anche Petrarca affronta questo aspetto nel De remediis, sostenendo la necessità di pensare alla morte, per esorcizzarne la paura, per bocca della Ragione, in risposta al reiterato «Mori timeo» di Paura:

Hic non timor sed cogitatus esse debet, qui, si novus incipit, nec a prima etate tecum crevit, si per intervalla rediens non assiduus fuit, improvide vixisti. (De remediis, II 116)

Questo della morte non deve essere una paura ma un pensiero costante, che, se non ti ha accompagnato sino dalla prima giovinezza ma ti si è presentato solo per intervalli, sta a indicare che sei vissuto in modo improvvido.

E le consiglia di meditare su quanto scrive Orazio: 

Inter spem curamque, timores, inter et iras,
omnem crede diem tibi diluxisse supremum, [18] 
(Epistole, I, 4, vv. 12-13)


…..Tu fra la speranza
e l'affanno, tu fra i timori e l'ire
pensa che ciascun giorno splenda l'ultimo,


che altro non è che l'ammonimento a considerare ogni giorno come l'ultimo, pur se l'uomo è coinvolto dalle passioni e nelle passioni. Ed anche in Orazio troviamo le quattro passioni citate da Petrarca: la speranza e la preoccupazione, la paura e l'ira.
Paura interloquisce dunque con Ragione, ripetendo in modo quasi ossessivo, proprio come fa l'uomo quando, preso dal timore, riesce appena ad articolare le parole e si affida ad una angosciata ripetizione: «Mori timeo», «Timeo mori», «Mortem horreo», «Nomen ipsum mortis exhorreo». Ragione ribatte che Paura avrebbe dovuto temere di nascere e di vivere, in quanto, se uno nasce, inizia un cammino più o meno lungo verso la morte. Gli echi lucreziani e senecani, oltre che oraziani e di tutta la tradizione antica, in Petrarca sono evidenti.

 

Le origini letterarie della paura

 

Aristotele affronta la tragedia nella sua Poetica in questi termini:

Tragedia è dunque imitazione di un'azione seria e compiuta, avente una propria grandezza, con parola ornata, distintamente per ciascun elemento nelle sue parti, di persone che agiscono e non tramite una narrazione, la quale per mezzo di pietà e di paura (phobos) porta a compimento la depurazione di siffatte emozioni. [19]

Da notare che la catarsi, la «depurazione di siffatte emozioni» e quindi il loro superamento, si ottiene mettendo in scena la pietà, cioè la compassione nel suo valore di cum patior, del provare gli stessi sentimenti insieme ai personaggi in quella proiezione e identificazione con quanto avviene sulla scena, per altro tanto temuta e rifiutata sulla scorta di Agostino da Manzoni, che, al fine di infrangere la mimesi dello spettatore con l'azione scenica e del lettore col testo letterario, introduce nelle sue tragedie il coro e nel romanzo le interruzioni e gli interventi del narratore. Anche la paura fa condividere agli spettatori la tensione estrema di questa emozione, come se fossero loro stessi a viverla in prima persona e la dovessero vivere fino in fondo, fino allo spasimo, per riuscire a vincerla e a liberarsene nella condivisione 'passionale', in un crescendo simpatetico.
I personaggi delle tragedie greche sono rappresentati in situazioni di pericolo e di disgrazia, si trovano di fronte all'ignoto mentre la volontà degli dei ed il fato li spingono ad azioni inopinate. Basti un esempio per tutti. Edipo uccide il padre Laio inconsapevolmente ed altrettanto inconsapevolmente sposa la madre Giocasta, infrangendo il tabu più grande di ogni tipo di società. Solo quando gli viene rivelata la sua vera identità, capisce la mostruosità delle due azioni compiute, l'uccisione del padre e l'incesto. A questo punto non può tornare indietro, non può riparare agli errori commessi anche se senza colpa, ed il suo destino è drammatico. Il rimorso, la disperazione, l'angoscia interiore, cioè la paura per le azioni commesse, lo portano ad accecarsi, rivolgendo l'aggressività contro se stesso, e all'esilio in povertà. La sua 'ignoranza' della realtà delle cose è l'origine delle sue azioni prima e poi della sua paura e della sua angoscia, prive ormai, lo sa bene, di qualsiasi speranza.

 

I promessi sposi e la paura

 

I promessi sposi [20] si aprono con una scena dominata dalla paura, quella di don Abbondio all'apparire dei bravi, quando

Voltata la stradetta, e dirizzando, com'era solito, lo sguardo al tabernacolo, vide una cosa che non s'aspettava, e che non avrebbe voluto vedere. (cap. I, p. 253)

Il curato non è certo un tipo coraggioso. Tutt'altro. Eppure, «non potendo schivare il pericolo, vi corse incontro» pur di abbreviare la distanza fisica e temporale rappresentata dai bravi, con la decisione e con l'atteggiamento di chi nutre in cuor suo la paura di ciò che l'aspetta. L'incognita va esorcizzata con la velocità per riuscire a sapere subito cosa essa nasconde ed annullare l'incertezza, ancora più angosciante della paura stessa.
Al tono minaccioso di uno dei bravi, l'uomo risponde «con voce tremolante», evidenziando così involontariamente la differenza fra l'atteggiamento esteriore e l'emozione interiore. Bastano i nomi dei due giovani fidanzati per aprirgli le porte del reale pericolo, spalancate poi dal nome di don Rodrigo, pronunciato dal bravo; è a questo punto che la paura, percepita prima in modo indistinto e piano piano chiarita nei suoi contorni, diventa vero e proprio terrore. L'incedere del curato per la strada che lo conduce a casa è incerto, perché mette «innanzi a stento una gamba dopo l'altra, che parevano aggranchiate» (cap. I, p. 258), ed è ben diverso dalla calma con la quale era solito percorrere quella passeggiata mentre leggeva il breviario e contemplava lo scenario naturale delle montagne prospicienti il lago.
Del resto la scelta stessa di abbracciare lo stato ecclesiastico era stata dettata dal suo essere un uomo «tranquillo, inoffensivo» ma che non aveva «altri mezzi di far paura altrui» (il 'far paura' è la dimostrazione di un potere, per piccolo che sia!). La volontà di sottrarsi alla paura di chicchessia è stata la matrice della sua scelta di vita. Infatti in una realtà come quella della società seicentesca, nella quale il sopruso e la violenza erano la regola e chi non aveva la capacità, la forza o la volontà per esercitarli era inevitabilmente sottoposto al sopruso, vittima designata di chi invece ne faceva il proprio modo di vivere, l'abito talare poteva rappresentare una difesa, seppur minima, soprattutto in realtà marginali come il lecchese e Pescarenico.
Don Rodrigo è colui che incute paura al pavido curato e al territorio che domina dal suo palazzotto. Come lui, anche i suoi antenati avevano gestito il loro potere attraverso la paura, tanto è vero che, quando Rodrigo dopo l'incontro/scontro con fra Cristoforo misura irato la sala contenente i ritratti di famiglia, cosa vede? con chi si confronta? con 

