Le scelte / Pillole di storia / Gli estremi del Ça ira / Da un estremo all'altro / Conclusione
Che Carducci avesse scritto il Ça ira solo per esercizio retorico e per “mestiere” poetico pare poco credibile così come attribuirlo all’influenza dovuta alla sua recente lettura di The French Revolution di Carlyle [1]. E che la sua conversione a posizioni filomonarchiche dal 1878 in poi gli avesse fatto del tutto rinunciare e dimenticare le sue precedenti posizioni filorepubblicane è altrettanto difficilmente condivisibile, se si leggono con attenzione i dodici sonetti del «poemetto» e la prosa che li accompagna. Sono dunque da indagare i motivi che nel 1883 lo spinsero a comporre i «settembrini» e a scegliere il sonetto per la silloge rivoluzionaria.
Carducci aveva precedentemente sperimentato una varietà di metri classici sia nella raccolta Giambi ed Epodi (composta fra il 1867 e il 1879 e pubblicata a Bologna nel 1882), sia nelle Odi barbare (composte fra il 1873 e il 1793, con una prima pubblicazione nel 1877 di 14 testi, alla quale seguirono altre pubblicazioni con l’aggiunta di testi nel 1882, nel 1886, nel 1889 e poi nel 1893). Nel 1883, anno di composizione del Ça ira, la scelta metrica cade invece sul sonetto per affrontare un tema storico che tradizionalmente sarebbe stato cantato con un poema, metro dell’epopea storica.
Il sonetto, la forma più antica e compatta della poesia italiana, veicolo fin dalle origini di tematiche plurime, rappresentò, dalla produzione dei Siciliani a quella petrarchesca e oltre, il metro della poesia d’amore e, soprattutto con Petrarca, il metro del diario sentimentale ed intimo, che lo fece eleggere a strumento di rappresentazione interiore. Tuttavia la versatilità del metro è tale che poté e può essere proficuamente usato per una molteplicità di temi, non ultimo quello politico, e, strutturato in una successione tematica omogenea, può assumere una dimensione narrativa ampia e assimilarsi al respiro della poesia epica come nel caso carducciano. È lo stesso poeta a fornire la spiegazione della scelta metrica, dichiarando, in una prospettiva generale che «[…] tra le mani d’un vero poeta o d’un artefice eminente, il sonetto, nella sua piccola impronta nazionale, è la forma metrica più resistente della lirica italiana, la forma, direste, immortale. Passano le terzine, si sparpagliano le ottave, languiscono le canzoni, sfioriscono le canzonette, sfollano i versi sciolti, e il sonetto resta» [2] e in riferimento alla silloge «Impossibile mettere in versi quella storia, se non a brevi tratti: per ciò si elesse la forma del sonetto, che ne’ secoli XIII e XIV fu anche strofe» [3]. Del resto aveva sempre considerato il sonetto «breve e amplissimo carme» e la sua riproposizione in una serie compatta rispondeva sia alla volontà di trovare l’alternativa alla poesia epica, non più fruibile in un secolo ormai del tutto borghese, sia di comporre una poesia che tendesse «all’arte pura, che di per se stessa è morale più d’ogni altra» [4].
Il «poemetto» costruito nell’arco di pochissimi mesi, dal febbraio al maggio 1883, sistema in progressione drammatica i sonetti che cantano i momenti più significativi di un risveglio delle coscienze nella Francia dopo l’Ottantanove, quando si crea una situazione di forte pericolo per i tentativi interni di ritorno ad un potere monarchico assoluto, ai quali si aggiungeva l’avvicinarsi dell’esercito austro-prussiano ai confini nord-orientali del Paese.
Ad un lettore attento non sfugge l’analogia con la situazione storico-politica dell’Europa e dell’Italia postunitaria; molti sono in quegli ultimi decenni dell’Ottocento i fermenti politici e sociali che attraversano l’Europa, e l’Italia non ne è immune. All’interno i moderati sostengono l’istituzione monarchica con una forte connotazione conservatrice, e ai problemi di politica interna, non ultimi la questione meridionale, che negli anni Novanta vede l’esplodere dei Fasci siciliani, e il movimento irredentista, mirante all’unificazione dei territori ‘italiani’ ancora sotto l’impero asburgico, si uniscono e si intrecciano quelli di politica estera. Carducci si schiera in difesa di Guglielmo Oberdan, giustiziato dall’Austria il 20 dicembre 1882 per la sua attività irredentista e accusato di cospirazione per uccidere Francesco Giuseppe. Anche Victor Hugo aveva chiesto la grazia all’imperatore! Da non dimenticare che dopo le elezioni avvenute il 22 ottobre 1882 Depretis, esponente della Sinistra storica e al suo terzo mandato come capo del Governo, inizia la politica del «trasformismo».
Sul piano internazionale nel 1882 l’Italia vive un clima antifrancese, all’indomani della morte di Léon Gambetta, restauratore della Terza Repubblica dopo la sconfitta del 1870 a Sedan e la destituzione di Napoleone III; la firma del Trattato del Bardo nel maggio 1881 riconosceva il protettorato francese sulla Tunisia, facendo paventare, agli stessi moderati e a coloro che auspicavano un’espansione coloniale italiana in nord-Africa, un ostacolo frustrante per le mire espansionistiche italiane; infine la firma della Triplice Alleanza nel 1883, proprio in funzione antifrancese, che l’Italia aveva stipulato con gli imperi centrali al fine di limitare, se non neutralizzare, la potenza della Francia. In più si stavano diffondendo fermenti sociali che facevano temere per la solidità della monarchia. Questo diffuso clima antifrancese spingeva a giudizi e posizioni critiche verso la rivoluzione francese, che a distanza di 100 anni veniva additata come la causa delle tensioni e delle paure che l’Europa stava vivendo. Pur a distanza di quasi un secolo, conservatorismo interno e potenze austro-ungariche e prussiane esterne sono i protagonisti di un oscuramento delle coscienze e motivi di pericolo.
