Simonetta Teucci - Leonesse di Sicilia

 

Il percorso può essere rivolto sia ad un biennio sia ad un triennio, tenendo presente il livello della classe. Può essere proposto nella sua totalità all’interno, ad esempio, di un modulo sulle donne oppure sul romanzo storico; oppure le singole parti possono essere sviluppate in relazione ad altri moduli o percorsi. I passi suggeriti consentono vari livelli di lavoro, da quello lessicale a quello dell’intreccio tra parti dialogate e parti narrative o descrittive, al legame con la Storia e tanto altro, e permettono anche di recuperarne altri nei romanzi analizzati, in modo da metterli in relazione o in contrasto tra loro per una riflessione critica.

 

I romanzi, se osservati nella loro interezza, mostrano un affresco composto da personaggi, situazioni, dialoghi, descrizioni e quant’altro, uniti in un unicum, ma se li osserviamo da una distanza ravvicinata vediamo i vari elementi che lo compongono, come, avvicinandoci a un quadro, si possono ben osservare le pennellate.[1] Perciò cercherò di separare alcuni di questi elementi, per capire come ciascuno si dipana sulla tela di un romanzo e come si intreccia e interagisce con gli altri finendo per diventare pressoché invisibile nella sua singolarità. Per di più i romanzi scelti, pur se composti in periodi storici differenti (distano l’uno dall’altro poco più di 60 anni), presentano un legame sotterraneo, che si può seguire attraverso i personaggi femminili, che mostrano il perdurare e al contempo il cambiare di certi stereotipi nel tempo. Da qui il titolo, mutuato da quello del romanzo della Auci.[2]

Il loro denominatore comune è innanzitutto la collocazione geografica, la Sicilia; e non è cosa da poco perché permette di caratterizzare in filigrana l’evolversi delle situazioni storiche che si susseguono nella stessa terra. In secondo luogo presentano protagonisti maschili, che mandano avanti l’azione principale fino all’esito finale della narrazione, ma che sono affiancati e contornati da personaggi femminili fondamentali per disegnare il ventaglio dei comportamenti e delle situazioni. Terzo, intrecciano le vicende dei singoli personaggi con le vicende storiche che vedono il passaggio alla creazione dell’unità del nostro Paese, tanto che si può parlare di romanzi storici,[3] pur se in senso lato, perché illuminano, per dirla con Manzoni, la grande Storia con le piccole storie.

Anche se l’ordine diacronico è Mastro don Gesualdo di Verga (1888), Il gattopardo di Tomasi di Lampedusa (1957), I leoni di Sicilia di Stefania Auci (2019) – due classici e un recente romanzo che ha riscosso un grande successo di critica e di pubblico – non seguirò quest’ordine e non mi occuperò dei personaggi maschili: il Gesualdo verghiano, il don Fabrizio di Salina, i tre uomini che hanno dato origine alla fortuna della famiglia Florio, bensì punterò l’attenzione sulle donne che vivono nel loro spazio d’azione, solo apparentemente figure di secondo piano, ma senza le quali i protagonisti maschili probabilmente non avrebbero la caratura che possiedono, perché esse completano il quadro generale nel quale gli uomini si muovono e le donne fanno da specchio e da contraltare per la loro vita e le loro decisioni.[4] 

 

Ne Il gattopardo[5] è il principe di Salina, uomo colto e disilluso nei confronti del mondo, a essere il perno della situazione, in quel trapasso epocale che vede non solamente la realizzazione dell’unità italiana ma anche la progressiva decadenza della classe nobiliare e l’ascesa di quella borghese. E la visione del principe al riguardo è del tutto disincantata. Le donne che entrano in rapporto con lui esercitano un’azione su don Fabrizio e rappresentano ‘funzioni’ differenti nel delineare uno spaccato della vita siciliana e palermitana nell’Ottocento, pur con ruoli e livelli d’azione differenti.

Il principe ha sempre avuto successo sulle donne vuoi per la sua prestanza fisica da Apollo Farnese vuoi per l’attrattiva rappresentata dalla sua posizione sociale e dalla sua appartenenza nobiliare. Da uomo forte e vigoroso non ha mai disdegnato incontri ‘plebei’: con Cora Danòlo, che lo ha accolto nel suo letto a Napoli dopo una visita al re Borbone, che ha lasciato l’amaro in bocca al principe per la sciatteria e la frettolosità del re, che in questo sembrerebbe apparentarsi con la sciatteria incombente sul regno («Non potè consolarlo neppure l’appuntamento già preso con Cora Danòlo.» p. 12); con Sarah, la prostituta con la quale aveva avuto vari incontri a Parigi quando vi era andato per ricevere al Congresso di Astronomia una medaglia d’argento per le sue investigazioni sulle stelle e la scoperta di due  pianetini, che lui aveva battezzato «Salina e Svelto … come il suo feudo e un suo bracco indimenticato» (p. 7) («Sarah, la sgualdrinella parigina che aveva frequentato tre anni fa» (p. 19); con Mariannina, che vive a Palermo in un basso, a sottolineare la sua ‘bassa condizione’ sociale e perfino lo squallore della sua vita nonché quella del principe in questi incontri, il quale spesso cerca di sfogare in lei una rivalsa nei confronti della moglie Maria-Stella («Mariannina lo aveva guardato con gli occhi opachi di contadina, non si era rifiutata a niente, si era mostrata umile e servizievole. […] Era una buona figliuola la Mariannina: […] Ma che tristezza, anche: quella carne giovane maneggiata, quella impudicizia rassegnata; e lui stesso, che cosa era? un porco» (p. 19). Inoltre Mariannina aveva esclamato «In un istante di particolare deliquescenza […]  “Principone!”. Lui ne sorrideva ancora soddisfatto. Meglio questo, certo, che i “mon chat!” od i “mon singe blond”» della parigina Sarah, e «molto meglio poi di “Gesummaria”; niente sacrilegio, almeno» della moglie (p. 19).

Le sue amanti vanno così dalle prostitute, che frequenta spesso, per sfogare soprattutto la sua smania di vivere e di dominio, alle dame dell’aristocrazia, che sono state irretite da un rapporto amoroso e sensuale con lui, anche se occasionale.

Ma qual è la considerazione e soprattutto quali sono le riflessioni del principe a distanza di tempo su queste donne nobili che l’hanno compiaciuto e continuano a farlo? Lo scopriamo insieme al disagio che don Fabrizio prova durante il ballo dei principi di Ponteleone:

 

Le donne che erano al ballo non gli piacevano neppure: due o tre fra quelle anziane erano state sue amanti e vedendole adesso appesantite dagli anni e dalle nuore, faticava a ricreare per sé l’immagine di loro quali erano venti anni fa e s’irritava pensando di aver sciupato i propri anni migliori a inseguire (ed a raggiungere) simili sciattone. (p. 149)

 

Giudizio davvero impietoso, niente affatto velato da un minimo di nostalgia nel ricordo. La brutale realtà del presente sopraffà tutto e annienta qualsiasi tipo di eventuale rimpianto. Queste dame appartengono alla stessa nobiltà alla quale appartiene Fabrizio, nobiltà che una ventina di anni prima forse era ancora vitale grazie agli splendori di cui questa classe si fregiava; ora il tempo è passato e le situazioni sono cambiate, molto cambiate. Da un lato i nobili si sono progressivamente impoveriti e hanno dovuto alienare parte dei loro beni, quelli fondiari da dove ricavavano le rendite, e di loro rimane il perpetuarsi di un’apparenza anch’essa in corso di disgregazione; dall’altro i borghesi si stanno facendo strada e stanno scalando le posizioni sociali, forti proprio del possesso di quelle terre prima patrimonio degli aristocratici e favoriti, anche se indirettamente e talvolta inconsapevolmente, dai cambiamenti storico-politici del paese. Queste dame sono l’immagine di tale apparenza che sta decadendo e di una classe ottusa che guarda solo al passato senza rendersi conto, o non volendo rendersi conto, dei cambiamenti in atto. Una classe che si aggrappa a ciò che è stata e a ciò che sono stati i suoi predecessori ma che non sa vedere cosa succede intorno a sé.