un suo antenato guerriero, terrore de' nemici e de' suoi soldati, torvo nella guardatura, co' capelli corti e ritti, co' baffi tirati e a punta, che sporgevan dalle guance, col mento obliquo: ritto in piedi l'eroe, con le gambiere, co' cosciali, con la corazza, co' bracciali, co' guanti, tutto di ferro; con la destra sul fianco e la sinistra sul pomo della spada. (cap. VII, p. 332)

La postura e le insegne militari da soli incutono paura; se a questi si aggiunge lo sguardo minaccioso, che non lascia sperare niente di buono, il quadro è completo. Le parole sono un sovrappiù. L'aspetto ed il portamento comunicano il potere, la violenza in esso insita e, perché no?, la vendetta esercitati da costui. L'effetto è la paura.
Ecco che un altro antenato è un «magistrato, terrore de' litiganti e degli avvocati», tutto vestito di nero, colore di per sé parlante; poi una «matrona, terrore delle sue cameriere; di là un abate, terrore de' suoi monaci: tutta gente in somma che aveva fatto terrore e lo spirava ancora dalle tele» (cap. VII, p. 333).
Manzoni abbraccia attraverso questi ritratti le forme del potere seicentesco, maschile o femminile che fosse, civile o militare o religioso, che si riversa prima di tutto su coloro che sono più vicini, in questo caso le cameriere o i monaci. Il terrore, ripetuto in tricolon, è il comune denominatore dei ritratti, quel terrore evocato anche nel coro dell'atto IV dell'Adelchi, quando Ermengarda è definita «te dalla rea progenie / degli oppressor discesa, / cui fu prodezza il numero, / cui fu ragion l'offesa, / e dritto il sangue, e gloria / il non aver pietà» [21], il che mostra i modi e le forme in cui veniva esercitato il potere al tempo e con cui si incuteva paura.
Dunque la paura 'del' potere – nella sua accezione oggettiva - fa temere tutto ciò che proviene da chi comanda e induce a non avere altra scelta se non sottomettersi ed ubbidire.
Ben diverse da quelle di don Abbondio sono le paure vissute da Lucia in momenti diversi del romanzo. Quelle che precedono il tentativo del matrimonio di sorpresa permettono al narratore una riflessione sui fantasmi e sulle paure del sogno alla vigilia di un'azione particolare; al risveglio «l'immaginazione dà indietro sgomentata; le membra par che ricusino d'ubbidire; e il cuore manca alle promesse che aveva fatte con più sicurezza» (cap. VII, p. 341). È il corpo che, diventando rigido e tremando, mette in evidenza la paura di Lucia, la quale finisce per essere trascinata da Agnese e da Renzo fuori di casa, priva di qualsiasi volontà di azione. La paralisi fisica corrisponde così alla paralisi della volontà e della ragione davanti a ciò che intimorisce.
Ma una paura ben più grave di quella provata nella notte degli imbrogli si riverserà su Lucia in due momenti decisivi per la sua vita e per la storia narrata. Quando Gertrude cede alla richiesta dell'Innominato di far uscire la giovane dal convento in modo che possa essere rapita, ad aspettarla ci sono i bravi che senza tanti scrupoli la sbattono dentro la carrozza. Il Nibbio l'afferra per la vita all'improvviso e la reazione immediata di Lucia è il terrore che le fa cacciare un urlo, pur se inizialmente non le impedisce di muoversi, tanto è vero che si divincola persino all'interno della carrozza. Anche in questo caso entra in scena il narratore a commentare lo stato d'animo della giovane, dichiarandosi incapace di 

descrivere il terrore, l'angoscia di costei […] Spalancava gli occhi spaventati, per ansietà di conoscere la sua orribile situazione, e li richiudeva subito, per il ribrezzo e per il terrore di que' visacci: si storceva, ma era tenuta da tutte le parti: raccoglieva tutte le sue forze, e dava delle stratte, per buttarsi verso lo sportello. (cap. XX, p. 518)

Dopo che il suo corpo aveva reagito con forza alla violenza che stava subendo, contrapponendo violenza alla violenza, 

dopo qualche momento d'una lotta così angosciosa, parve che s'acquietasse; allentò le braccia, lasciò cadere la testa all'indietro, alzò a stento le palpebre, tenendo l'occhio immobile; e quegli orridi visacci che le stavan davanti le parvero confondersi e ondeggiare insieme in un miscuglio mostruoso: le fuggì il colore dal viso; un sudor freddo glielo coprì; s'abbandonò, e svenne. (cap. XX, p. 519)

Al parossismo generato dalla paura segue la paralisi delle forze fisiche oltre che psichiche a tal punto da sottrarle qualsiasi capacità di reazione fino allo svenimento. Al tornare delle forze, Lucia prova a «buttarsi ancora verso lo sportello, per lanciarsi fuori», ma vedendo l'inutilità dei suoi sforzi non può che rifugiarsi nella preghiera. L'appello al soprannaturale costituisce infatti una delle poche difese, se non l'unica, contro la paura dell'ignoto e Dio diventa l'unico scudo. 