Carducci reagisce al suo tempo con i dodici «settembrini», come se non fosse più possibile tacitare le sue istanze ‘giacobine’ giovanili, almeno in quella congiuntura storica. Il 1883 segnò infatti per lui un periodo di rinnovato impegno politico, quasi fosse tornato sulla scena l’uomo e il poeta che aveva fatto dell’anticlericalismo e delle posizioni antimonarchiche il suo credo. Invece il 1878, quando Umberto e Margherita di Savoia andarono in visita a Bologna ed il poeta fu come folgorato dalla bellezza della regina, l’aveva visto comporre l’alcaica Alla Regina d’Italia, [5] che sembrava fargli rinnegare il passato e indirizzarlo in una posizione filomonarchica, contraddittoria con le posizioni precedenti. Il Ça iracontraddiceva la conversione monarchica carducciana di pochi anni prima, conversione che gli era stata contestata da molta parte della sinistra e dai repubblicani radicali [6], tanto che i moderati si misero in allarme.
Carducci aveva sempre manifestato ed espresso una grande passione civile fin dagli anni della giovinezza e, da anticlericale qual era, aveva sempre dichiarato in vari modi la sua sintonia con Garibaldi e le sue posizioni piuttosto che con quelle mazziniane, intrecciate di spirito religioso. Tanto è vero che aveva preso posizione contro Napoleone III, che si era fatto paladino del potere temporale della Chiesa ed aveva inviato le sue truppe, equipaggiate con i moderni chassepots, in difesa della Roma pontificia contro il tentativo di conquista della città da parte di Garibaldi, che il 3 novembre 1867 fu sconfitto a Mentana. E il 4 novembre 1872, in occasione del quinto anniversario della battaglia di Mentana, compose un’ode, metro altamente classico adatto per ricordare il sacrificio dei garibaldini, intitolata proprio Per il quinto anniversario della battaglia di Mentana, che nella quarta e nella quinta strofa recita:
Qual ne l’incerto tramite
Gittava il cavaliero
Il verde manto serico
De la sua donna al pié,
Per te gittammo l’anima
Ridenti al fato nero;
E tu pur vivi immemore
Di chi moría per te.
Ad altri, o dolce Italia,
Doni i sorrisi tuoi;
Ma i morti non obliano
Ciò che più in vita amar;
Ma Roma è nostra, i vindici
Del nome suo siam noi;
Voliam su ‘l Campidoglio,
Voliamo a trïonfar. –
Le posizioni e convinzioni politiche carducciane si erano già fatte poesia nel maggio-giugno 1859, quando aveva composto una serie di sonetti – serie che si può considerare l’antefatto poetico del Ça ira e della scelta metrica legata ad avvenimenti storici nodali – sulla seconda guerra d’indipendenza, sonetti che per Mario Biagini [7] costituiscono il ça ira della rivoluzione italiana. Ancora una volta una lirica vede protagonista Giuseppe Garibaldi (Juvenilia, libro VI) [8] ed un’altra esalta la battaglia di Magenta del 1859, combattuta fra le truppe franco-piemontesi e quelle austriche e che vide la sconfitta austriaca, chiamata “l’avversaria del ben” [9].
La fase rivoluzionaria affrontata da Carducci è quella degli avvenimenti che vanno dall’agosto al settembre 1792, la fase più cruenta della rivoluzione francese e che culminò nella battaglia di Valmy e la vittoria dell’esercito francese, comandato da Dumouriez, su quello austro-prussiano. Si tratta di una fase davvero epica, degna di essere cantata con il sonetto, che si adattava a narrare per tableaux (come li definì André Pezard che nel 1959 tradusse in francese i dodici sonetti del ça ira) i momenti fondamentali di una fase così drammatica e così determinante per la storia della Francia e di tutta l’Europa.
La climax drammatica che percorre il «poemetto» culmina con la battaglia di Valmy e si conclude, come a sottolineare una stagione ‘di confine’, con un’immagine potente,
E da un gruppo d’oscuri esce Volfango
Goethe dicendo: Al mondo oggi da questo
Luogo comincia la novella storia.
Un ‘eroe’ moderno suggella con una vera e propria massima la fine di un’epoca e l’inizio di una nuova, foriera di auspicati e positivi cambiamenti. In una ringkomposition Carducci lega la conclusione con l’epigrafe in tedesco, posta in exergo del «poemetto» e che riporta le parole pronunciate da Goethe la sera del cannoneggiamento di Valmy: «Ora io vi dico: da questo luogo e in questo giorno comincia una nuova epoca nella storia dell’umanità: e voi potrete dire di esservici trovati» [10].
Il titolo ça ira, che Carducci definì «rappresentazione epica», riproduce il ritornello simbolo della rivoluzione, cantato su un’aria di contradanza del Carillon National durante il primo anniversario della presa della Bastiglia nel 1790 e ripreso da Danton nel grido Aux armes, et ça ira!, quando nell’agosto 1792 incitava la folla che assaltava le Tuilleries. Il canto ripeteva ossessivamente:
Ah! ça ira, ça ira, ça ira.
Le peuple en ce jour sans cesse répète:
Ah! ça ira, ça ira, ça ira.
Malgré les mutins tout réussira! [11]
I sonetti furono composti fra il 27 febbraio e il 27 aprile 1883 e furono pubblicati dal Sommaruga con il titolo di ça ira. Settembre MDCCXCII. Il progetto di 10 sonetti, annunciato in una lettera di Carducci all’editore Sommaruga e risalente al 6 marzo 1883, di lì a poco si ampliò a 12 sonetti. Fra il 27 e il 30 aprile Sommaruga stampò la bozza del ça ira, che servì a Carducci per alcune modifiche lessicali, e la prima edizione uscì il 10 maggio in 24.000 copie.
