E' il gioco della letteratura
Il “gioco” (o se si preferisce “giochi”) è uno degli argomenti più affascinanti, che dovrebbero suscitare gioia nei consigli di classe, quale che sia l’indirizzo di studi o la classe in cui operano, perché consente prima di tutto di programmare l’attività scolastica in direzione sia multidisciplinare sia interdisciplinare, focalizzando l’attenzione e l’impegno su di un tema dalle ampie articolazioni, poi di far sviluppare agli studenti il lavoro cooperativo e la socializzazione grazie alle varie direzioni operative, e infine, e non si tratta dell’aspetto meno importante, anzi tutt’altro!, permette loro l’acquisizione e la messa in atto delle competenze sviluppate nelle varie discipline in un orizzonte complesso, molteplice ed unitario al tempo stesso, di ricerca, di studio e di elaborazione.
Il gioco infatti può essere studiato come argomento ‘unilaterale’ da tutte o quasi le discipline scolastiche, a cominciare dalle lingue classiche, per passare attraverso le lingue straniere, la storia, la filosofia, l’arte, la matematica, il diritto, l’educazione fisica o motoria come si definisce oggi e, per quello che ci interessa nello specifico, la letteratura italiana. Non dobbiamo dimenticare la sociologia, che in alcuni tipi di istituto è una disciplina autonoma, e che si intreccia con le altre, come ad esempio le varie letterature nelle lingue straniere, la storia o l’arte. È dalla produzione artistica in senso lato, sia essa letteraria o iconica, che si può ricostruire e capire la struttura sociale delle varie epoche e come in una ci siano i residui di quella precedente e contemporaneamente i germi che porteranno ad un cambiamento nell’epoca successiva. Ma possiamo vedere anche il ripetersi e il permanere di topoi che restano immutabili nel tempo a sancire la forza che certi modelli culturali hanno nell’immaginario collettivo da un secolo all’altro.
In una programmazione ben organizzata anche l’educazione motoria, in stretta correlazione con il docente di Storia, trova la sua collocazione, sollecitando non solamente i giochi di squadra ‘sul campo’ e supportati dalla conoscenza teorica delle ‘regole del gioco’, ma anche la conoscenza della storia dello sport, anzi dei vari sport, che molto spesso rappresentano proprio l’evoluzione di alcuni giochi.
Nell’arte poi non c’è che l’imbarazzo della scelta, dalla pittura vascolare greca, dove possiamo vedere ad esempio Achille ed Aiace che giocano a dadi in un momento di riposo dai combattimenti, raffigurati nell’anfora a figure nere di Exechias, risalente al 540-530 a.C. e conservata nei Musei Vaticani (fig. 1). Oppure atleti che partecipano a gare sportive, nella fattispecie nella corsa (fig. 2), da cui si ricava che a partecipare ai giochi olimpici nella Grecia antica erano solamente gli uomini e che gli atleti correvano nudi.
In tutto il mondo greco antico ai giochi veniva attribuita un’eziologia mitica e l’inizio dei vari giochi, in primo luogo le Olimpiadi, era fatta risalire a quelli funebri per onorare la morte di un personaggio mitico: per Pelope ad Olimpia, per Archemoro Ofelte a Nemea, per Melicerte a Istmo, per il serpente Pitone a Delfi. Ecco che la ricerca di questi miti eziologici, demandata agli studenti insieme a precise indicazioni bibliografiche e di lavoro, arricchisce ad esempio lo studio della lingua e della cultura greca.
I giochi funebri, che nel XXIII libro dell’Iliade sono in onore di Patroclo e nel libro V dell’Eneide in onore di Anchise, rappresentano il modello al quale erano ispirate nel mondo antico le gare atletiche e sono la testimonianza letteraria dell’uso di interrompere la guerra per consentire la sepoltura dei caduti.
Di nuovo il compito, demandato agli studenti con le opportune indicazioni, di rintracciare i passi che attengono a questi giochi, di metterli in relazione fra loro per capire e valutare l’importanza ed il significato che essi avevano in società diverse, come quella greca omerica da una parte e quella romana di età augustea dall’altra, stimola la capacità di individuazione di un tema in un testo, la capacità di analisi e di riflessione su di esso e contribuisce all’interpretazione che dal punto di vista letterario, linguistico, storico, sociale, artistico può essere ricavata da essi.
Una riflessione linguistica con la collazione dei vari termini con i quali nelle varie lingue è indicato il gioco, che è ‘gioco’ in italiano, ma è ‘iocus’, ‘lusus’, ‘ludus’, ‘alea’ in latino, ‘jeu’ in francese, ‘play’ e ‘game’ in inglese, ‘spiel’ in tedesco e così via, è importante per capire le varie sfumature semantiche che si riferiscono ad esso. Ad esempio nel Dizionario etimologico della lingua italiana[1] si legge: «in latino «iocu(m), propr. ‘gioco di parole, facezia’ […] ma poi sostitutivo di ludu(m) ‘gioco in azione’», in una corrispondenza con l’uso inglese di ‘play’ e ‘game’. Nell’Encyclopedie di Diderot e D’Alembert (il cui testo si trova online[2]) gli studenti possono trovare quanto si conosceva rispetto al gioco nel Settecento e in particolare quelli che studiano francese possono fare un proficuo esercizio di lettura, traduzione, interpretazione di questa fonte.
Ma per quanto riguarda l’aspetto più squisitamente linguistico in italiano è possibile far lavorare in modo creativo gli studenti nei ‘giochi di parole’, acrostici e mesostici, elaborazione di definizioni di termini, individuazione di termini da definizioni date, e addirittura nei cruciverba sia come soluzione che come preparazione. Si tratta di esercizi molto utili che favoriscono un arricchimento del lessico ed una maggiore consapevolezza nel suo uso. E si tratta di un ‘gioco’!
Se guardiamo nello specifico alla letteratura italiana, è possibile un vasto campo di lavoro. Infatti nella letteratura il gioco ha valenze multiple, prima fra tutte quella della letteratura e della poesia che comunemente chiamiamo ‘giocosa’ e che, soprattutto in età medievale, vede un’ampia produzione da parte di goliardi e di giullari, da Rutebeuf ai poeti di area toscana come Cecco Angiolieri.
Tre cose solamente m’ènno in grado,
le quali posso non ben ben fornire,
cioè la donna, la taverna e ’l dado:
queste mi fanno ’l cuor lieto sentire.
Ma sì·mme le convene usar di rado,
ché la mie borsa mi mett’ al mentire;
e quando mi sovien, tutto mi sbrado,
ch’i’ perdo per moneta ’l mie disire.
E dico: «Dato li sia d’una lancia!»,
ciò a mi’ padre, che·mmi tien sì magro,
che tornare’ senza logro di Francia.
Ché fora a tôrli un dinar[o] più agro,
la man di Pasqua che·ssi dà la mancia,
che far pigliar la gru ad un bozzagro.
È questo un sonetto famoso, con il quale il poeta senese afferma che sono solamente tre le cose che gli procurano piacere, e cioè la donna, o le donne con le quali divertirsi, la taverna, dove si può bere e mangiare a sazietà, e il gioco dei dadi, con il quale era possibile puntare denaro e, se si era fortunati, vincere, sebbene fosse necessario molto denaro per poter soddisfare questo passatempo. Purtroppo il padre lo tiene «sì magro», a corto di denaro, e troppo spesso la sua scarsa disponibilità economica lo «mett’al mentire», costringendolo a rinunciare al gioco e al suo divertimento.
Anche Dante parla del gioco, e del gioco d’azzardo, nell’incipit del canto V del Purgatorio:
Quando si parte il gioco della zara,
colui che perde si riman dolente,
repetendo le volte e tristo impara; (Pg. V, 1-3)
sottolineando come chi è sconfitto riprova a tirare i dadi quasi all’infinito, per cercare di capire perché ha sbagliato ed è stato vinto.
E non c’è da stupirsi se a distanza di secoli - ciò dimostra la persistenza della passione degli uomini per il gioco d’azzardo ed in particolare per il gioco dei dadi - uno scrittore, e per di più uno scrittore per l’infanzia, inizia il suo romanzo d’avventure Capitan Tempesta proprio con il gioco della zara
Una partita a «Zara»
— Sette!...
— Cinque!
— Undici!
— Quattro!
— Zara!...
— Corpo di trentamila scimitarre turche! Che fortuna avete voi, signor Perpignano! Sono ottanta zecchini che mi guadagnate in due sere. Ciò non può durare! Preferisco una palla di colubrina in corpo e per di più una palla di quei cani di miscredenti. Almeno non mi scorticherebbero dopo presa Famagosta.
— Se la prenderanno, capitano Laczinki.
— Ne dubitate, signor Perpignano?
[…]
Dunque, signor Perpignano, giacché i turchi ci lasciano un po' tranquilli, riprendiamo la partita? Ho ancora una ventina di zecchini che passeggiano nelle mie tasche. Quasi a smentire il capitano, si udì in quel momento rombare cupamente il cannone.
— Ah! Mascalzoni! Nemmeno alla notte ci lasciano tranquilli — riprese il loquace polacco. — Bah! Avrò tempo sufficiente per perdere o vincere ancora qualche decina di zecchini. È vero, signor Perpignano?
— Quando vorrete, capitano.
— Mescolate i dadi.
— Nove! gridò Perpignano, facendo rotolare i dadi sullo sgabello che serviva ai due avversari da tavolo da giuoco.
— Tre!
— Undici!
— Sette!
— Zara!
Una bestemmia sfuggì dalle labbra dello sfortunato capitano, mentre intorno a lui scoppiavano delle risate, subito represse.
— Per la barba di Maometto! esclamò il polacco, gettando sullo sgabello due zecchini.
— Avete fatto qualche patto col diavolo, signor Perpignano.
— Niente affatto. Sono troppo buon cristiano.
[…]
[…] riprendiamo il giuoco. Non voglio battermi domani colle tasche vuote. Come potrei pagare Caronte, senza aver in tasca un misero zecchino? Per varcare lo Stige si deve pagare, mio caro signore.
— Sicchè, siete ben certo di andare all'inferno — disse il signor Perpignano, ridendo.
— Può darsi, — rispose il capitano, prendendo quasi con collera il bossolo e agitando i dadi. — Orsù, due zecchini ancora.