Accorata, affannata, atterrita sempre più nel vedere che le sue parole non facevano nessun colpo, Lucia si rivolse a Colui che tiene in mano il cuore degli uomini, e può, quando voglia, intenerire i più duri. Si strinse il più che poté, nel canto della carrozza, mise le braccia in croce sul petto, e pregò qualche tempo con la mente; poi, tirata fuori la corona, cominciò a dire il rosario, con più fede e con più affetto, che non avesse ancor fatto in vita sua (cap. XX, p. 520),

nonostante che in varie situazioni, non certo quelle che riguardano il romanzo manzoniano, sia proprio la paura del divino a spaventare l'uomo. Lucia invoca Dio in aiuto, perché, come più tardi sbotterà l'Innominato nel primo colloquio con lei, «coloro che non possono difendersi da sé, che non hanno la forza, sempre han questo Dio da mettere in campo, come se gli avessero parlato» (cap. XXI, p. 527). Tuttavia l'incontro fra Lucia ed il suo carceriere apre altri squarci di realtà dove la paura domina la scena. E non solo per quanto riguarda Lucia. Infatti, già mentre l'Innominato la aspetta e segue con gli occhi il percorso della carrozza verso il suo castellaccio, si insinua nel suo animo un'«inquietudine», mai provata prima, che si trasforma in «ribrezzo» e «direi quasi un terrore» (ivi, p. 521). La situazione è davvero anomala per chi ha compiuto tanti misfatti senza provare tale sentimento. Proprio questa confusa incertezza interiore è la spia iniziale di quanto accadrà durante la notte. La paura, tante volte suscitata negli altri deboli e indifesi, è in agguato anche per chi l'aveva esercitata e ne era stato fino ad allora indenne.
Forse non sono tanto le parole ed il comportamento supplichevole di Lucia a incidere sull'animo duro ed insensibile di quest'uomo, quanto a condizionarlo è il gorgo delle emozioni interiori, che non riesce a dominare e che gli sfuggono. 
Una parola del suo padrone poi stupisce la vecchia che doveva badare a Lucia: «falle coraggio» (ivi, p. 522). 'Coraggio', è interessante notarlo, è il contrario di 'paura'; forse è con il coraggio che si può calmare la paura. L'Innominato risponde allo stupore della donna a questo ordine con un tono spazientito, proprio di chi non saprebbe comportarsi in una situazione difficile e inconsueta: 

Cosa le devi dire? Falle coraggio, ti dico. Tu sei venuta a codesta età, senza sapere come si fa coraggio a una creatura, quando si vuole! Hai tu mai sentito affanno di cuore? Hai tu mai avuto paura? Non sai le parole che fanno piacere in que' momenti? Dille di quelle parole: trovale, alla malora. Va. (ivi, pp. 522-23)

In questo modo scarica sulla vecchia la responsabilità ed il compito di cercare le parole adatte alle circostanze, parole che lui non conosce e non sa usare. E come don Abbondio era andato incontro ai bravi, abbreviando la distanza con la velocità del passo, così l'Innominato, chiusa la finestra, «si mise a camminare innanzi e indietro per la stanza, con un passo di viaggiatore frettoloso», a ulteriore dimostrazione di quanto la prossemica ed il movimento del corpo lascino trasparire le emozioni interiori, soprattutto quelle che si vorrebbero tenere celate agli altri oltre che a se stessi.
È dunque nel cap. XXI che compaiono parole e comportamenti inusitati nel castellaccio dell'Innominato: non solo 'paura', la paura che si rinnova in Lucia e la fa tremare, impedendole quasi di parlare; ma anche 'coraggio', termine ripetuto insistentemente dalla vecchia, come a rassicurarsi di fare tutto quanto il padrone le ha ordinato (ed è la paura di non essere all'altezza del compito che glielo fa ripetere); 'compassione', che, come risponde il Nibbio all'Innominato, «è una storia la compassione un poco come la paura; se uno la lascia prender possesso, non è più uomo» (p. 525).
Quando l'Innominato entra nella stanza dove ha fatto portare Lucia, ancora una volta è il corpo che parla il linguaggio della paura, perché la giovane «non muovendosi, se non che tremava tutta» e con «quel viso turbato dall'accoramento e dal terrore […] col tremito della paura». (p. 527), la manifestava apertamente. 
Di nuovo è la preghiera la difesa di Lucia, ciò che le permette di attutire la paura, aprendole il cuore alla speranza, tanto che quando si mette al collo la corona del rosario è come se indossasse una corazza a protezione del suo corpo.
Da parte sua l'Innominato nel travaglio notturno ricorda le parole del Nibbio «non è più uomo» e si chiede «io non son più uomo, io?» e, al ricordo delle sue nefandezze, non solo non torna in lui la «fermezza», non solo non riesce a spegnere «quella molesta pietà», ma nel suo cuore «vi destava in vece una specie di terrore», tanto che spaventato e angosciato si ripete «Non son più uomo, non son più uomo!» (p. 532). Ed in effetti non era più l'uomo di prima, quello che aveva seminato paura e terrore, e si stava avviando, sia pur inconsapevolmente, a diventare davvero 'uomo', ma un uomo ben diverso da quello di prima.
All'inizio del cap. XIII del romanzo Manzoni ha rappresentato con tono ben diverso un'altra scena in cui la paura la fa da padrona, sebbene in questo caso gli interessi sottolineare la pusillanimità del personaggio.

Il meschino girava di stanza in stanza, pallido, senza fiato, battendo palma a palma, raccomandandosi a Dio, e a' suoi servitori, che tenessero fermo, che trovassero la maniera di farlo scappare. Ma come, e di dove? Salì in soffitta; da un pertugio, guardò ansiosamente nella strada, e la vide piena zeppa di furibondi; sentì le voci che chiedevan la sua morte; e più smarrito che mai, si ritirò, e andò a cercare il più sicuro e riposto nascondiglio. Lì rannicchiato, stava attento, attento, se mai il funesto rumore s'affievolisse, se il tumulto s'acquietasse un poco; ma sentendo in vece il muggito alzarsi più feroce e più rumoroso, e raddoppiare i picchi, preso da un nuovo soprassalto al cuore, si turava gli orecchi in fretta. Poi, come fuori di sé, stringendo i denti, e raggrinzando il viso, stendeva le braccia, e puntava i pugni, come se volesse tener ferma la porta… (cap. XIII, p. 422)

Si tratta del vicario di provvigione che cerca di sfuggire la folla inferocita per la mancanza di pane e farina, ed ancora una volta il narratore sfrutta il linguaggio del corpo per descrivere le manifestazioni della paura: il vicario scappa in soffitta, si nasconde e si rannicchia, si tappa le orecchie, contrae il volto. I suoi atteggiamenti, in particolare il cercare rifugio in un angolo nascosto, anticipano quelli di Lucia all'interno della carrozza con la quale viene rapita e poi nella stanza del castellaccio dell'Innominato dove viene tenuta la notte. Il turarsi le orecchie, stringere i denti e via dicendo appaiono come reazioni inconsulte in chi si vede perduto, braccato dalla folla, e non riesce più a controllarsi e a ragionare. Chi aveva seminato terrore, ora ne è succube.