Questo il quadro della successione della composizione dei sonetti e della posizione che Carducci assegnò a ciascuno dei sonetti della silloge, inserita nella raccolta Rime nuove, libro VII.
6 marzo 1883 Su l’ostel di città stendardo nero VI
7-10 marzo Gemono i rivi e mormorano i venti VIII
11-17 marzo Lieto sui colli di Borgogna splende I
13 marzo Da le ree Tuglierì di Caterina III
15 marzo Son de la terra faticosa i figli II
23 marzo Oh non mai re di Francia IX
30 marzo Su i colli de le Argonne XI
31 marzo Marciate, o de la patria incliti figli XII
10 aprile L’un dopo l’altro o méssi IV
14 aprile Udite, udite, o cittadini V
25 aprile Una bieca druidica visione VII
27 aprile Al calpestio dei barbari cavalli X
Il «poemetto» prende le mosse dalla fine di agosto-inizio settembre 1792, quando l’esercito austro-prussiano al comando del duca di Brunswick sta premendo ai confini nord-orientali, dopo che Luigi XVI aveva dichiarato guerra all’Austria il 20 aprile, sperando di poter riprendere il totale controllo del Paese in seguito alle sconfitte militari che l’esercito francese avrebbe subìto. Il duca di Brunswick, Carlo Guglielmo Ferdinando, il 26 luglio aveva firmato da parte sua il Trattato di Coblenza, dopo il quale iniziò l’attacco alla Francia con l’intento di riportare sul trono Luigi XVI che, in seguito ai tumulti e all’assalto delle Tuilleries, era stato portato prigioniero al Temple, l’antico monastero dei Templari diventato prigione.
Due episodi drammatici si accampano nella prima parte del «poemetto»: il primo è la resa della città di Longwy a seguito del tradimento del comandante Louis-François Lavergne, ed il secondo riguarda la città di Verdun, città di «confettieri» che, tradendo il resto del Paese, aveva aperto volontariamente le porte al nemico. L’unico a non accettare il tradimento era stato il comandante Nicolas-Joseph de Beaurepaire, che si era ucciso pur di non consegnarsi ai Prussiani. Conosciamo questi due episodi, oltre che dalle opere storiche di Michelet [12] e Carlyle, anche dall’autobiografia di Goethe che nella Campagna di Francia, [13]vero e proprio diario di guerra, aveva descritto, peraltro riprovandolo, il comportamento degli abitanti di Verdun.
Il ça ira si apre con il sonetto Lieto su i colli di Borgogna splende / e in val di Marna a le vendemmie il sole[14] (composto per terzo tra l’11 e il 17 marzo 1883) a rappresentare il fervore diffuso sul territorio francese dopo che Luigi XVI aveva dichiarato guerra all’Austria. La serenità iniziale della ridente campagna di Borgogna illuminata dal sole e la normalità della vita agreste sono incrinate, all’inizio della seconda quartina, da un «Ma» che introduce il falcetto che cala «su l’uve iroso» come farà la scure della ghigliottina; mostra così tutta la tensione che percorre gli uomini che si preparano allo scontro con i nemici e si conclude con il grido «Avanti, Francia, avanti» (v. 8). Sono i prodromi di una guerra aspra, scandita dai sonetti che si susseguono con ritmo incalzante. Il vespro è rosso non tanto per il cambiamento del colore del cielo a sera ma perché prelude al sangue che bagnerà di lì a poco quelle terre. Ai colori iniziali si sostituiscono i suoni come lo stridore dell’aratro, i solchi sono «aspri» e la terra «fuma» quasi ad indicare la sofferenza della situazione. I «Fantasimi che cercano la guerra» (v. 14) riportano ad immagini classiche, a quei ‘fantasmi’ che si presentano ad Enea nell’Ade (Eneide VI, vv. 756-759) e si collegano idealmente al v.10 dove il contadino è rappresentato nell’atto di sferzare i buoi come se fosse un eroe omerico nel momento in cui palleggia l’asta prima di scagliarla contro il nemico.
L’immagine della terra «faticosa» (v. 1), perché i suoi frutti nascono dalla fatica di chi la coltiva, apre anche il sonetto II [15], dove i fantasmi del sonetto precedente si concretizzano nei soldati che combattono per la patria nelle divise che ne portano i colori (azzurro, bianco e rosso). Si tratta di soldati che vengono dal ‘suolo plebeo’ e non certo di soldati di professione o addestrati nelle scuole militari, ed i loro comandanti sono altrettanto plebei: Kleber è figlio di un muratore, Hoche è figlio di un palafreniere di corte, Murat è figlio di un oste: i gradi se li sono guadagnati giovanissimi, come giovanissimo se li guadagnerà Napoleone di lì a pochi anni. Tutti sono giovani e tutti sono eroi.
Con il sonetto III [16] lo scenario si sposta a Parigi e i fantasmi si trasformano in quello di una vecchia, che secondo un’antica leggenda si aggirava per le Tuilleries. Ora questa vecchia ha i tratti della Parca che incessantemente fila il destino degli uomini con il fuso che «attorce e china», scandendo l’innalzarsi e la caduta degli uomini nella gloria del mondo. Nell’ode Bicocca di San Giacomo del 1891 (in Rime e Ritmi) Carducci raffigura la Storia che tesse una tela di sventure e di glorie come una «operatrice eterna». Ma, lo si sa, i simboli vengono interpretati in modi diversi a seconda del punto di vista dal quale si guardano e questa vecchia, vista dalla parte del duca di Brunswick, è interpretata come la necessità di filare molta corda perché ce ne vorrà molta per impiccare i ribelli. Il paesaggio naturale è qui illuminato dalla luna e dalle stelle, in antitesi con il sole splendente del primo sonetto.