Don Fabrizio è invece disincantato e riesce a vedere al di là delle apparenze e proprio le immagini di donne un tempo belle e attraenti, capaci di soddisfare le sue voglie, ora «appesantite» e senza più lo smalto dei vent’anni, sono la testimonianza, amara ma ineluttabile, di un tempo ormai finito, un tempo che non può tornare. 

Se le prostitute che frequenta a Palermo, a Parigi, a Napoli servono per sfogare la sua vigoria ed esuberanza sessuale e più spesso per sfogare la rabbia suscitata da situazioni che si scontrano con il suo orgoglio, con le delusioni della vita di relazione, non ultima quella con la moglie Maria-Stella, con le sue aspettative rispetto al mondo intero e con la sua strisciante consapevolezza dei cambiamenti a cui è sottoposta la sua classe e la società, queste tutto sommato sono ininfluenti per il principe, che invece ha ben altro rapporto con il tempo e con due donne molto più importanti: da una parte con la moglie e dall’altra con la giovane Angelica, che sposerà suo nipote Tancredi. Sono queste due donne quelle che incidono sul principe. Esse rappresentano l’una il mondo che è al suo trapasso e che cerca di resistere a ogni costo, difendendosi con il perpetuare rituali pubblici e domestici, con l’appoggiarsi alla Chiesa e alla religione forse più per abitudine e per ribadire un legame e un sostegno secolare, con il mantenere il sussiego e l’orgoglio di classe con le sue regole e i suoi clichés: la moglie. L’altra, Angelica, rappresenta il futuro.  

La moglie Maria-Stella è il passato: appartiene alla famiglia nobile dei Màlvica, – e i Màlvica fanno parte di quei ‘minchioni’ che restano legati al passato (p. 36 ) e rimangono fedeli ai Borboni, senza capire niente delle conseguenze dovute all’arrivo di Garibaldi in Sicilia – , gli ha dato sette figli eppure «come fo ad accontentarmi di una donna che, a letto, si fa il segno della croce prima di ogni abbraccio e che, dopo, nei momenti di maggiore emozione non sa dire che: ‘Gesummaria!” […] e non ho mai visto il suo ombelico» (p. 18).

La principessa mostra le caratteristiche di quella nobiltà prepotente e autoreferenziale che, pur in decadenza, resiste almeno nella forma e nel tentativo di ribadire, anche nei piccoli gesti quotidiani, la forza di appartenenza aristocratica. Sembra che tutto le sia dovuto e che nessuno, nemmeno il marito, possa scalfire la sua superiorità secolare.

Anche lei era stata attratta da don Fabrizio in gioventù, l’aveva amato e a modo suo l’amava ancora, pur senza riuscire a rinunciare al retaggio che la caratterizza, dall’osservanza dei dettami religiosi, alle formalità rituali della convivenza familiare e del rapporto con i figli e con la sua famiglia di origine, a quella pudicizia imposta da secoli alle donne di rango elevato che le ha sempre impedito di avere un rapporto sessuale appagante per entrambi. Eppure Maria-Stella è importante per don Fabrizio, e già nel nome appare come una Stella guida della vita del principe, che lui può vedere solo da lontano come da lontano osserva le stelle nel cielo con il suo telescopio.

A vent’anni don Fabrizio ha amato davvero la moglie: «il Signore sa se la ho amata: ci siamo sposati a vent’anni» (p. 18). Lo testimonia ad esempio una delle miniature di famiglia presenti nello studio del principe e osservati da Chevalley; «Al sommo della costellazione, però, in funzione di stella polare, spiccava una miniatura più grande: Don Fabrizio stesso, poco più che ventenne con la giovanissima sposa che poggiava la testa sulla spalla di lui in atto di completo abbandono amoroso […] lui … sorrideva compiaciuto» (p. 118). Una Maria-Stella giovanissima appoggia la testa sulla spalla del principe con un’espressione che fa trasparire l’amore; Fabrizio da parte sua ha un’espressione raggiante e appagata da questa unione. Il loro matrimonio è forse l’ultimo atto della forza e della potenza nobiliare, realizzata dall’unione di due famiglie aristocratiche nei due discendenti. È stata però solamente una fase della loro vita, si può dire quella senza ombre e senza pensare al futuro, sicuri che il loro amore sarebbe durato per sempre come per sempre la loro classe avrebbe mantenuto la supremazia sociale ed economica. I feudi sono tanti e uno di meno non può fare certo la differenza, anche perché i loro privilegi sono inattaccabili. Almeno così credono! Ma la realtà storica cambia in quella Sicilia dove gli abitanti si ritengono eterni, «i siciliani si credono dèi» (p. 125), dice il principe a Chevalley, riferendosi ai suoi conterranei, ma soprattutto ai suoi pariclasse. E lo dice con l’amarezza di chi ha capito che il tempo passa, anzi ormai è passato e ai siciliani resta solamente l’illusione, peraltro non ritenuta da loro tale, di essere immobili nel tempo e non toccati da esso.

La cocciuta resistenza ai cambiamenti che era stata di Maria-Stella si perpetua nelle figlie, Concetta, Carolina e Caterina, che invecchiano nel palazzo di famiglia come recluse e con un contatto pressoché inesistente con il mondo esterno. Si sono chiuse anche in una religiosità quasi morbosa, che ha fatto loro raccogliere ben 74 reliquie, esposte in quella che è diventata la cappella del palazzo dove vengono officiati i riti religiosi. Sarà il Cardinale di Palermo ad abbattere questa falsa realtà nella quale vivono e che le difende, quando manda a verificare l’autenticità delle reliquie don Pacchiotti, che entra nella cappella con «un martelletto, una seghetta, un cacciavite, una lente d’ingrandimento e un paio di matite» (p.186). Ne esce con un cesto con quanto ha eliminato perché falso, dicendo però che ha trovato «cinque reliquie perfettamente autentiche» (p. 186) delle 74 che erano. È l’ultimo colpo al vecchio mondo che non può sopravvivere ma che loro credevano fosse ancora intatto.

L’altra donna è Angelica: con la bellezza della giovinezza irrompe nella vita e nella dimora dei Salina e stabilisce un legame di attrazione sensuale con Tancredi, e rappresenta la forza dirompente di quella borghesia che in silenzio, passo dopo passo, si è arricchita, appropriandosi dei beni fondiari degli aristocratici, inetti a gestire i loro patrimoni, che si sono andati e continuano ad andare ad assottigliarsi per garantire lo sfarzo e l’apparente opulenza dei vecchi feudatari. 