 

La paura nella letteratura di guerra

 

La paura può avere un'origine sociale, per cui l'uomo teme di sbagliare, non riuscendo a rispettare le regole della società nella quale vive; lo stesso discorso vale nell'ambito più ristretto di un gruppo, della famiglia, dell'ambiente lavorativo e così via. Pensare o credere di non essere all'altezza delle regole e delle aspettative private e pubbliche porta l'uomo ad avere paura in modo più o meno cosciente e consapevole ed a reagire ad essa in modo imprevedibile. Si hanno così manifestazioni di violenza, di aggressività, di furia, di rabbia, di collera, di frustrazione, e l'aggressività si può rivolgere non solamente verso l'esterno e verso gli altri, ma può essere indirizzata anche contro se stessi. Un esempio letterario, pur nella sua brevità e nella collocazione durante la prima guerra mondiale, è sintomatico a questo riguardo.
Il racconto breve di Federico De Roberto [22], che contiene una climax emotiva che solo il finale tragico e imprevedibile può sciogliere, mostra quanta forza eserciti la paura sugli uomini, anche quelli dimostratisi i più coraggiosi in altre situazioni. Lo scenario di La paura [23] è quello delle trincee e degli avamposti della prima guerra mondiale e l'incipit anticipa e sottolinea, con la ripetizione del termine 'orrore', quanto succederà: «Nell'orrore della guerra l'orrore della natura» (p. 1557). Luoghi inospitali e rocciosi sono infatti il corrispettivo fisico della durezza della guerra e al contempo del suo non-senso. Come spesso accadde durante la prima guerra mondiale, i soldati che si fronteggiavano dalle due parti contrapposte avevano finito per 'fraternizzare', per quanto lo si può in una situazione di belligeranza, e le ostilità si erano trasformate in una «vigilanza incessante» ma non cruenta, tanto che si arrivava persino allo scambio di «qualche pagnotta» e di «qualche pacchetto di tabacco».
L'eco di un tale comportamento si trova in Ungaretti che apre la poesia Fratelli, composta a Mariano il 15 luglio 1916, con la domanda «Di che reggimento siete / fratelli?» a cui segue a corollario il distico «Parola tremante / nella notte» a dimostrazione dell'esistenza di una condivisione esistenziale che fa chiamare "fratelli" gli uomini che si trovano al fronte.
Nel racconto derobertiano il plotone del tenente Alfani sostituisce quello del sottotenente Moro, come era ormai consuetudine da due mesi, e «Collocate le sentinelle interne ai noti cinque posti, fatta cambiar la vedetta scoperta sulla piazzola, assegnato il turno alle quattro squadre, Alfani si era affacciato un momento alla feritoia centrale» (p. 1559).
Ma quell'alba d'agosto spezzò la consuetudine del cambio di guardia con uno sparo, poi un altro e un altro ancora. Il primo commento è che il nemico austriaco ha cambiato i soldati. «Hanno cagnato 'e truppe, signor tenente. Chelli Boemmi l'avevano ditto, che non avresseno sparato!» è l'affermazione del sergente Borga. Il tacito accordo è stato infranto. Viene a mancare la relativa sicurezza che si era creata e davanti al plotone del tenente c'è il buio, l'insicurezza di non sapere più chi hanno davanti e cosa si devono aspettare. Abilmente De Roberto caratterizza i soldati attraverso le loro brevi battute a commento di quanto sta accadendo. Ciascuno parla nel suo dialetto, ma tutti, napoletani, milanesi, siciliani, marchigiani sono accomunati dalla stessa sorte e dal far parte dello stesso plotone. Uno dei soldati deve raggiungere la piazzola di avvistamento. Gli ordini sono ordini. Non si discutono. Non si possono discutere. Si può solo obbedire. La paura però fa saltare l'ordine e il rispetto della gerarchia militare.
Ben sei soldati cercano di raggiungere la piazzola, e ciascuno in un modo diverso tenta di superare la distanza dalla trincea alla piazzola, distanza che presenta l'ultimo tratto scoperto, privo di qualsiasi riparo naturale e artificiale, esposto pertanto all'avvistamento nemico. «La piazzola, quantunque lontana soltanto una cinquantina di metri dalla trincea, ne pareva remotissima essendone distaccata del tutto» (p. 1558).
Caletti, Visentini, Maramonti cadono sotto il fuoco nemico, forse di un abile cecchino. È il turno di Zocchi, «ma el Zocchi el g'ha miée e fioeu…» e Gusmaroli si offre di andare al suo posto. Parte baldanzoso, «con l'elmo sulle ventitrè» (p. 1567), esorcizzando la paura con l'ironia e lo sprezzo del pericolo, ma anche lui si accascia, colpito dal nemico invisibile. Alla domanda del tenente «A chi tocca?» non c'è risposta, perché «Si avanzò Zocchi, già in pieno assetto, tacitamente preparatosi dopo aver visto cadere il compagno» (p. 1559). La successione è inesorabile. Sembra a questo punto che l'unico sentimento e l'unica reazione possibile sia la rassegnazione ad un inesorabile e funesto destino.
Tuttavia, quando il tenente cerca di spronare il soldato, simulando una sicurezza inesistente, «Ma stammi allegro, perdio! Cos'è sta fifa?» (p. 1570), si rivela all'improvviso, inequivocabile, il vero sentimento latente che accomuna Zocchi e tutti gli altri soldati. 

La paura era nel suo sguardo tremulo, nelle sue labbra pallide, nei suoi ginocchi che si piegavano, nella mano che pareva sul punto di abbandonare il fucile.
E Alfani lo conosceva anch'egli il brivido tremendo dinanzi al pericolo certo, presente, inevitabile. Finché la minaccia è imprecisata, nello scoppio di una granata che non si vede arrivare, in una raffica di mitragliatrice o in una scarica di fucileria inaspettata, che possono e non possono colpire, il coraggio riesce ancora facile; ma se la morte è lì acquattata, vigile, pronta a balzare e a ghermire; se bisogna andarle incontro fissandola negli occhi, senza difesa, allora i capelli si drizzano, la gola si strozza, gli occhi si velano, le gambe si piegano, le vene si vuotano, tutte le fibre tremano, tutta la vita sfugge; allora il coraggio è lo sforzo sovrumano di vincere la paura; allora la volontà deve irrigidirsi, deve tendersi come una corda, come la corda del beccaio che trascina la vittima al macello.