[…] La partita si era nuovamente impegnata con un certo accanimento d'ambo le parti e con molto interesse dei soldati schiavoni che, come abbiamo detto, avevano formato circolo intorno allo sgabello che serviva da tavolo da giuoco, […]
Già il capitano aveva perduto, non senza molte bestemmie, un'altra mezza dozzina di zecchini, quando un lembo della tenda si sollevò ed un nuovo personaggio, che era avvolto in un gran mantello nero e che aveva l'elmetto adorno di tre piume azzurre, entrò, […][3]
Chi entra in scena è proprio il Capitan Tempesta, che interrompe il gioco, richiamando tutti alle armi e alla battaglia per difendere Famagosta dai Turchi. Nonostante che questo romanzo d’avventura fosse rivolto ad un pubblico di ragazzi, è sicuramente di grande effetto una scena d’apertura come questa, che grazie ai dialoghi sottolinea l’enfasi con cui ci si avvicinava al gioco d’azzardo.
Come in tutti i giochi di dadi, anche nella zara i giocatori dovevano indovinare il risultato del proprio lancio. I giocatori avevano tre dadi da tirare, per cui il risultato era compreso fra il tre e il diciotto, ma il ventaglio delle varie combinazioni era ampio. Se il personaggio di Salgari dice «zara», significa che era riuscito a prevedere la combinazione dei tre dadi che corrispondeva al numero che aveva dichiarato. Secondo il calcolo delle probabilità, la possibilità di azzeccare il numero della somma dei dadi è di 1 a 216 e superiore. Si tratta dunque di un gioco d’azzardo difficile e dobbiamo sottolineare che il termine «azzardo» viene proprio da questo gioco: «azara», in lingua d’oc hasart, chederiva a sua volta dall’arabo azahrt, che indica proprio il dado[4].
Anche i giovani ‘insospettabili’ della brigata del Decameron di Boccaccio si dedicano per divertirsi al gioco dei dadi alla fine di una giornata, come si legge fra l’altro anche nell’Introduzione alla terza giornata:
[…] a’ suoni e a’ canti e a’ balli da capo di diedorono infino che alla reina … parve ora che …s’andasse a dormire. De’ quali chi vi andò e chi, vinto dalla bellezza del luogo, andar non vi volle; ma, quivi dimoratisi, chi a legger romanzi, chi a giucare a scacchi e chi a tavole[5]5], mentre gli altri dormivano, si diede[6].
Un’ampia produzione letteraria prende dunque come argomento il gioco d’azzardo, sia che esso sia giocato con i dadi, con gli scacchi, o con la roulette. Per quanto riguarda questo settore del gioco d’azzardo, mi permetto di fare riferimento a quanto ho scritto per «griseldaonline» nel lavoro Cosa non farebbero gli uomini per denaro! per il tema del 2011, riferito proprio al denaro. Nel paragrafo 5, dal titolo Il denaro e il gioco d’azzardo,affronto con La pelle di zigrino di Balzac il rischioso gioco che Raphaël ingaggia con la sorte, pur di ottenere denaro soprattutto per il tavolo da gioco, e poi il rapporto con la vincita al casino di Montecarlo di Mattia Pascal, vincita che gli permette, almeno così sembra e così crede, di cambiare la sua vita, e l’ossessione dell’Aleksej de Il giocatore di Dovstoevskij per la roulette e l’alea che essa consente. Già questi spunti possono servire per iniziare un lavoro sul gioco, e nella fattispecie sul gioco d’azzardo.
Tuttavia in questa circostanza vorrei affrontare il gioco da due punti di vista: uno, quello del gioco degli scacchi nella letteratura e delle sue implicazioni, l’altro, quello che viene descritto e affrontato in stretta correlazione con la dimensione sociale nella letteratura del Settecento. È questo un secolo ed un’epoca che in genere a scuola non viene molto frequentato per svariati motivi, chiamiamoli ‘pratici’ e organizzativi. Così nella maggior parte dei casi viene fatto affrontare lo studio di un panorama generale dell’Illuminismo e viene lasciata da parte la lettura e la riflessione sui testi di autori come Goldoni o Parini, forse perché non sempre di facile lettura. Proprio per stimolare un’attenzione verso questo secolo assumendo come punto di vista il gioco, affronterò il teatro goldoniano e Il giorno di Parini, che offrono molti motivi di riflessione multidisciplinare.
La società del Settecento, anzi la “buona società” si dilettava di numerose forme di giochi, che si svolgevano in luoghi deputati ad essi, insieme alla ‘conversazione’, nata, come insegna Quondam[7], nelle corti cinquecentesche dove i cortigiani facevano sfoggio della loro ‘sprezzatura’ e della loro capacità di affrontare le dinamiche relazionali di corte, per il confronto culturale sia nelle occasioni quotidiane che in quelle speciali, come il rapporto con il signore. Non è poi affare di secondo piano la partecipazione della donna, anche se si tratta sempre di donne di corte, alla conversazione, alla quale si accompagna anche un certo gioco di seduzione. Castiglione fonda con il suo Cortegiano la tipologia del nuovo gentiluomo, che permane almeno fino alla Rivoluzione come modello sociale e culturale ed è il gentiluomo quello che si dedica al gioco. Anche quando la decadenza politica ed economica dell’Italia fra il XVI ed il XVIII secolo fa spostare il fulcro culturale e quello dell’elaborazione delle idee in altri Paesi e soprattutto in Francia, il gentiluomo con il suo corredo di ‘virtù’ sarà al centro delle accademie, dei salotti e dei caffè, i luoghi della sociabilità del nuovo secolo. Il caffè come luogo di aggregazione ed anche di divertimento si radica in modo particolare a Venezia, dove l’alta società sembra godere degli ultimi sprazzi della spensieratezza e della ricchezza che l’aveva caratterizzata nei periodi precedenti, quasi a voler dimenticare che il tempo è ormai passato e che a breve la borghesia la sostituirà nella guida della società.
Al tempo il gioco si svolgeva particolarmente nei Ridotti dei teatri, numerosi nella Venezia settecentesca, cioè in quelle sale e in quei luoghi di sosta prima, durante e dopo le rappresentazioni teatrali. È in questi Ridotti che si praticava il gioco d’azzardo, proibito in altri luoghi. Da sottolineare il fatto che non erano solamente gli uomini a dedicarsi ai giochi d’azzardo ma anche le donne erano accanite giocatrici, e lo erano perfino gli ecclesiastici. Una vera e propria febbre del gioco percorre la Serenissima. Proprio per l’accanimento con il quale i veneziani giocavano a carte, al faraone[8] (fig. 3), ai dadi, alla zara e per moralizzare in qualche modo la vita pubblica, il Ridotto del Teatro San Moisè di Venezia fu chiuso dalle autorità nel 1774, ma il gioco continuò ad essere praticato intensamente e fu trasferito nelle case private e nei caffè.
Nel particolare situato sullo sfondo di questo quadro (fig. 4) del veneziano Pietro Longhi dal titolo Il ridotto (1750) è chiaramente visibile alle spalle delle maschere la passione di alcuni gentiluomini per il gioco delle carte. Il carnevale a Venezia era uno dei momenti più importanti della vita sociale dell’epoca e indossare la maschera permetteva di sottrarsi almeno in parte alle convenzioni quotidiane ed un’evasione che potremmo definire ‘ludica’, in piena corrispondenza con i giochi.
Almeno dall’epoca romana, quando i Saturnalia permettevano una specie di sovvertimento sociale che consentiva alle classi basse l’illusione di allinearsi con quelle alte, in un gioco di scambio di ruolo rispetto alla quotidianità, il desiderio di liberarsi dalle rigide gerarchie sociali costituiva una vera e propria boccata d’aria per chi era costretto sempre ad ubbidire. A Venezia il carnevale era un’ebrezza collettiva che non si esauriva nel travestimento mascherato e che aveva una sua attrazione prepotente proprio nel gioco d’azzardo, quasi ed evocare il ritornello «Chi vuol essere lieto, sia: / di doman non c’è certezza» di Lorenzo Il Magnifico, scritto proprio per il carnevale del 1490.
Fra il 1748 ed il 1753 Goldoni (1707-1793), che era stato costretto a lasciare precipitosamente Venezia per la seconda volta per debiti di gioco, fu assunto dall’impresario teatrale Medebac perché scrivesse commedie per la sua compagnia veneziana al teatro di Sant’Angelo, e nel 1750-51 ne scrisse addirittura 17, precisando in tal modo la sua riforma del teatro che aveva come campo di indagine il Mondo, come ebbe a scrivere nei Mémoires (1783-1787). Il Mondo offre infatti un insieme inesauribile di personaggi, di caratteri, di sentimenti che si intrecciano in continuazione ed in mille modi, mentre il Teatro gli offre la mise en abyme degli elementi offerti dal Mondo. Questo attento osservatore della realtà, e di quella veneziana in particolare, non poteva passare sotto silenzio il gioco, soprattutto quello delle carte, che fra l’altro condizionò una parte della sua vita. (fig. 6)
Dalle Donne curiose a Il giuocatore alla trilogia della Villeggiatura per finire a Una delle ultime sere di carnovale[9]il gioco ritorna incessantemente nelle sue commedie, accompagnato dal giudizio negativo dell’autore, che si fa quasi precettore pariniano per dimostrare il pericolo ed il danno che scaturiscono dal gioco delle carte e dal gioco d’azzardo.
Illuminante risulta il saggio di Caillois che classifica i giochi, distinguendo quelli in cui sono attive la ragione e la destrezza da quelli, ad esempio, nei quali ci si affida completamente al caso:
Dopo un esame delle diverse possibilità, proporrei a questo scopo una suddivisione in quattro categorie principali a seconda che, nei giochi considerati, predomini il ruolo della competizione, del caso, del simulacro e della vertigine. Le ho chiamate rispettivamente Agon, Alea, Mimicry e Ilinx. Tutte e quattro appartengono a pieno titolo al campo dei giochi: si gioca al calcio, a biglie e a scacchi (agon), si gioca alla roulette o alla lotteria (alea), si gioca ai pirati e si recita la parte di Nerone o Amleto (mimicry), ci si diverte, si gioca, a provocare in noi, con un movimento accelerato di rotazione o di caduta, uno stato organico di perdita della coscienza e di smarrimento (ilinx). Tutte queste designazioni non esauriscono ancora l’universo de gioco[10].