La giovane solletica la maturità del principe con le fresche carni, gli occhi ammaliatori e l’esuberanza giovanile.[6] Figlia di quel Calogero Sedàra che ha eroso molti dei beni fondiari della zona, compresi quelli dei Falconeri e quindi di Tancredi, suo prossimo genero, è l’incarnazione del nuovo che avanza. Nonostante che il nonno materno sia Peppe Mmerda e la madre Bastiana una specie di bestia analfabeta che il marito non fa uscire da casa se non per la prima Messa delle cinque, quando fuori non c’è nessuno, pur se molto bella, Angelica (e nel nome è racchiusa la storia letteraria al femminile, della donna ammaliatrice), ha dalla sua l’irruenza della giovinezza. Non ama Tancredi, ma è attratta da lui come lui lo è da lei, e ha capito che il loro legame le offrirà la possibilità del salto sociale, per di più supportato dalle ricchezze del padre, che le assegna come dote ciò che in realtà ha incamerato dai possedimenti dei Falconeri, i sacchetti di onze compresi.[7] È questa la ‘contabilità’ della borghesia che si sta facendo largo nella classe più elevata.

Se guardiamo a circa 70 anni prima, a quel Mastro Gesualdo che sposa Bianca Trao, pur sapendo che lei non lo ama, come lui del resto, e anzi nutre disprezzo per questo mastro e per di più aspetta un figlio da un altro, vediamo che il meccanismo sotteso è lo stesso: denaro e beni fondiari in cambio di un blasone. I sentimenti non contano perché si tratta di una transazione commerciale, che consente vantaggi a entrambi i contraenti. Ne è consapevole Gesualdo, ne è consapevole Tancredi e sicuramente ne è consapevole e soddisfatto il Sedàra, che vede così suggellata la sua scalata sociale. Il Sedàra è uno ‘sciacalletto’, come lo definisce il principe, ma gli sciacalli non devono la loro sopravvivenza e la loro vita alle carogne di cui si nutrono? E l’esca è Angelica, forse non sempre consapevole fino in fondo dei piani del padre ma che possiede una vera e propria scaltrezza innata che la fa agire per raggiungere il suo scopo. A suo favore ha la bellezza, la giovinezza, un’educazione ricevuta in collegio a Firenze, il desiderio di salire nella scala sociale, come ha salito, da sola, lo scalone del palazzo di Donnafugata la prima volta che vi è entrata, conquistando tutti con la freschezza della gioventù.

Don Fabrizio è attratto emotivamente da lei, ne è attratto e allo stesso tempo si mette in guardia da solo verso la pericolosità di questa fanciulla e proietta sul nipote Tancredi il suo desiderio, a passare per così dire il testimone a una generazione più spregiudicata della sua, una generazione che sa ben valutare situazioni e scelte senza farsi troppo coinvolgere dai sentimenti, come del resto fa il Sedàra e come fa la classe borghese, decisa a raggiungere nuove mete a qualsiasi costo.

 

Sei mesi fa era scaduto il mutuo concesso al barone Tumino ed egli [il Sedàra] si era incamerata la terra: mercé mille onze prestate possedeva adesso una nuova proprietà che ne rendeva cinquecento all’anno; in Aprile aveva potuto acquistare due “salme” di terreno per un pezzo di pane, e in questa piccola proprietà vi era una cava di pietra ricercatissima che egli si proponeva di sfruttare; aveva concluso vendite di frumento quanto mai profittevoli nei momenti di disorientamento e di carestia che avevano seguito lo sbarco.  (p. 44)

Sul lato opposto secondo il principe

Tancredi aveva davanti a sé un grande avvenire; egli avrebbe potuto essere l’alfiere di un contrattacco che la nobiltà, sotto mutate uniformi, poteva portare contro il nuovo ordine politico. Per far questo gli mancava soltanto una cosa: i soldi; di questi Tancredi non ne aveva, niente. E per farsi avanti in politica, adesso che il nome avrebbe contato di meno, di soldi ne occorrevano tanti: soldi per comperare i voti, soldi per far favori agli elettori, soldi per un treno di casa che abbagliasse… (p. 48)

 

Le coordinate cronologiche entro le quali si svolge la narrazione sono la storia della Sicilia e dell’Italia dal 1860 al 1910, decenni che vedono un profondo cambiamento e il trapasso epocale che segna la fine dei privilegi aristocratici e l’ascesa della nuova classe borghese. Tutto ciò viene osservato dall’ottica del principe di Salina, che non può che prendere atto dell’ascesa del Sedàra e di quelli come lui; e anche il suo rapporto con le vicende risorgimentali e dell’unità del Paese presenta i caratteri di questa frattura epocale, che fa sì che la nobiltà non ha più una connotazione sociologica, ma acquisisce quella di un abito morale, di una categoria estetica, che porta ad attraversare il presente e a prevedere un futuro banale, opaco, inautentico.[8] La differenza consiste nel fatto, per dirla con Gramsci, che la nobiltà fonda i suoi possessi sul valore d’uso, mentre la nuova borghesia fonda la proprietà sul valore di scambio, per cui guarda alle cose non per il pregio che hanno ma per il loro prezzo. Da qui deriva la mediocrità e la banalità borghese.  

 

Del resto, se guardiamo al romanzo della Auci, questa descrive i Florio e la loro ascesa basata certamente sul valore di scambio; Paolo e Ignazio appuntano il loro interesse e la loro fatica sulle merci e sui soldi che ne derivano, ma Ignazio capisce che anche le buone maniere e l’apprezzamento delle cose belle, come le buone stoffe e il buon taglio degli abiti, hanno il loro valore proprio per l’uso che se ne fa. Sarà però la seconda generazione dei Florio che dilaterà questo aspetto, con una casa sontuosa, degli arredi raffinati e con quanto li può assimilare a quei nobili che li avevano trattati e continuano a trattarli da “facchini”.

Si tratta più o meno della stessa campitura di decenni che esiste ne Il gattopardo e che ritroviamo nel romanzo della Auci,[9] la quale fa scorrere le vicende dei Florio nella realtà storica che va dal 1799 al 1868. Il passare del tempo sottolinea da una parte il cambiamento ideologico-sociale in atto in Sicilia come nel resto del Paese, dall’altra l’ascesa economica e di classe dei Florio, che costruiscono la loro fortuna a costo di tanti sacrifici e di tanto lavoro. In entrambi i romanzi la fase storica dei moti rivoluzionari e della spedizione dei Mille sono gli eventi con i quali tutti devono fare i conti, vuoi gli aristocratici, che stanno progressivamente esaurendo l’egemonia che avevano sull’isola grazie agli antichi privilegi, vuoi i borghesi che sanno approfittare delle situazioni per uscire dalla miseria ancestrale e incamminarsi verso una posizione sociale, che sarà vincente nel nuovo secolo.

Uno scrittore non può non conoscere cosa è stato scritto prima di lui sul tema della propria opera ed è innegabile che nel romanzo della Auci sono chiari i legami con la narrativa meridionalista, in modo particolare quella di Verga, di De Roberto e anche di Tomasi di Lampedusa. Del resto l’ambito di indagine e di narrazione coinvolge una terra dove si sono andati svolgendo i cambiamenti più significativi nel passaggio epocale della metà dell’Ottocento, una terra dove la differenza di ceto tra i nobili e gli altri era abissale ma si è andata trasformando, se non addirittura ribaltando, nei decenni del XIX secolo. Anche la Auci non può che stigmatizzare la situazione: «I nobili palermitani sono una strana razza. Attaccati ai loro privilegi come le unghie alla carne, indebitati fino alle mutande, ma coperti di velluti e di gioielli. Rivendono case e possedimenti che non sono più in grado di mantenere, scambiandoli come carte di un mazzo truccato» (p. 67). E poco dopo rincara la dose, quando afferma: «Certi siciliani sono ricchi solo di nomi e di titoli che non valgono manco la pietra su cui sono scolpiti i loro stemmi.» (p. 73-74). È la stessa situazione che si trova anche nel Mastro Don Gesualdo e nel Gattopardo, per rimanere nell’orizzonte che ci siano dati.