L’ambientazione oscura del sonetto IV [17] diventa la «resa oscura», senza gloria, dei fuggitivi, reduci da Longwy che si era consegnata al nemico. Il sonetto è giocato dal v. 2 al v. 10 su due verbi: il primo «Piovon», riferito alle notizie che arrivano dal fronte e che è usato in senso metaforico, e il secondo «Goccian», usato in senso reale per indicare le lacrime che sgorgano dagli occhi dei traditori della patria. Al discorso di costoro che cercano di giustificarsi, percorrendo in ciascun verso della seconda quartina la situazione a Longwy (il numero esiguo dei soldati, ognuno che doveva badare a due cannoni, il tradimento di Lavergne, le armi insufficienti per numero e per tecnica), e alla domanda quasi ingenua oltre che rassegnata «Che più far si potea?» risponde l’Assemblea ad una voce: «Morir». A questa risposta la loro vergogna è massima. La terzina finale presenta il passaggio del tempo come una grande ala che fa suonare le campane a stormo, come se chiamasse i cittadini alle armi, tanto è vero che nella prima edizione il v. 13 finiva con i due punti e non come il punto fermo, come Carducci cambiò in seguito. E dopo i due punti, ad esplicitare la voce delle campane, ecco la richiesta: «O popolo di Francia, aiuta, aiuta!».
Lo stesso verso chiude anche il sonetto seguente, il V [18], il cui rimando cronologico è facilmente individuabile dall’explicit «Ieri» (v. 1), cioè il 2 settembre, giorno nel quale Verdun aprì le porte ai prussiani. Le due quartine procedono con un andamento paratattico e coordinativo ad indicare il susseguirsi dei comportamenti degli abitanti della città ed in particolare delle donne. Come nel sonetto I, al v. 9, inizio delle terzine, un «Ma» fa da controcanto alla vergogna della città: è il comandante Beaurepaire che preferisce uccidersi piuttosto che sottostare alla vergogna degli altri. La terzina finale presenta due movimenti di ascendenza letteraria: il v. 12 riecheggia lo schema della visione, presente nella Bassvillianadi Monti, ed il v. 13 rimanda (come il v. 12 del sonetto I) al libro VI dell’Eneide vv. 714 sgg. e alla visione che Enea ha dei futuri eroi che renderanno grande Roma. Lo stesso Carducci nella prosa che accompagna il ça ira scrisse: «Anchise negli Elisii prenunziando accenna ad Enea le anime che saranno cittadini e capitani gloriosi di Roma».
Su l’ostel di città stendardo nero / - Indietro! – dice al sole ed a l’amore: / Romba il cannone, nel silenzio fiero, / Di minuto in minuto ammonitore il sonetto sesto[19], della serie - ma composto per primo, risale al 6 marzo 1883 - rievoca l’inizio del bombardamento di Parigi. Il cannone dà l’allarme: la patria è in pericolo. A metà «poemetto» lo «stendardo nero» è in netta contrapposizione al sole iniziale, così come sono presenti altre antitesi: al v. 3 il rombo del cannone si contrappone al «silenzio fiero» di chi teme il peggio, ai vv. 5-6 l’immagine delle «antiche statue» nella loro immobilità si contrappone alle notizie che si susseguono veloci con il passare del tempo; al v. 7 una vera e propria gnome di senso ossimorico accosta «tutti» e «uno» ad indicare l’univocità della decisione del popolo, dichiarata al v. 8 «Perché viva la patria, oggi si muore» ed espressa chiasticamente. Infine al v. 14 «piove sangue» quasi in contrapposizione con le lacrime che ‘gocciavano’ del sonetto IV. Nelle terzine campeggiano Danton e Marat con il loro carattere ed il loro diverso atteggiamento. Danton, secondo il racconto di Michelet, è offeso e ingiuriato da una folla di donne che lo accusano di mandare a morte i loro figli; Danton «pallido enorme» le arringa fino a turbarle al punto che le donne piansero la patria e non i loro figli, e Marat, che «vede ne l’aria oscura torme / D’uomini con pugnali erti passando» (vv. 12-13), spingevano alla difesa della patria, mentre «in tutti uno il pensiero / - perché viva la patria, oggi si muore -» (vv. 7-8). Collocare in incipit questo sonetto parigino, che riporta alla memoria le «stragi di settembre» che attraversarono la città fra il 2 e il 6 settembre 1792, avrebbe aperto lo scenario in medias res, senza quella separazione e quell’attesa che crea la climax drammatica della «rappresentazione epica». Posto invece a metà, fa da spartiacque fra la prima e la seconda parte del «poemetto», che vede lo scatenarsi della violenza contro gli aristocratici; ne sono testimonianza i tre sonetti seguenti, il VII, l’VIII e il IX, i cosiddetti «sonetti micidiali», e l’explicit del sonetto XII, Marciate, o de la patria incliti figli, scritto per ottavo il 31 marzo, che si apre sull’onda della Marsigliese e si chiude con le parole profetiche di Goethe, che val la pena di ripetere: Al mondo oggi da questo / Luogo comincia la novella storia. Il giorno dopo la battaglia di Valmy, l’Assemblea, riunita a Parigi, proclama la Prima Repubblica.