Nell’incipit della commedia Donne curiose (1753) la scena si apre su una «camera con porte chiuse», dove due dei protagonisti, Florindo e Leandro, giocano a dama, mentre Ottavio legge un libro. Siamo dunque in un momento di sospensione del tempo, che può essere dedicato ad attività ricreative e al divertimento grazie anche ad un gioco di destrezza. Infatti il gioco della dama, secondo la tassonomia di Caillois, rientra nell’agon, e viene giocato per puro spirito di competizione e non per sfidare la sorte. È infatti un gioco per il quale è necessario usare l’ingegno e non lasciare niente al caso, e ciò che si vuole affermare è l’intelligenza, come sostiene Florindo: «si disputa l’onore, non l’interesse». È poi da sottolineare che il gioco è sempre caratterizzato da una sospensione del tempo, da uno spazio definito e da regole precise a cui i giocatori si devono attenere.
Tutt’altra la situazione ne Il giuocatore, che proprio come il Capitan tempesta di Salgari e la terzina dantesca del canto V del Purgatorio, si apre sul gioco, quello delle carte e sulla camera da gioco del casino con «FLORINDO “al tavolino da giuoco con lumi e carte, numerando denari”», come è riportato nella didascalia, e che riflette sul gioco a cui si è dedicato tutta la notte:
FLORINDO: Cinquecento zecchini in una notte non è piccolo guadagno, ma poteva guadagnare assai più. Se teneva quel sette, quel maledetto sette, se lo teneva, era un gran colpo per me. Mi ha detto quel sette fra il dare e l’avere altri mille zecchini. Ho quel maledetto vizio di voler tenere i quartetti, e sempre li do, e sempre li pago. Ah, bisogna ch’io ascolti le suggestioni del cuore; quando li ho da tenere, mi sento proprio lo spirito che mi brilla nelle mani, e quando hanno a venir secondi, la mano mi trema; da qui avanti mi saprò regolare. (I. 1)
E più sotto, preso dalla vertigine del guadagno facile al tavolo da gioco, perché il denaro è strettamente legato alle carte:
FLOR. Ah quel sette, quel sette! Ecco qui, se non era quel sette, avrei questo tavolino pieno d’oro. Ma quello che non ho fatto, lo farò. Se arrivo a vincere diecimila zecchini, non giuoco più. Dieci mila zecchini impiegarli al quattro per cento, fanno una rendita di quattrocento zecchini l’anno. Ma che cosa sono quattrocento zecchini? Ottocento filippi; una minuzia. Colla mia fortuna, colla mia buona regola posso vincere altro! Non potrei vincere trentamila zecchini? Centomila zecchini? Sì, facilmente. Mettiamo solamente ch’io vinca un giorno per l’altro cento zecchini il giorno, in un anno sono più di trentaseimila zecchini, ma dei giorni vincerò altro che cento zecchini! Basta; in un anno io mi posso far ricco. Voglio comprar un feudo, voglio acquistarmi un titolo, voglio fabbricar un palazzo magnifico e ammobiliarlo all’ultimo gusto; voglio farmi correr dietro tutte le femmine della città. Giuoco da uomo, conosco il mio quarto d’ora, ed è impossibile che a lungo andare io non vinca. (I. 4)
e tutte le volte che si trova solo in scena non fa che ripetersi che potrà vincere una fortuna, ora che si trova in un momento molto favorevole. Florindo manifesta tutte le superstizioni del giocatore, come quando sostiene di non voler giocare di sabato perché il giorno non gli è mai stato favorevole. Scaramanzie e supposte «suggestioni del cuore» sono il corredo emotivo, ed anche un po’ allucinato, del giocatore.
Funzionale ad una attività per competenze sarà l’affidare a vari gruppi di studenti la lettura integrale di una commedia in cui compare il gioco con il compito di ‘raccontarla’ al resto della classe, mettendo in evidenza gli snodi fondamentali dell’intreccio, il variare del comportamento dei personaggi, in primo luogo del Florindo de Il giuocatore, e scegliendo i passi che ritengono cruciali; leggeranno in modo espressivo i passi scelti, interpretando ciascuno un personaggio.
Un esercizio formativo è costituito anche dalla descrizione dell’ambientazione e dei costumi dei personaggi, che gli studenti avranno ricavato e immaginato dalla ricerca di opere pittoriche settecentesche o dalla visione di un film come Barry Lyndon di Stanley Kubrick (1975)[11], che intreccia la storia di una società che prelude alla Rivoluzione con la storia del costume, che racconta una bildung e non ultimo dedica uno spazio all’abitudine diffusa fra i nobili del gioco delle carte, compreso il tentativo di barare al tavolo da gioco. Addirittura Barry Lyndon deve farsi assumere come cameriere dallo Chevalier de Balibari, assiduo frequentatore del gioco d’azzardo, per portare a termine la sua attività di spia. La sera, alla luce delle candele, nell’alta società si gioca e contemporaneamente si intrecciano relazioni amorose e trame politiche. L’analisi del film, condotta in parallelo con la visione di alcune commedie goldoniane, solleciterà gli studenti nella comprensione di un secolo e di una società nonché dell’attaccamento al gioco.
Seguendo i valori illuministici, Goldoni si oppone all’ipocrisia del suo tempo a favore della franchezza e del senso dell’onore, quella che definisce «riputazione»; questi erano i valori della società mercantile veneziana sia nel campo degli affari sia nella scala dei valori morali ed artistici. Nella commedia Donne curiose Pantalone è portavoce di un Goldoni ‘precettore’ moralista, quando afferma
Che non si possa giocare a verun gioco d’invito, ma solo a giuochi innocenti per puro divertimento, e al più di mezzo paolo la partita. (III,4)
Nell’introduzione sotto il titolo L’Autore a chi legge, premessa a Una delle ultime sere di Carnovale, rappresentata a Venezia nel 1762 prima che Goldoni partisse per Parigi, si legge:
[…] Vi ho introdotto, per adornarla, il giuoco detto della Meneghella, giuoco di carte particolar di Venezia, che non giuocasi in altre parti, e serve di trattenimento alle Società che si trovano numerose e si compiacciono di giuocar tutti insieme, potendo giuocare fino in sedici, alla stessa tavola, e nella medesima compagnia. Come la scena, in cui giuocano i miei personaggi, è lunga, ed i termini di cui si servono non possono essere compresi da quelli che non conoscono un simil giuoco, m’ingegnerò di darne un’idea; e non credo fatica inutile, facendo conoscere il giuoco favorito delle belle giovani Veneziane[12].
È la scena terza dell’atto secondo che è dedicata al gioco della meneghella, quando i vari personaggi sono rappresentati con battute brevi, come avviene intorno ad un tavolo da gioco
MARTA Xè tre ore, sior Zamaria.
MARTA Tre, e do cinque. A cinqu'ore anderemo a cena. Via intanto, che i fazza qualcossa, che i se deverta. Presto, carte, luse, taolini.
DOMENICA (Gh'ho altra voggia mi, che zogar).
ZAMARIA Zoghemo a un zogo, che zoga tutti.
ALBA Per mi, che i me lassa fora.
ZAMARIA Siora no; l'ha da zogar anca ela. (ad Alba)
ALBA Mi no so zogar.
LAZARO Eh! sì, cara fia, che savè zogar. (ad Alba)
ALBA No so, me stuffo, vago via co la testa; fazzo dei spropositi, e i cria, e mi co i cria, butto le carte in tola.
MARTA Oh! via, a cossa se zoga? (a Domenica)
DOMENICA A quel, che i comanda lori. Mi za no zogo.
MARTA Gnanca ela no zoga? Oh! bella. Donca lassemo star de zogar. (Ho capio; el reobarbaro gh'ha fatto mal).
ZAMARIA Oe, Domenica, xèstu matta? Coss'è ste scene?
DOMENICA Via, via; per no desgustar la compagnia, zogherò anca mi.
MARTA A cossa podémio zogar?
MOMOLO La se ferma. Mi gh'ho in scarsela la facoltà de cinquanta soldi; se le vol, che li taggia, le servo.
ZAMARIA No, compare, in casa mia no se zoga a la basseta.
BASTIAN Zoghemo al mecante in fiera.
MARTA Sior no, sior no. Mi me piase zogar co le carte in man.
ZAMARIA Dixè vu, compare Lazaro. Trovè un zogo, che piasa anca a vostra muggier.
ALBA Mo se mi no zogo.
ZAMARIA Mo se mi vòi, che la zoga.
LAZARO Zoghemo a barba Valerio.
POLONIA Oh! che zogo sempio che 'l trova fora. Più tosto po a la tondina.
MARTA Ih! un zogo, che no fenisse mai. Vorli, che diga mi?
ZAMARIA Sì, la diga ela.
MARTA Zoghemo a la meneghela.
ZAMARIA Sì, per diana. A la meneghela. (II.3)
Sono questi i valori borghesi, propri del cittadino civilmente attivo e leale, antitetici ad ogni tipo di sopruso e di prepotenza nobiliare e alla vanagloria dei nobili decaduti e viziosi, pur se Goldoni ha simpatia per i nobili «di buon gusto»; e Venezia è rappresentata animata dai traffici e dalle attività.
Nella trilogia della Villeggiatura rappresenta poi il bisogno di stare al passo con la moda – quale miglior materiale per riflettere sulla nostra realtà attuale, nella quale soprattutto i giovani cercano di allinearsi ai comportamenti, agli abiti, e al modo di pensare imperante!
Ne La bottega del caffè (1750) Narciso è un appassionato ed ossessivo giocatore e per questa sua passione smodata rischia di perdere non solamente il patrimonio e la moglie ma anche, ed è ancora più grave secondo la mentalità veneziana, la ‘riputazione’. Viene però salvato da Ridolfo, il padrone del caffè.
Così Narciso che parla da solo nella scena prima della parte seconda:
RIDOLFO: Presto presto si perde il credito e si fallisce. Lasci andare il giuoco, lasci le male pratiche, attenda al suo negozio, alla sua famiglia, e si regoli con giudizio. Poche parole, ma buone, dette da un uomo ordinario, ma di buon cuore; se le ascolterà, sarà meglio per lei. (I. XI)
E più avanti commenta:
RIDOLFO: […] chi intende la ragione fa conoscere che è un uomo di garbo (III. XV)
dato che è riuscito a salvare Narciso dalla sua ludopatia e a farlo rientrare nei canoni della «riputazione» tanto cara a Goldoni e alla Venezia del suo tempo.
Probabilmente gli studenti a cui sarà assegnato il compito di leggere una commedia in dialetto veneziano si troveranno inizialmente in difficoltà, ma, se leggeranno le battute ad alta voce, si abitueranno al linguaggio, capiranno quello che leggono e ne ricaveranno le opportune considerazioni. Lavorando in collaborazione, si aiuteranno scambievolmente per superare le difficoltà del dialetto.