Se sono gli uomini che tengono il campo nel romanzo della Auci, c’è però una donna che costituisce un continuum nella narrazione. È Giuseppina che, moglie e vedova di Paolo, madre di Vincenzo e cognata (amata e desiderata) di Ignazio, percorre, pur se sottotraccia, la trasformazione della famiglia.

Nata alla fine del Settecento, porta con sé tutte le consuetudini e la mentalità della nativa Bagnara, a iniziare dal matrimonio con Paolo, che lei ha subìto come accadeva da secoli alle donne, e non fa differenza che fossero del popolo o nobili. Non si possono dimenticare infatti tutte le principesse e le nobildonne che nei secoli sono state usate dalle loro famiglie per siglare patti che, più che matrimoniali, erano politici ed economici, salvo poi sciogliere il matrimonio se intervenivano necessità di accordi di maggiore importanza. Se poi la donna diventava vedova, le nuove nozze erano più facili ma anche più impellenti.

Giuseppina non fa eccezione, pur in basso nella scala sociale. I Florio, la sua nuova famiglia, hanno chiesto soldi per la dote, ma quella di origine non ne aveva a sufficienza e così la dote è stata la casa, dove abita, al momento del terremoto che farà cambiare la sua vita, con il marito, il figlio ancora lattante, il cognato e Vittoria, la nipotina rimasta orfana. Questa casa rappresenta le sue radici dalle quali non si vuole staccare quando Paolo decide di lasciare Bagnara per trasferirsi a Palermo e tentare di migliorare la loro condizione. È ancora questa casa che fa aumentare il malanimo e il rancore verso Paolo una volta a Palermo, anche perché qui sono costretti a vivere in un vero e proprio tugurio, dove non ci sono nemmeno le porte per separare le stanze, ma solamente delle tende.

Nei momenti di maggior tensione con il marito e quando il desiderio di tornare a Bagnara diventa più acuto, ribadisce sempre di aver portato in dote la casa, quella casa di Bagnara che hanno lasciato e dove lei vorrebbe ritornare; è così forte il legame con la sua terra che cerca sempre di parlare con i bagnaroti che arrivano a Palermo per sentire almeno la lingua del suo paese in un legame ideale. Addirittura 18 anni dopo che sono a Palermo, Giuseppina propone al cognato Ignazio di ritornare, lei e suo figlio Vincenzo, a Bagnara: «almeno per morirci […] Voglio tornare a casa mia» (p. 151).                                                                                                                      

Nonostante che i rapporti con Paolo siano sempre stati difficili e tesi, purtuttavia c’è un legame con il marito che continua anche sette anni dopo la sua morte; Paolo non aveva più voluto parlare e avere contatti con la sorella Mattia, moglie di Paolo Barbaro, con il quale c’erano stati dei forti contrasti per motivi economici, silenzio che Giuseppina non gli aveva mai perdonato. L’orgoglio maschile non si era piegato se non in punto di morte, quando Paolo aveva riconosciuto i suoi torti nei confronti della sorella. Così «Giuseppina continua a pregare per la sua anima, e a indossare gli abiti da lutto, ma non per il dolore. No, in lei c’è una tenace volontà di espiare colpe che nessuno le riconosce, un bisogno di punirsi per il male che lei e Paolo si sono inflitti» (p. 122).

Ma non è solo questo: Giuseppina lo rivela a mezza voce a Ignazio: «”Io con lui… no, non ero felice”, dice d’un tratto, come in risposta ai pensieri di Ignazio. “Ma era mio marito che la mia famiglia e la volontà di Dio mi avevano dato, e me lo sono preso…» (p. 122). Ma c’è dell’altro, qualcosa che nemmeno lei vuole pensare e tanto meno riconoscere, cioè la sua attrazione per Ignazio. Il fatalismo ancestrale è ben radicato in lei e niente la deve fare allontanare da ciò che il destino ha voluto per lei e il desiderio nascosto, molto ben nascosto, di un rapporto d’amore e di passione con il cognato deve essere espiato in ogni modo. Quando Ignazio la invita a darsi pace, Giuseppina risponde: «“Non ci riesco. Non ce la faccio”. Dice infine. E in quelle parole, mette il dolore e la rabbia che si porta dentro, e il rimorso, e la solitudine e l’incapacità di perdonare e di perdonarsi.»  Quando Ignazio una sera dà la buona notte e «il suo fiato le solletica i capelli. Lei sente qualcosa nel petto che si rimescola, l’eco di un ricordo mai vissuto, di una vita che non ha mai nemmeno avuto il coraggio di sognare.» (p. 123). È invece Vincenzo, ancora adolescente, a rendersi conto del legame tra la madre e lo zio e «capisce che esistono amori che non portano questo nome, ma che sono altrettanto forti, altrettanto degni di essere vissuti, per quanto dolorosi.» (p. 124). Però Giuseppina non ce la fa a riconoscere con se stessa, e tanto meno a dirlo a Ignazio, che gli vuole bene, glielo ha sempre voluto, «Perché il rancore è un argine di pietra fra la gola e l’anima. È la sua sicurezza, il suo alibi per giustificare l’infelicità» (p. 185).

Solo in punto di morte Giuseppina riuscirà a dire la verità sul tormento che l’ha accompagnata tutta la vita, e lo dirà alla nuora Giulia che la sta vegliando, confondendo il cognato Ignazio e il nipote che porta il nome dello zio. «Tu lo devi dire a Ignazio che ho sbagliato.’, che ho avuto una vita sola. Glielo devi dire tu, hai capito? […] Io a lui volevo bene. Era lui che dovevo sposare, ora lo so. Gli volevo bene e non gliel’ho mai detto, ma lui era il fratello di mio marito. E ora voglio che lui lo capisca, che uno si deve maritare bene non per soldi, ma perché…» (p. 400). È una lezione amara quella che ha avuto dalla vita e che non ha saputo imparare. Al contrario Giulia ha seguito con tenacia la sua passione per Vincenzo contro tutto e contro tutti e ne ha fatto tesoro. Lo si vede chiaramente quando il figlio Ignazio timidamente le rivela che ha trovato una giovane che vanta nobiltà da tre generazioni, anche se la famiglia non è ricchissima. Rappresenta quello che Giuseppina aveva sempre desiderato per Vincenzo. Però Ignazio ha un amore a Marsiglia, che lo rende titubante e insicuro insieme al fatto che ha introiettato il senso del dovere e della responsabilità rispetto alla famiglia. Quel matrimonio è ciò che il padre si sarebbe aspettato da lui e non può deluderlo. La madre invece con affetto lo ammonisce con queste parole: «non si può vivere un matrimonio con il cuore e con la memoria da un’altra parte. Alla fine si fa torto a se stessi e ad altre due persone. A quella che vuoi veramente e a quella che è costretta a stare con te» (p. 420). Ma Ignazio non può sottrarsi al ‘dovere’ e sposa Giovanna d’Ondes, che gli darà due figli maschi, assicurando così il perpetuarsi della famiglia.