Magistrale la puntualizzazione degli effetti fisici della paura, lucida la consapevolezza della differenza delle situazioni che fanno divampare o meno la paura.
Inesorabile la legge di guerra, inesorabile la paura di fronte alla certezza di un pericolo inevitabile, tanto più spaventoso quanto più l'uomo si trova di fronte ad esso da solo, nel silenzio, con la certezza di andare incontro alla morte.
Cade anche Zocchi. Ora tocca a Ricci, che, dopo aver messo meticolosamente in ordine le sue povere cose, quasi a ritardare il momento supremo, rassegnato si presenta al tenete. «Se lei cred, vorria parlà al Caplan.» (p. 1578). A questa richiesta la commozione stringe la gola del tenente. Purtroppo non c'è tempo né possibilità di mandare a chiamare il cappellano. La guerra non lo permette. È il tenente, consapevole del suo ruolo, che consola e per così dire 'assolve' Ricci prima che il colpo nemico lo uccida.
Alla fine è la volta di Morana, che «si avanzava, pallido, ma con passo fermo». Poteva essere l'uomo risolutivo, quello che avrebbe potuto raggiungere la piazzola, viste le sue azioni coraggiose durante la guerra di Libia ed il suo fisico forte e possente. Inaspettate risuonano le sue parole: 

Senza lasciare con gli occhi gli occhi del superiore, il soldato rispose:
"Signor tenente, io non ci vado."» 
[…]
Ed il diniego viene ripetuto tre volte e con determinazione. 
Ecco che la paura si manifesta in tutta la forza ed impedisce alla volontà di controllarla e di tenerla a freno. 
«Improvvisamente, il soldato fu preso da un tremito che dalla mani e dalle braccia si diffuse a tutta la persona.
Ed anche Alfani rabbrividì, mentre per l'aria agghiacciata stillavano le prime gocce di neve strutta.
"Ma cos'è?... hai paura?... Anche tu?"
Gli occhi smarriti, le labbra paonazze dicevano sì sì, che egli aveva paura, tanta paura, una paura folle, ora che non si doveva combattere in campo aperto, ora che l'orrida morte era accovacciata lassù. (pp. 1582 e 1583)


Anche davanti a Morana l'ufficiale è invaso dalla pietà, dalla commozione alla quale non può tuttavia cedere in quella situazione. La paura di Morana è fisicamente evidente, è palpabile. A niente valgono le esortazioni del superiore, a niente valgono le sue minacce. Morana è pervaso da un tremore incessante ed il pallore rende cadaverico il suo volto. Non può e non riesce a sottrarsi alla paura e la paura lo porta alla più totale disperazione, ormai privo di qualsiasi volontà di reazione, fino al gesto estremo:

E prima che nessuno avesse tempo di comprendere che cosa volesse dire, che cosa stesse per fare, corse lungo il fosso, fino al cunicolo, si chinò ad afferrare il moschetto, ne appoggiò al ciglio di fuoco il calcio, se ne appuntò la bocca sotto il mento, e trasse il colpo che fece schizzare il cervello contro i sacchi del parapetto. (p. 1585)

 

Oderint dum metuant

 

Famosa è la massima Oderint dum metuant (Mi odino, purché mi temano) che dalle pagine di Lucio Accio arriva a Il principe di Machiavelli [24] ed oltre. Il titolo del capitolo XVII del trattato machiavelliano è proprio De crudelitate et pietate; et an sit melius amari quam timeri, vel e contra (La crudeltà e la pietà; e se sia preferibile essere amati piuttosto che temuti, o il contrario) e la risposta del segretario fiorentino a questa domanda è

Ma perché e' gli è difficile accozzarli insieme, è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbi a mancare dell'uno de' dua. […] li uomini hanno meno rispetto a offendere uno che si facci amare, che uno che si facci temere: perché lo amore è tenuto da uno vinculo di obligo, il quale, per essere gl'uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità è rotto, ma il timore è tenuto da una paura di pena che non ti abbandona mai. (cap. XVII, pp. 157-58)

Acutissima l'osservazione di Machiavelli rispetto alle dinamiche che regolano il rapporto fra chi detiene il potere ed i sudditi, basata sulla convinzione che gli uomini sono «ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori» e tutta giocata sull'uso metaforico del lessico commerciale, come nota Ruggiero sulla scorta di Inglese, e sul convincimento che solo la paura riesce a tenere gli uomini sottomessi. Il suggerimento a corollario di tali affermazioni consiste nell'astenersi dall'appropriarsi «da la roba di altri, perché li uomini dimenticano più presto la morte del padre che la perdita del patrimonio», a ribadire quanto gli uomini siano legati al possesso di qualsiasi tipo di bene e quanto interessi loro la materialità piuttosto che le relazioni umane e financo gli affetti familiari, che travolgono e dimenticano laddove ci sia la possibilità, o anche solo il barlume, di un interesse materiale o pecuniario. Passando come suo costume ad un exemplumper avvalorare la sua affermazione, Machiavelli sostiene che «quando el principe è con li eserciti e ha in governo moltitudine di soldati, allora è al tutto necessario non si curare del nome di crudele», perché non è possibile controllare la massa dei soldati se non con lo strumento della paura della crudeltà, e al riguardo cita come esemplare il comportamento di Annibale, sempre «venerando e terribile» per i suoi soldati, che lo obbedirono nella buona e nella cattiva fortuna della guerra. 
Machiavelli sembra dunque aver fatto sua, sebbene solo per la seconda parte, la sentenza latina Oderint dum metuant che si legge in un frammento della tragedia Thyestes di Lucio Accio, tragedia che svela la violenza insita nella conquista e nella gestione del potere, come è ribadito anche nell'omonima tragedia di Seneca, dove perfino il paesaggio nel quale è inserita la reggia di Atreo ha un aspetto sinistro tanto che

…..cuius extremum latus
aequale monti crescit atque urbem premit
et contumacem regibus populum suis
habet sub ictu:… (642-645) [25]


…il lato suo estremo cresce alto come una montagna e incombe sulla città, tiene sotto tiro il popolo quando mostra di non assoggettarsi ai suoi re:…

fons stat sub umbra tristis et nigra piger
haeret palude: talis est dirae Stygis
deformis unda, quae facit caelo fidem.
hinc nocte caeca gemere feralis deos
fama est, catenis lucus excussis sonat
ululantque manes. quicquid audire est metus,
illic videtur:…[…] 
…..nec dies sedat metum,
nox propria luco est, et superstitio inferum
in luce media regnat:... (665-671 e 677-679)

Sotto l'ombra di questi alberi ristagna una fonte che incute paura e che pigra resta immobile formando una nera palude: tale è l'aspetto dell'onda senza forma del maledetto Stige, che assicura [con il giuramento prestato quanto affermato] dagli dei del cielo. Di qui durante la notte che non permette di vedere, si dice gemano gli dei della morte, il bosco risuona di catene scosse e ululano i Mani.[…] Né la luce del giorno placa la paura; il bosco ha una notte sua e il terrore superstizioso comportato dal mondo sotterra vi regna pur anche a mezzogiorno.