Affrontando questo tema, il lavoro degli studenti riguarderà anche lo studio e la riflessione sull’attività di Goldoni riguardo alla trasformazione del teatro dalla commedia dell’arte alle commedie di carattere e di ambiente, nonché al rapporto di Venezia con le idee illuministiche e le trasformazioni culturali del tempo, attività che potrà avvenire anche attraverso la flipped classroom e chiamando gli studenti ad un lavoro interdisciplinare grazie alle conoscenze in storia, storia dell’arte, filosofia ed altre discipline presenti nel loro indirizzo di studi. È auspicabile anche la presenza a teatro per seguire, laddove è possibile, la messinscena di commedie goldoniane, o quanto meno la visione di registrazioni delle commedie affrontate che vertono sul tema del gioco. Se poi fosse possibile, sarebbe importante che gli studenti si cimentassero nella recitazione di una commedia goldoniana o di quelle parti che ritengono salienti e significative. O una attualizzazione del tema attraverso riscritture o lavori di vario tipo, come la scrittura creativa, relazioni, commenti ai testi, ppt, lavori digitali, brevi filmati o altro.
Se Venezia rappresenta nel Settecento una società ancora abbastanza attiva e viva, nonostante l’inevitabile declino che avverrà di lì a breve termine, Milano, la Milano dei Verri e dei Beccaria, costituisce un polo culturale e letterario di grande importanza. A renderlo tale è la presenza dell’iniziativa riformatrice di sovrani come Maria Teresa d’Austria, che capisce l’importanza della collaborazione con gli intellettuali, e di quelli più avanzati, che appartengono alla borghesia attiva o alla nobiltà borghesizzata e che portano avanti un serio impegno civile di modernizzazione della società. Pertanto oggetto della loro critica sono i privilegi di una nobiltà ormai priva di influenza nella vita sociale e politica e interessata solamente a mantenere i suoi residui feudali nelle campagne.
Gli intellettuali lombardi nella loro collaborazione con il potere tesero ad elaborare strumenti tecnici di analisi per il rinnovamento economico e sociale e si servirono, per elaborare e promuovere le loro idee riformatrici e le loro convinzioni, da una parte delle Accademie e dall’altra delle riviste, come «Il caffè», al fine di creare un legame con un’opinione pubblica, tutta da formare e indirizzare, per educarla. Giuseppe Parini (1729-1799) visse questa fase innovativa e riformistica degli intellettuali lombardi di collaborazione con il governo, almeno fino a che a Maria Teresa non successe il figlio Giuseppe II, il quale limitò la collaborazione con gli intellettuali lombardi. Il suo impegno si realizza nella composizione delle Odi nel Dialogo sopra la nobiltà e ne Il giorno.
Proprio ne Il giorno[13], fra le attività inutili di una nobiltà anch’essa inutile, in vari passi Parini parla del gioco, che è gioco di carte e nello stesso tempo gioco di seduzione; ed è un gioco che serve a passare il tempo per una nobiltà snervata e priva di qualsiasi stimolo o interesse che non sia il proprio piacere, pur se effimero.
Troppo spesso a scuola questo poemetto satirico viene affrontato per così dire ‘di corsa’, con stereotipi talvolta fine a se stessi. Agli studenti non vengono fatti leggere passi significativi e ci si accontenta di una conoscenza generale di tipo manualistico. Un percorso sul gioco è funzionale per ovviare a tutto ciò e per far toccare con mano agli studenti il messaggio polemico, satirico e per molti aspetti rivoluzionario di Parini.
Nel Mattino non si parla di gioco, perché le ore servono per il risveglio, la colazione e la vestizione del giovin signore, che si è coricato tardi, a notte inoltrata, perché preso dagli impegni sociali di una classe ormai priva di nerbo ed attenta solamente ai rapporti formali e artificiosi.
Tu tra le veglie, e le canore scene,
E il patetico gioco oltre più assai
Producesti la notte; e stanco alfine
In aureo cocchio, col fragor di calde
Precipitose rote, e il calpestìo
Di volanti corsier, lunge agitasti
Il queto aere notturno, e le tenèbre
Con fiaccole superbe intorno apristi,
Siccome allor che il Siculo terreno
Dall'uno all'altro mar rimbombar feo
Pluto col carro a cui splendeano innanzi
Le tede de le Furie anguicrinite.
Così tornasti a la magion; […] (Mattino 64-76)
Parini parla di «patetico gioco» perché anche il gioco per i nobili non è altro che abitudine e noia, fra cui trascinano la loro vita. Perché non attualizzare il passo, magari con un’attività di scrittura creativa, riferendosi allo ‘sballo’ del sabato sera, a cui sono dediti i giovani? Non ci saranno più i cocchi ed i cavalli, ma al loro posto avremo moto ed auto.
Nella Notte poi Parini descrive la festa notturna che si svolge nel salotto della donna e ritrae il giocatore accanito che colloca in una ideale ‘galleria degli imbecilli’ (Notte, vv. 394-408).
Quando descrive la sala in cui la dama accoglierà i suoi ospiti giocatori, Parini parla sia del gioco con i tarocchi, i «grandi fogli dipinti» (vv. 606-607) sia delle comuni carte da gioco i «brevi [fogli]» (v. 608). C’è chi gioca e chi guarda, ma ovunque c’è silenzio come se si trattasse di prendere gravi decisioni. Le donne agitano i ventagli perché «cercan ristoro all’agitato spirto / dopo i miseri casi» (vv. 615-616), mentre le superstizioni che esorcizzano la mala sorte la fanno da padrone perché altre volte magari l’aver assunto una presa di tabacco ha accompagnato la vincita al gioco: «Erran sul campo / lucide tabacchiere. Indi sovente / un’util rimembranza, un pronto avviso, / con le dita s’attinge: e spesso volge / i destini del gioco re de la veglia / un atomo di polve.» (vv. 606-611). E una matrona, tutta dedita al gioco, non si cura degli sguardi pieni di desiderio di «un esperto cavalier» perché tutta la sua attenzione è rivolta alle carte, perché sta giocando, e rischiando, i soldi assegnatele per il suo abbigliamento: «Ella non sente / o non vede o non cura [le avanches del cavaliere]. Entro a que’ fogli, / ch’ella con man sì lieve ordina o turba, / de le pompe muliebri a lei concesse / or s’agita la sorte. Ivi è raccolto / il suo cor, la sua mente.» (vv. 631-636).
Quell’atmosfera che Kubrick ha creato nel suo Barry Lyndon grazie ad un’abile fotografia e allo scintillare di un’infinità di candele, Parini la descrive a parole:
Le inimiche tenebre
Fuggon riversate; […]
Stupefatta la notte intorno vedesi
Riverberar più che dinanzi al sole
Aree cornici, e di cristalli e spegli
Pareti adorne, e vesti varie, e bianchi
Omeri e braccia,e pupillette mobili,
e tabachiere prezïose, e fulgide
fibbie ed anella, e mille cose e mille (Notte, 44-64)
Segue la serie della «folla d’eroi» che popola il salotto, tutti annoiati, tutti in cerca di emozioni forti come quelle che procura il gioco, tutti abbandonati ad una vita ripetitiva. Il giocatore è quello che più di altri è in cerca di emozioni:
Ecco che il segue del figliuol di Maia
Il più celebre alunno, al cui consiglio
Nel gran dubbio de' casi ognaltro cede;
Sia che dadi versati, o pezzi eretti,
O giacenti pedine, o brevi o grandi
Carte mescan la pugna. Ei sul mattino
Le stupide micranie o l'aspre tossi
Molce giocando a le canute dame.
Ei, già tolte le mense, i nati or ora
Giochi a le belle declinanti insegna.
Ei la notte raccoglie a sè dintorno
Schiera d'eroi, che nobil estro infiamma
D’apprender l’arte onde l’altrui fortuna
Vincasi e domi; e del soave amico
Nobil parte de’ campi all’altro ceda. (Notte, vv. 393-407)
Sa giocare a tutto, a dama, a tric-trac, agli scacchi, a carte, siano esse italiane sia francesi che si usano per giocare ai tarocchi; è una vera autorità in questo campo ed insegna a dame e cavalieri come si gioca. È il gioco del tavoliere, già nominato da Boccaccio nel Decameron, quello che più si addice a questa società in decadenza, tutta dedita all’apparire in tutte le sue manifestazioni e nella quale anche l’amore è diventato un puro vezzo, un gioco privo di un reale sentimento:
Il gioco puote
Ora il tempo ingannare: ed altri ancora
Forse ingannar potrà. Tu il gioco eleggi
Che due soltanto a un tavoliere ammetta;
Tale Amor ti consiglia. Occulto ardea
Già di ninfa gentil misero amante
Cui null'altra eloquenza usar con lei,
Fuor che quella degli occhi era concesso;
Poichè il rozzo marito ad Argo eguale
Vigilava mai sempre; e quasi biscia
Ora piegando, or allungando il collo,
Ad ogni verbo con gli orecchi acuti
Era presente. Oimè, come con cenni,
O con notata tavola giammai
O con servi sedotti a la sua ninfa
Chieder pace ed aita? (Mezzogiorno 1107-1121)
Certo il linguaggio usato da Parini non risulta di comprensione immediata, per cui è necessario affrontarlo con impegno e con un esercizio opportuno, che potrebbe consistere nel far eseguire agli studenti la parafrasi dei passi presi esame, con il supporto di alcune note ma non con quelle che riportano la parafrasi è già stata fatta. Altrimenti che esercizio sarebbe?
Il gioco non si esaurisce nella notte, perché la mattina seguente riporta alla mente cosa è accaduto, soprattutto quando c’è stata una perdita:
Sovente ancor de la passata sera
La perduta nel gioco aurea moneta
Non men che al cavalier suole a la dama
Lunga vigilia cagionar: talora
Nobile invidia de la bella amica
410 Vagheggiata da molti: e talor breve
Gelosia n'è cagione. A questo aggiugni
Gl'importuni mariti i quai nel capo
Ravvolgendosi ancor le viete usanze,
Poi che cessero ad altri il giorno, quasi
415 Aggian fatto gran cosa, aman d'Imene
Con superstizion serbare i dritti,
E dell'ombra notturna esser tiranni,
Ahi con qual noia de le caste spose C
h'indi preveggon fra non molto il fiore
420 Di lor fresca beltade a sè rapito.
Mentre che il fido messagger sen rieda Magnanimo (Mattino, vv. 405-421)
Ma ecco Amore, ecco la madre Venere,
Ecco del gioco, ecco del fasto i Genj,
Che trionfanti per la notte scorrono,
Per la notte, che sacra è al mio signore. (Notte, vv. 39-42)
Anche i rapporti sociali appaiono regolati secondo un vero e proprio ‘gioco delle parti’, come quando il giovin signore si presenta alla sua dama nel Mezzogiorno:
Ora imponi, o Signor, che tutte a schiera
Si dispongan tue grazie; e a la tua Dama
Quanto elegante esser più puoi ti mostra.