Anche in questo romanzo i nobili hanno sempre bisogno di soldi e sono i borghesi imprenditori gli unici che possono prestarli con discrezione. Il barone Mercurio Nasca di Montemaggiore è uno di questi. Chiede a Vincenzo, ormai alla guida di Casa Florio dopo la morte dello zio, un incontro, ma non nel suo palazzo perché il luogo non gli «sembrava acconcio», bensì alla tonnara di cui ha una quota parte nella proprietà. Il barone «indossa abiti un po’ lisi, che rivelano un gusto legato al passato: una camicia bordata di pizzo e una marsina dai bordi ricamati». È proprio vero: gli abiti raccontano molto più che le parole. Questa volta è la quota della tonnara a essere alienata a garanzia del prestito di almeno ottocento onze, di cui il barone ha bisogno. È tale la rabbia del barone per aver dovuto cedere che insulta Vincenzo: «Non avete sangue nobile e si vede! Siete un individuo meschino e senza rispetto […] Vous êtes un parvenu insolent!». Vincenzo è implacabile, perché quell’insulto lo colpisce nel profondo e gli ricorda le parole dello zio Ignazio quando gli ha raccontato ciò che lui e il fratello hanno dovuto subire dai nobili palermitani e dagli altri ‘bottegai’. La sua è una rivincita, amara, ma una rivincita.

A metà del romanzo irrompe sulla scena una figura di donna che sconvolge la vita di Vincenzo e soprattutto contrasta e sovverte il clichè femminile del tempo. È Giulia Portalupi, non certo una bellezza come Angelica Sedàra e non certo una donna in cerca di un innalzamento sociale, però «È un mare calmo che nasconde un’anima inquieta, Giulia Portalupi» (p. 222), almeno così appare a Vincenzo, quando la incontra in casa del padre. Giulia è una donna, con tutti i pregi e i difetti di una donna innamorata, carnalmente attratta da Vincenzo come lui lo è da lei, una donna molto moderna per i suoi tempi. Per Vincenzo lascia la sua famiglia di origine, diventa l’amante, la mantenuta di don Florio, vive in un appartamento allestitole da lui e subisce la riprovazione della società palermitana e in modo particolare quella di Giuseppina che, invecchiando, è diventata, se possibile, ancora più dura e intransigente. La sua vita è sempre stata Vincenzo, quel figlio adorato e che vorrebbe avere solo per sé. Eppure anche lei ha introiettato a un certo punto la mentalità dei Florio, il loro desiderio di un riscatto e la volontà di avere un riconoscimento nella Palermo del tempo, loro che da umili bagnaroti sono diventati imprenditori su larga scala e commerciano non più solo in spezie ma addirittura in zolfo, così ricercato sul mercato europeo.

Sembra che voglia riscattare l’umiliazione inflitta a Vincenzo, poco più che adolescente, dalla madre di Isabella Pillitteri di cui si era invaghito. Lui, un ‘facchino’, non poteva aspirare a una fanciulla di nobili natali, nonostante che le rendite familiari dei Pillitteri fossero ormai del tutto inesistenti. Era il blasone quello che contava! Ora Giuseppina vuole trovare una moglie per il figlio per due motivi: dare una discendenza (maschile!) ai Florio e far entrare Vincenzo in una famiglia nobile. Ricatta il figlio, non riconoscendo qualsiasi rapporto con Giulia e soprattutto negandogli il consenso alle nozze con lei, consenso dovuto dalle usanze e dalle leggi di allora.

Vincenzo accetta questa ricerca della madre, si potrebbe dire per motivi prettamente commerciali, ma l’avverte che non rinuncerà a Giulia. Intanto Giulia ha dato a Vincenzo due figlie, femmine purtroppo, Angela la prima e Giuseppina la seconda, che porta il nome della nonna. Ma tutto è inutile. Vincenzo si rifiuta di riconoscere le figlie e di sposare Giulia. Fin dall’inizio le aveva detto: «Non mi servi come moglie. Non sarebbe un matrimonio vantaggioso per me: sei troppo vecchia [Giulia ha 24 anni!], e non sei nobile, e credo che anche tu te ne renda conto. Però ti voglio e basta» (p. 236). E lei aveva accettato: «Prima era una giovane donna onorata, un’ombra che viveva per servire la madre e la famiglia. Ora era la mantenuta di uno dei commercianti più ricchi della città. Non di un nobile, per cui è un costume sociale accettabile avere un’amante. Solo di un putiàro» (p. 244).

Una donna siciliana avrebbe potuto avere davvero la forza e la determinazione di Giulia, nonostante tutti i rifiuti dell’uomo? Solo le donne del popolo, di bassa estrazione, potevano accettare di essere le amanti casuali di un nobile o di un ricco, come quelle di don Fabrizio di Salina, o continue, come la Diodata di mastro don Gesualdo, prive di una coscienza come donna e come persona. E come è possibile che Giulia ci riesca? Il fatto di essere nata a Milano da una famiglia borghese benestante e cresciuta lì e non in Sicilia e in un ambiente sociale affatto diverso l’aiuta, insieme all’amore e alla passione per Vincenzo. Se lo vuole, non ha altra scelta. Del resto fin dal suo arrivo a Palermo usciva da sola per fare le commissioni, anche perché la madre era malata e doveva restare in casa. Questa indipendenza non era ben vista dai palermitani ma lei la mantiene sempre, anche quando si rifiuta di abortire, quando si accorge di aspettare la prima figlia, di lasciare Palermo per tornare a Milano per evitare lo scandalo, e decide di continuare la relazione con Vincenzo. Una donna coraggiosa e ancor più coraggiosa per l’epoca e l’ambiente.

Forse l’autrice ha calcato un po’ la mano nel delineare questa donna, così donna e così determinata. Tuttavia la figura di Giulia contribuisce a fare da contraltare alla mentalità ottocentesca diffusa in tutta la società e in particolar modo in Sicilia, dove certe tradizioni e un certo modo di pensare e di giudicare erano più radicati che altrove. Ne sono testimonianze letterarie le altre opere al riguardo.

Per certi versi però Giulia è molto simile a Giuseppina: quanto quest’ultima era stata ostinata nel non voler ammettere i suoi sentimenti per Ignazio e si era calata nella parte della vedova, pur se molto amareggiata e rancorosa, e della madre tutta dedita al figlio, tanto la prima è altrettanto ostinata nel difendere l’amore per un uomo, che fin dall’inizio della loro relazione le ha promesso che avrebbe provveduto a lei ma non l’avrebbe mai sposata. È vero per altro che il tempo di Giuseppina e quello di Giulia e la loro provenienza sono differenti e le cose stanno cambiando.

Nessuno è immune dal senso comune, nemmeno Vincenzo così spregiudicato negli affari e pronto ad afferrare i cambiamenti di mercato e tecnologici. Il suo desiderio e lo scopo che persegue con tenacia è quello di essere accettato alla pari dalla società nobiliare che tanto ha disprezzato il padre, lo zio e lui stesso anche quando vi ricorreva per avere prestiti in denaro ed evitare la bancarotta. Questo pensiero e il desiderio di rivalsa offuscano qualsiasi altra possibilità di un matrimonio che non sia con una fanciulla blasonata. L’amore e la passione li ha da Giulia.

Quando dopo trent’anni che stanno insieme e sono finalmente sposati – alla terza gravidanza gli ha dato un figlio maschio! –, Vincenzo e Giulia hanno una violenta discussione perché lei ha espresso il suo parere sugli affari di famiglia, un parere che contrasta con quello del marito; Giulia gli dice che deve sempre ricordarsi come i Florio sono arrivati a Palermo e poi gli grida; «Ecco cosa non posso sopportare: che tu non capisca che tu e io siamo uguali. Perché devi trattarmi così?» (p. 414). Parlare di uguaglianza tra uomo e donna in una realtà siciliana e per di più negli anni che seguono l’unità d’Italia è davvero un’affermazione forte ma anche ben consapevole per questa donna ‘moderna’. Anche se Vincenzo sa che lei ha ragione, non chiederà mai scusa perché «Un uomo non può chiedere scusa a una femmina.» (p. 414). E quando Vincenzo le ricorda che nessuno le avrebbe potuto dare quello che le ha dato lui, orgogliosamente e tenacemente Giulia risponde: «Non mi hai mai dato il rispetto, Vice’. Quello mai. E, se io non mi fossi presa con le unghie e con i denti le cose di cui avevo bisogno, tu mi avresti ridotto al silenzio.» (p. 414). Non si tratta di beni materiali, non si tratta di abiti lussuosi o di una bella casa, ma del rispetto umano e della considerazione che una donna non è un essere inferiore, come era stata considerata per secoli, ma una persona che deve essere rispettata.