Ecco i tre «sonetti micidiali» per la violenza dei quali Carducci fu criticato. L’incipit [20] si apre con il richiamo dei sacrifici umani degli antichi druidi, come a sottolineare l’importanza di un sacrificio per la salvezza della patria. La Nemesi storica vuole far scontare ai re, che si sono macchiati di delitti efferati, le violenze subite per loro ordine dagli Albigesi e dagli Ugonotti. I vv. 5 e 6 si aprono e si chiudono con la parola «passione», portatrice del suo significato etimologico - dal verbo latino patior -, che indica la sofferenza, il patimento oltre che la sopportazione. Forte l’ossimoro del v. 8 «inebria di perdizione». La figura femminile evocata nelle terzine è quella della Madamigella De Sombreuil, che fu costretta a bere il sangue del padre per riuscire a salvarlo, e viene salutata con «sei la Francia tu, bianca ragazza» che la identifica con la patria, che deve ‘bere’ il sangue dei suoi figli per raggiungere la libertà.
Il sonetto VIII [21] racconta la morte di Madame De Lamballe attraverso una persona loquens, anch’essa di memoria classica, che conclude il sonetto, aprendo a quello seguente, con il perfido invito «A la regina / Il buon dì de la morte andiamo a dare». La scena si sposta a Parigi e alle «stragi di settembre», quando la città fu corsa dalla folla inferocita, che tra l’altro condannava a morte in tribunali popolari improvvisati soprattutto prigionieri politici e gli aristocratici. Macabra è la rievocazione della sorte di Madame de Lamballe, dama di corte della regina Maria Antonietta. Portata davanti ad uno di questi tribunali dalla Force dove era tenuta prigioniera, fu assalita e uccisa dalla folla dopo che si era rifiutata di giurare contro i sovrani in nome della Rivoluzione. Fu decapitata e la sua testa, dopo essere stata fatta acconciare da un parrucchiere, fu portata issata su una picca davanti alla finestra della prigione regale perché la sua vista servisse da monito e presagio al re e alla regina.
Ed ecco che il sonetto IX [22] si apre con un paesaggio ambivalente con la torre del Temple che sembra un uccello notturno che vola in pieno mezzogiorno. È il preannuncio del destino che aspetta i sovrani, ma è anche l’esplicitazione della Nemesi storica che si abbatterà sull’«ultimo Capeto», che sconterà le colpe dei suoi antenati; tanto è vero che il re è presentato «prono» (v. 11), prostrato dal peso delle loro efferatezze, e non può fare altro che chiedere perdono per la strage della notte di San Bartolomeo (23-24 agosto 1572).
Con il sonetto X [23] la scena da Parigi torna nelle zone di nord-est dove il generale Dumouriez aveva avuto l’intuizione, rivelatasi strategicamente vincente, di fortificare le Argonne per salvare la Francia e dove avviene la battaglia finale. Il verso incipitario «Al calpestio de’ barbari cavalli» riproduce il v. 5 del Bruto minore dove Leopardi parla del destino che si prepara per l’Italia. E come Bruto, ecco che sembrano riacquistare vita coloro che avevano combattuto in difesa della Francia: Pietro di Terrail, signore di Bayard (1476-1534), Giovanna d’Arco (morta nel 1431 dopo aver aiutato il re Carlo VII per liberare il suolo francese dagli Inglesi), Vercingetorige, il capo degli Arverni, che si era opposto alla conquista della Gallia da parte di Giulio Cesare. Gli eroi del passato evocano la necessità di una difesa strenua della patria, a qualsiasi costo, tanto che Dumouriez, nonostante un passato non troppo limpido, eguaglia il genio militare del principe di Condé, altro eroe che vinse gli Spagnoli a Rocroi nel 1643, facendo fortificare le Argonne.
Gli ultimi due sonetti abbracciano le fasi della battaglia di Valmy – decisiva per la vittoria della Francia - del 20 settembre, quando le truppe della Mosella al comando di Kellermann andarono all’attacco al canto della Marsigliese.
Tre gli aggettivi che nel v. 2 del sonetto XI [24] connotano il mattino, «Brumoso, accidïoso e lutulento», che desidera il sole per ‘asciugarsi’ e riscattarsi dall’umidità della notte. Il mugnaio del mulino di Valmy dove era stato issato il tricolore fa muovere la ruota del mulino con il sangue. Le terzine si aprono al grido di Kellermann «Viva la patria». Spinti dall’ardore i sanculotti con le loro «epiche colonne» si preparano a combattere contro i re al canto della Marsigliese (v. 12) che è portatrice della volontà della Storia come un arcangelo è portatore della volontà di Dio. Il v. 13 preannuncia con «la nova etade» il finale del sonetto conclusivo.
Il XII inizia proprio «Marciate, o de la patria incliti figli» [25] e continua parafrasando il canto in un continuum narrativo. Ormai (v. 9) siamo al tramonto «livido», che per antitesi rimanda al paesaggio mattutino e illuminato dal sole del primo sonetto. La parabola dell’ideale giornata si conclude con un ultimo, timido guizzo di sole. Dall’oscurità del tramonto (il declino inarrestabile di un Ancien Régime ormai abbattuto da una vittoriosa Rivoluzione) si alzano le parole di Goethe, che affermano l’avvento della «novella storia», preannunciata nel sonetto precedente, e aprono al nuovo futuro della Francia repubblicana. La ritirata delle truppe austro-prussiane avvenne tra difficoltà e disagi di ogni tipo, ancora una volta testimoniati dal diario di guerra di Goethe, che il duca di Weimar aveva pregato di accompagnarlo nella campagna militare.
Basterebbe la lettura di tre sonetti ‘estremi’, il I, il VI e il XII, per osservare l’arco dell’opera e del pensiero carducciano da un punto di vista critico e problematico, inserendolo nel vivo degli avvenimenti e del flusso storico nel quale operò, con l’evolversi delle sue convinzioni e posizioni politiche nonché delle sue scelte poetiche.