Tengasi al fianco la sinistra mano
Sotto il breve giubbon celata; e l'altra
Sul finissimo lin posi, e s'asconda
Vicino al cor: sublime alzisi 'l petto,
Sorgan gli omeri entrambi, e verso lei
Piega il duttile collo; ai lati stringi
Le labbra un poco; ver lo mezzo acute
Rendile alquanto, e da la bocca poi
Compendiata in guisa tal sen esca
Un non inteso mormorìo. La destra
Ella intanto ti porga: e molle caschi
Sopra i tiepidi avorj un doppio bacio.
Siedi tu poscia; e d'una man trascina
Più presso a lei la seggioletta.
Ognuno Tacciasi; ma tu sol curvato alquanto
Seco susurra ignoti detti a cui
Concordin vicendevoli sorrisi,
E sfavillar di cupidette luci
Che amor dimostri, o che lo finga almeno. (Mezzogiorno, vv. 90-111)
E da parte sua la dama partecipa allo stesso gioco:
Però ti giovi de la scorsa notte
Ricordar le vicende; e con obliqui
Motti pungerl' alquanto, o se nel volto
Paga più che non suole accor fu vista
Il novello straniere; e co' bei labbri
Semiaperti aspettar, quasi marina
Conca, la soavissima rugiada
De' novi accenti: o se cupida troppo
Col guardo accompagnò di loggia in loggia
Il seguace di Marte, idol vegliante
De' feminili voti, a la cui chioma
Col lauro trionfal s'avvolgon mille
E mille frondi dell'Idalio mirto.
Colpevole o innocente allor la bella
Dama improviso adombrerà la fronte
D'un nuvoletto di verace sdegno
O simulato; e la nevosa spalla
Scoterà un poco; e premerà col dente
L'infimo labbro: e volgeransi alfine
Gli altri a bear le sue parole estreme. (Mezzogiorno, vv. 122-141)
Né l’uno né l’altra si comportano in modo naturale: l’artificiosità regola i loro gesti, la loro attenzione e la loro postura. Del resto il loro rapporto rientra nelle regole della società dei cicisbei, dove l’apparenza è tutto e dove la moda, sia nel vestire, sia nelle pettinature, sia nei discorsi superficiali e vuoti che si intrecciano nei salotti, domina le vite di questa società snervata e in decadenza.
Una riflessione sulla vita di questa classe sociale servirà a riflettere anche sul nostro tempo e sul comportamento di molti, giovani e meno giovani, tutti proiettati verso l’apparenza.
Leggendo Il libro del Cortegiano del Castiglione[14] ci imbattiamo anche qui nel gioco, quando Federico Fregoso e Gasparo Pallavicino affrontano i modi di intrattenersi degli uomini e delle donne di corte; il primo e fondamentale modo di rapportarsi è senz’altro la conversazione, ma Gasparo chiede: «parvi che sia vicio nel cortegiano il giocare alle carte e ai dadi?», al che Federico risponde: «A me no, eccetto a cui nol facesse troppo assiduamente e per quello lasciasse l’altre cose di maggiore importanzia, o veramente non per altro che per vincer denari, ed ingannasse il compagno e perdendo mostrasse dolore e dispiacere tanto grande, che fosse argomento d’avarizia.» E alla domanda di cosa ne pensi del gioco degli scacchi aggiunge: «Quello certo è gentile intertenimento ed ingenioso […] ma parmi che un solo difetto vi si trovi; e questo è che se po saperne troppo, di modo che a cui vuol esser eccellente nel gioco de’ scacchi credo bisogni consumarvi molto tempo e mettervi tanto studio, quanto se volesse imparar qualche nobil scienza…». Secondo Gasparo sono gli spagnoli i migliori giocatori, anche se «non vi mettono troppo studio». (II, XXXI, p. 166)
Messer Bernardo racconta di un fatto curioso, del quale era venuto a conoscenza da un amico:
quello amico del qual v'ho detto affermò aver veduto una simia di forma diversissima da quelle che noi siamo usati di vedere, la quale giocava a scacchi eccellentissimamente; e, tra l'altre volte, un dí essendo innanzi al re di Portogallo il gentilom che portata l'avea e giocando con lei a scacchi, la simia fece alcuni tratti sottilissimi, di sorte che lo strinse molto; in ultimo gli diede scaccomatto; per che il gentilomo turbato, come soglion esser tutti quelli che perdono a quel gioco, prese in mano il re, che era assai grande, come usano i Portoghesi, e diede in su la testa alla simia una gran scaccata; la qual súbito saltò da banda, lamentandosi forte, e parea che domandasse ragione al Re del torto che le era fatto. Il gentilomo poi la reinvitò a giocare; essa avendo alquanto ricusato con cenni, pur si pose a giocar di novo e, come l'altra volta avea fatto, cosí questa ancora lo ridusse a mal termine; in ultimo, vedendo la simia poter dar scaccomatto al gentilom, con una nova malizia volse assicurarsi di non esser piú battuta; e chetamente, senza mostrar che fosse suo fatto, pose la man destra sotto 'l cubito sinistro del gentilomo, il quale esso per delicatura riposava sopra un guancialetto di taffetà, e prestamente levatoglielo, in un medesimo tempo con la man sinistra gliel diede matto di pedina e con la destra si pose il guancialetto in capo, per farsi scudo alle percosse; poi fece un salto inanti al Re allegramente, quasi per testimonio della vittoria sua. (II, LVI, pp. 201-202)
Una pubblicità attuale rappresenta proprio una partita a scacchi fra un giovane uomo, che si sente invincibile grazie alla bevanda pubblicizzata, ed una scimmia che vince la partita dando al suo avversario proprio scacco matto. Che l’ideatore di questa pubblicità abbia avuto in mente proprio l’aneddoto narrato da Castiglione?!
Non manca in quest’opera nemmeno il gioco delle carte, ricordato a proposito di una burla ai danni di un pistoiese in un’osteria (II, LXXXVI, pp. 237-240) a testimonianza dell’uso del gioco a carte anche fuori della corte. Tuttavia il vero «gioco» del libro è quello che scelgono i personaggi alla corte di Urbino, ed è quello «di formar con parole il perfetto cortigiano» (I, XII, p. 35).
Forse il gioco degli scacchi (fig. 7) è il più antico, se è vero che nacque nel V sec. a.C. in India e da lì si diffuse in Persia, dove ne furono teorizzate le regole; il Quattrocento ne vide un’ampia diffusione in Italia, anche se abbiamo testimonianze medievali, la più famosa delle quali è la descrizione che Boccaccio fa nel Filocolo, dove Florio gioca tre partite contro il guardiano Sadoc per liberare dalla prigionia nel castello di Biancifiore. La partita presuppone una scommessa di molti bisanti, che raddoppiano dalla prima alla terza partita:
Ordinansi da costoro gli scacchi, e cominciasi il giuoco, il quale acciò che puerile non paia, da ciascuna parte gran quantità di bisanti si pongono, presti per merito del vincitore. Giuocano adunque costoro, l'uno per guadagnare i posti bisanti, l'altro per perdere quelli e acquistare amistà. (Filocolo, IV, 96)
Segue la descrizione delle tre partite, nella prima delle quali si parla del ‘rocco’, della ‘torre’ e di ‘mattare’, cioè dare ‘scacco matto’[15]:
Ristringe adunque Filocolo il re del castellano nella sua sedia con l'uno de' suoi rocchi e col cavaliere, avendo il re alla sinistra sua l'uno degli alfini; il castellano assedia quello di Filocolo con molti scacchi, e solamente un punto per sua salute gli rimane nel salto del suo rocco. Ma Filocolo a cui giucare conveniva, dove muovere doveva il cavaliere suo secondo per dare scacco matto al re, e conoscendolo bene, mosse il suo rocco, e nel punto rimaso per salute al suo re il pose. (IV, 96)
E più sotto
«Incominciasi il terzo giuoco, e giuocano per lungo spazio: Filocolo n'ha il migliore: il castellano il conosce. Cominciasi a crucciare e a tignersi nel viso, e assottigliarsi se potesse il giuoco per maestria recuperare. E quanto più giuoca tanto n'ha il peggiore. Filocolo gli leva con uno alfino il cavaliere, e dagli scacco rocco. Il castellano, per questo tratto crucciato oltre misura più per la perdenza de' bisanti che del giuoco, diè delle mani negli scacchi, e quelli e lo scacchiere gittò per terra. Questo vedendo Filocolo disse: - Signor mio, però che usanza è de' più savi il crucciarsi a questo giuoco, però voi men savio non reputo, perché contro gli scacchi crucciato siate. Ma se voi aveste bene riguardato il giuoco, prima che guastatolo, voi avreste conosciuto che io era in due tratti matto da voi. Credo che 'l vedeste, ma per essermi cortese, mostrandovi crucciato, volete avere il giuoco perduto, ma ciò non fia così: questi bisanti sono tutti vostri -.» (IV, 96)
È probabile che nella classe ci sia qualche studente che sa giocare a scacchi, e questa può essere una buona occasione per spiegare le regole del gioco e sollecitarne l’esercizio fra gli studenti, che così possono imparare ad esercitare la logica e la capacità di previsione delle mosse dell’avversario. Le partite descritte da Boccaccio sono, di nuovo, un banco di prova, delle prove da superare in un percorso ‘a ostacoli’, che non è altro che il percorso stesso della vita.
Partendo dalle notizie sulle origini degli scacchi, ivi compresa l’etimologia, possono essere messe in atto varie attività di ricerca per gli studenti, dalla partita fra Tristano e Isotta, allaNovella degli scacchi di Stefan Zweig, alle rappresentazioni pittoriche di vari periodi storici, come ad esempio i Giocatori di scacchi di Benjamin Franklin] (fig. 8), dalle quali si ricavano indicazioni sul tipo di società e di comportamenti, che ben si intrecciano e corroborano quanto si trova nei testi letterari, a riprova della grande diffusione di questo gioco, prima di tutto di strategia, ma anche di ragionamento, di previsione e, per dirla con Caillois, di agon, dove nulla è affidato al caso, almeno così dovrebbe se si è bravi giocatori.