Se il principe di Salina ‘vive’ da lontano e con distacco l’arrivo dei garibaldini in Sicilia, lasciando a Tancredi cavalcare questa esperienza prima con la partecipazione alle sommosse e poi con il ritorno all’ordine nel nuovo sistema, i Florio vivono in prima persona e con grande apprensione la rivolta dei palermitani tra il 1848 e il 1849. Ancora una volta, come durante l’epidemia di colera di dieci anni prima, il pensiero è rivolto all’aromateria e ai magazzini con le spezie, che sono vuoti perché tutto era stato venduto e ciò che era rimasto era stato requisito. Il braccio di ferro è tra i Borbone e i siciliani, che sono stati sostituiti dai napoletani nei posti dell’amministrazione e ora, nel 1848, la rivolta è sanguinosa e i Borbone vengono cacciati, sostituiti con un governo nel quale è coinvolto anche Vincenzo Florio. Ma quando la situazione si ribalta e tornano i Borbone, Vincenzo, che si è compromesso con la rivoluzione, non può che appoggiarsi all’aiuto di Carlo Filangeri, principe di Satriano, al quale aveva prestato molto denaro perché sfuggisse alla vergogna del fallimento. Il principe gli fa sapere «che non avrebbe subìto conseguenze per la sua “vicinanza” ai ribelli», e Vincenzo capisce una volta di più che si deve «rammentare sempre che ai politici non bisognava dar fiducia. Usarli, manipolarli, comprarli, se necessario, perché ogni uomo ha un prezzo. Però mai, mai fidarsi ciecamente di loro.» (p. 342) La disillusione e il disincanto che erano stati di Fabrizio di Salina si ritrovano ora in Vincenzo che riflette amaramente sugli uomini e conferma la sua opinione borghese sul valore di scambio di merci e di uomini.

 

Anche il Mastro don Gesualdo[10] verghiano vede un uomo protagonista del racconto, un uomo di umili origini che con la forza di volontà, tanti sacrifici e tanto lavoro riesce a migliorare la sua condizione economica, pur restando sempre in bilico tra la sua vecchia vita e quella nuova. E anche Gesualdo se la deve vedere con tre donne, ben diverse tra loro e che, se pur in modi diversi, condizionano e scandiscono la sua vita.

Non potevano essere più diverse le prime due donne che accompagnano la vita di Gesualdo Motta. Bianca già nel nome sembra portare il suo destino di donna malata e affranta, dalla pelle candida ma di un pallore non del tutto sano, tanto che morirà per la ‘malattia di petto’, che aveva consumato tutti i Trao. Bianca porta con sé e con la sua precaria salute la metafora della fragilità della sua classe, che non può che sottostare agli eventi senza riuscire a ribellarsi e soccombere dinanzi a una borghesia vincente. Significativo il fatto che nella casa dove Bianca sta morendo fra gli oggetti che donna Giuseppina osserva c’è «L’orologio che segnava sempre la stessa ora» (p. 274), a sottolineare l’immobilità di una classe che rimane estranea al variare della storia.

E anche Diodata porta il nome della sua condizione, un’orfanella, «Diodata! Vuol dire di nessuno!» (p. 75), una povera contadina che non dispone della sua vita e non può fare altro che servire e ubbidire, ma che nutre per Gesualdo un amore incondizionato, benché resti sempre ai margini della sua vita. È la contadina che accetta dal padrone tutto quello che lui vuole, obbedendo in ogni situazione e rimanendo sempre nell’ombra, ma pronta ad aiutarlo. È la donna che non ha consapevolezza di se stessa e tanto meno della sua condizione di classe. Ubbidisce e basta.

A queste si aggiunge Isabellina, la figlia di Bianca e formalmente di Gesualdo, che per lei vuole il meglio: «imparare le buone maniere, leggere e scrivere, ricamare, il latino dell’Uffizio anche, e ogni cosa come la figlia di un barone» (Parte Terza, p. 205). Così già poco prima dei cinque anni viene mandata nel Collegio di Maria perché impari quanto si addice a una fanciulla di nobili natali. Gesualdo investe tutto su questa figlia – che oltre tutto sua figlia non è, ma di Ninì Rubiera, cugino e spasimante di Bianca – sia dal punto di vista affettivo sia da quello sociale, visto che non può sperare niente da parte della moglie, che non aveva recuperato le forze dopo il parto e anzi «deperiva sempre più di giorno in giorno […] e di figliuoli era certo che non ne faceva più» (ivi). Gesualdo, che è sempre stato accorto e aveva guardato agli affari per quello che gli potevano rendere, deve riconoscere che il matrimonio con Bianca era stato un affare sbagliato. Forse l’unico sbagliato in vita sua. Però «Quando uno ha fatto la minchioneria, è meglio starsi zitto e non parlarne più» (ivi). Grazie all’interessamento della zia della ragazza che cercava di risolvere la situazione incresciosa della gravidanza, Gesualdo aveva sposato Bianca, non sapendo che aspettava un figlio da don Ninì e non l’avrebbe mai saputo. La ‘merce avariata’ non sarebbe stata accettata dalla duchessa Rubiera, madre di don Ninì, la quale come Gesualdo aveva basse origini ma si era innalzata nella scala sociale grazie al suo denaro e a un matrimonio nobile.

Gesualdo è diventato un proprietario terriero, sottraendo a poco a poco ai nobili le terre che loro lasciavano improduttive per mancanza di interesse e soprattutto di denaro. I Trao sono ridotti in miseria e il loro palazzo è fatiscente, tuttavia oppongono resistenza alle nozze di Bianca con un mastro, ma alla fine cedono, per mantenere ‘l’onore’ della famiglia. Ancora una volta assistiamo a un matrimonio che unisce il blasone nobiliare al denaro borghese. Gesualdo col tempo non vuole dare soddisfazione ai suoi compaesani e alle malelingue e accetta il suo sbaglio, che non gli dà niente dal punto di vista affettivo e cerca un po’ di soddisfazione da un’altra parte, da quella Diodata che lui stesso aveva dato in moglie a Nanni l’Orbo. E da Diodata ebbe due figli, due figli maschi, che non poté riconoscere anche se uno, anche lui Gesualdo, gli assomigliava come una goccia d’acqua. Nessuno trovava strano che un uomo ricco, come era diventato Gesualdo Motta, avesse un’amante e dei figli illegittimi, come era costume dei nobili al tempo, ma certo sarebbe stato molto strano che questi ereditassero il patrimonio, che spettava invece a Isabellina, la figlia legittima.

Come la piccola Gertrude manzoniana ricopre in convento una posizione di rilievo rispetto alle altre e riceve omaggi, anche Isabellina nel Collegio di Maria riceve regali di ogni tipo, dai dolci alle primizie della campagna ai libri e alle immagini dei santi, fino a regali più costosi che suscitavano l’invidia e la gelosia delle altre ragazze. Isabellina è orgogliosa e insiste nel dire che lei è una Trao, e addirittura a Palermo, dove era stata mandata nel migliore «educatorio» della città, Gesualdo veniva chiamato «il signor Trao» (p. 214).