La scena è descritta a tinte fosche, davvero degne di un romanzo gotico, e la paura è diffusa notte e giorno nella natura che circonda il palazzo, perché il potere non può abdicare alla sua caratteristica di fondo, la violenza e l'efferatezza. Del resto è con il sangue che Atreo [26] ha ottenuto il potere, ed è con il sangue che lo mantiene e con la paura. Va detto tuttavia che la vita di Atreo non è tranquilla perché quel potere che detiene nelle sue mani macchiate dal sangue della sua famiglia esercita la paura anche su di lui, che teme di perderlo [27], magari con modalità simili a quelle con le quali l'ha ottenuto.

È questa la paura 'del' potere, dove il 'del' ha valore soggettivo. 
Cicerone, quando nel libro I del De officiis [28] disquisisce su cosa sia l'onesto (honestum), si serve proprio del personaggio di Atreo e della massima di Accio per ribadirne l'esemplarità:

Haec ita intellegi, possumus existimare ex eo decoro, quod poetae sequuntur, de quo alio loco plura dici solent. Sed tum servare illud poetas, quod deceat, dicimus, cum id quod quaque persona dignum est, et fit et dicitur, ut si Aeacus aut Minos diceret: «Oderint, dum metuant», aut: «Natis sepulchro ipse est parens», indecorum videretur, quod eos fuisse iustos accepimus; at Atreo dicente plausus excitantur, est enim digna persona oratio; sed poetae quid quemque deceat, ex persona iudicabunt; nobis autem personam imposuit ipsa natura magna cum excellentia praestantiaque animantium reliquarum.

Che tale sia il concetto, lo possiamo capire da quella convenienza che applicano i poeti. Del che altrove si suol parlare più estesamente. Diciamo che i poeti allora rispettano il conveniente, quando si rappresenta e si dice di ogni personaggio ciò che di esso è degno; come se Eaco o Minosse dicessero «Odino pure, purché temano»; oppure: «Il genitore stesso è tomba ai suoi figli», sembrerebbero espressioni sconvenienti, perché sappiamo che furono giusti; ma gli applausi scoppiano se lo dice Atreo, trattandosi di parole degne del personaggio. Ma i poeti giudichino dal personaggio che cosa conviene a ciascuno; a noi invece il personaggio è stato imposto dalla natura stessa, in maniera assolutamente superiore di quanto non abbia fatto con gli altri animali. 
(De officiis, I, 97)


Dunque è nell'esercizio della paura che si concretizza e si incarna il potere politico, quel potere che incombe minaccioso sugli uomini come una divinità terribile, assetata di sangue, dalla quale non si può aspettare se non la punizione o un male, a meno che, come risulta evidente nell'antica società greca, non sia placata ed esorcizzata da un sacrificio umano come quello di Ifigenia o dal coraggio e dalla virtù, capaci di discernere e affrontare il male ed il pericolo a seconda delle circostanze.
Non è tuttavia solo Atreo a fregiarsi di questa massima terribile, perché l'imperatore Caligola, secondo quanto ci dice Svetonio [29], la scelse in modo provocatorio come proprio motto: 

Non temere in quemquam nisi crebris et minutis ictibus animaduerti passus est, perpetuo notoque iam praecepto: «ita feri ut se mori sentiat.» Punito per errorem nominis alio quam quem destinauerat, ipsum quoque paria meruisse dixit. tragicum illud subinde iactabat: Oderint, dum metuant.

Non permise mai che qualcuno fosse giustiziato se non con ferite piccole e numerose. Era ben nota la sua costante raccomandazione: «Colpisci in modo che si senta morire.» Avendo mandato a morte per errore di nome una persona diversa da quella che era stata condannata, disse: «Non importa, hanno meritato tutt'e due la stessa pena» ; e ripeteva spesso il verso di quella tragedia: «Mi odino, purché mi temano!»
(De vita Caesarum, Caligola, 30)


dimostrando così il disprezzo per i sudditi e per gli uomini in generale, convinto, nel suo delirio di onnipotenza, che il potere gli consentisse qualsiasi tipo di violenza e gli permettesse di non temere neppure l'odio dei sudditi, del quale anzi quasi si vantava e ne faceva la sua bandiera.
Torniamo ora a Machiavelli. È necessario sottolineare che il cap, XVII de Il principe si chiude con una precisazione chiara e inconfutabile, e con un suggerimento ribadito anche nei capitoli XVI e XIX:

Concludo dunque, tornando allo essere temuto e amato, che, amando lo uomini a posta loro e temendo a posta del principe, debbe uno principe savio fondarsi in su quello che è suo, non in quello ch'è di altri; debbe solamente ingegnarsi di fuggire l'odio, come è detto,

perché l'odio porta i sudditi a disprezzare il principe, facendo loro vincere la paura, e li può portare a tal punto di esasperazione da non obbedirgli e ribellarsi.
Imprescindibile, per concludere, appare un riferimento ad Hobbes (1588-1679) e alla sua riflessione sullo Stato, o meglio sullo Stato assoluto moderno, il quale si fonda prima di tutto sulla forza - e qui Machiavelli docet! - e sulla 'soggezione' dei sudditi. Come ha mostrato Carlo Ginzburg [30], per definire la soggezione del cittadino allo Stato Hobbes usa il termine awe, il verbo awed, gli aggettivi awesome (che incute reverenza) e awful (terribile); awe era stato usato dal filosofo inglese nella sua traduzione del testo greco di Tucidide che descrive gli effetti della peste, fra i quali viene messo in evidenza il fatto che gli uomini non sentivano più la paura (phobos) degli dei e non temevano più le leggi umane. Riflettendo sull'uso di questi termini Ginzburg fa notare che nella Bibbia ebraica viene usato, per indicare quello che nella Vulgata di san Girolamo è definito come timor Dei, il termine yir'ah, termine ambivalente che significa allo stesso tempo paura e soggezione.
Così, quando nel Leviatano Hobbes teorizza lo Stato assoluto, non solo sostiene che sono i singoli individui ad investirlo di autorità, ma anche che lo Stato è in grado di usare a tal punto il potere e la forza che piega con il terrore la volontà di tutti, ottenendo così di spingere i singoli cittadini al mantenimento della pace interna e all'aiuto reciproco contro i nemici esterni:

Il solo modo di stabilire un potere comune, che sia atto a difendere gli uomini dalle invasioni degli stranieri e dalle offese scambievoli, e perciò ad assicurarli in tal maniera, che, con la propria industria e coi frutti delle proprie terre, possano nutrirsi e vivere in pace, è di conferire tutto il proprio potere e la propria forza ad un uomo o ad un'assemblea di uomini, che possa ridurre tutti i loro voleri, con la pluralità di voti, a un volere solo; […] Questa è l'origine di quel grande «Leviatano» o piuttosto – per parlare con più reverenza – di quel Dio mortale, al quale noi dobbiamo, al di sotto del Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa, poiché, a causa di quest'autorità datagli da ogni singolo uomo nello Stato, esso usa di tanto potere e di tanta forza, a lui conferita, che col terrore è capace di disciplinare la volontà di tutti alla pace interna ed al mutuo aiuto contro i nemici esterni. [31]

Paura e soggezione – o reverenza, per usare un termine presente nel titolo del saggio di Ginzburg, termine che ha la sua origine nel verbo latino vereor, il cui significato è ancora una volta 'temere' - sono pertanto strettamente unite per Hobbes nell'obbedienza allo Stato, uno Stato che si basa sulla forza e si serve di tutte le armi in suo possesso, paura compresa.
Illuminante il saggio di Carlo Galli [32] in merito alla paura del potere, dove 'del potere' va letto nelle due accezioni, soggettiva e oggettiva ('avere paura' e 'fare paura'). Galli mette in relazione il pensiero politico di Machiavelli, Hobbes, Hegel, Nietzsche e discute come questi pensatori affrontano la funzione ricoperta dalla paura nei rapporti politico-sociali e nella costruzione dello Stato dal XVI secolo in avanti. La paura infatti svolge un ruolo fondamentale nella coesione fra l'alto e il basso, fra chi detiene il potere politico e chi è ad esso sottoposto, e Galli ne evidenzia le forme e le finalità, evocando anche quel timore della trascendenza che dal mondo antico è passato ai vari secoli dell'era volgare. La religione, per usare questo termine in senso 'neutro', cioè non confessionale o polemico, e non nel senso negativo che religio(superstizione) assume in Lucrezio, ha svolto nei secoli una funzione basilare di coesione e di obbedienza, come lo stesso Machiavelli sostiene nei capitoli 11-15 del libro I dei Discorsi. Lo stesso Ottaviano Augusto nel suo programma di pax augustea se ne era servito per gestire la società sulla quale esercitava il potere e che intendeva 'pacificare' dopo decenni di guerre esterne ed interne, tanto che al riguardo si può parlare di 'paura positiva'. 'Paura negativa' è invece quella esercitata da una Chiesa corrotta, che solo grazie al terrore poteva tenere il popolo sotto controllo, come affermano Machiavelli, Guicciardini ed Hobbes, solo per citare alcuni pensatori.
Non va tuttavia dimenticato, come a più riprese è stato osservato, il frontespizio della prima edizione del Leviatano di Hobbes, dove il corpo a mezzo busto di un sovrano che incombe sulla città, che sorveglia i sudditi ma che li protegge dai nemici, contiene numerosissime figure umane che guardano in alto verso il loro re. Duplice l'interpretazione di questa immagine, in quanto non solo significherebbe che il sovrano è tale per volontà ed effetto dei sudditi, ma anche che «i sudditi sono gli autori della loro propria paura ed è il loro sguardo spettrale a rendere il viso del Leviatano, altrimenti benigno, non solo maestoso, ma anche minaccioso» [33].

 

Bibliografia

 

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Pubblicato il 23/07/2015

 

Note:


[1]Joanna Bourke, nata in Nuova Zelanda nel 1963, insegna Storia nel Dipartimento di Storia, Archeologia e Classici nell'Università Birkbeck di Londra; si occupa di storia sociale ed economica, di storia delle emozioni, in modo particolare della paura, dell'odio e della violenza sessuale. Da ricordare, oltre al libro citato, Le seduzioni della guerra. Miti e storie di soldati in battaglia, Roma, Carocci, 2003, che affronta anche il tema della paura.

[2]Joanna Bourke, Paura: una storia culturale, traduzione di B. Bagliano, Roma-Bari, Laterza, 2007.

[3]S.I. Ballard-H. G. Miller, Psychiatric Casualties in a women's service, in «British Medical Journal», 3 marzo 1945.

[4]Guillaume Benjamin Amand Duchenne de Boulogne (1806-1875) è stato il neurologo che ha studiato per primo la distrofia muscolare e che ha fondato la pratica diagnostica della biopsia; da ricordare fra gli altri il suo libro, Mécanisme de la physionomie humaine, che è stato il primo studio di neurofisiologia sull'emozione. 

[5]F. Nietzsche, La nascita della tragedia, trad. di E. Ruta, riv. da P. Chiarini, Bari, Laterza, 1971, pp. 45-50.

[6]I quattro elementi del tetrafarmaco sono: non si deve aver paura della morte, non si deve aver paura degli dei, il bene è facilmente raggiungibile, il male è facilmente evitabile. 

[7]Per il testo e la traduzione cfr. Lucrezio, Della natura, versione, traduzione e note di Enzio Cetrangolo, con un saggio di Benjamin Farrington, Firenze, Sansoni 1969.

[8]Per la voce 'orrendo' cfr. M. Cortelazzo-P. Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana, Bologna, Zanichelli, 1985.

[9]«Medaglie antiche rappresentano la Paura con i capelli irti, il volto attonito, la bocca aperta, ed uno sguardo che indica lo spavento, effetto di un pericolo non preveduto» (L.M. Millin, Supplimento al dizionario delle favole, Piacenza, Tipografia del Majno, 1807, s. v.).

[10]Famosissima è l'acquaforte dal titolo Il sonno della ragione genera mostri (1797), che sottolinea come l'allentamento del controllo razionale faccia esplodere quanto è nascosto in quella parte che possiamo già chiamare inconscio e che il pittore spagnolo in questa opera rappresenta con gufi, pipistrelli e animali notturni.