La costruzione di un libro di poesie non è mai una scelta neutra, né per i temi, né per il titolo, né per il metro usato. È dunque casuale che, proprio quando più insistente e forte appariva la fazione monarchico-conservatrice italiana, Carducci volle cantare le fasi più drammatiche della Rivoluzione francese, che portarono all’aprirsi dell’assetto repubblicano in Francia, esempio per l’Europa del XIX secolo? E che lui, che aveva sperimentato e dato inizio ai metri barbari – odi, strofi saffiche, alcaiche, distici … - che lo univano idealmente al passato classico, scelse il sonetto che meglio si adattava, per la compattezza ma anche per la possibilità di essere proposto in serie, a cantare i momenti essenziali di un’epopea moderna?
Con il Ça ira Carducci, ormai ‘monarchizzato’, ribadì il suo credo repubblicano, ma riconobbe anche, con il resto della sua produzione d’allora in avanti, che in quel momento storico di fine Ottocento non erano auspicabili per l’Italia né una repubblica né tanto meno una rivoluzione, pena la perdita di credibilità estera e stabilità interna.
Una cosa è certa: le posizioni carducciane non furono unilineari, come non lo furono quelle di molti uomini che passarono attraverso gli ideali mazziniani e garibaldini, le guerre d’indipendenza, l’unità del Paese e la fase postunitaria, periodo complesso e contraddittorio, ricco di tensioni prima e dopo la proclamazione dell’unità, e che spingeva molti a vedere nell’istituzione monarchica e nella monarchia sabauda l’unica scelta politica da seguire per non aumentare le tensioni sociali interne, come quelle già esistenti fra nord e sud, e non indebolire la posizione italiana nello scacchiere europeo. Carducci si allinea su questa direzione, anche per le sue posizioni massoniche, alle quali si era avvicinato fin dal 1860 quando era andato a Bologna.
Leggere la serie dei «settembrini», inserendoli nella stagione che li produsse, significa non disconoscere gran parte della produzione carducciana, bensì rendersi conto delle sue scelte e, se si vuole, dei suoi compromessi, e nello stesso tempo gettare uno sguardo al nostro presente che, ancor meno di quello di Carducci, offre situazioni e messaggi di ‘alto sentire’, è ancora più borghese e massificato del suo, e costringe chi vuol essere un cittadino consapevole a scelte spesso laceranti. Perciò non dobbiamo far conoscere agli studenti di oggi solamente il coté intimistico e sentimentale di Carducci, di maggior presa e di sicuro più affine alla nostra sensibilità di lettori moderni e un po’ troppo disincantati, ma dobbiamo far conoscere anche quelle liriche di più difficile approccio, se non altro per il lessico e per l’enfasi retorica, che molto di più parlano di un poeta-uomo, delle sue convinzioni e delle sue scelte sofferte.
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Umberto Carpi, Carducci. Politica e poesia, Edizioni della Normale, 2010.
Umberto Carpi, La stampa e la riforma ovvero La stampa ovvero La stampa e la riforma. Per il congresso tipografico tenuto a Bologna nel settembre 1869, in «Per leggere» n. 16, primavera 2009.
Umberto Carpi, Via Ugo Bassi (Carducci, Giambi ed Epodi, libro I, IX), in «Per leggere» n. 19, autunno 2010.
Wolfgang Goethe, Campagne in Frankreich (1792), Frankfurt am Mein, Deutscher Klassiker Verlag, 1994, trad. It. Di Edvige Levi, Firenze, Rinascimento del libro, 1931, rist. Palermo, Sellerio, 1981 2 1991³.
Jules Michelet, Histoire de la Révolution française, Paris, Chamerot, Libraire-Éditeur, 1847, trad. it di Giovanni Cipriani, Milano, Rizzoli, 1981.
André Pézard, Ça ira, Zanichelli, 1957.
Luigi Russo, Carducci senza retorica, (1957), Laterza, 1999.
William Spaggiari, Carducci polemista, Feltrinelli, 2007.
Pubblicato il 15/10/2012
Note:
[1]T. Carlyle, The French Revolution, (1837), London, Chapman and Hall, 1889
[2]G. Carducci, I sonetti di Giuseppe Parini, EN, XVI, p. 298.
[3]G. Carducci, Ça ira. Settembre MDCCXCII, Roma, Sommaruga, 1883, p. 59.
[4]G. Carducci, Lettera al Chiarini del 20 dicembre 1871, in Id., Lettere, EN, VII, p. 71.
[5]
ALLA REGINA D’ITALIA
xx nov. mdccclxxviii.
Onde venisti? Quali a noi secoli
sí mite e bella ti tramandarono?
fra i canti de’ sacri poeti
dove un giorno, o regina, ti vidi?
Ne le ardue ròcche, quando tingeasi
a i latin soli la fulva e cerula
Germania, e cozzavan nel verso
nuovo l’armi tra lampi d’amore?
Seguíano il cupo ritmo monotono
trascolorando le bionde vergini,
e al ciel co’ neri umidi occhi
impetravan mercé per la forza.
O ver ne i brevi dí che l’Italia
fu tutta un maggio, che tutto il popolo
era cavaliere? Il trionfo
d’Amor gía tra le case merlate
in su le piazze liete di candidi
marmi, di fiori, di sole; e “O nuvola
che in ombra d’amore trapassi, —
l’Alighieri cantava — sorridi!”
Come la bianca stella di Venere
ne l’april novo surge da’ vertici
de l’alpi, ed il placido raggio
su le nevi dorate frangendo
ride a la sola capanna povera,
ride a le valli d’ubertà floride,
e a l’ombra de’ pioppi risveglia
li usignoli e i colloqui d’amore:
fulgida e bionda ne l’adamàntina
luce del serto tu passi, e il popolo
superbo di te si compiace
qual di figlia che vada a l’altare;
con un sorriso misto di lacrime
la verginetta ti guarda, e trepida
le braccia porgendo ti dice
come a suora maggior “Margherita!”