A riprova ulteriore della permanenza degli scacchi nell’immaginario nelle varie epoche, non si può non ricordare che nel 1957 il regista svedese Ingmar Bergman realizzò il film Il settimo sigillo, che è possibile visionare online. Il nucleo del film consiste proprio in una partita a scacchi, la più importante, quella che Antonius Block gioca con la Morte al ritorno dalle crociate in Terra Santa.
Gli studenti possono riassumere il film[16] dopo averlo visto, ma senza che prima abbiano letto la trama e le numerose recensioni presenti sul web, per cui la visione non deve essere annunciata. Il confronto con le conoscenze degli aspetti tecnici del gioco degli scacchi e dei suoi antecedenti culturali possono portare ad una riflessione collettiva sul gioco e sul suo valore metaforico presente in questo film ed in altri testi.
Interessante è anche far lavorare su di un testo di Massimo Bontempelli, La scacchiera davanti allo specchio[17], testo onirico che coniuga due archetipi letterari, che riproducono la vita ed il mondo, e cioè la scacchiera e lo specchio che riflette le azioni ed i comportamenti umani, e sul romanzo di Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie[18], dove è proprio lo specchio che permette ad Alice di ‘scivolare dietro e dentro’ di esso e conoscere così ciò che normalmente l’uomo non vede. Comunemente è considerato un libro per l’infanzia, come del resto lo è anche il Pinocchio di Collodi, tuttavia il racconto ha uno spessore molto più complesso della lettera della favola che sembra raccontare, perché apre lo sguardo sull’inconscio, dove il tempo e lo spazio non hanno la dimensione umana comune e dove i sogni sembrano diventare realtà. Oltre ai giochi di parole presenti nel libro, il gioco è incarnato dal regno della Regina di Cuori, dove i vari personaggi non hanno corpo, al posto del quale hanno carte da gioco. Le carte di Picche sono i giardinieri, quelle di Fiori le guardie, quelle di Quadri sono i nobili e le carte di Cuori sono i principi. La regina sta giocando una strana partita a croquet (ecco di nuovo il gioco).
Certo, rispetto al film di Kubrick in questi due libri ci troviamo immersi in un’atmosfera meno cupa e più ludica ma tale da stimolare una riflessione che va ben aldilà della letteratura per l’infanzia o per gli adolescenti.
La società italiana di fine Ottocento era composta soprattutto dalle classi basse o della piccola nobiltà decaduta, dove il denaro circolava raramente a parte i pochi centesimi, i ‘soldi’, che servivano per la sopravvivenza. Impossibile e impensabile per queste classi ipotizzare l’investimento in Borsa, acquistare e vendere titoli con la prospettiva di un guadagno: per loro l’unica alternativa alla miseria era rappresentata da una vincita, una vincita al Lotto, per rincorrere la quale sono disposti a tutti i sacrifici e a indebitarsi al punto di perdere anche quel poco denaro che resta. Magistrale risulta la descrizione del lotto ne Il paese di Cuccagna[19] di Matilde Serao (1856-1927).
In incipit de Il paese di Cuccagna (1890) si legge:
- Come fai a giocare?
- Per giocare si trova sempre. La sorella di donna Caterina, quella del gioco piccolo, dà denaro in prestito…
- Interesse forte?
- Un soldo a lira, ogni settimana.
- Non ci è male, non ci è male, - disse il lustrino, con aria convinta.
- Io le ho da dare settantacinque lire, - rispose il tagliatore di guanti, - e ogni lunedì è una tempesta. Mi aspetta fuori la porta della fabbrica, grida, bestemmia. Michele: è proprio una strega. Ma che ci posso fare? Un giorno o l’altro prenderò un terno e la pagherò… (cap. I, p. 7)
Il ‘gioco piccolo’ era il lotto clandestino, che si allestiva una volta alla settimana. Quando veniva scoperto dalle autorità, il banco clandestino veniva chiuso, per riaprire magari in un’altra parte dopo qualche tempo.
La speranza, incrollabile, è quella di riuscire a indovinare un terno, che ripagherà di tutti i sacrifici. Legata al banco c’era una persona che praticava il prestito per poter giocare, e prestava il denaro ad usura, ricevendo come garanzia un oggetto, che poteva essere un paio di orecchini, della biancheria fine o altro.
L’estrazione descritta dalla Serao si svolge nel cortile del vicolo dell’Impresa, dove di raduna una folla variegata (il sottolineato è mio):
La folla era fatta quasi tutta di gente povera: ciabattini che avevano chiuso il banchetto nello stambugio che abitavano, avevano arrotolato il grembiule di pelle intorno alla cintura, e in maniche di camicia, col berretto sugli occhi, rimuginavano nella mente i numeri giuocati, con un impercettibile movimento delle labbra; servitori a spasso, che invece di cercar padrone, consumavano le ultime lire del soprabito d’inverno impegnato, sognando il terno che di servitori li facesse diventar padroni, mentre una contrazione d’impazienza torceva loro il volto smorto, dove la barba, non più rasa, cresceva inegualmente; erano cocchieri da nolo che avevano lasciata la carrozza affidata al compare, al fratello al figliuolo, e attendevano, pazientemente, con le mani in tasca, con la flemma del cocchiere che è abituato ad aspettare delle ore il passeggiero; erano sensali di stanze mobiliate, sensali di serve, che, nell’estate, partiti i forestieri, partiti gli studenti, languivano seduti sulle loro sedie, sotto la loro tabella che è tutta la loro bottega, agli angoli dei vicoli San Sepolcro, Taverna Penta, Trinità degli Spagnuoli, e avendo giuocato qualche soldino, sottratto al cibo quotidiano, disoccupati, oziosi, venivano a udir l’estrazione del lotto; erano braccianti delle umili arti napoletane che, lasciato il fondaco, l’opificio, la bottega, abbandonato il duro e mal retribuito lavoro, stringendo nel taschino dello sdrucito panciotto la bolletta di cinque soldi, o il fascetto delle bollette di giuoco piccolo, erano venuti a palpitare innanzi a quel sogno, che poteva diventare una realtà; erano persone anche più infelici, cioè tutti quelli che a Napoli non vivono neppure alla giornata, ma ad ore, tentando mille lavori, buoni a tutto e incapaci, per mala fortuna, di trovare un lavoro sicuro e rimuneratore, infelici senza casa, senza ricovero, così vergognosamente laceri e sporchi, da fare schifo, avendo rinunziato al pane, per quella giornata, per giuocare un biglietto, sulla faccia dei quali si leggeva la doppia impronta del digiuno e dell’estremo avvilimento.
Tra la folla, anche qualche donna si distingueva: donne sciatte, senza età, come senza bellezza; serve senza servizio, mogli di giuocatori accaniti, giuocatrici esse stesse, operaie licenziate, e, fra tutte, il volto pallido e attraente di Carmela, quella seduta sul macigno, volto sfiorito, dai grandi occhi stanchi e addolorati. (cap. I, p. 9)
Quanta delusione sui loro volti, quando non uscivano, e accadeva spesso se non addirittura sempre, i numeri giocati! Matilde Serao offre uno spaccato gustoso e impietoso allo stesso tempo della vita napoletana con i suoi personaggi caratteristici ma reali, ciascuno dipinto nei tratti fisici e nell’abbigliamento, con le sfogliatelle ricce e frolle, la pastiera, il mustacciolo, con il carnevale ed i venditori ambulanti, con donna Caterina, che gestiva il gioco piccolo, e donna Concetta, l’usuraia che contratta con i suoi debitori la quantità dei soldi per rateizzare il debito e gli oggetti presi in pegno. Non sono solamente gli operai e i piccoli artigiani a giocare al lotto, pur se al lotto piccolo, perché anche i nobili come il marchese Cavalcanti si affidano alla sorte, frequentando però i banchi ufficiali del Lotto, e insieme a lui altri notabili che si riunivano in casa del marchese nella «gran congiura settimanale cabalistica».
Nel romanzo ottocentesco L’argent di Zola, che come si ricava dal titolo fa perno sul denaro e su quanto gira intorno ad esso ed in particolare sul ‘gioco in borsa’ a cui si dedica ossessivamente il protagonista Aristide Saccard, troviamo la figura dell’usuraio, incarnato da Grundermann, che controlla puntigliosamente le entrate e le uscite del suo patrimonio, seduto alla sua scrivania. Ebbene nel romanzo della Serao troviamo il suo corrispettivo, per così dire degradato al livello della folla dei poveracci che sperano in un miracolo; è don Gennarino Parascandolo, l’usuraio:
Quando si diceva che don Gennarino Parascandolo era allo studio, era tutto detto: chi lo diceva e chi ascoltava, provavano egualmente un senso di rispettoso terrore, una visione paurosa di ricchezze sempre crescenti, un affluire magico di denaro che corre al denaro, per incanto: lo studio, il posto dove don Gennaro Parascandolo, forte, saggio, audace e freddo nella sua audacia, faceva aumentare strabocchevolmente la sua fortuna! (cap. VII, p. 136)
Ci troviamo di fronte all’accumulatore senza cuore e senza scrupoli, che registra prestiti e incassi in un taccuino, dove era racchiuso il flusso del denaro che lui controllava.
Nella Napoli che aspetta il giorno dell’estrazione ci sono molti banchi del Lotto, per poveri e per ricchi (o quasi), e il marchese Cavalcanti:
Incominciasi il terzo giuoco, all’angolo del vico Nunzio, dove era tenitore del banco il bel don Crescenzo dalla barba castana, e dove giuocavano Cavalcanti e i suoi amici. La bianca bottega, sulle cui mura da poco era stata passata la calce, divampava di luce: tre becchi a gas erano accesi, in tutta la loro forza, sul grande banco di legno, ad alta graticciata di fil di ferro, che tagliava in fondo la bottega, andando da una parete all’altra. Dietro questo banco, seduti su tre alti seggioloni, di fronte a tre sportelletti aperti nella graticciata di ferro, lavoravano don Crescenzo e i suoi due commessi, i giovani, così chiamati, malgrado che uno, don Baldassarre, avesse settant’anni e un’aria così decrepita che pareva avesse un secolo, malgrado che l’altro avesse uno di quei visi scialbi, dalle linee e dalle tinte indefinite, che non hanno età. (cap. VIII, p. 156)
La descrizione delle strade e dei vicoli di Napoli è accompagnata da quella di un ambiente umile, quello del Banco n. 177, dove i giocatori dettano a don Baldassarre le loro puntate, come fa Ninetto Costa:
- Al primo biglietto settanta sul terno, venti sulla quaterna?
- Sì, - e gittava uno sbuffo di fumo odoroso.