[11]Il gabinetto del dottor Caligari è un film muto diretto da Robert Wiene, in piena stagione espressionista, che si può vedere in https://www.google.it/?gws_rd=ssl[q=il+gabinetto+del+dottor+caligari+streaming  

[12]Metropolis, anch'esso film muto, fu diretto da Fritz Lang nel 1927 e presenta le difficoltà e le paure degli uomini all'inizio del XX secolo; si può vedere in http://www.youtube.com/watch?v=Za2ALUI97EA 

[13]«Allor fu la paura un poco queta» (18); «ma non sì che paura non mi desse / la vista che m'apparve d'un leone.» (41-42); «questa mi porse tanto di gravezza / con la paura ch'uscia di sua vista, / ch'io perdei la speranza de l'altezza.» (52-54); «l'amico mio, e non della ventura, / ne la diserta piaggia è impedito / sì nel cammin, che volt'è per paura» (61-63). Mi limito a fare riferimenti al canto iniziale e all'Inferno, perché questa è la cantica nella quale il termine 'paura' è ricorrente, mentre la sua presenza si dirada nel Purgatorio per sparire definitivamente nel Paradiso.

[14]L'opera fu progettata nel 1353 o nel periodo immediatamente posteriore a questa data, se teniamo conto della Senile XVI 9 indirizzata a Jean Birel, e secondo l'opinione più condivisa dagli studiosi la sua stesura seguì quella del Secretum. L'opera fu poi ripresa nel 1358 e completata nel 1366.

[15]Dopo F. Petrarca, Les remèdes aux deux fortunes (De remediis utriusque fortunae), texte établi et traduit par Christophe Carraud, Grenoble, Millon, 2002, 2 voll., è stata pubblicata in Italia la traduzione integrale di questa opera a cura di Ugo Dotti (F. Petrarca, I rimedi dell'una e dell'altra sorte, a cura di U. Dotti, 4 tomi, Torino, Aragno, 2013), da cui si cita. 

[16]Nell'epistola Posteritati Petrarca delinea il suo ritratto modulandolo attraverso il suo rapporto con i sette peccati capitali. Il nucleo principale della lettera risale a prima del 1367 agli anni trascorsi a Milano, mentre aggiunte importanti risalgono al 1370-1371, ed il poeta voleva collocarla a conclusione della raccolta delle Seniles, a siglare per i posteri, in una sorta di sphragís, la sua immagine di uomo e di poeta.

[17]Virgilio, Tutte le opere, versione, introduzione e note di Enzio Cetrangolo, Firenze, Sansoni, 1966.

[18]Orazio, Tutte le opere, versione, traduzione e commento di Enzio Cetrangolo, Firenze, Sansoni, 1968.

[19]Aristotele, Poetica, Milano, Rizzoli BUR, 1994, cap. 6.

[20]Si cita da A. Manzoni, I promessi sposi, in Opere, a cura di L. Caretti, Milano, Mursia, 1962.


[21]Cfr. A Manzoni, Adelchi, in Opere, cit., vv. 96-101.

[22]Federico De Roberto (1861-1927) scrisse fra l'altro anche varie novelle di guerra, fra cui La paura, nel dopoguerra fra il 1919 e il 1923.

[23]F. De Roberto, La paura, in Romanzi Novelle e Saggi, Milano, Mondadori, I Meridiani, 1984, pp.  1557- 1583.

[24]Si cita da N. Machiavelli, Il principe, a cura di Raffaele Ruggiero, Milano, BUR, 2008.

[25]Cfr. Seneca, Thyestes, in Id., Teatro, a cura di G. Viansino, Oscar Mondadori, 1993, vol. II.

[26]Atreo e il fratello Tieste uccisero il fratellastro Crisippo e per questo delitto furono banditi e maledetti dal padre Pelope; si rifugiarono a Micene dove entrarono in conflitto fra loro per il potere sulla città, che fu ottenuto con l'inganno da Atreo il quale in un primo momento bandì dalla città il fratello, poi lo richiamò, fingendo di riconciliarsi con lui. Uccise i tre figli di Tieste, nonostante che si fossero rifugiati presso l'altare di Zeus, li fece bollire e con le loro carni imbandì la tavola per il fratello. Dopo che Tieste ebbe mangiato, gli mostrò le teste dei figli, rivelandogli la natura del cibo che aveva mangiato, e lo cacciò di nuovo da Micene.

[27]La paura di perdere il potere ha terrorizzato a tal punto Crono, alias Saturno, da spingerlo all'antropofagia. Una profezia infatti gli aveva predetto che avrebbe perso il suo potere sugli dei e sugli uomini perché spodestato dal figlio; così Crono divorò ad uno ad uno i suoi figli finché la moglie Rea non partorì di nascosto Zeus, lo nascose e portò una pietra avvolta nelle fasce a Crono che la divorò, pensando che fosse il figlio neonato. Il destino si compì e Zeus sostituì il padre nel dominio sul mondo. Due pittori hanno rappresentato tale episodio mitologico, P.P. Rubens, Saturno divora uno dei suoi figli, nel 1637-38 e F. Goya, Saturno che divora i suoi figli, intorno al 1820, i quali, pur con le forme proprie del loro tratto pittorico e della loro cultura, rappresentano la terribile bramosia di chi teme di perdere il potere ed arriva ad annientare fisicamente il rivale, sia pure esso un figlio.

[28]Cicerone, De officiis, in Id., Opere politiche e filosofiche, a cura di L. Ferrero e N. Zorzetti, vol. I, Torino, UTET, 1974².

[29]Svetonio, Caligola, in Id., Vite dei Cesari, vol. II, Milano, BUR, 1994².

[30]Carlo Ginzburg, Paura reverenza terrore: rileggere Hobbes oggi, Parma, Monte Università Parma, 2008.

[31]Th. Hobbes, Leviatano, a cura di M. Vinciguerra, 2 voll., Roma-Bari, Laterza 1974, parte II, cap. 17.

[32]Carlo Galli, La produttività politica della paura. Da Machiavelli a Nietzsche, in «Filosofia politica», 24 (2010) 1, pp. 9-28. Si può ascoltare la lezione tenuta nel marzo 2011 da Galli presso l'Università di Berlino allo stesso riguardo in https://www.ici-berlin.org/videos/galli/part/2/ e https://www.ici-berlin.org/videos/galli/part/3/. 

[33]Cfr. Corey Robin, Paura. La politica del dominio, traduzione di E. Mangialaio, Milano, EGEA, 2005.