 

L’ambiente in cui si snoda la vicenda è quello siciliano di Vizzini, dove vive una popolazione formata da due gruppi ben distinti, i nobili, più o meno imparentati tra loro e ben decisi a difendere la loro posizione, e i contadini, del tutto sottomessi. È un’umanità molto numerosa, almeno così sembra dalle pagine del romanzo, nella quale tutti conoscono gli affari degli altri e se ne impicciano e dove quello che conta è la ‘roba’. La stessa Bianca viene trattata come tale.

Lo sfondo storico è ancora una volta la prima metà dell’Ottocento; lo si ricava una prima volta dalle parole del canonico Lupi, il quale alla fine dell’asta delle terre comunali, che Gesualdo si era assicurato togliendole al barone Zacco prima e a don Ninì poi in quella gara tra nobiltà e denaro, parla di Carboneria: «“Abbiamo la setta anche qui”. E spiegò cos’era la faccenda: far legge nuova e buttar giù coloro che avevano comandato sino a quel giorno. “Una setta, capite? […] Ogni villano che vuole il suo pezzo di terra! pesci grossi e minutaglia, tutti insieme. Dicono che vi è pure il figlio del Re, nientemeno! il Duca di Calabria”.» (p. 144). Una semplificazione, certo, ma che fa capire come venivano vissute in Sicilia le novità politiche del tempo. Fanno eco molti anni dopo, nel 1848, di nuovo le parole del canonico Lupi che, andato da Gesualdo insieme a don Ninì Rubiera: «S’ha da fare la dimostrazione, capite? Gridare che vogliamo Pio Nono e la libertà anche noi… Se no ci pigliano la mano i villani. Dovete esserci anche voi. Non diamo cattivo esempio».

L’incipit del romanzo non presenta una indicazione cronologica che possa far contestualizzare gli eventi in una data precisa, ma poi si chiarisce che la dimensione temporale è quella della prima metà dell’Ottocento, visto che Verga descrive la diffusione anche a Vizzini, il paese di Gesualdo, della rivolta di Palermo del 1820, che il canonico Lupi paragona alla Rivoluzione Francese che vide cadere anche le teste coronate del re e della regina. Tuttavia ciò che Verga vuole mettere in evidenza non è tanto il movimento rivoluzionario e carbonaro quanto la cesura tra due mondi e due tipi di società, la stessa che troviamo ne Il gattopardo e nel romanzo della Auci, pur se con l’attenzione a ottiche diverse. Nel Mastro viene ribadito il passaggio non indolore dall’età in cui erano i nobili a comandare e a gestire la vita della Sicilia a quella in cui i padroni sono i borghesi, e non importa come e con quanta fatica questi hanno accumulato terre e denari. Ancora una volta le dimore dell’aristocrazia sono cadenti, se non addirittura fatiscenti, con «lo stemma logoro, scantonato, appeso ad un uncino arrugginito, al di sopra della porta» (p. 11); anzi l’incendio che all’inizio della narrazione divampa nel palazzo dei Trao non è che la metafora della distruzione di una classe, che ormai viene sostituita da quella che ha fatto del denaro e della roba la sua ragion d’essere. È poi la Carboneria che viene evocata come il pericolo, quella setta per la quale «ogni villano vuole il suo pezzo di terra», come sostiene impaurito il canonico Lupi, al quale, pragmaticamente Gesualdo risponde «bisogna aiutarsi per non andare in fondo al cesto, caro canonico! Bisogna tenersi a galla, se non vogliamo che i villani si servano con le sue mani. Li conosco, so fare … non dubitate» (p. 144)

Quando, nel 1848, si diffonde di nuovo una speranza di cambiamento sulla scia dell’elezione di Pio IX, di nuovo la parola d’ordine per Gesualdo e per quelli come lui è di ‘sporcarsi le mani’ con la rivoluzione, ma solamente quel tanto che permette di tenerla sotto controllo e di indirizzarla per ritirarsi però al momento opportuno e non rischiare di perdere quello che hanno conquistato con tanta fatica. Anzi ora Gesualdo vuole difendere i suoi beni e la sua posizione sociale e non è disposto a metterle a repentaglio per un vento rivoluzionario, che comunque finirà per affievolirsi e in sostanza non cambiare niente. Sembra un don Fabrizio di Salina ante litteram che, seppure più grossolanamente, non vuole più partecipare ai rivolgimenti storici in atto e si defila.

Se negli schemi preparatori il Mastro finiva nel 1861 con l’unità d’Italia, la stesura definitiva del romanzo nel 1889 termina invece con il 1848, che Verga chiama la «stagione del disincanto», e vi troviamo una anti-epopea del Risorgimento soprattutto nella separazione tra sfera pubblica e sfera privata. Lo si vede chiaramente nella descrizione della morte di Bianca, quando ciò che importa a Gesualdo è quanto sta accadendo dentro il suo palazzo e non ciò che sta accadendo fuori: «A Palermo c’è una casa del diavolo… La rivoluzione… Vogliono farla anche qui…» (p.283), ma a Gesualdo «Gliene importava assai della rivoluzione adesso! L’aveva in casa la rivoluzione adesso.» (p. 283).

Gesualdo si è creato con fatica la sua ricchezza e con fatica aveva cercato di salire nella scala sociale, sacrificando tutto e in modo particolare gli affetti, e Verga mostra una grande capacità di inanellare nella narrazione del romanzo questo aspetto della vita di Gesualdo fatta di rinunce. A tale vita solitaria e amara si lega l’insieme delle dinamiche sociali che si sviluppano nella Sicilia durante il Risorgimento. Tali dinamiche sono strettamente legate alle trasformazioni storico-politiche e a una questione concreta, quella della divisione delle terre demaniali, come si può vedere già all’inizio della parte seconda (pp. 129 sgg.) del romanzo, quando nell’asta del 1820 Gesualdo ottiene le terre del comune grazie alla garanzia del suo denaro, dei suoi sacchetti di doppie messi sul tavolo dell’asta. Però, se in un primo momento la questione della censuazione delle terre vede lo scontro tra l’aristocrazia e la borghesia, in un secondo momento le due classi si compattano per impedire che le terre demaniali vadano a finire nelle mani dei contadini. È la fissità degli interessi di classe che, al di là del singolo, dominano quanto meno nel territorio italiano, e in quello siciliano in particolare, nel passaggio da una realtà ‘antica’ a quella ‘moderna’ del potere del denaro.

In queste pagine ho cercato di mettere a fuoco la relazione tra un aspetto particolare dei tre romanzi presi in considerazione, vale a dire i personaggi femminili, con il fondale sul quale questi si accampano, facendo emergere al contempo in filigrana l’ambiente sociale e culturale, per così dire antropologico, in cui si muovono e agiscono. Purtuttavia, proprio in una recente intervista rilasciata in occasione del suo ultimo lavoro pubblicato in Italia,[11] Franco Moretti[12] afferma tra l’altro che «a furia di studiare si scopre che quasi tutto è sempre già stato fatto da qualcun altro; […] Però mi piace pensare che ho migliorato quei precedenti tentativi». È quanto si può dire, si parva licet, anche del tentativo qui esperito, nel quale per i romanzi di Verga e di Tomasi di Lampedusa è stata sfruttata la distanza temporale, che consente di mettere meglio a fuoco il rapporto tra il particolare e il fondale generale, costituito dalla Storia e dall’elemento socio-antropologico sotteso, mentre si è cercato di mettere in evidenza nel libro della Auci il filo rosso dei personaggi femminili, che non solo attraversa la letteratura meridionalista ma che lo lega agli altri due romanzi per analogie e contrappunti.