- Al secondo terno secco, centocinquanta?
- Centocinquanta.
- Al terzo, tutto il bigliettone, duecentoquaranta lire?
- Duecentoquaranta. (cap. VIII, p. 160)
Così come Carmela, la sigaraia, che aveva impegnato i suoi orecchini con donna Concetta e ne aveva ricavato dieci lire, li detta a don Cecchino:
- Sei e ventidue, giuocatemi mezza lira; otto, tredici e ottantaquattro, due soldi per l’ambo, otto per il terno; otto e novanta, ambo, altri quattro soldi… (cap. VIII, p. 161)
Anche Cesare Fragalà, proprietario di una pasticceria, si è fatto prendere dalla febbre del gioco ed ha sperperato tutto il suo denaro, come confessa alla moglie Luisella
Io ho dato fondo ai denari che mettevo da parte, per i pagamenti semestrali e annuali: io ho giuocato quelle migliaia di lire che avevamo messe sulla cassa di risparmio, intestate ad Agnesina, le ho rubato il denaro che le avevo donato, il suo denaro! Io ho mancato ai miei impegni commerciali e le case corrispondenti hanno perduto la fiducia nel mio credito, non vogliono più saperne di me, non mi mandano la merce; lo vedi, la bottega si va vuotando, io non ho i contanti per riempirla di mercanzia; io non ho più pagato neppure la rata dell’assicurazione, se domani si brucia la bottega, io non prendo un centesimo, sono un cattivo pagatore! Non sai! non sai! Io ho cercato denaro qua e là, disperatamente, mettendomi in mano agli Strozzini, mangiato sino all’osso, massime da don Gennaro Parascandolo… […]
Innanzi al denaro, non vi è parentela o amicizia, il denaro indurisce tutti i cuori. (cap. XIII, pp. 269-270)
La Serao aveva svolto anche l’attività giornalistica oltre a quella di scrittrice e proprio grazie alle inchieste condotte a Napoli ha scritto Il ventre di Napoli dove afferma che «Il lotto è l’acquavite [nel senso di: acqua di vita] di Napoli»] ed il racconto Terno secco[20], che gira intorno a tre numeri: 3. 42. 84, che la signora, della quale Tommasina è la serva, non gioca per mancanza di denaro e che invece Tommasina rivela a tutti quelli del quartiere, suoi amici, facendoli vincere chi più chi meno in relazione a quanto avevano giocato. Tutto ripongono le loro speranze su quel terno secco, come altre volte avevano puntato su altri numeri senza però vincere, e le speranze si realizzano, quando
Carminiello, un monelluccio di otto anni, che facea da mozzo di stalla al cocchiere della marchesa di Casamarte si partì, correndo, dal palazzo Ricciardi, in piazza Madonna dell'Aiuto
per andare a sentire i numeri usciti; al suo ritorno gridò:
— È uscito dodici! — tre! — novanta! — quarantadue! — ottantaquattro!
E allora un fermento, immediatamente, parve nascesse nelle case, nei portoni, nelle botteghe, nei bassi. Donna Sofia, la moglie del parrucchiere Rigilio, fu la prima a spalancare la finestra e a gridare:
— Carminio, che è uscito?
E il monello, ritto sugli zoccoli, un po' rovesciato il torace, la gola gonfia, gridò: — Dodici — tre — novanta — quarantadue — ottantaquattro.»
E ripeté più volte la sequenza dei numeri, finendo per generare il silenzio nel quartiere. Chi vince centomila lire, chi duemila, chi per giocare ha impegnato qualcosa al banco dei pegni e addirittura la stessa cartella del pegno. Tutti sono felici, tranne la signora che aveva sognato i numeri ma non li ha giocati perché non aveva i soldi per farlo.
Dopo aver parlato tanto di gioco è arrivato il momento di giocare e di far giocare tutta quanta la classe ‘in diretta’. Si tratta di una strategia didattica efficace, che permette agli studenti di mettere in atto l’insieme delle loro ricerche, dello studio e quanto hanno introiettato del lavoro svolto fino a qui, e al docente di osservare quali e quante competenze sono state acquisite e sviluppate.
Agli studenti sarà stato fatto leggere Il castello dei destini incrociati di Italo Calvino, che testimonia l’interesse dell’autore per la scrittura combinatoria e la sua adesione all’OULIPO (Ouvroir de Littérature Potentielle), che prese le mosse nel 1960 da Raymond Queneau. Il movimento fece del gioco, in particolare di parole, il nucleo della ricerca e dell’attività letteraria, gioco a cui aggiunse anche delle tecniche desunte dalla matematica e persino dagli scacchi.
Per realizzare il gioco è necessario un mazzo di carte di Tarocchi, quelle di cui Calvino si serve nella sua opera e che sono facilmente reperibili in commercio. Se la classe è numerosa serviranno due mazzi di tarocchi. In ciascun mazzo ci sono 22 arcani maggiori e 56 arcani minori. Gli studenti ne conoscono il significato quantomeno dalla lettura dell’opera di Calvino.
Gli studenti verranno organizzati in piccoli gruppi di 2 o 3 persone e a ciascun gruppo verranno assegnati almeno 3 arcani maggiori e almeno 6 arcani minori. Ogni gruppo deve creare una storia coerente con i tarocchi avuti in sorte, sulla falsariga di quelle del Castello dei destini incrociati, storia che poi ciascuno degli studenti individualmente metterà per scritto. La storia ideata può essere attualizzata.
Un altro ‘gioco’ con il mazzo di tarocchi da fare con la classe intera sarà quello di scoprire una carta, dopo aver mischiato il mazzo, e coinvolgere uno studente per dare inizio ad una storia, che segua un filo logico nonostante la casualità con cui saranno scoperte le altre carte una per una; si scoprirà dunque una carta per volta, chiedendo a ciascuno studente a turno di continuare il racconto. Non si tratta di un ‘gioco’ facile, in quanto per questa attività è necessario avere presenza di spirito per reagire alle sollecitazioni che possono venire dalla carta che è stata scoperta, capacità di invenzione e coordinamento logico, proprietà di linguaggio per l’esposizione del segmento del racconto iniziato da altri studenti, in una parola di competenze di interpretazione e di riflessione. Anche l’insegnante può ‘mettersi in gioco’ partecipando alla creazione della storia attraverso le carte dei tarocchi.
Se la classe mostra interesse e buone attitudini alla lettura, sarà possibile proporre anche la lettura di Se una notte d’inverno un viaggiatore del 1979, che risente anch’esso dell’adesione di Calvino all’OULIPO. In questo romanzo, anche se non è possibile definirlo tale in senso stretto, ci troviamo difronte ad un ‘gioco’ letterario e al contempo metaletterario nell’alternarsi di quanto scrive l’Autore e quanto invece riguarda i pensieri e le considerazioni del Lettore e della Lettrice. Quanto poi al fatto che sono presenti dieci incipit di dieci romanzi diversi (meccanismo che spezza le coordinate spazio-temporali alle quali normalmente siamo abituati per un romanzo), cosa che disorienta chi legge e a maggior ragione lettori non sempre assidui come possono essere gli studenti, questo riporta alle tecniche combinatorie dell’OULIPO e mette in evidenza un impianto labirintico – un gioco anch’esso – per uscire dal quale è necessario mettere in essere le capacità logiche e di riflessione in una specie di sfida fra autore e lettore.
Gli studenti saranno sollecitati a individuare nel romanzo il problema dell’identità e della funzione dello scrittore nonché della letteratura nel nostro tempo, problema così complicato che diventa difficile coglierne la complessità e trasportarla nella dimensione, chiamiamola ‘orizzontale’, della scrittura e della sua possibilità di narrare storie unitarie con un inizio, uno svolgimento ed una fine. Nel romanzo calviniano traspare infatti la crisi dello scrittore contemporaneo, che non può più creare un romanzo nel senso tecnico del termine. Se non altro gli studenti potranno ritornare alla lettura dell’Orlando furioso nel quale Ariosto aveva a suo tempo sperimentato l’entrelacement di tempi, di luoghi, di azioni con una tecnica combinatoria ante litteram; e Calvino è stato uno studioso del poema ariostesco.
La sua relazione culturale con la rivista «Tel Quel» lo porta a riflettere sul fatto che «lo scrivere non consiste più nel raccontare, ma nel dire che si racconta» e ciò lo spinge a quel gioco letterario che raggiunge il suo massimo grado appunto in Se una notte d’inverno un viaggiatore. Nell’episodio ariostesco del Castello di Atlante i cavalieri si trovano immersi in un labirinto che è la metafora della vita ed anche Calvino si serve della scrittura labirintica come metafora di una realtà caotica e inestricabile. In La sfida al labirinto del 1962 aveva affermato che per uscire dal labirinto non è certo la letteratura che può fornirne la chiave, tuttavia è fondamentale l’atteggiamento con il quale l’uomo si pone difronte al labirinto e lo sfida. La lettura di questo saggio o di parti di esso renderà più ampio e concreto lo studio di queste opere di Calvino, alle quali si può aggiungere anche la lettura e l’analisi di Le città invisibili (1972), romanzo fondato anch’esso sul gioco combinatorio delle sue varie parti, dal legame della cornice e delle descrizioni delle varie città al riproporsi della stessa città sotto rubriche differenti.
Potrà anche essere affidata a gruppi di studenti una ricerca sull’etimologia del termine «labirinto», che potrà spaziare dal mito all’archeologia, dalla letteratura greca alla storia dell’arte e via di seguito a seconda del tipo di scuola in cui viene attuato questo percorso.
Le ipotesi ed i suggerimenti di lavoro indicati in queste pagine non sono certamente esaustivi del tema ‘gioco’, ma vogliono essere uno stimolo alla ricerca didattica sul campo e allo sviluppo delle competenze in italiano da parte degli studenti. Il metodo di lavoro messo in atto su questo tema è possibile estenderlo ad altri argomenti e ad altre discipline per l’indagine, l’analisi e l’interpretazione delle attività scolastiche e, in breve, per tutto lo studio che si fa a scuola. E non solo.
BIBLIOGRAFIA
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Pubblicato il 07/02/2018 inShare Note:
[1] M. Cortelazzo-P. Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana, Bologna, Zanichelli, 1980, vol. 2.
[2] Cfr. http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k5785794x?rk=42918;4
[3] E. Salgari, Capitan Tempesta, Milano, Garzanti, 2012.