E a te volando la strofe alcaica,
nata ne’ fieri tumulti libera,
tre volte ti gira la chioma
con la penna che sa le tempeste:
e, Salve, dice cantando, o inclita
a cui le Grazie corona cinsero,
a cui sí soave favella
la pietà ne la voce gentile!
Salve, o tu buona, sin che i fantasimi
di Raffaello ne’ puri vesperi
trasvolin d’Italia e tra’ lauri
la canzon del Petrarca sospiri!
(Odi barbare I)
[6]U. Carpi, Carducci. Politica e poesia, Pisa, Edizioni della Normale, 2010.
[7]Mario Biagini, Giosue Carducci, Biografia critica, Milano, Mursia, 1976 (1961ˡ).
[8 ]
LXXXVI.
A GIUSEPPE GARIBALDI
Te là di Roma su i fumanti spaldi
Alte sorgendo ne la notte oscura
Plaudian pugnante per l’eterne mura
L’ombre de’ Curzi e Deci, o Garibaldi.
A te de’ petti giovanili e baldi
Sfrenar l’impeto è gioia; a te ventura
Percuoter cento i mille, e la sicura
Morte con amorosi animi saldi
Abbracciar là sopra il nemico estinto.
Or tu primo a spezzar nostre ritorte
Corri, sol del tuo nome armato e cinto.
Vola tra i gaudi del periglio, o forte:
Vegga il mondo che mai non fosti vinto
Né le virtú romane anco son morte
[9]
LXXXIX.
MAGENTA
Gli attese al passo; poi di nubi avvolta
Del Cesare cirnèo l’ombra si mosse,
E disgombrando la caligin folta
Alzò il grido di guerra, e il ciel si scosse.
Già fuoco e ferro orribilmente in volta
Percuote i lurchi come turbin fosse,
E l’antica vendetta entro la molta
Strage l’ali battea torbide e rosse.
Or via, cessate l’inegual conflitto;
Ché quinci servitú feroce e muta,
Quindi pugna de i popoli il diritto.
Cade l’austriaca sorte: e te saluta,
Pian di Magenta, il civil mondo afflitto:
L’avversaria del bene è in te caduta.
[10]«[…] diesmal sagte ich: von hier und heute geht eine neue Epoche der Weltgeschichte aus, und ihr könnt sagen, ihr seid dabei gewesen» (Den 19 September 1792 Nacht).
[11]Il canto si può ascoltare su YouTube http://www.youtube.com/watch?v=rauZMrXqRu0, cantato da Edith Piaf nella versione del 1792 “più cruenta” che aveva aggiunto
Ah! ça ira, ça ira, ça ira!
Les aristocrats à la lantern!
Ah! ça ira, ça ira, ça ira!
Les aristocrates on les pendra!
mentre furono tolti i versi che dicevano
La Fayette dit: «Vienne qui voudra!»
Le patriotisme lui repondrà.
[12]J. Michelet, Histoire de la Révolution française, Paris, Chamerot, Libraire-Éditeur, 1847, trad. it di Giovanni Cipriani, Milano, Rizzoli, 1981.
[13]Wolfgang Goethe, Campagne in Frankreich (1792), Frankfurt am Mein, Deutscher Klassiker Verlag, 1994, trad. It. Di Edvige Levi, Firenze, Rinascimento del libro, 1931, rist. Palermo, Sellerio, 1981 2 1991³.
[14]
I
(11-17 marzo 1883)
Lieto sui colli di Borgogna splende
E in val di Marna alle vendemmie il sole:
Il riposato suol piccardo attende
L’aratro che l’inviti a nuova prole.
Ma il falcetto su l’uve iroso scende
Come una scure, e par che sangue cóle:
Nel rosso vespro l’arator protende
L’occhio vago a le terre inculte e sole,
Ed il pungolo vibra in su i mugghianti
Quasi che l’asta palleggiasse, e afferra
La stiva urlando: Avanti, Francia, avanti!
Stride l’aratro in solchi aspri: la terra
Fuma: l’aria oscurata è di montanti
Fantasimi che cercano la guerra.
[15]
II
(15 marzo 1883)
Son de la terra faticosa i figli
Che armati salgon le ideali cime,
Gli azzurri cavalier bianchi e vermigli
Che dal suolo plebeo la Patria esprime.
E tu Kleber da gli arruffati cigli,
Leon ruggente ne le linee prime;
E tu via sfolgorante in fra i perigli
Lampo di giovinezza, Hoche sublime.
Desaix che elegge a sé il dovere e dona
Altrui la gloria, e l’onda procellosa
Di Murat che s’abbatte a una corona;
E Marceau che a la morte radïosa
Puro i suoi ventisette anni abbandona
Come a le braccia d’arridente sposa.
[16]
III
(13 marzo 1883)
Da le ree Tuglierì di Caterina
Ove Luigi inginocchiossi a i preti,
E a’ cavalier bretanni la regina
Partía sorrisi e lacrime e segreti,
Tra l’afosa caligin vespertina
Sorge con atti né tristi né lieti
Una forma, ed il fuso attorce e china,
E con la rócca attinge alta i pianeti.
E fila e fila. Tutte le sere
Al lume de la luna e de le stelle
La vecchia fila, e non si stanca mai.
Brunswick appressa, e in fronte a le sue schiere
La forca; e ad impiccar questa ribelle
Genía di Francia ci vuol corda assai.
[17]
IV
(19 aprile 1883)
L’un dopo l’altro i méssi di sventura
Piovon come dal ciel. Longwy cadea.
E i fuggitivi da le resa oscura
S’affollan polverosi a l’Assemblea.