Inoltre è sempre importante cercare di capire le relazioni tra la scrittura e la realtà nella quale nasce, sia essa il tempo prettamente storico sia l’ambiente culturale e sociale sia l’orizzonte d’attesa del pubblico immediatamente contemporaneo. Per quest’ultimo motivo forse la figura di Giulia Portalupi ne I leoni di Sicilia assume quegli aspetti di consapevolezza di genere – elemento moderno veicolato dai gender studies diffusi dalla seconda metà del Novecento in avanti –, che appare un po’ forzata, come ho sottolineato, rispetto al tempo storico di ambientazione. Comunque, pur senza scomodare gli studi di genere, mi sembra che attraverso i personaggi femminili dei tre romanzi considerati e il modo in cui essi sono delineati sia possibile avvicinarci alla mentalità e alla costruzione delle rappresentazioni sociali di un’epoca e percepire il ruolo e la funzione riservata alle donne, i quali cambiano con il variare dell’educazione e con le trasformazioni economico-sociali. I personaggi femminili possono essere considerati degli stereotipi,[13] in quanto incarnano una rappresentazione, per quanto semplificata, della realtà alla quale appartengono, e anzi facilitano la comprensione di una realtà storico-sociale, che per altro cambia nel tempo. Infatti i personaggi letterari fissano nelle forme della narrazione la mentalità e i ruoli di un mondo che però è sempre in continuo movimento.  

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

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[1] Northrop Frye, Anatomia della critica, ed. italiana, Torino, Einaudi, 1969 [1957¹].

[2] Stefania Auci, I leoni di Sicilia, Milano, Edizioni Nord, 2019.

[3] Alessio Baldini, parlando del Gattopardo scrive: «I romanzi estraggono dalla società e dalle istituzioni sociali degli orizzonti di senso, che sono il loro oggetto privilegiato di rappresentazione» (p. 27) e al contempo mette in dubbio che il romanzo di Tomasi di Lampedusa  «sia un romanzo storico con al centro episodi della storia politica e militare», considerato anche che lo stesso Lampedusa afferma, rivolgendosi a Lajolo: «Non vorrei però che tu credessi che è un romanzo storico! Non si vedono né Garibaldi, né altri: l’ambiente solo è del 1860» (p. 41) (A. Baldini, Il Gattopardo di Lampedusa come saga familiare: realismo modernista ed erosione dell’orizzonte della famiglia patriarcale, in «Allegoria», 71-72, 2016). Pur essendo d’accordo con le osservazioni di Baldini, mi servo di questa definizione per legare lo sfondo storico alle esistenze peculiari dei singoli personaggi inseriti in un certo tipo di società, della quale mostrano alcuni aspetti significativi ai fini della comprensione degli intrecci sociali e dei ruoli da loro ricoperti. Nel dibattito su questo romanzo, Zago sostiene che ne Il gattopardo non troviamo la forma classica del romanzo storico, perché non vi troviamo «il principio unitario e progressivo» della storia «essendo subentrata […] un’idea della storia più perplessa e problematica, permeata dalla “cultura della crisi” entre deux guerres» (N.unzio Zago, Un “classico del Novecento. Il gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, in Tutto ti serva di libro, Studi di letteratura italiana per Pasquale Guaragnella, vol. II, Lecce, Argo, 2019, pp. 516-529 : 517). Francesco Orlando da parte sua ritiene invece che il nocciolo del romanzo sia la «storia di un’intimità personale», il «riflesso intimo d’un tempo quotidiano, storicamente significativo, entro una coscienza – quella appunto di Don Fabrizio» (Francesco Orlando, L’intimità e la storia. Lettura del «Gattopardo», Torino, Einaudi, 1998, p. 27).

[4] A questo riguardo sono interessanti alcune riflessioni presenti nell’articolo di Renato Marvaso, L’immagine della donna nella letteratura del secondo Ottocento, in Sguardo sull’immaginario italiano, Aspetti linguistici, letterari e culturali, a cura di Eliana Moscarda Mirkovic e Tanja Habrle, Pola, Università degli Studi ‘Juaj Dobrila’, 2019, pp. 397-412 : 401 e 405-406. L’articolo ha il suo focus sulle figure femminili verghiane.

[5] G. Tomasi di Lampedusa, Il gattopardo, Milano, Feltrinelli, 1963 (da cui si cita).

[6] «La prima impressione fu di abbagliata sorpresa. I Salina rimasero col fiato in gola: Tancredi sentì addirittura come gli pulsassero le vene nelle tempie. Sotto l’impeto della sua bellezza gli uomini rimasero incapaci di notare, analizzandoli, i non pochi difetti che questa bellezza aveva. [… ] Era alta e ben fatta, in base a generosi criteri; la carnagione sua doveva possedere il sapore della crema fresca alla quale rassomigliava, la bocca infantile quello delle fragole. Sotto la massa dei capelli color di notte avvolti in soavi ondulazioni, gli occhi verdi albeggiavano, immoti come quelli delle statue e, com’essi, un po’ crudeli» (pp. 52-53). Il principe «Vecchio cavallo da battaglia com’era, lo squillo della grazia femminile lo trovò pronto ed egli si rivolse alla ragazza con tutto il grazioso ossequio che avrebbe adoperato parlando alla duchessa di Bovino o alla principessa di Lampedusa» (p. 53). Tancredi si lasciava guidare anche «dalla eccitazione diciamo così contabile che la ragazza ricca suscitava nel suo cervello di uomo ambizioso e povero’. (pp. 55-56)

[7] «Sarebbe inutile parlare della dote di mia figlia […] Ma è giusto che i giovani conoscano quello su cui possono contare subito: nel contratto matrimoniale assegnerò a mia figlia il feudo di Settesoli di salme 644, cioè ettari 1680, […] e 180 salme di vigneto e uliveto a Gibildolce: e il giorno del matrimonio consegnerò allo sposo venti sacchetti di tela con mille ‘onze’ ognuno» (p. 89). È evidente che qui come negli altri romanzi di cui mi occupo la base storica, e in questo concordo con Baldini, non è data dai fatti accaduti ma dal senso sociale e dal fondo economico che li pervade tutti.

[8] Cfr. Nunzio Zago, cit. p. 525.

[9] Stefania Auci, I leoni di Sicilia, Milano, Edizioni Nord, 2019.

[10] Giovanni Verga, Mastro don Gesualdo, Milano, Oscar Mondadori, 1966 (da cui si cita).

[11] Franco Moretti, A una certa distanza. Leggere i testi letterari nel nuovo millennio, Roma, Carocci, 2020.

[12] L’intervista completa si può leggere in https://www.letture.org/a-una-certa-distanza-leggere-i-testi-letterari-nel-nuovo-millennio-franco-moretti. Per una riflessione teorica sugli studi di Franco Moretti si rimanda alla relazione tenuta da Mario Gerolamo Mossa per il “Seminario di cultura digitale”, dal titolo Il demone della distanza e l’angelo della vicinanza. Riflessioni sulla teoria letteraria di Franco Moretti, in http://www.labcd.unipi.it/wp-content/uploads/2018/05/Mario-Gerolamo-Mossa-Teoria-letteraria-di-Franco-Moretti-.pdf.

[13] Cfr. H. Putman, Meaning, Reference and Stereotypes, London, Duckworth, 1978.

 

15 febbraio 2021