[4] Cfr. J.-M. Mehl, Les jeux au royaume de France, du XIIIͤ au dèbut di XII ͤ siècle, Paris, Fayard, 1990, dove affronta i jeux de paume, quelli dei dadi, di destrezza e di società, ed anche da tavola, di carte, gli scacchi, dei quali descrive oltre ai loro materiali anche le regole. Sono giochi che si sono tramandati nel tempo e che troviamo anche in altri secoli ed in altre società fino a quella attuale.
[5] Le tavole erano un gioco eseguito su una scacchiera con dadi e pedine, simile al moderno backgammon. Gli stessi giochi sono ricordati anche nell’Introduzione alla sesta giornata, sempre come alternativa al riposo dopo il pranzo, quindi gioco come divertimento (de-verto = volgersi altrove, cambiare direzione).
[6] Giovanni Boccaccio, Decameron, in Boccaccio G., Opere, a cura di C. Segre, Milano, Mursia, 1963.
[7] A. Quondam, La conversazione, Roma, Donzelli, 2007.
[8] Il gioco del faraone era il gioco più diffuso nel Settecento e veniva giocato con due mazzi di carte italiane e un numero di giocatori superiore tre; uno dei giocatori teneva il banco. Ogni giocatore può puntare su una o più carte; se perde, il banco ritira la puntata; se vince, il banco raddoppia la puntata. Si può via via raddoppiare la puntata, soprattutto quando si cerca di recuperare una perdita. Il gioco del faraone era il preferito dalla regina di Francia Maria Antonietta. Era il gioco al quale si dedicava la nobiltà e era diventato una specie di ‘lingua franca’ nelle varie corti d’Europa e nei salotti alla moda.
[9] Cfr. Carlo Goldoni, Commedie, a cura di Carmelo Alberti, Roma, Salerno editore, 2001, che le contiene tutte.
[10] C. Caillois, I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, note all’ed. italiana di G. Dossena, Milano, Bompiani, 1981, p. 28.
[11] È possibile visionare il film completo su youtube.
[12] La descrizione del gioco della Meneghella è piuttosto lunga e per questo motivo la riportiamo qui in nota: «Principiando dall’etimologia del nome, dirò che Menega in Veneziano vuol dire Domenica e Meneghella è il diminutivo, come chi dicesse Domenichella, o Domenichina. La carta che chiamasi la Meneghella, è il due di spade. Quei che conoscono le carte italiane, sapranno che i quattro semi che le compongono formano: Spade, Coppe, Bastoni e Danari. Le figure di questi semi variano secondo i paesi. Le Spade, per esempio, in varie parti sono impresse diritte, ed in Venezia ritorte, a guisa di sciabole. Il due di Spade è composto di due di queste sciabole, che incrocicchiando le guardie e le punte, formano un ovale nel mezzo, nel cui vacuo è scritto il nome del fabbricatore, ed ordinariamente vi si legge: Messer Domenico Cartoler, all’insegna della Perletta. Io credo che il nome di Domenico abbia dato il nome di Domenichina, o Domenichella, e in Veneziano di Meneghella: almeno questa etimologia è molto più onesta di quella che alcuni libertini ritrar pretendono dalla figura. Questa dunque è la carta trionfante, la carta superiore di questo gioco; e dopo di essa gli Assi, i Cavalli, i Fanti, i Dieci, i Nove ecc. impiegandosi tutte le cinquantadue carte che formano il mazzo. I Giuocatori si distribuiscono a due per due, i quali devono esser vicini, veggendosi le carte fra di loro. E facendo banco comune di quel denaro che mettono sopra la tavola, metà per uno, e dividendo alla fine il resto, se perdono, o la vincita oltre il capital, se guadagnano, e rimettendone fuori di nuovo, se il primo capitale è perduto, prima che il giuoco finisca. Le coppie de' Giuocatori sono per lo più composte di un uomo e di una donna, e la Padrona di casa ha la prudente attenzione di unire le persone che stanno volentieri insieme, cosa che rende oltremodo piacevole questo giuoco all'onesta ma tenera gioventù. Nel mezzo della tavola si mette un tondino, dove ciascheduno dee porre quella moneta ch'è destinata per il fondo del giuoco; per esempio, un soldo. Se i Giuocatori sono dodici, come nella mia Commedia, ecco dodici soldi nel tondo. Come, e da chi si guadagnano, lo vedremo in appresso. Per vedere chi è quegli, o quella, che dee dar le carte la prima volta, qualcheduno prende il mazzo, mescola, fa alzare, dà una carta scoperta a ciascheduno, e quegli a cui tocca la Meneghella, è il primo a dar le carte. Questi dunque mescola, fa alzare il suo vicino, e se questi alza, per ventura, e fa vedere la Meneghella, tira i dodici soldi del tondo; passano la mano, e tutti rimettono nel tondino un soldo per ciascheduno. Se non alzasi la Meneghella, quegli che fa le carte, ne dà tre a ciascheduno e ne prende sei per se stesso, delle quali sceglie le tre migliori; e questo chiamasi far "lissia", cioè fare il "bucato". Volta poi la quarantesima carta, s'ella è la Meneghella, tira il tondo, come quegli che l'alza, e passa avanti il mazzo. Colui che ha la mano, giuoca la carta che più gli torna conto, e come vede le carte del suo Compagno, o giuoca un Asso, s'egli ne ha, o giuoca nell'Asso del suo compagno. Gli Assi, come abbiamo detto, sono le prime carte dopo la Meneghella. La Meneghella può prender l'Asso, e si chiama "tagliare"; e questo succede, se quegli, per esempio, che ha la Meneghella ha tre carte sicure, e teme di doverne perdere due, rispondendo a quei Semi ch'egli non ha, ma rade volte si fa, mentre per lo più l'ultima carta è la più interessante. Chi prende dunque la prima mano, tira quattro soldi dal tondo, e giuoca poi la carta che vuole, la più utile al suo giuoco, o a quello del suo Compagno; e chi prende la seconda mano, tira ancor quattro soldi. I quattro che restano, dopo le due mani suddette, si dice che restano per l'invito; ed ecco come si fa l'invito. La persona che ha guadagnato la seconda mano, se resta con una terza carta, giudicata buona, o perché sia un Asso, o un Re, o perché sia di un Seme, del quale se ne vedono molte sulla tavola, invita, e si dice “un soldo, o due soldi, o tre ecc. chi vuol veder la mia carta”, e mette la somma nel tondino. Quelli che hanno carte buone, e sperano che siano dello stesso Seme, e superiori in valore alla carta coperta dell'invito, tengono l'invito, e mettono la somma invitata. Quegli che ha la Meneghella, tiene sicuramente, ed è certo di vincere; per questa ragione rade volte si tagliano gli Assi colla Meneghella, sperando di far miglior giuoco alla fine. Il giuoco è più bello, quando la Meneghella è stata forzata; cioè quando qualcheduno, per necessità o per elezione, giuocando Spade, trova la Meneghella in mando di qualcheduno senz'altre Spade, e la fa cadere: allora chi l'ha, e la giuoca forzata, si fa dare un soldo da ciascheduno, e tira i quattro soldi dal tondo; ma questo premio qualche volta non vale quello che si può guadagnare nell'invito. Quando l'invito è fatto, e tenuto, quegli che ha invitato, scopre, e fa veder la sua carta. - Allora quei che han tenuto l'invito, se si trovano aver la carta in mano di quel Seme, e che sia superiore, dicono: “io ci fo su quella carta”, per esempio, “dieci, quindici, o venti soldi”. Qualche volta saranno in due o in tre a far lo stesso, perché la carta scoperta sarà, mettiamo, il Fante o il Cavallo di bastoni, ed uno avrà il Re, e l'altro avrà l'Asso; e quegli che ha la Meneghella, tiene sempre, perché è sicuro di vincere; se gli altri si piccano, tanto meglio per lui, anzi non solo tiene tutto quello che invitano, ma aumenta quando può davantaggio, e l'ultimo a scoprire è sempre l'ultimo ad aumentare. Sovente accade, che un Giuocatore non avrà carta buona, o non l'avrà del Seme della carta scoperta, e non ostante rinforza, ed aumenta l'invito. Questa si chiama "Cazzada", una bravata per far ritirare gli altri, e guadagnare il resto del tondo, e la somma del primo o del secondo invito; e chi ha la Meneghella ride, e profitta delle Cazzade. Ecco a poco presso tutto il famoso giuoco della Meneghella. Dirà qualcheduno, ch'esso non meritava una sì esatta descrizione. Spero che questo tale me la perdonerà, poiché non gli costa gran cosa».
[13] Cfr. Giuseppe Parini, Il giorno, a cura di Giorgio Ficara, Milano, Mondadori, 1998, e anche Giuseppe Parini, Il giorno e le Odi, a cura di Maria Silvia Tatti, Roma, Salerno editore, 2008.
[14] B. Castiglione, Il libro del Cortegiano, a cura di A. Quondam, Milano, Garzanti, 2000 [1981¹].
[15] Normalmente la formula “scacco matto”, viene fatta derivare dal persiano Shāh Māt che significa “il re è morto”; ciò confermerebbe la metafora del gioco degli scacchi come del gioco contro la morte.
[16] Al ritorno in Danimarca dopo aver partecipato alle Crociate, Antonius Block trova la Morte che lo sta aspettando per portarlo via. Per scongiurare questo evento Block ingaggia con la Morte una partita a scacchi, che si snoda in varie fasi. È la Morte ad uscire vittoriosa dalla partita, nonostante che Block usi tutta la sua abilità per sconfiggerla e ad un certo punto colpisca volutamente la scacchiera per farne cadere alcune pedine e confondere così il risultato. Ma i pezzi vengono subito rimessi al loro posto ed il finale è inevitabile e non può che essere la sua sconfitta. La Morte è infatti inevitabile per l’uomo. Pur tuttavia Block crede che la scontro sulla scacchiera possa essere giocato ad armi pari, convinto di saper usare l’intelligenza ed il ragionamento strategico, necessari in questo gioco. La scacchiera e gli scacchi rappresentano così la grande metafora della vita e della morte.
[17] Massimo Bontempelli, La scacchiera davanti allo specchio, Palermo, Sellerio, 1981.
[18] Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie, Milano, Mondadori, 2007. La prima edizione risale al 1865. Cfr. anche Licia Ambu, Alice nel paese della metamorfosi, in «griseldaonline», tema n.8 del 2008.
[19] Il paese di Cuccagna uscì a puntate nel 1890 sul «Mattino» e nel 1891 uscì in volume. Matilde Serao, Il paese di Cuccagna, Milano, Garzanti, 1981.
[20] Questo racconto si trova in All’erta, sentinella, Milano, Treves, 1889 [1].
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