-Eravamo dispersi in su le mura:
A pena ogni due pezzi un uom s’avea:
Lavergne disparì ne la paura:
L’armi fallían. Che più far si potea?-
Morir – risponde l’Assemblea seduta.
Goccian per que’ riarsi volti strane
Lacrime: e parton con la fronte bassa.
Grande in ciel l’ora del periglio passa,
Batte con l’ala a stormo le campane:
O popolo di Francia, aiuta, aiuta!
[18]
V
(14 aprile 1883)
Udite, udite, o cittadini. Ieri
Verdun a l’inimico aprì le porte:
Le ignobili sue donne a i re stranieri
Dan fiori, fanno ad Artois la corte,
E propinando i vin bianchi e leggeri
Ballano con gli ulani e con le scorte:
Verdun, vile città di confettieri,
Dopo l’onta su te caschi la morte!
Ma Beaurepaire il vivere rifiuta
Oltre l’onore, e gitta ultima sida
L’anima a i fati a l’avvennire e a noi.
La raccolgono dal ciel gli antichi eroi,
E la non nata ancor gente ci grida:
O popolo di Francia, aiuta, aiuta!
[19]
VI
(6 marzo 1883)
Su l’ostel di città stendardo nero
-Indietro! – dice al sole e a l’amore:
Romba il cannone, nel silenzio fiero,
Di minuto in minuto ammonitore.
Gruppo d’antiche statue severo
Sotto i muri incalzantisi con l’ore
Sembra il popolo: in tutti uno il pensiero
-Perché viva la patria, oggi si muore. –
In conspetto a Danton pallido enorme
Furie di donne sfilano, cacciando
Gli scalzi figli sol di rabbia armati.
Marat vede ne l’aria oscura torme
D’uomini con pugnali erti passando,
E piove sangue donde son passati.
[20]
VII
(25 aprile 1883)
Una bieca druidica visione
Su gli spiriti cala e gli tormenta
Da le torri papali d’Avignone
Turbine di furor torbido venta.
O passïon de gli Albigesi, o lenta
De gli Ugonotti nobil passïone,
Il vostro sangue bulica e fermenta
E i cuori inebria di perdizïone.
Ecco la pena e il tribunale orrendo
Che d’ombra immane il secol novo impronta!
Oh, sei la Francia tu, bianca ragazza
Che su ’l tremulo padre alta sorgendo
A espiar e salvar bevi con pronta
Mano il sangue de’ tuoi da piena tazza?
[21]
VIII
(7-10 marzo 1883)
Gemono i rivi e mormorano i venti
Freschi a la savoiarda alpe natía.
Qui suon di ferro, e di furore accenti:
Signora di Lamballe, a l’Abbadia.
E giacque, tra i capelli aurei fluenti,
Ignudo corpo in mezzo de la via;
E un parrucchier le membra anco tepenti
Con sanguinose mani allarga e spia.
Come tenera e bianca e come fina
Un giglio il collo e tra mughetti pare
Garofano la bocca piccolina.
Su, co’ begli occhi del color del mare,
Su, ricciutella, al Tempio! A la regina
Il buon dí de la morte andiamo a dare.
[22]
IX
(23 marzo 1883)
Oh non mai re di Francia al suo levare
Tale di salutanti ebbe un drappello!
La fosca torre in quel tumulto pare
Sperso nel mezzodì notturno uccello.
Ivi su ’l medio evo il secolare
Braccio discese di Filippo il Bello,
Ivi scende de l’ultimo Templare
Su l’ultimo Capeto oggi l’appello.
Ecco mugge l’orribile corteo:
La fiera testa in su la picca ondeggia,
E batte a le finestre. Ed il re prono
Da le finestre de la trista reggia
Guarda il popolo, e a Dio chiede perdóno
De la notte di San Bartolomeo.
[23]
X
(27 aprile 1883)
Al calpestío de’ barbari cavalli
Ne l’avel si svegliò dunque Baiardo?
E su le dolci orleanesi valli
La Pulcella rileva il suo stendardo?
Da l’Alta Sòna e dal ventoso Gardo
Chi vien cantando a i mal costrutti valli
Sbarrati di tronchi alberi? È il gagliardo
Vercingetorix co’ suoi rossi Galli?
No: Dumouriez, la spia, nel cor riscuote
Il genio di Condé: sopra la carta
Militare uno sguardo acceso lancia,
Ed una fila di colline ignote
Additando – Ecco – dice -, o nuova Sparta,
le felici Termopile di Francia.
[24]
XI
(30 marzo 1883)
Su le colline de le Argonne alza il mattino
Brumoso, accidïoso e lutolento.
Il tricolor bagnato in su ’l mulino
Di Valmy chiede in vano il sole e il vento.
Sta, sta, bianco mugnaio. Oggi il destino
Per l’avvenire macina l’evento,
E l’esercito scalzo cittadino
Dà col sangue a la ruota il movimento.
-Viva la patria – Kellermann, levata
La spada in fra i cannoni, urla, serrate
De’ sanculotti l’epiche colonne.
La marsigliese tra la cannonata
Sorvola, arcangel de la nova etate,
Le profonde foreste de le Argonne.
[25]
XII
(31 marzo 1883)
Marciate, o de la patria incliti figli,
de i cannoni e de’ canti a l’armonia:
Il giorno de la gloria oggi i vermigli
Vanni e la danza del valor apria.
Ingombra di paura e di scompigli
Al re di Prussia è del tornar la via:
Ricaccia gli emigrati a i vili esigli
La fame il freddo e la dissenteria.
Livido su quel gran lago di fango
Guizza il tramonto, i colli d’un modesto
Riso di sole attingono la gloria.
E da un gruppo d’oscuri esce Volfango
Goethe dicendo: Al mondo oggi da questo
Luogo incomincia la novella storia.